Coronavirus e gruppo sanguigno: un’analisi del genoma per capire meglio la loro correlazione

Dopo aver passato la prima parte di 2020 quasi totalmente in lockdown, stiamo imparando a convivere con il virus e contemporaneamente stiamo conoscendo la sua storia e le sue caratteristiche.  È recente la notizia del riscontro di tracce del suo RNA nelle acque di Milano e Torino già a dicembre (per saperne di più clicca qui).Ma abbiamo mai pensato che un indizio potrebbe essere celato nel DNA delle nostre cellule? Chissà se anche l’infezione da Coronavirus SARS-CoV-2 colpisce preferibilmente pazienti con determinate mutazioni?

Molte patologie dell’uomo, infettive e non, sono correlate ad una predisposizione genetica. La mutazione di un gene, ereditata dai genitori o successivamente acquisita, può rendere un individuo più suscettibile ad una determinata malattia. Pensiamo, ad esempio, alle malattie autoimmuni che sono spesso associate all’espressione di un particolare aplotipo del complesso maggiore di istocompatibilità (HLA, Human Leukocyte Antigen).
Un gruppo di ricercatori europei, spinto dalla voglia di conoscere a 360° SARS-CoV-2, ha eseguito uno studio di associazione sull’intero genoma (GWAS, dall’inglese genome-wide association study). Si tratta di un particolare tipo di indagine eseguita in epidemiologia genetica con lo scopo sequenziare il genoma dei partecipanti per individuarne differenze e somiglianze.

Come si è svolta l’indagine?

Sono stati reclutati 1980 pazienti affetti da covid-19 diagnosticata mediante la ricerca tramite PCR dell’RNA di SARS-CoV-2 sui tamponi nasofarigei. Le nazioni coinvolte sono state le due più colpite dalla pandemia in Europa, almeno nei primissimi mesi, ovvero Italia e Spagna. Sono stati scelti pazienti ricoverati in terapia intensiva o nei normali reparti che hanno sviluppato insufficienza respiratoria, definendo tale evenienza come il ricorso all’ossigeno-terapia o alla ventilazione meccanica almeno una volta durante la degenza. Inoltre si è fatto un raffronto dei dati ottenuti con quelli di un gruppo di controllo di 2381 italiani e spagnoli, scelti tra donatori di sangue e volontari sani, di cui solo 40 avevano sviluppato anticorpi anti-coronavirus.

Dopo l’estrazione del DNA, la fase investigativa ha portato all’analisi di circa 9 milioni di polimorfismi di singolo nucleotide (SNP), sia nella coorte italiana che in quella spagnola.
I risultati ottenuti hanno dimostrato una frequenza maggiore di mutazioni in due loci genici: il primo sul braccio corto del cromosoma 3, l’altro su quello lungo del 9.

Locus 3p21.31

Questo locus comprende sei geni che potrebbero avere un’azione rilevante nella patogenesi della Covid-19. Il principale indiziato è SLC6A20 codificante per un cotrasportatore sodio-prolina che interagisce con il recettore ACE2, proprio il recettore di SARS-CoV sulla superficie cellulare. Inoltre altre proteine potenzialmente mutate in relazione allo stesso locus sono recettori per le chemochine, come CXCR6. Questo peraltro regola l’azione dei linfociti della memoria T CD8 residenti nel polmone contro i patogeni aerei.

Locus 9q34.2

Veniamo alla curiosità che ha destato più sorpresa dello studio. Il locus individuato sul cromosoma 9 è quello in cui si trovano i geni per gli antigeni del sistema principale dei gruppi sanguigni, ovvero AB0. Facciamo un piccolo off topic per capire il suo significato. I soggetti di gruppo sanguigno A sono quelli che esprimono sulla membrana plasmatica dei globuli rossi solo l’antigene A, mentre il gruppo B è determinato dall’antigene B. Coloro con gruppo AB presentano entrambi gli antigeni ed infine 0 (zero) indica l’assenza di antigeni sulla membrana degli eritrociti.

I risultati dicono che tra i partecipanti allo studio la maggioranza presentava gruppo sanguigno A, definito come un fattore di rischio che aumenta del 50% circa la possibilità di trattamento intensivo. Invece avere gruppo 0 assume addirittura il ruolo di fattore protettivo per forme critiche di Covid-19. Difatti i pazienti affetti da Covid-19 con gruppo sanguigno 0 raramente necessitano di ventilazione od ossigeno. Del resto anche in Cina ad inizio pandemia si erano resi conto che il nuovo coronavirus colpiva in prevalenza il gruppo A, ma non avevano approfondito ulteriormente.

Quali saranno i risvolti positivi di questa scoperta?

Sicuramente le informazioni acquisite con l’analisi genomica avranno un vantaggio non indifferente nella stratificazione del rischio nella popolazione. Potremmo infatti così individuare i soggetti suscettibili a complicanze più gravi della Covid-19 ed organizzare campagne di prevenzione rivolte nei loro confronti.

È importante ribadire che i risultati dello studio non indicano che chi ha gruppo A ha un rischio maggiore rispetto agli altri di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2. Piuttosto ci dicono che se sono di gruppo A e contraggo il coronavirus ho una probabilità maggiore di sviluppare una polmonite più aggressiva.
Comunque il meccanismo biologico con cui il gruppo sanguigno A influenzi negativamente l’infezione da coronavirus non è stato del tutto chiarito. Spetterà a nuove ricerche investigare in questo settore per sviluppare magari protocolli diagnostici e terapeutici migliori.

Antonio Mandolfo

 

 

 

Bibliografia

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2020283
https://www.assocarenews.it/primo-piano/ultim-ora/sanita/coronavirus-gruppo-sanguigno
https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2020.03.11.20031096v2
https://www.ilpost.it/2020/06/19/gruppo-sanguigno-covid-19-coronavirus/

Arriva WhatsApp Pay: pagare sarà facile come mandare un messaggio. Ecco come funziona

Mark Zuckerberg durante la presentazione dei risultati finanziari di Facebook, ha annunciato il lancio nei prossimi sei mesi di WhatsApp Pay, un servizio di pagamento integrato nella famosa App messaggistica.

Attualmente il servizio è disponibile solo in Brasile, e la scelta non è stata casuale. Nell’ottica del presidente del Gruppo Facebook – dal 2014 in possesso anche di Whatsapp – questo strumento sarà estremamente utile al paese che si trova attualmente in una fase critica a causa del Covid-19, dove appunto si registrano un numero preoccupante di contagi. Con WhatsApp Pay gli utenti potranno effettuare pagamenti in modo semplice e veloce, e trasferire denaro ad amici e parenti in difficoltà, residenti in aree lontane.
Il nuovo strumento potrebbe dare un aiuto a far ripartire l’economia del paese

«Sono oltre 10 milioni le micro e piccole imprese che costituiscono il cuore pulsante dell’economia brasiliana» si legge nel blog di Whatsapp, e continua con «semplificare i pagamenti significa permettere a un maggior numero di attività commerciali di entrare a far parte dell’economia digitale, creando nuove opportunità di crescita».

