Stati Uniti, la Corte Suprema potrebbe non garantire più il diritto all’aborto

Negli scorsi giorni è trapelata la bozza di una decisione della Corte Suprema, la più alta corte federale degli Stati Uniti, contenente il parere favorevole circa il disconoscimento dell’interruzione della gravidanza come diritto riconosciuto, ai sensi della Costituzione americana, in tutti gli Stati della confederazione. Trattandosi di una bozza non ha in alcun modo il valore che avrebbe una sentenza della stessa Corte e, ad oggi, la situazione di fatto non è mutata. Ma resta da capire quali potrebbero essere gli scenari nel prossimo futuro dato che tra un paio di mesi i giudici della suddetta corte dovranno esprimersi relativamente al caso su cui la bozza di decisione è stata redatta.

Corte Suprema degli Stati Uniti, fonte: roma.it

Non sono in pochi a temere l’ennesimo smacco nei confronti di un diritto che nel corso degli ultimi anni è stato più volte preso di mira dalle politiche sempre più conservatrici della destra americana. L’aborto negli Stati Uniti è stato legalizzato solamente nel 1973 grazie alla storica sentenza Roe vs Wade, e ribadito unicamente da una seconda sentenza del 1992, la Planned Parenthood vs Casey. Le due sentenze hanno imposto una soglia di tutela minima a favore delle donne in tutti gli stati della federazione americana divenendo ben presto un simbolo della lotta per i diritti civili.

Lo Stato del Mississippi e la legge anti aborto del 2018

La bozza di decisione, trapelata dalla stessa corte e diffusa dal quotidiano americano Politico, riguarda il caso Dobbs vs Jackson’s Woman Health Organization. Nel 2018 lo Stato del Mississippi ha approvato una legge che dichiara illegale l’aborto dopo le quindici settimane, un momento oltre il quale il feto è ritenuto essere troppo sviluppato per potere interrompere la gravidanza. Una statuizione che non ha mai trovato il parere favorevole degli esperti che invece, in materia di interruzione della gravidanza, ritengono più corretto assumere il limite delle ventiquattro settimane, momento oltre il quale il feto ha concrete chance di sopravvivere se partorito prematuramente.

La legge in questione non è mai entrata in vigore poiché una clinica del Mississippi, l’unica in tutto lo Stato che pratica l’interruzione di gravidanza, si è subito rivolta alla Corte federale d’appello. Quest’ultima, non avendo lo Stato fornito sufficienti prove scientifiche sulla teoria delle quindici settimane, aveva concluso bloccando la legge.

Lo Stato del Mississippi ha però successivamente impugnato la suddetta sentenza di fronte alla Corte Suprema, la quale, sorprendentemente, ha accettato, nel maggio 2021, di affrontarla: una decisione che ha fornito un primo campanello di allarme per tutti i sostenitori del diritto all’aborto negli Stati Uniti. Aldilà del caso in sè, infatti, se la Corte dovesse dare ragione allo stato del Mississippi verrebbe meno l’obbligo per tutti gli stati americani di garantire quegli standard stabiliti dalla sentenza Roe vs Wade, lasciando di fatto che ogni stato decida con le proprie leggi e secondo le proprie costituzioni se garantire o no il diritto in questione. Uno scenario in cui certamente gli stati più conservatori (secondo le stime quasi metà dei cinquanta facenti parte della confederazione) ne approfitterebbero per rendere tale pratica illegale.

Il contenuto della bozza

La bozza di novantotto pagine è stata scritta da Samuel A. Alito Jr, uno dei giudici della Corte Suprema nonché, tra i sei membri conservatori, uno dei più estremisti. Nel testo viene più volte ribadita la necessità di ribaltare il contenuto delle due sentenze di cui sopra (quelle del 1973 e del 1992) perché considerate un appiglio troppo debole per la garanzia di un diritto che, oltretutto, non è nemmeno riconosciuto all’interno dello stesso testo costituzionale. La costituzione federale infatti non fa in alcun caso riferimento alla pratica abortiva, cosa che renderebbe il diritto in questione una mera creazione giurisprudenziale e “non rientrante nella storia e nella tradizione americana” (non a caso fino al 1973 l’aborto era illegale e perseguibile penalmente).

Il giudice Samuel Alito Jr, fonte: Los Angeles Time

Le proteste dei movimenti per i diritti civili e le rassicurazioni di Biden

In seguito alla diffusione della bozza le reazioni non hanno tardato ad arrivare e già dopo poche ore centinaia di attivisti e membri di associazioni per i diritti civili si sono presentati di fronte alla Corte suprema per manifestare ed esprimere la loro preoccupazione. Lo stesso presidente Joe Biden, più volte schieratosi a sostegno del diritto delle donne di interrompere la gravidanza, si è espresso sulla questione cercando di placare gli animi e fornendo garanzie circa l’intangibilità del suddetto diritto. Il presidente ha ricordato che “si tratta unicamente di una bozza relativa ad una decisione che potrebbe comunque concludersi con un esito differente”. Ed anche in caso di esito negativo ha rassicurato i cittadini che la Casa Bianca sarebbe pronta a reagire qualora vi dovesse essere un reale rovesciamento delle sentenze (senza specificare come). Infine ha auspicato in futuro l’elezione di parlamentari che sostengano questo e altri diritti meritevoli di una tutela legislativa e non unicamente giudiziaria.

