I figli potranno portare i cognomi di entrambi i genitori o anche solo della madre. Ecco la decisione storica della Consulta

Mercoledì la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il meccanismo che imponeva di dare automaticamente ai figli il cognome paterno, in quanto lesivo degli articoli 2,3 e 117 primo comma della Costituzione. In seguito alla sentenza – ha specificato la Corte – ai figli verranno automaticamente attribuiti i cognomi di entrambi i genitori, tranne che questi ultimi, di comune accordo, non decidano di attribuirne uno solo (tra quello paterno e quello materno). Quest’ultima possibilità – di attribuire al figlio solo il cognome materno – era in passato valida solo per le coppie non sposate, mentre i figli nati nel matrimonio avrebbero potuto – a partire dal 2017 – affiancare il cognome materno a quello paterno, ma non sostituirlo né anticiparlo.

Peraltro, nessuna norma stabiliva esplicitamente l’attribuzione automatica del cognome paterno. Quest’ultimo meccanismo era invece desunto implicitamente da determinate norme, come quella contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica n.396 del 2000, che introduceva il divieto di attribuire al figlio lo stesso nome del padre per evitare omonimie. O, ancora, dall’articolo 262 del Codice civile, in materia di figli nati fuori dal matrimonio, che afferma:

Il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre.

La regola deriverebbe, secondo quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale in una precedente sentenza del 2006, dal «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza uomo-donna».

Le norme impugnate e i principi violati

Il giudizio si è basato sugli articoli 2,3, e 117 primo comma della Costituzione. I primi due risulterebbero violati perché le suddette norme in quanto lesive del principio dell’identità personale del figlio, per cui la scelta del cognome dovrebbe fondarsi su un giudizio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, rappresentando dunque una forma di discriminazione.

Inoltre, risulterebbero lesive dell’articolo 117 primo comma – che afferma che «la potestà legislativa deve essere esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» – in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I due articoli riguardano, rispettivamente, il rispetto della vita privata e familiare, nonché il divieto di discriminazione (tra cui le discriminazioni fondate sul sesso).

La sentenza nasce da una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Potenza circa una coppia che voleva dare al proprio figlio il solo cognome della madre, per uniformità coi primi due figli, avuti prima del matrimonio e che la madre aveva riconosciuto per prima. Respinti sia dagli uffici comunali che in primo grado, la Corte d’Appello aveva accolto la loro richiesta nel 2021 inoltrando poi la questione alla Consulta.

I precedenti della sentenza

Una tale sentenza, pur rappresentando una svolta storica per il diritto di famiglia italiano, non deve stupire: è solo il culmine di numerose istanze, questioni, sentenze e condanne intervenute nei confronti dell’Italia già a partire negli anni ’80.

Fondamentale, sotto questo punto di vista, è stato l’intervento della Corte Europea dei diritti umani, che nel 2014 aveva condannato l’Italia per la violazione dei suddetti principi, affermando che: «dare ai figli il cognome della madre è un diritto».

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La questione era giunta all’attenzione della Corte di Strasburgo in seguito al ricorso effettuato nel 2011 dai coniugi Cusan e Fazzo, che nel 2000 fecero ricorso al Tribunale di Milano per ottenere la rettifica dell’atto di nascita della loro prima figlia a cui volevano fosse attribuito solo il cognome materno. La vicenda si era conclusa, appunto, nel 2011, con un provvedimento amministrativo del Ministero dell’Interno che consentiva ai coniugi di aggiungere ai figli anche il cognome materno. Ma trattandosi di una concessione e non del riconoscimento di un diritto, i due decisero di rivolgersi alla Corte Europea.

Di lì a poco la Corte costituzionale emise la sentenza n.286 del 2016, in cui dichiarò per la prima volta l’incostituzionalità delle norme sull’attribuzione automatica del cognome paterno, sollecitando un intervento legislativo che provvedesse a porvi rimedio. Intanto, però, il meccanismo rimase operativo.

Un ultimo importante precedente è quello che giunge nel 2019 dal Tribunale di Bolzano, che sollevò questione di legittimità costituzionale con riguardo all’articolo 262 del Codice civile. Nel caso in ispecie, il Tribunale doveva decidere sul ricorso presentato dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 95 del Decreto n. 396 del 2000 (di cui sopra), al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina, cui i genitori, non uniti in matrimonio, avevano concordemente voluto attribuire il solo cognome materno.

Per questa ragione, la Consulta sollevò innanzi a sé stessa questione di legittimità costituzionale sull’articolo 262 c.c. nella parte in cui non consentiva ai genitori, anche se di comune accordo, di attribuire ai figli il cognome materno.

Le conseguenze

Caduto definitivamente l’automatismo, sarà adesso compito del legislatore introdurre una disciplina adatta alle nuove circostanze. In Parlamento giacciono cinque proposte di legge che dovranno essere esaminate dalla Commissione Giustizia prima di passare all’approvazione di Camera e Senato.