Come funziona WhatsApp Pay

Il sistema di pagamento aggregato a WhatsApp è molto simile ad altri sistemi già in uso da tempo. Si basa su tecnologia UPI (Unified Payment Interface) Peer to Peer, una piattaforma di pagamento che lavora in tempo reale, sviluppata da National Payments Corporation of India per rendere più semplici le transazioni interbancarie. Nonostante la rapidità con cui avviene la transizione, resta alta l’attenzione alla sicurezza degli utenti: prima di ogni versamento sarà infatti necessario inserire un codice PIN di sei cifre o, qualora lo smartphone lo permetta, utilizzare l’identificazione tramite impronta digitale.
Il pagamento passerà poi attraverso il sistema Facebook Pay, il servizio di pagamento creato appositamente per le App del gruppo Facebook, che permetterà di inserire i dati della propria carta di credito o il conto PayPal. A rendere più interessante il nuovo strumento sono i costi alla portata di tutti. Lo scambio di piccole somme di denaro è infatti completamente gratuito, mentre l’acquisto di prodotti tramite l’App prevede una piccola commissione, cosa che già avviene per le transazioni con carta di credito.

L’iniziativa però non è una novità assoluta

L’idea di Zuckerberg è quella di rendere l’App di messaggistica anche un sistema di pagamento, però non sarebbe la prima app a compiere questo passo. L’idea di WhatsApp Pay è già utilizzata dalla sua omonima cinese WeChat. L’applicazione in Cina gode di un successo clamoroso. Nata come app per la messaggistica (proprio come WhatsApp), si è trasformata nel corso degli anni in una piattaforma di business in grado di competere con i colossi del paese. Attraverso l’App sono possibili non solo lo scambio di denaro tra utenti, ma anche le transazioni finanziarie fra privati e aziende. La popolazione cinese, tramite WeChat paga le bollette e le multe, compra i biglietti del treno e cibo d’asporto. L’App sta ricevendo molto consensi, e Zuckerberg sembra voglia seguire fino in fondo il successo dei suoi predecessori.

Paola Caravelli

https://www.insidemarketing.it/whatsapp-pay-pagamenti-sicuri-tramite-chat/

https://www.ilsole24ore.com/art/arriva-whatsapp-pay-sistema-pagamento-tramite-chat-ACHXadFB

Infezione da Sars-Cov-2 negli animali: incidenza e trasmissione

Dall’inizio della pandemia si è spesso discusso del ruolo degli animali domestici nella diffusione del virus. Ad oggi però non esiste ancora nessuna evidenza che affermi che essi abbiano un compito attivo a riguardo. In ogni caso alcuni studi sperimentali dicono che ne sono occasionalmente suscettibili. La suscettibilità al virus, per quanto se ne sappia ad oggi, può influenzare l’animale quasi esclusivamente se i proprietari di esso siano infetti e, pertanto, l’animale domestico si trova costantemente in un ambiente in cui è presente una forte circolazione viraleIn queste condizioni non è così strano se anche il gatto o il cane di casa arrivino a contrarre l’infezione. Al fine di non creare allarmismi è bene però sottolineare che la possibilità che un animale domestico infetti un umano non è ancora stato dimostrato e, a oggi, non è mai avvenuto. Al contrario, seppur in pochi casi, è stato riscontrato che alcuni umani abbiano infettato i loro animali. Per ridurre i rischi al minimo sarebbe opportuno evitare di lasciare che altre persone, al di fuori della propria famiglia, prendano contatto con i propri amici a quattro zampe, a meno che essi abbiano bisogno di cure veterinarie. E’ importante applicare il distanziamento sociale non solo agli umani ma anche agli animali.

L’infezione nei cani

Ad inizio giugno, il National Veterinary Services Laboratories del dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha confermato un caso di Coronavirus in un pastore tedesco a New York. Al cane sono stati prelevati dei campioni dopo che esso ha mostrato alcuni problemi respiratori, i quali sono poi migliorati di giorno in giorno. Si è scoperto che uno dei proprietari del cucciolo era positivo al virus ancora prima che la Covid-19 colpisse il pastore tedesco.

Un secondo cane della stessa famiglia, tuttavia, non ha riscontrato alcun sintomo, ma nonostante ciò gli sono stati rilevati anticorpi, suggerendo quindi che abbia contratto il virus proprio come il suo compagno di giochi, seppur con un esito diverso. Ad oggi, dati i pochi casi, non si è ancora capito se il virus sia in grado di causare gravi danni al migliore amico dell’uomo.

E’ però certo che non esiste alcuna prova che affermi che i cani possano infettare le persone.

L’infezione nei gatti

Sempre ad inizio giugno è stata accertata la positività di un gatto nel Minnesota. Qui il veterinario ha deciso di capire l’eventuale positività al virus del felino in quanto esso presentava una temperatura corporea elevata ed aveva problematiche respiratorie simili a quelle causate dalla Covid-19. Inoltre il suo proprietario era risultato positivo alla malattia già una settimana prima, e quindi anche in questo caso sembra che il virus sia stato trasmesso dall’uomo all’animale. Proprio per quanto riguarda i gatti però, una lettera sul Journal of Medicine del New England ha fatto notare che per questo animale domestico è possibile trasmettere il Coronavirus ad altri esseri viventi della sua specie.Per questo motivo nelle zone ad elevato rischio contagio si consiglia di isolare il proprio gatto dagli altri felini.A livello globale sono stati riscontrati pochi altri animali domestici risultati positivi al SARS-CoV2.

Cosa è consigliato fare se sono malato di Covid-19, o se sospetto di esserlo?

In questo caso al fine di preservare la salute dell’animale, bisogna limitare il contatto con esso.Sarebbe opportuno chiedere a qualcuno di fiducia di occuparsi del proprio cane o gatto che sia.Se non si conosce nessuno a cui chiedere un favore simile, è bene continuare a prendersi cura del proprio animale domestico tramite alcune precauzioni come lavarsi le mani prima e dopo essere entrati in contatto con lui ed utilizzare una mascherina quando si è in sua presenza. Come abbiamo visto non c’è assolutamente bisogno di creare allarmismi al riguardo. Solo in alcuni casi è bene prendere un paio di accorgimenti al fine di garantire la loro buona salute.

Possiamo quindi continuare a godere della buona amicizia che ci offrono senza preoccupazioni!

Roberto Cali’

Bibliografia

https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-animali-domestici

https://www.oregonvma.org/care-health/zoonotic-diseases/coronavirus-faq

https://content.govdelivery.com/accounts/USDAAPHIS/bulletins/28eae2e

https://www.startribune.com/carver-county-pet-cat-tests-positive-for-coronavirus/570963412/?refresh=true

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2013400

Gli effetti del distanziamento sociale forzato. La psicologia risponde

Il distanziamento sociale ci sta distruggendo!

L’essere umano è un animale fortemente sociale. Dunque, non ci sorprenderà scoprire che si può vivere “un’astinenza da contatto” in seguito alle misure del distanziamento sociale, attuate per il Covid-19. Per la prima volta nella storia, ciò emerse da un inquietante esperimento di Federico II. Egli isolò un gruppo di neonati per scoprire quale fosse la lingua umana originaria, nutrendoli e limitando i contatti con le nutrici alle necessità igieniche. Risultato? Queste povere creature morirono. Questo evento (narrato dallo storico Salimbene de Adam) trovò una conferma in seguito. Le osservazioni dello psicoanalista Renè Spitz, presso un orfanotrofio, risalgono infatti agli anni ’40.  Molti bambini abbandonati (anch’essi con contatti minimi con le educatrici) si ritrovarono a vivere in una condizione simile al letargo, di totale apatia. Nei peggiori dei casi, alcuni non riuscivano nemmeno a stare seduti da soli o ad attuare una coordinazione oculare.