Filippo Giletto

Vittimizzazione secondaria: la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per non avere tutelato una vittima di stupro

L’Italia non ha rispettato la “dignità della ragazza vittima di violenza”. È quanto si legge nella sentenza  emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e datata 27 maggio. I fatti a cui quest’ultima si riferisce sono quelli relativi al cosiddetto “stupro di Fortezza da Basso”. Ma ad essere condannati non sono stati i ragazzi materialmente autori della violenza bensì le motivazioni adoperate dai giudici della Corte d’Appello di Firenze. Questi, si legge nella sentenza, hanno usato “linguaggi e argomenti ricchi di pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e che possono costituire un ostacolo alla tutela effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere”.

La vicenda di Fortezza da Basso

La sera del 26 luglio del 2008 a Firenze, in una macchina parcheggiata all’esterno della Fortezza da Basso viene consumata una violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza allora appena 22enne. La denuncia viene presentata quattro giorni dopo e coinvolge sette ragazzi di età compresa tra i 20 e i 25 anni. Successivamente agli accertamenti medici dovuti e le corrispettive indagini, gli imputati vengono arrestati. A questi toccano un mese di carcere e più di due mesi ai domiciliari. Il processo durerà poco meno di cinque anni e si concluderà, nel gennaio del 2013, con una sentenza di condanna per sei dei sette ragazzi.

 

I fatti come presentati nella sentenza di primo grado, fonte: ilpost

 

I sei ragazzi vengono dunque condannati in primo grado a quattro anni e sei mesi di reclusione per violenza sessuale di gruppo aggravata dal fatto che la vittima fosse in quel momento incapace di intendere e di volere poiché ubriaca. I difensori degli imputati, però, ricorrono in appello e qui la Corte d’Appello di Firenze, nel marzo del 2015, rovescia completamente la sentenza in primo grado: i sei vengono infatti assolti in formula piena poiché “il fatto non sussiste”. 

Le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Firenze

La sentenza non mancò di suscitare le proteste e l’indignazione da parte dell’opinione pubblica, specialmente ove si consideri che i termini per l’impugnazione scaddero senza che la Procura generale di Firenze ricorresse in Cassazione. La sentenza divenne quindi definitiva. A finire nell’occhio del ciclone furono le motivazioni addotte dai giudici fiorentini che vennero pubblicate dopo il 18 luglio dello stesso anno, dopo cioè la scadenza del termine di impugnazione. Dalle quattro pagine delle motivazioni si evince come i giudici avessero ritenuto dubbia la credibilità della ragazza. Dubbi derivanti dalle contraddizioni, nella ricostruzione dei fatti, provenienti dalla ragazza stessa ma soprattutto dallo stile di vita della stessa. La ragazza, si legge, non sarebbe stata in uno stato di inferiorità psichica essendo “un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso disinibito, creativo, in grado gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta”. Per quanto il fatto fosse “increscioso”, per i giudici la denuncia della ragazza è stato un tentativo, un modo, per cancellare quello che lei stessa reputava un “suo discutibile momento di debolezza e fragilità” testimoniato dal fatto che l’iniziativa di gruppo non fosse stata da lei “ostacolata”. Una motivazione che è stata definita dal difensore della ragazza come “pregna di giudizi morali” poiché focalizzata sullo stile di vita della ragazza definito a sua volta come “non lineare”. La giovane avrebbe infatti avuto più di un rapporto occasionale, oltre che un rapporto di convivenza e uno omossessuale. Comportamenti che avrebbe dato adito ai ragazzi di pensare che ella fosse consenziente.

Manifestanti in piazza a sostegno dei diritti delle donne, fonte: ilpost

Il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo

Esauriti i ricorsi interni, la ragazza, assistita dai suoi legali, ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. Ad essere imputati stavolta però non erano i ragazzi, innocenti per la giustizia italiana, ma i giudici stessi. E ad oggi, dopo 6 anni dalla sentenza della Corte d’Appello di Firenze, si arriva a una svolta quanto mai storica. La Corte Europea ha condannato l’Italia per non avere tutelato la donna dalla cosiddetta “vittimizzazione secondaria”. Cioè nell’aver trasferito parte, se non totalmente, la responsabilità della violenza subita, su chi ne è stata vittima. In particolare la sentenza della Corte d’Appello di Firenze ha violato l’articolo 8 della CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). L’articolo in questione tutela il diritto al rispetto della vita privata a familiare. Il linguaggio e le argomentazioni adoperate nella stessa sono infatti carichi di “pregiudizi sul ruolo delle donne esistenti nella società italiana”. In particolare sono stati definiti “deplorevoli” e “ingiustificati” i riferimenti alla bisessualità della donna, la sua vita sessuale e la definizione della stessa come “vita non lineare”. Inoltre, oltre ad avere violato l’articolo 8 della CEDU, la sentenza della Corte d’Appello di Firenze è in contrasto anche con l’articolo 54 della Convenzione di Istanbul ove si legge che in qualsiasi procedimento civile o penale vada sempre garantito il fatto che le prove relative agli antecedenti sessuali e alla condotta della vittima devono essere “ammissibili unicamente quando sono pertinenti e necessarie”.

L’Italia sarà dunque costretta a risarcire 12 mila euro alla ragazza per danni morali, oltre a 1.600 euro per le spese legali. Una magra consolazione che si spera però possa costituire un precedente da cui, da ora in avanti, i giudici italiani imparino a tenersi a debita distanza da qualsiasi valutazione frutto di luoghi comuni e bigottismo.

Filippo Giletto