No alla teoria della sindrome dell’alienazione parentale nei tribunali. La svolta arrivata nel caso Massaro

Nell’ambito di una causa molto complicata, arriva una svolta epocale. Laura Massaro, protagonista della vicenda, è una donna che da nove anni lotta contro l’ex compagno, da lei denunciato per stalking.

La difesa di quest’ultimo ha accusato la donna di aver provocato nel figlio in comune un forte risentimento nei confronti del padre e, dunque, la sindrome da alienazione genitoriale.

Da molto tempo, la suddetta sindrome, è al centro della polemica per essere considerata non una vera malattia, perché priva di reale riscontro scientifico. Con il caso Massaro, la Corte di Cassazione, ha definito “pseudoscientifica” la controversa teoria che descrive l’allontanamento di un figlio da un genitore ad opera dell’altro.

Laura Massaro riabbraccia suo figlio dopo un allontanamento forzato (fonte: zazoom.it)

Il caso Massaro

Laura Massaro ha iniziato il suo calvario con la denuncia per stalking al suo ex compagno, nonché padre del minore. Negli anni, ha cercato di sostenere la sua battaglia con denunce pubbliche, scioperi della fame e proteste davanti tribunali. Molte associazioni e movimenti femministi hanno iniziato a supportarla e del suo caso si sono poi occupate anche diverse parlamentari.

Il 16 marzo 2022 durante l’audizione in tribunale di G.A., l’ex compagno, e dei suoi difensori dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono i minori, è stato riscontrato che la realtà dei fatti non corrispondeva alle dichiarazioni rese.

Tre consulenze tecniche d’ufficio, ora imputate per falso ideologico in atto pubblico, fatte alla signora Massaro negli anni, hanno fatto decidere al Tribunale per i minori di Roma l’affidamento del minore al Tutore il 05/07/2019 e il primo di allontanamento l’11/10/2019.

Il padre, comunque, aveva sempre esercitato il suo diritto di visita al figlio attraverso incontri protetti presso i servizi incaricati.

Ma, per ristabilire un rapporto che la controparte ha definito minato da ingiusti comportamenti di Laura Massaro, il Tribunale per i minorenni di Roma e la Corte di Appello di Roma, nel 2021, hanno deciso l’allontanamento del bambino, ormai di dodici anni, dalla madre, con collocamento del minore in casa-famiglia. La decisione è stata presa, nonostante la madre sia stata ritenuta da diversi operatori psico-sociali intervenuti negli anni sempre idonea, sotto il profilo della cura e dell’accudimento del figlio.

Lo spostamento in casa-famiglia è stato considerato ripetutamente contrario all’interesse del minore dalla Corte di appello di Roma nel 2015, dal Tribunale per i Minorenni di Roma nel 2018 e ancora dalla Corte di Appello di Roma nel 2020, quando questa ha revocato il provvedimento di allontanamento, evidenziando il pericolo di un trauma grave nei confronti del minore, l’inadeguatezza della situazione socio-ambientale del padre e il grave rischio per la salute del minore, giudicato iperteso.

Anche i medici che hanno visitato il minore, tra cui quelli interpellati direttamente dai Servizi Sociali, hanno espresso grandissima preoccupazione per le conseguenze sulla salute del bambino.

Nonostante ciò, la misura è stata nuovamente disposta e addirittura aggravata con l’interruzione di ogni contatto tra il bambino e la madre, anche telefonico, senza alcun limite temporale per il termine di tali misure afflittive.

 

Il ricorso alla Cassazione contro il provvedimento di allontanamento dalla madre

Così Laura Massaro ha fatto ricorso in Cassazione, richiedendo la sospensione dell’esecuzione del provvedimento. Il minore ha persino scritto personalmente una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, raccontando la sua disperazione per essere stato allontanato, anche con la forza, dalla madre e per non essere stato ascoltato dalla Corte di Appello prima della decisione.