Analizziamo le conseguenze psicologiche del distanziamento sociale, appellandoci anche alle neuroscienze.

Il Corriere della Sera, “L’amore (senza baci e abbracci) al tempo del Coronavirus: «Si rafforzano nuove forme di affetto”

La “fame da contatto”

Si chiama “skin hunger” (lett. fame di pelle) ed è un bisogno fisiologico primario per l’essere umano (come la sete). Spesso viene sottovalutato. I neonati hanno il riflesso della prensione sin da subito: questo ci fa capire quanto sia basilare il contatto fisico.  La pelle è il nostro primo organo sociale: definisce il nostro confine del nostro Sé corporeo ma – allo stesso tempo – ci consente di entrare in connessione con gli altri. Avere un contatto tramite la pelle (carezze, abbracci, baci, strette di mano, ecc…) consente al nostro cervello di rilasciare l’ossitocina. Essa viene anche definita “ormone dell’amore” ed è fondamentale per la creazione di legami. L’ossitocina ci permette di creare rapporti sociali basati sull’altruismo, sulla fiducia, sulla generosità e sull’empatia. Infatti, è anche responsabile dell’induzione del travaglio e non è un caso che venga prodotta in quantità maggiore nelle donne che allattano.

Avere maggiori contatti fisici significa produrre più ossitocina

E contrastare gli alti livelli del cortisolo (ormone dello stress) e quindi ridurre i livelli di ansia, stress e paura. Si riduce così la pressione arteriosa, della circolazione sanguigna e respiratoria. Ciò aiuta a rendere il nostro sistema immunitario più forte. Avere meno ossitocina (perché ovviamente dobbiamo rispettare il distanziamento sociale) vuol dire toglierci tutti questi benefici.

Bassi livelli di ossitocina sono correlati ad ansia, depressione, disturbi dell’umore, ad alterazioni del ritmo del sonno e del nostro legame col cibo, diminuzione del desiderio sessuale, minor comprensione delle situazioni socio-relazionali, aumento di atteggiamenti conflittuali.

Avere un animale domestico può aiutare. In casa non possiamo parlare di veri e propri interventi di pet therapy. Nonostante ciò, il contatto con l’animale e il processo affettivo-relazionale che si viene a creare possono venirci in soccorso.

Nel nostro cervello i lobi frontali hanno varie funzioni

Fra queste vi è il loro coinvolgimento per quanto riguarda la modulazione comportamentale e, di conseguenza, anche sociale.

Nello specifico:

  • La corteccia orbito-frontale è coinvolta nella capacità di inibire i comportamenti impulsivi e le reazioni emotive inadeguate, di regolare emozioni e processi decisionali;
  • La corteccia cingolata anteriore controlla la motivazione e l’inibizione di stimoli interferenti;
  • La corteccia prefrontale dorso-laterale è coinvolta nella capacità di giudizio e valutazione critica delle circostanze, nella messa in atto di comportamento organizzato e appropriato al fine prefissato e gestione adeguata di situazioni nuove e complesse.

Per i nostri contatti sociali fondamentale è anche l’amigdala

L’amigdala è un regione cerebrale che gestisce le emozioni e le motivazioni. È stato dimostrato che soggetti con lesioni ad essa dimostrano difficoltà a rispettare le norme e le gerarchie sociali. Inoltre, le informazioni che riceve dalle connessioni con le aree sensoriali primarie sono molto dettagliate e le consentono di preparare risposte adeguate alla situazione.

Sicuramente il momento storico è delicato.

Abbiamo la responsabilità di stare attenti per noi stessi e per gli altri ed abbiamo una grande opportunità: quella di dimostrare che abbiamo davvero il senso della socialità e rispetto reciproco. Non sprechiamola!

Per molto tempo potremmo vedere l’altro come un nemico, come colui che può contagiarci. Avremo maggiore diffidenza e ciò potrebbe portare ad una maggiore distanziamento sociale anche dopo, trasformandolo in una vera e propria fobia. Questo non deve avvenire!

Cerchiamo di essere prudenti, di prendere tutte le cautele del caso ma non isoliamoci come delle piccole monadi.

Appena sarà possibile, più abbracci e più ossitocina per tutti!

 

Chiara Fraumeni

 

Bibliografia

A. Moschetti,M. Tortorelli, Ossitocina e Attaccamento (2007)

I.Morrison,Line S.Loken,H. Olausson, The skin as a social organ(2009)

E. De Luca, C. Mazza, F. Gazzillo, La centralità dell’adattamento: emozioni primarie, funzionamento
motivazionale e moralità tra neuroscienze, psicologia evoluzionistica e Control Mastery Theory (2017)

 

 

 

Recuperare la performance dopo il lockdown: cos’è la memoria muscolare

Negli ultimi tempi le misure emergenziali per contrastare la diffusione del Covid-19 ci hanno imposto un lockdown che per sportivi e grandi atleti ha significato in certi casi l’impossibilità di allenarsi.

Giunti alla fase 2, non resta che iniziare nuovamente ad allenarsi per il proprio benessere psicofisico. Ma dopo un periodo di inattività muscolare è possibile recuperare facilmente e in tempi rapidi la propria forma fisica? Si sarà in grado di avere le stesse performance di prima? Le risposte a tali interrogativi sono fortunatamente affermative grazie all’esistenza di una vera e propria memoria intrinseca del muscolo, la cosiddetta “memoria muscolare”. In cosa consiste? Come funziona?

Per memoria muscolare si intende quel processo che consente ai muscoli di riacquisire il tono e il trofismo precedente a un periodo di  detraining o inattività fisica. La memoria muscolare quindi esiste, già nel 2016  Sharples ipotizzò una sorta di “Epimemoria” in topi, ma non furono effettuati degli studi sull’epigenetica in soggetti umani dopo una crescita muscolare (Sharples et a. 2016).

Il recupero della massa muscolare dopo una lunga pausa è possibile e sarebbe dovuto alla presenza delle cellule satelliti. Queste cellule sono localizzate sulla superficie delle fibre muscolari in corrispondenza del sarcolemma e consentono la rigenerazione del tessuto muscolare.

Durante l’omeostasi muscolare le cellule satelliti sono inattive. In seguito ad uno stimolo lesivo provocato o da un trauma o da uno stimolo allenante, si attivano, proliferano e si fondono con le miofibrille già presenti, permettendo la produzione di nuovo tessuto muscolare ovvero accrescendo la capacità di sintesi proteica.

Quindi, grazie a questa fusione, il nucleo appartenuto alla cellula satellite, viene incorporato dalla miofibra, che si troverà ad avere un pool di mionuclei aumentato. Numerosi studi hanno confermato che nonostante la perdita di massa muscolare, il numero di mionuclei rimane costante anche dopo un periodo di inattività caratterizzato da atrofia.