Valeria Bonaccorso

 

No al referendum sulla cannabis. Per la Corte Costituzionale è “inammissibile”

La Corte Costituzionale ha respinto il referendum sulla Cannabis legale, dopo che la stessa ha respinto nella giornata di martedì il quesito sull’eutanasia. Il presidente Giuliano Amato, nel corso di una conferenza stampa, ha dichiarato che «il referendum non era sulla cannabis, ma sulle sostanze stupefacenti». Un’affermazione che ha destato molto scalpore tra i firmatari del referendum, in particolare una delle associazioni promotrici del referendum, Meglio Legale, sui social ha scritto che:

«Questa non è una sconfitta nostra e delle centinaia di migliaia di cittadini e cittadine che hanno firmato per la cannabis legale. È il fallimento di una Corte che non riesce a garantire agli italiani un diritto costituzionale, di un Parlamento che da trent’anni non riesce a mandare in fumo gli affari delle mafie.

Giuliano Amato durante la conferenza stampa (fonte: ansa.it)

Le considerazioni della Corte Costituzionale

Secondo la Corte, l’approvazione del referendum avrebbe portato a una «violazione degli obblighi internazionali dell’Italia», perché avrebbe consentito la coltivazione anche di «droghe pesanti». Il Presidente Amato ha dichiarato che

«Il quesito è articolato in tre sotto quesiti ed il primo prevede che scompaia tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, che non includono neppure la cannabis ma includono il papavero, la coca, le cosiddette droghe pesanti.».

 

La seconda ragione della bocciatura del referendum, è che il quesito aveva problemi di formulazione, poiché non avrebbe consentito una depenalizzazione completa. Durissima la replica del presidente del comitato, Marco Perduca, che dice

«Non c’è stato alcun errore nella formulazione del quesito. Il quesito non viola nessuna convenzione internazionale, tanto è vero che la coltivazione è stata decriminalizzata da molti Paesi, ultimo tra questi Malta. Il riferimento del presidente alle tabelle è fattualmente errato, dall’anno della bocciatura della Legge Fini-Giovanardi (2014) il comma 4 è tornato a riferirsi alle condotte del comma 1, comprendendo così la cannabis.».

Inoltre, nella stessa giornata, la Corte Costituzionale ha approvato cinque quesiti della riforma della giustizia, ossia l’abrogazione delle disposizioni in materia di insindacabilità (comunemente nota come legge Severino), la limitazione delle misure cautelari, la separazione delle funzioni dei magistrati, l’eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm, il voto degli avvocati sui magistrati.

Gli obiettivi del referendum

Scendendo nel dettaglio del referendum, come si apprende dal sito del comitato, il quesito propone «di depenalizzare la condotta di coltivazione di qualsiasi pianta», specificando che «la detenzione di piante, foglie e fiori a fini di spaccio e le attività di fabbricazione, estrazione e raffinazione, necessarie ad esempio alla cocaina e l’eroina» avrebbero continuato «a essere punite», dimostrando a detta dei promotori il contrario di quanto affermato dalla Corte Costituzionale.

Inoltre, il referendum prevedeva anche di eliminare il carcere per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione dell’associazione finalizzata al traffico illecito. L’intento più importante infatti, era quello di togliere potere alle mafie. Stando alla Relazione annuale del Parlamento sulle tossicodipendenze del 2021,  il mercato delle sostanze stupefacenti  muove attività economiche per 16,2 miliardi di euro, di cui circa il 39% attribuibile al mercato nero dei cannabinoidi, all’incirca pari a 6,3 miliardi di euro.

La cannabis in Europa

In alcuni stati dell’Unione Europea, la cannabis è legalizzata sia dal punto di vista della produzione, che del consumo. In Germania è stato depenalizzato il possesso entro i 10 grammi. Nei Paesi Bassi non è presa in considerazione la vendita di quantità sotto ai 5 grammi per persona al giorno nei coffee-shop autorizzati, mentre in Repubblica Ceca è consentito coltivarla per uso personale ma non per la vendita.

Le reazioni dei firmatari e della politica

 

Riccardo Magi e Marco Cappato (fonte: ilfattoquotidiano.it)

 

Il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, commenta la decisione della Corte su Twitter, scrivendo:

 

E sulle tabelle, ha affermato in un’intervista rilasciata ai microfoni del Fatto Quotidiano:

«Errore sulle tabelle? No, il clamoroso errore è di Giuliano Amato. Ha affermato il falso. Non sono stati nemmeno in grado di connettere correttamente i commi della legge sulle droghe. Non è stato letto correttamente il combinato disposto degli articoli che invece secondo noi riguarda esattamente la cannabis.».

Un giudizio decisamente negativo che vede il sostegno anche di alcuni esponenti politici, come il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni:

«Emerge un’idea conservatrice del Paese, molto lontana dalla vita reale, che quei due referendum volevano superare e che la Consulta con le sue scelte e con molti peli nell’uovo, ha consolidato.».

 

Tuttavia, in molti ritengono che il quesito presentava molte contraddizioni. Vero o no, rimane l’amarezza per quel numero esorbitante di firme raccolte in questi mesi, a cui si aggiunge l’indignazione per la promozione del quesito che abroga la legge Severino, la quale nello specifico vieta l’incandidabilità, ineleggibilità e decadenza dei parlamentari, membri del governo, sindaci e amministratori locali in caso di condanna definitiva per reati di mafia, terrorismo e corruzione. C’è da chiedersi se la democrazia in Italia esiste ancora, e se a trent’anni da Mani Pulite è cambiato qualcosa. La risposta è nella coscienza della nostra onestà intellettuale.

 

Federico Ferrara