Nonostante siano state riscontrate violazioni di legge da parte delle autorità giudiziarie di merito, l’assenza di comportamenti inadeguati da parte di Laura Massaro nel suo ruolo di genitore e la “compressione della libertà” del minore, la Procura Generale presso la Corte di Appello di Roma, prima favorevole alla sospensione del provvedimento, in data 12 novembre 2021 è stato comunicato provvedimento di rigetto della richiesta di sospensione dell’esecuzione dell’allontanamento del minore dalla madre contro la sua volontà.

L’allontanamento del minore avvenuto senza che questo fosse prima ascoltato (fonte: huffingtonpost.it)

La Cassazione ha ora accolto il ricorso della donna e dai suoi legali, messi a disposizione dall’associazione Differenza Donna, annullando la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale e il trasferimento del bambino in casa-famiglia stabiliti in precedenza dalla Corte di Appello.

Il ricorso è stato accolto sulla base di tre motivazioni: l’illegittimità dell’alienazione parentale, la superiorità dell’interesse dei bambini rispetto al diritto alla bigenitorialità e la condanna dell’uso della forza nei confronti dei minori.

 

Il caso posto in sede internazionale

La vicenda della signora Massaro è stata sottoposta alla Commission on the status of women e alla Special Rapporteur ONU contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne, dall’associazione “Differenza Donna”, al suo fianco dal 2017.

In seguito all’aggravarsi dei provvedimenti presi ai danni della donna, il fascicolo processuale è stato segnalato alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne”, all’attenzione di tutte le istituzioni e gli organismi di monitoraggio della tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, al Ministero della Giustizia, in ultimo, alla “Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono i minori”, ma anche al Ministero della Salute.

Proprio a quest’ultimo è stato chiesto la raccomandazione ad assicurare che le autorità giudiziarie minorili espungano dalla loro attività ogni riferimento all’alienazione genitoriale.

 

La teoria della sindrome da alienazione genitoriale e le difficoltà generate in ambito giudiziario

La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (“PAS” in inglese) è un concetto formulato per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner. Lo psichiatra lo descrisse come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minorenni coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori.

Uno dei due genitori, secondo la teoria, viene definito “genitore alienante” qualora cerchi di portare il figlio a provare e dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore, detto “genitore alienato”, fino all’allontanamento, attraverso l’uso di espressioni denigratorie, false accuse e costruzioni di realtà virtuali familiari”.

Per Gardner, affinché si tratti effettivamente di PAS è necessario che rancore e rifiuto da parte del minore non nascano da dati effettivamente reali e oggettivi che riguardano il genitore alienato.

Fin da subito la teoria di Gardner fu molto contestata nel mondo scientifico e accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Perciò, non è riportata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

Comunque, la sindrome è stata finora molto considerata, anche in Italia, nell’ambito di separazioni conflittuali.

La teoria di questo disturbo è divenuta spesso un problema, soprattutto nelle situazioni in cui fossero presenti casi di violenza, come quello di Laura Massaro. I sentimenti negativi di figli nei confronti di genitori violenti sono stati spesso addossati a presunti comportamenti scorretti da parte del genitore in realtà vittima.

La presidente e avvocato di Differenza Donna, Elisa Ercoli ha commentato l’avvenimento:

“Così come è stato per il no di Franca Viola sul matrimonio riparatore, oggi Laura rappresenta tutte le donne per un no definitivo a violenza istituzionale agita contro donne, bambine e bambini, in materia di Pas, prelievi forzati e altre forme di violazione dei diritti umani. Quando la storia è segnata da progressi come oggi, vinciamo tutte”.

 

Rita Bonaccurso

Alla ricerca dell’aggravante perduta (?)