Nella fase di ripresa dell’allenamento muscolare i mionuclei si configurano come un substrato biologico, una sorta di memoria grazie alle loro caratteristiche epigenetiche, facilitando così il recupero dei muscoli e della forza muscolare.

Attualmente, conoscendo il valore preciso della vita media dei mionuclei, è impossibile identificare la durata della memoria muscolare, tuttavia si stima che la memoria muscolare potrebbe durare da quindici anni ad una vita intera.

Con riferimento all’ importanza della componente biologica della proliferazione delle cellule satelliti, è fondamentale evidenziare che la letteratura scientifica in merito non è concorde. La questione è molto controversa, tuttavia numerosi studi scientifici sostengono che il fattore principale nella determinazione della memoria muscolare sia di tipo neurale.

L’apprendimento motorio viene considerato il maggior responsabile della memoria muscolare. Basti pensare alcune attività complesse come andare in bicicletta, giocare a tennis, correre…

Nella fase di acquisizione delle suddette abilità è stata necessaria la volontà di compierle. Nello specifico, ogni singola azione è stata pensata a livello corticale, frazionata in singoli gesti motori; e solo successivamente, con una pratica costante è avvenuta una riorganizzazione neurale che ha permesso l’automatizzazione dei gesti.

Poter compiere dei gesti senza pensarci è indice di uno spostamento dell’attività da corticale a sottocorticale. Tutto ciò avviene anche nell’allenamento.

Per cui se in questo periodo in cui abbiamo smesso di allenarci e abbiamo perso la nostra massa muscolare, fortunatamente non abbiamo smarrito gli schemi motori appresi durante i nostri allenamenti.

Altro fattore importante è la metilazione del DNA, ovvero l’aggiunta di gruppi metilici (-CH3) in alcune regioni specifiche del nostro patrimonio genetico (da modificare), in quanto l’ipometilazione comporterebbe un invecchiamento del corpo e tra le conseguenze di quest’ ultimo vi sarebbe la perdita del trofismo muscolare.

Chi pratica sport, dopo un periodo di inattività  e riprende ad allenarsi, è in grado di recuperare una condizione prestativa elevata e la propria forma fisica prima rispetto a un neofita, in quanto l’allenamento comporta degli adattamenti cellulari complessi con riferimento non solo all’ipertrofia muscolare, ma ad adeguamenti neurologici delle placche motrici che permangono nel tempo.

 

Recenti sperimentazioni hanno dimostrato l’esistenza di una connessione tra attività muscolare e corteccia cerebrale. I dati emergono da un articolo di recente apparso sul Journal of Neurophysiology.  Il prof. Brian Clark, docente di fisiologia alla Ohio University  ha spiegato che si attivano le stesse parti del cervello impiegate nell’ attività muscolare anche quando l’attività viene immaginata. Il sistema nervoso è correlato alla performance muscolare, pertanto la forza muscolare non è esclusivamente determinata dalla massa.

I muscoli iniziano a crescere e la forza ad aumentare solo quando sia il  sistema nervoso sia il corpo hanno imparato, o per meglio dire “memorizzato” il movimento da compiere.

Lo studio dell’Università non dimostra che l’immaginazione dell’esercizio fisico faccia aumentare la forza, ma che il cervello possa rallentare o fermare l’atrofia muscolare. Pertanto l’immaginazione può risultare utile ai nostri muscoli.

 

                                                                                                               Daniela Cannistrà

Bibliografia

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Vitamina D e COVID-19: le basi scientifiche della sua integrazione

Nei giorni scorsi si è molto dibattuto sul ruolo della vitamina D nel ridurre il rischio di infezione da SARS-CoV2. Inoltre, un recente report dell’ISS riporta anche una possibile efficacia nel trattamento di due sintomi tipici della COVID-19, l’anosmia e l’ageusia, ossia la perdita dell’olfatto e del gusto. Ma quali sono le basi per cui la vitamina D sarebbe efficace?

Cos’è la Vitamina D e quali sono le sue funzioni biologiche

La vitamina D comprende un gruppo di ormoni liposolubili dato da 5 vitamine. Le principali sono la D2, assunta con alimenti di origine vegetale, e la D3, di origine animale o prodotta dall’epidermide sotto azione dei raggi solari. Questi precursori sono trasportati e modificati nel fegato e poi nel rene ottenendo il calcitriolo, la forma ormonale attiva.

Il calcitriolo esercita le sue azioni tramite il recettore nucleare VDR, che a sua volta lega il recettore X dell’acido retinoico, il quale lega specifiche sequenze del DNA determinando modificazioni dell’espressione genica. Il VDR è presente in modo praticamente ubiquitario e si stima che da 200 a 2000 geni possano rispondere all’azione della vitamina D.

Anche se famosa per la sua azione a livello osseo, si tratta di un ormone estremamente versatile, con numerose azioni in ogni distretto. Ed ha anche un’importante influenza sul Sistema Immunitario.

Il recettore VDR è presente su cellule dendritiche, linfociti e macrofagi. La vitamina D favorisce l’integrità delle barriere cutanee e mucose contro l’ingresso dei microbi e la produzione di catelicidine e defensine, peptidi ad azione antibatterica, antifungina e antivirale. Inibisce l’attivazione delle cellule dendritiche da parte del lipopolisaccaride batterico. Riduce il rilascio di citochine pro-infiammatorie da parte dei linfociti T e inibisce la proliferazione delle cellule T. Potenzia perfino l’azione delle cellule NK contro le cellule tumorali.

In sintesi, ha una funzione fondamentale di modulazione del sistema immunitario.

Il SARS-CoV2 infetta le cellule in modo mai visto prima

Un recentissimo studio pubblicato il 28 maggio sulla prestigiosa rivista Cell ha analizzato come il SARS-CoV-2 infetta le cellule bersaglio e soprattutto come funziona la risposta immunitaria al virus. Il prestigio dello studio si basa su una serie di punti di forza:

  • Non è stato analizzato solo il SARS-CoV-2, ma in parallelo è stato paragonato a SARS-CoV-1, MERS-CoV, RSV (Virus Respiratorio Sinciziale), virus dell’influenza A e HPIV3 (virus umano para-influenzale 3), per valutare le precise differenze.
  • La ricerca ha previsto studi su colture di differenti linee cellulari, utilizzando diverse cariche virali in diversi esperimenti, per mimare al meglio in vitro ciò che si verifica nel nostro organismo.
  • Ma le condizioni ottenibili in una coltura cellulare non possono essere paragonabili al complesso microambiente dei nostri polmoni. Per questo un ulteriore step è stata la sperimentazione in vivo sul modello animale del furetto (si, ci somiglia molto!).
  • Quindi, sono state effettuate delle verifiche su polmoni umani, ottenuti post-mortem da soggetti COVID-19 positivi. Trattandosi di un numero ridotto di campioni, sono state infine condotte analisi su un elevato numero di prelievi sierici di pazienti affetti da COVID-19.

Tralasciando i tecnicismi, i risultati sono stati sorprendentemente sovrapponibili in ogni fase dello studio.

Le ricerche si sono concentrate sui pattern di attivazione genica determinati dal virus nelle cellule bersaglio e del sistema immunitario. Affermano i ricercatori: “i nostri dati hanno dimostrato che l’impronta trascrizionale dell’infezione da SARS-CoV-2 è ben distinta rispetto agli altri coronavirus altamente patogeni e ai comuni virus respiratori.”

Sostanzialmente, tramite complessi meccanismi molecolari, il virus determina una netta riduzione di Interferon I e III ed una abnorme produzione delle citochine IL-6 e IL1RA, tanto da permettere un parallelismo tra la COVID-19 e la Sindrome da tempesta citochinica. Si tratta dell’evidenza scientifica che giustifica l’efficacia di farmaci già sperimentati, come il tocilizumab o l’anakinra, che agiscono proprio contro tali citochine.

Semplificando, il virus inibisce la produzione di Interferon e rende inefficace la risposta immunitaria, impedendo la risoluzione dell’infezione e determinando una anomala ed eccessiva produzione di citochine, responsabili dei gravi danni polmonari e delle complicanze sistemiche della COVID-19.

In soggetti giovani e sani, rispetto a soggetti anziani con una risposta immunitaria già compromessa, una piccola percentuale di cellule resisterebbe al meccanismo di inibizione virale e i livelli residui di Interferon permetterebbero la corretta risposta all’infezione.

Perché la supplementazione di Vitamina D fa intravedere nuove speranze

Chiariti a grandi linee i meccanismi molecolari della COVID-19 e le funzioni biologiche della vitamina D, è intuitivo che la funzione modulatrice della vitamina D non possa che essere d’aiuto per affrontare efficacemente l’infezione. Ostacola l’ingresso del virus tramite le barriere fisiche, riducendo il rischio di contagio. Sopprime la sintesi di svariate citochine pro-infiammatorie e stimola quelle anti-infiammatorie. Il risultato finale è di sopperire a quei punti deboli che il virus sfrutta per determinare la patologia.

I benefici della supplementazione non sarebbero però rivolti a tutti, ma a coloro che hanno di base livelli ridotti di vitamina D. Condizione, questa, tutt’altro che infrequente.

Un’importante ricerca del 2019 ha dimostrato come il deficit di vitamina D sia estremamente comune in Europa. Interessa quasi il 20% della popolazione del Nord Europa, il 30-60% in Europa occidentale e del Sud e addirittura l’80% nei Paesi dell’Europa orientale. I gruppi maggiormente a rischio sono bambini/adolescenti e donne in gravidanza (che hanno un aumentato fabbisogno) e soprattutto, non a caso, soggetti anziani.

Prevalenza della carenza di vitamina D in Italia.

Una meta-analisi di 25 studi con quasi 11 mila partecipanti ha già dimostrato come il supplemento di vitamina D abbia un effetto protettivo contro infezioni acute delle vie respiratorie.

Inoltre, uno studio pubblicato lo scorso 6 maggio ha messo in evidenza la relazione tra bassi livelli di vitamina D e incidenza e mortalità per COVID-19.

Ad oggi, sono stati approvati ben 11 trials clinici con l’obiettivo di testare la supplementazione vitaminica in pazienti con COVID-19, sia a dosi alte che standard, in associazione agli altri farmaci.
Nella speranza di compiere ulteriori passi in avanti, non ci resta che attendere il conforto di un’evidenza scientifica.
Nel frattempo, prendere un po’ di sole non può che far bene!

Davide Arrigo

 

Bibliografia:

https://www.cell.com/cell/pdf/S0092-8674(20)30489-X.pdf?_returnURL=https%3A%2F%2Flinkinghub.elsevier.com%2Fretrieve%2Fpii%2FS009286742030489X%3Fshowall%3Dtrue
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1931312820301876
https://eje.bioscientifica.com/view/journals/eje/180/4/EJE-18-0736.xml
https://www.bmj.com/content/356/bmj.i6583
https://link.springer.com/article/10.1007/s40520-020-01570-8
https://journals.physiology.org/doi/full/10.1152/ajpendo.00185.2020
https://www.iss.it/news/-/asset_publisher/gJ3hFqMQsykM/content/covid-19-carenza-di-vitamina-d-e-perdita-dell-olfatto-e-del-gusto
https://www.researchgate.net/publication/320010685_CONSENSUS_VIS_Vitamine_Integratori_Supplementi

Su “Frontiers in Pediatrics” ricerca UNIME: i casi sommersi tra i bambini

Quando un fiume straripa si rende necessario progettare degli argini più alti per evitare succeda di nuovo. Oggi l’obiettivo è quello di arginare una nuova ondata di contagi da SARS-CoV-2 nel nostro Paese ed uno degli step più importanti è quello di localizzare gli asintomatici.

Asintomatico è quel soggetto che, pur non avendo i sintomi della malattia, ne è vettore di diffusione. Abbiamo abbondantemente letto di come la covid-19 abbia un’incidenza molto bassa in età pediatrica. La nostra attenzione si è quindi spostata da questa fascia di popolazione. Sorge però spontanea una domanda.

E se fossero proprio i bambini i principali portatori del virus?

A rispondere viene in soccorso una ricerca UNIME, redatta da alcuni socenti e studiosi di pediatria del Pipartimento di Patologia umana, Stefano Passanisi, Fortunato Lombardo, Giuseppina Salzano e Giovanni Battista Pajno, e pubblicata il 30 aprile sulla rivista “Frontiers in pediatricts”.


Come Freud fece con l’animo umano, l’Io, qui i soggetti portatori di SARS-CoV-2, sani e malati, vengono paragonati ad un iceberg la cui parte sommersa rappresenta gli asintomatici. All’epoca dello studio solo l’1,5% dei diagnosticati come SARS-CoV-2 aveva un’età compresa tra 0 e 18 e di questi in Italia ne era morto solo 1. Dati questi concordi con l’andamento della pandemia nel resto del mondo.

La covid-19 nei bambini

Clinicamente i bambini positivi al coronavirus presentano solitamente i seguenti sintomi: febbre, tosse secca, eritema faringeo e fatica. Nel mondo solo nel 5% dei casi si presentano dispnea o ipossemia nei soggetti pediatrici ed una percentuale ancora più bassa (0,6%) sviluppa una sindrome da distress respiratorio acuto o insufficienza multiorgano. In generale si riscontra un coinvolgimento maggiore delle alte vie aeree rispetto alle basse, diversamente dagli adulti.
Dal punto di vista laboratoristico negli adulti ritroviamo spesso diminuizione dei linfociti ed anemia, aumento dei marker epatici e degli indici aspecifici di infiammazione. Questi rilievi sono veramente rari nei bambini.

Come mai la covid-19 “pediatrica” decorre in maniera lieve il più delle volte?

Questo ancora non lo sappiamo, anche se ci sono due ipotesi. La prima è sostanzialmente immunologica: il sistema immunitario del bambino sarebbe rafforzato dalle diverse infezioni virali a cui va normalmente incontro nel primo anno di vita. In più, contrariamente agli adulti, verrebbe a mancare la tempesta citochine che rafforzano il processo infiammatorio, aumentando il potenziale danno dei tessuti sani. La seconda ipotesi si basa sull’espressione di ACE2, recettore che agisce da ligando per gli spikes dell’involucro virale, e che, sulla base esperimenti murini, sarebbe più espresso nei giovani rispetto agli anziani. Però a prescindere dal chiaro quadro epidemiologico non ci sono certezze a riguardo.