Nei giorni appena passati ho potuto notare che in molti durante il dì svolgono la propria vita in tranquillità ed in totale anonimato, mentre di notte si trasformano in impavidi difensori della giustizia, un po’ come Batman e Superman. Li definirei i “giuristi 2.0”. Si, si, avete idea di quanti “laureati” in giurisprudenza vagano per le strade del nostro bel Paese? Anche se lo scherzo sarcastico si presta divinamente per tutta la faccenda che vi racconterò, premetto che il mio scopo è principalmente di informare in maniera più oggettiva possibile, tenendo parziale la mia opinione – nonostante il tipo di articolo la richieda -, al fine di chiarire perché la giustizia italiana è giunta a tale decisione.

Si sa, il diritto non è certo un mondo facilmente comprensibile, due filoni sono in eterno conflitto tra loro (rari i casi in cui dottrina e giurisprudenza sono concordi) ed il lavoro interpretativo è sempre più oscuro ed articolato. Il caso che ha creato polveroni e fioccanti opinioni è la recente sentenza della terza sezione di giurisdizione penale della Corte di Cassazione: con il numero 32462 depositata il 16 Luglio scorso, i giudici hanno ordinato un nuovo processo per rivedere al ribasso le condanne stabilite in appello contro due uomini di cinquant’anni, accusati di stupro di gruppo contro una ragazza. I giudici hanno stabilito che la vittima era ubriaca e gli stupratori hanno approfittato delle infermità della vittima per avere un rapporto forzato privo di consenso della parte lesa. Se queste sono le parole che avete letto su molte testate nell’ultima settimana, è giustificato (e facile) attaccare la scelta dei giudici.

Ma, si è giunti fino al grado di Cassazione, perché la donna aveva assunto volontariamente l’alcol, e nel fare ricorso si è notato che per legge, alla pena dei due stupratori, non può essere aggiunta alcuna aggravante.

Procedendo con ordine: i fatti risalgono al lontano 2009. I protagonisti sono due uomini ed una ragazza, i quali avevano banchettato insieme con qualche bottiglia in più. La sfortunata fanciulla, al posto di essere aiutata viste le condizioni psicofisiche alterate, è stata condotta in camera da letto per subire una violenza da parte dei due uomini. Dopo qualche ora la giovane si è diretta al pronto soccorso descrivendo quanto appena accaduto. Nel 2011 i due uomini erano stati assolti in primo grado da un giudice di Brescia, perché la donna non era stata riconosciuta attendibile (si evince infatti dalla sentenza e dalla testimonianza, che la giovane confondeva gli avvenimenti, omettendo ed aggiungendo svariate volte i fatti). Successivamente, nel gennaio del 2017, la corte di Appello di Torino aveva considerato in modo diverso il referto del pronto soccorso, che parlava di segni di resistenza, e aveva condannato i due uomini a tre anni applicando anche l’aggravante di «aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche». La difesa dei due imputati aveva presentato ricorso sostenendo che non c’era stata violenza da parte loro né riduzione a uno stato di inferiorità, dato che la ragazza aveva bevuto volontariamente. La Cassazione ha ora confermato la responsabilità dei due uomini nello stupro, ma ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado sul punto dell’aggravante.

“Ragioni letterali, ovvero l’utilizzo della locuzione “con l’uso”, e sistematiche, essendo previste uguali circostanze soltanto in relazione ad altre fattispecie di reato che contemplano tra i loro elementi costitutivi la violenza o minaccia (artt. 339, 395, 393, 629 e 585 c.p.), impongono, infatti, di ritenere che il mezzo descritto debba essere imposto contro la volontà della persona offesa e, dunque, che la sostanza deve essere assunta a seguito di un comportamento violento o minaccioso dell’agente. Non integra quindi gli estremi dell’aggravante l’assunzione volontaria di sostanze alcoliche da parte della vittima.” – Sentenza della Corte

Perché si parla di aggravante e della sua mancata sussistenza?