Tracciamento degli asintomatici: perché i bambini avrebbero un ruolo?

È utile fare una premessa: sebbene più di un milione di persone sono risultate positive al coronavirus in tutto il mondo, si stima che la prevalenza della malattia sia molto più elevata. I tamponi naso-faringei, che sono stati fino ad oggi il principale mezzo di indagine, sono stati indirizzati a chi presentava sintomi severi. Quindi rappresenterebbero solo la punta dell’iceberg.
La maggioranza dei bambini infetti, mostrando forme lievi o moderate, non fa il test per la covid-19, aumentando così i casi non diagnosticati.

Uno dei primi studi riguardo al rapporto tra l’età pediatrica ed il coronavirus è stato effettuato in Cina su 10 bambini. Tutti positivi e ricoverati, provenienti da aree attorno a Wuhan. Sebbene il campione sia limitato, così come l’attendibilità, i risultati sono davvero interessanti. Cinque di questi giovani pazienti sono risultati positivi alla ricerca dell’RNA di SARS-CoV-2 nelle feci. Hanno mantenuto questa positività per un periodo compreso tra 18 e 30 giorni dall’inizio della malattia. Mentre il “classico” tampone naso-faringeo perdurava positivo dai 6 ai 22 giorni. Inoltre 5  avevano una carica virale anche nelle urine per 2-3 giorni.
Possiamo dedurre che la persistenza del virus nelle secrezioni nasali e nelle feci abbia avuto delle implicazioni notevoli nella diffusione del contagio in asili e scuole, ma anche in ambito familiare. Basti pensare poi allo stretto rapporto che in Italia hanno nonni e nipoti.

Andamento dell’Rt in funzione del tempo e delle misure restrittive adottate in Italia

La scelta vincente della chiusura delle scuole

La prima misura restrittiva adottata da molti paesi è stata quella di chiudere scuole ed università. In accordo con i dati UNESCO ciò ha impattato sulla vita dell’87% degli studenti del mondo intero. Ma quali sono stati gli effetti benefici? Un report dell’imperial college di Londra ha analizzato i numeri del contagio in vari paesi europei, relazionandoli alle date di introduzione delle norme di contenimento. La variabile statistica da considerare è l’Rt, ovvero una media del numero di persone contagiate a partire da un soggetto positivo. Questa variabile reagisce positivamente a tutte le regole gradualmente introdotte, prima su tutte la chiusura delle scuole.

Dunque la popolazione pediatrica, quella che forse ha pagato di più gli effetti del lockdown dal punto di vista psico-sociale, è anche quella che probabilmente ci aiuterà a superare questa pandemia.

Antonio Mandolfo

 

La crisi che inaugura il XXI secolo. Niente sarà più come prima

Riceviamo e pubblichiamo il contributo del dott. Domenico Mazza, dottorando in Scienze Politiche presso l’Università di Messina, circa gli stravolgimenti nella nostra società dopo l’emergenza sanitaria COVID-19. 

Ecco giunta la tanta attesa cesura storica che smentisce definitivamente le voci di chi volesse caduto il Muro di Berlino ormai terminata la storia dell’umanità (Francis Fukuyama). L’undici settembre e le primavere arabe da oggi saranno soltanto un ricordo su delle pagine sbiadite rispetto all’attuale pandemia del COVID-19, la più grande dell’ultimo secolo ma sicuramente quella che inciderà più di tutte sull’attuale assetto geopolitico e sociale. Tutto sta cambiando… Tutto è già cambiato!

L’articolo che segue non ha nulla di scientifico e il concetto che esprime non vuole sostituirsi a quello più autorevole di storici e analisti globali i quali nei prossimi mesi daranno contributi certamente più importanti di questo.

Non bisogna chiedersi  perché un evento simile stia accadendo ma se è già accaduto nel passato. Perché finita tutta questa baraonda, negli anni successivi, si paleseranno momenti di alta tensione e di sconvolgimenti socio-politici; le attuali leadership verranno probabilmente sostituite dalle nuove che in questi giorni stanno “ribollendo tra le quattro mura di casa”. Potremmo già parlare di “quarantenismo”, cioè la maggioranza silenziosa di giovani under 40 costretti ancora una volta a sacrificarsi per un’Italia che solo negli ultimi due anni stava finalmente uscendo dal tunnel della crisi economica  e finanziaria iniziata nel 2007. Un Paese che fa fatica a valorizzare il proprio tessuto giovanile, il quale, soprattutto in ambito medico-scientifico, appare come quello più preparato non solo in Europa ma nel mondo.

Una pentola a pressione che esploderà nei prossimi anni: giovani, soprattutto medici “spediti al fronte” e smobilitati dall’attività economica dello Stato, chiederanno il conto alla classe dirigente, locale e nazionale, che sta gestendo la crisi pandemica. Per molti sarà come essere spediti in cima ad una montagna da un turbinio improvviso e da questa avranno occasione di scegliere il sentiero per cambiare la propria e altrui vita: è la modernità, che si sostituisce alla precedente ormai fattasi Passato.

Vi è una fazione avversa al cambiamento? Probabilmente i cosiddetti “restoacasisti” come definiti dalla rivista Rolling Stones in un articolo del 13 aprile 2020. Sono i mediocri che hanno trovato la loro eccellenza nel restare a casa e definiti da Enrico Dal Buono come “appagati e zavorrati al divano a spiare dal balcone chi trasgredisce all’autorità”. Quale fetta di mondo nuovo per loro?

Cento e più anni fa, all’alba di quel Mondo Nuovo oggi morto e sepolto, si parlò di trincerismo (oggi è quello del personale medico-sanitario) poi di diciannovismo (riferito al 1919 come anno di sconvolgimenti politico-sociali), tra qualche anno potremmo parlare oltre che di quarantenismo anche di ventismo (2020) se non addirittura di una nuova classe dirigente (politica, medica e finanziaria) “pandemista”, cioè formatasi in quello che è una delle più drammatiche vicende della Storia d’Italia. All’epoca mancò la pacificazione nazionale; non si riuscì a ristabilire ordine se non con un “colpo di mano” il 28 ottobre 1922. Oggi non si riesce nemmeno a trovare una soluzione per i tanti “fuorisede” e “fuoriusciti” che da mesi non possono raggiungere le proprie famiglie. Per loro quale riappacificazione con il proprio Popolo e la propria Nazione? Ma soprattutto quando? 

Una cosa è certa, inizia una fase nuova, un’altra epoca, forse il cuore pulsante del XXI secolo e per chi ha deciso di vivere una vita fino in fondo questo è il Momento da non farsi sfuggire dalle mani. Facciamo che il decennio avanti  sia il capolavoro di questa gioventù oppressa da un nemico potente e invisibile ma destinato alla disfatta.

Domenico Mazza

 

In quarantena tutti pazzi per la cucina: perché? Risponde la psicologia

Ammettiamolo: anche noi abbiamo cucinato qualcosa durante la quarantena. Oppure siamo rimasti sorpresi nel vedere che tante persone si sono cimentate nella realizzazione di ricette complesse. Ci hanno provato anche quelli che sapevano solo riscaldare il latte! Ma perché tutti (o quasi) sentono il bisogno di cimentarsi nella cucina durante l’isolamento forzato? La psicologia ci risponde.

 

Partiamo da un presupposto…

Cucinare non è solo una necessità ma anche un rituale che ha una funzione sociale e psicologica. La cucina (soprattutto in Sicilia) è parte integrante dell’identità dei popoli e dei singoli. La condivisione del pasto è un momento di socializzazione, chiedere il piatto preferito dell’altro diventa motivo di conversazione. Addirittura “smascherare” un vegano ci porta a discutere. L’essere umano e il cibo sono legati in maniera indissolubile.

Cucinare ci consente di essere concentrati su un compito specifico, grazie all’ attenzione selettiva. Così ci troviamo focalizzati nel qui” ed ora” (come avviene nella meditazione mindfullness). Escludiamo, cioè, dal nostro campo di coscienza momentaneo tutto il resto. Infatti, le notizie sul numero delle vittime, le previsioni circa la situazione economica, gli ammonimenti dei medici ecc vengono momentaneamente ignorati. Ciò significa che siamo totalmente sommersi nell’ esperienza che stiamo vivendo.

Inoltre, cucinando  si attiva il nostro locus of control interno. Esso è il processo tramite il quale la persona ritiene di poter gestire gli eventi che riguardano la propria vita. Ciò sta ad indicare che, di fronte alla precarietà di questo momento storico, cerchiamo di salvaguardaci. Come? Auto-inducendoci un senso di calma e di prevedibilità tramite la messa in atto del rituale del cucinare.

La “danza dei fornelli” è la versione evoluta della “danza della pioggia”! Gli antichi cercavano di controllare gli eventi soprannaturali con il rito. Noi, invece, tentiamo di gestire le emozioni  negative (ansia, rabbia, frustrazione) legate a questa quarantena imposta (e quindi non controllabile, come la pioggia).

Per cucinare una ricetta dobbiamo “stick to the plan

Ovvero “attenerci al piano” come dice lo chef Gino D’Acampo. Bisogna usare specifici ingredienti, metodi e tempi per ciascun piatto. Seguire un piano già predefinito è uno dei pochi elementi certi in questo periodo e ci aiuta a ridurre l’ansia e a favorire il buon umore. Oltre alla concentrazione, mettiamo in atto processi di pianificazione per tutti i processi da eseguire. A volte può capitare di non avere a disposizione tutti gli ingredienti necessari o di voler apportare delle modifiche alla ricetta. In questi  casi facciamo appello alla flessibilità cognitiva, la quale ci consente di essere creativi e di cambiare le carte in tavola. Per il nostro cervello diventiamo dei piccoli artisti anche quando cambiamo la quantità del sale!

Se cuciniamo da soli creiamo un legame con noi stessi. Cioè? Semplicemente ci percepiamo maggiormente, ci confrontiamo con le nostre abilità e comprendiamo meglio le nostre preferenze. Se, invece, cuciniamo in compagnia rinforziamo i legami con gli altri. Cucinare con una persona cara significa condividerci del tempo, svolgere un lavoro di squadra per la riuscita della ricetta, collaborare per adottare le strategie migliori. Praticamente alleniamo la nostra abilità di team working (una delle varie skills richieste dagli annunci di lavoro). E ancora, cucinare per qualcuno significa prendersene cura. Possiamo preparare un pasto per amore, affetto, vicinanza, per dimostrare che ci siamo e che non siamo passivi nel rapporto.

Cucinare vuol dire impegnarsi concretamente nella trasformazione del prodotto. Sviluppiamo le nostre capacità di tolleranza alla frustrazione (quando la ricetta non riesce come dovrebbe) e l’abilità del pazientare (i risultati non sono immediati). Quando cuciniamo,infatti, siamo sia attori che pubblico. Attori perché interveniamo direttamente nell’ atto e ne siamo protagonisti, pubblico perché osserviamo dall’esterno come si evolve il nostro lavoro.

Cucinare, in questo momento, assume anche una valenza collettiva

Lo facciamo tutti perché ci sentiamo parte di un unico gruppo (quello degli isolati) e funge da collante sociale. Anche se non possiamo vederci fisicamente, siamo tutti legati da questo filo invisibile. Attuare un rituale collettivo (cucinare, cantare dal balcone, condividere i tik tok ecc) ci aiuta a sopravvivere socialmente (sostiene il nostro senso di appartenenza). Condividere le foto delle nostre prelibatezze è un modo per dire che facciamo le stesse cose. Svolgere le stesse attività significa appartenere ad un gruppo e non esserne esclusi, quindi non rimanere da soli. Questi elementi sono centrali per un animale sociale, come l’essere umano.

cervello con alimenti

Le aree cerebrali maggiormente coinvolte mentre cuciniamo

-Corteccia prefrontale dorso laterale (pianificazione, working memory,controllo attenzionale, astrazione, comportamento strategico, flessibilità cognitiva);

-Corteccia prefrontale ventrale (controllo delle risposte emotive e dei processi decisionali);

-Corteccia cingolata anteriore (controllo della motivazione,inibizione di stimoli interferenti);

-Corteccia somatosensoriale (memoria delle informazioni provenienti dai sensi: gusto, olfatto ecc.);

-Sistema limbico (memoria delle emozioni provocate dai sensi).

Che aspetti? Corri a cucinare!

Chiara Fraumeni

Eparina e Covid-19: come e perchè della nuova sperimentazione AIFA

Negli ultimi giorni è stata data molta attenzione all’utilizzo dell’eparina nella terapia contro il SARS-CoV-2. Descritta da alcune testate giornalistiche con titoli sensazionalistici come “cura contro il Coronavirus” o letteralmente “molecola di Dio”l’eparina è davvero una novità tanto importante? Importante lo è senz’altro, ma una novità certamente no, vediamo perché. 

Cos’è l’eparina e quando viene utilizzata

L’eparina è una molecola con funzione principale di anticoagulante naturale. Si lega a un fattore del sangue, l’antitrombina III (AT-III), che a seguito del legame con l’eparina stessa cambia conformazione esponendo il suo sito attivo. L’AT-III attivata a sua volta inattiva la trombina, il Fattore X, e altre proteasi coinvolte nella coagulazione del sangue. Per la sua funzione biologica l’eparina viene utilizzata da decenni in casi di infarto miocardico, fibrillazione atriale, trombosi venosa profonda, embolia polmonare ed altre condizioni in cui si formano trombi nel circolo sanguigno.  

Perché utilizzare l’eparina in una polmonite virale

Non bisogna pensare che, in corso di polmoniteil resto dell’organismo non sia coinvolto. Possono essere variamente interessati cuore, reni, fegato, cervello e nervi, sistema emopoietico (ecco un articolo divulgativo della Fondazione Veronesi). Ciò può avvenire per azione diretta del virus, o anche per azione indiretta. La spiegazione è semplice: in corso di polmonite, specie se di grave entità, vengono rilasciate elevate quantità di chemochine e citochine pro-infiammatorie che agiscono a livello sistemico e alterano, tra gli altri, il normale equilibrio della coagulazione. Infiammazione e coagulazione sono strettamente correlate e si influenzano vicendevolmente, anche a livello polmonare. 