Innanzitutto l’aggravante nel diritto penale la ritroviamo nell’art. 61 del codice penale, in cui sono elencate le circostanze aggravanti comuni, circostanze che – appunto – aggravano il reato commesso dal colpevole. Vi sono anche le aggravanti speciali, che si applicano caso per caso. Ed è questo il punto sul quale si sono soffermati molti critici, poiché ogni caso va valutato nelle sue circostanze specifiche, che non sempre sono uguali tra di loro. In ogni caso, la corte non ha stabilito che l’ubriachezza volontaria fosse stata un’attenuante, ma che se una donna che ha bevuto subisce una violenza, l’aggravante sussiste quando lo stato di invalidità è stato provocato dal colpevole del reato. La Cassazione non ha teorizzato che lo stupro non si è verificato: la violenza sessuale è stata riconosciuta, non è stato riconosciuto l’aggravante che modifica la pena dei colpevoli.

Chiariti tutti i dubbi, le opinioni possono essere presentate, sicuramente con la consapevolezza dell’argomento. La paura che può sorgere, nell’ipotesi in cui dovesse ripresentarsi un caso simile, è che la sentenza della Cassazione possa valere come precedente – il che non significa che la pronuncia fa legge, ma ha un peso rilevante, e può essere citata davanti ad un giudice – e che quindi l’aggravante come non sussiste adesso, potrebbe non farlo successivamente. Ma questo non significa che il dito va puntato alla Corte perché è stata “ingiusta” e l’indignazione deve dilagare come una fake news su Facebook.

Al Corriere della Sera, la penalista Caterina Malavenda non ha messo in discussione la legittimità della decisione della Cassazione, ed ha spiegato: «Certo, ora la Corte di Appello dovrà rivalutare tutto e, in particolare, capire chi ha fatto bere la vittima e perché. Tu puoi bere senza rendertene conto se c’è qualcuno che ti riempie continuamente il bicchiere. Ma perché lo sta facendo?». Infatti, a prescindere dalla giurisdizione e dalle scelte prese secondo procedimenti ben precisi e nel rispetto delle norme, la questione va spostata su un altro piano, in un ambito che ancora non è diventato concreto e sostanziale. La violenza ed il consenso sono discussioni fortemente avanzate in questo periodo, non solo a livello nazionale ma anche europeo, in cui il fulcro è il consenso esplicito, per cui dire “sì” significa “sì”, e che tutto il resto, compreso il silenzio, significa “no”. Il consenso esplicito offre infatti, secondo molte, più protezione, soprattutto a quelle donne che non sono in grado di esprimere chiaramente il proprio consenso (per paura, per alterazione del proprio stato psicofisico, le circostanze sono tante).

Che questo possa essere uno spunto per rivedere o migliorare tutte quelle norme volte a condannare la violenza sessuale? Che la nostra burocrazia sia famosa in tutto il globo per la sua particolare lentezza e minuziosa ricerca, è assodato, ma forse dovremmo valutare molti più casi e le rispettive conseguenze per poter assicurare una tutela completa dell’individuo (sempre nel rispetto del nostro diritto). Come recentemente in Spagna (che segue il modello tedesco e svedese), in cui è stata approvata la proposta che vede la vittima esprimere il proprio consenso esplicito affinchè il rapporto sessuale venga considerato tale, altrimenti è una violenza a tutti gli effetti.

Prescindendo dal genere, la violenza sessuale è un atto vile che deve essere concretizzato nell’immaginario comune: cioè, bisogna avere consapevolezza del reato infimo che rappresenta, tanto da non volerci nemmeno scherzare, per esempio. Non è piacevole quando dite “era troppo bon*, l’avrei stuprat*” o “vieni, vieni ti faccio divertire io”, non siete simpatici, non è divertente, non si dicono certe espressioni per scherzare. Sarò troppo rigida, ma è così di cattivo gusto, che riuscite a trasmettere amarezza e sconforto in chi vi ascolta, e peggio è quando vi si regge la battuta. Ridere è bello, ma c’è così tanto su cui scherzare, perché proprio così?

 

 

Giulia Greco