Queste complesse interazioni molecolari sono state comprovate clinicamente da diversi studiRicerche condotte nell’ambito del “MEGA study” (Multiple Environmental and Genetic Assessment of risk factors for venous thrombosis), uno degli studi più estesi mai compiuti per lo studio di fenomeni trombotici, hanno confrontato 4956 pazienti affetti da TVP (trombosi venosa profonda) o EP (embolia polmonare) contro oltre 6000 controlli. Nell’ambito di tali gruppi, è stato dimostrato come, nella sottopopolazione di pazienti affetti da polmonite, il rischio di andare incontro a TVP fosse di 3-4 volte maggiore e il rischio di EP, con o senza TVP, fosse da 6 a 10 volte maggiore.  

Per queste ragioni, già note, l’utilizzo di eparina a scopo preventivo è indicato dall’OMS in corso di COVID-19 fin da inizio gennaio. 

Le caratteristiche della COVID-19 che fanno ben sperare

Sono state riscontrate alcune peculiarità che hanno catturato l’attenzione della comunità scientifica. 

Premettendo che il fulcro del discorso sono i pazienti ricoverati in terapia intensiva, e non tutti i soggetti positivi al SARS-CoV-2, un recente studio ha evidenziato come oltre il 30% dei soggetti ammessi in ICU manifesti complicanze trombotiche. Si tratta di un’incidenza molto significativa che non va sottovalutata.  

Inoltre è stato dimostrato che il Sars-Cov-2 lega l’eparan-solfato e l’eparina endogena prodotti dal nostro organismo e localizzati soprattutto nella membrana basale delle arterie polmonari. Il legame avviene tramite il dominio RBD della proteina Spike S1 e provoca un’importante alterazione conformazionale che inattiva tali molecole. Non solo le molecole endogene, ma anche l’eparina esogena subisce lo stesso effetto. Questo apre le porte a diversi ragionamenti: da un lato il virus provoca direttamente, oltre che scatenando un’intensa risposta infiammatoria, un’alterazione dei processi emocoagulativi; dall’altro l’eparina potrebbe avere un ruolo nel “sequestrare” il virus inibendone l’ingresso nelle cellule.  

Non a caso si sta ipotizzando la somministrazione del farmaco per via inalatoria, nebulizzata, per sfruttare questa sua azione diretta “antivirale”. 

L’eparina non è solo un anticoagulante

La sperimentazione dell’eparina in casi di ALI (Acute Lung Injury), come può essere la ARDS (Sindrome da Distress Respiratorio Acuta) da qualsiasi causa, è in corso da oltre un decennioIl razionale di ciò è che tale molecola ha dimostrato in numerosi studi molte altre proprietà oltre a quella anticoagulante 

In vitro l’eparina è in grado di inibire la cascata di trasduzione del fattore NF-κB e di ridurre così l’espressione di molteplici mediatori pro-infiammatori nei macrofagi alveolari e negli pneumocitiIn vivo, attraverso studi su topi con ALI indotto, sono stati dimostrati effetti simili di inibizione del NF-κB e del TGF-β, ma anche di riduzione del reclutamento di granulociti neutrofili e dell’edema alveolare, tramite somministrazione per via inalatoria. Inoltre ridurrebbe la disfunzione endoteliale avendo un effetto protettivo sul sistema cardiovascolare.

Anche se questi effetti ottenuti in vitro e su modelli animali non hanno avuto lo stesso riscontro in studi clinici applicati a pazienti sotto ventilazione meccanica, in pazienti con ARDS manifesta la somministrazione di eparina ha ridotto il numero di giorni di ventilazione meccanica necessari per il recupero. Inoltre, una meta-analisi ha evidenziato come il trattamento per via inalatoria con eparina a basso peso molecolare entro i primi 7 giorni di ALI/ARDS riducesse il rischio di mortalità del 48% entro la prima settimana e del 37% entro il primo mese, migliorando anche l’efficacia degli scambi gassosi polmonari, specie nei pazienti trattati con alte dosi. Gli stessi autori dichiarano però che il basso numero di studi e di pazienti esaminati potrebbe rendere i risultati fuorvianti, per cui sono necessari ulteriori dati clinici da analizzare.  

Il punto della situazione

Premessa l’assenza di una terapia efficace contro la COVID-19, lelevata incidenza di complicanze trombotiche nei pazienti affetti e le potenziali azioni multiple dell’eparina hanno portato l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ad approvare un nuovo protocollo di sperimentazione 

Il documento dell’AIFA descrive come la COVID-19 segua schematicamente tre fasi di malattia 

  • una fase precoce con sintomi simil-influenzali;  
  • una parte di pazienti passa ad una seconda fase che si caratterizza per una polmonite interstiziale spesso bilaterale;  
  • in una terza fase, in un numero di casi limitato, si può evolvere verso un quadro clinico ingravescente dominato dalla cosiddetta tempesta citochinica, con uno stato iperinfiammatorio che può sfociare in ARDS grave e in alcuni casi in CID (Coagulazione Intravascolare Disseminata).  

In tale complesso quadro le EBPM (eparine a basso peso molecolare) si collocano: 

  • Nella fase iniziale della malattia, quando è presente la polmonite, a dose profilattica con lo scopo di prevenire il tromboembolismo venoso, come già noto.  
  • In fase avanzata, in pazienti ricoverati in terapia intensiva, per contenere i fenomeni trombotici conseguenza dell’iperinfiammazione. In tale caso le EBPM dovranno essere utilizzate a dosi terapeutiche.   

14 centri italiani sono stati coinvolti nello studio; il farmaco sarà fornito gratuitamente dall’azienda farmaceutica Techdow Pharma e somministrato a 300 pazienti ammessi alla sperimentazione per via sottocutanea. Un primo gruppo di 200 pazienti con dose di profilassi (pari a 4.000 U.I.) e un secondo di 100 partecipanti con dosi terapeutiche intermedie (di 6.000, 8.000 o 10.000 U.I. in base alla massa corporea).  

Si spera così di rispondere ai quesiti irrisolti sui potenziali effetti terapeutici e non solo preventivi dell’eparina nei pazienti con COVID-19. Va però sottolineato che si tratta di tutt’altro che una novità o un farmaco miracoloso, come è stato pubblicizzato. Ma potrebbe rivelarsi una potenziale speranza in più, al pari di molti altri farmaci di cui si è discusso, in pazienti in fase avanzata di malattia per i quali purtroppo, ad oggi, la medicina non può far altro che andare per tentativi. 

Davide Arrigo

 

Bibliografia:

https://www.aifa.gov.it/documents/20142/0/Eparine+Basso+Peso+Molecolare_11.04.2020.pdf/31ad4388-05aa-956b-c1a3-10cbd5354fc3
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/j.1538-7836.2012.04732.x
https://www.thrombosisresearch.com/article/S0049-3848(20)30120-1/pdf
https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2020.02.29.971093v1.full.pdf
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5799142/#r11
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/jth.14821
http://www.ijcem.com/files/ijcem0057580.pdf