The propaganda game: chi sono le vittime del gioco?

The propaganda game è un documentario del 2015 prodotto da Álvaro Longoria. Il tema, abbastanza scottante, è lo svolgimento della vita nella società nordocoreana; la sua economia, la sua gente e le sue istituzioni. Per comprendere però appieno il senso di questo approfondimento è necessario contestualizzare la nazione in questione: attualmente si tratta di uno stato totalitario socialista guidato dal leader Kim Jong-Un. Il paese si trova in continua tensione con l’occidente e in particolar modo con gli Stati Uniti e il motivo di questo difficile rapporto è dovuto al conflitto verificatosi tra il 1950 e il 1953, in piena Guerra fredda.

La Corea del Nord, comunista, aveva infatti provato ad invadere quella del Sud, alleato degli Stati Uniti. Questo giugno è però stato compiuto un grande passo in termini di relazioni internazionali. A dimostrarlo è infatti il summit, seguito da accordo, dei leader di entrambe le nazioni. Se confrontata con la realtà descritta nel documentario questa è un’importante svolta storica.

Nella pellicola viene dimostrato come la società nordcoreana costruisca se stessa in antitesi con quella americana-occidentale. Ma non si tratta solo di questo. Entrambi i “blocchi” giocano una strategica partita in cui la pedina migliore è costituita dall’immagine mediatica. Ed è nell’uso di questa che si scende in un altrettanto gioco d’astuzia e retorica.

Come viene delineato nel lavoro di Longoria, la Corea del Nord si presenta agli occhi del documentarista (e dell’occidente di conseguenza) in un determinato modo, con testimonianze e discorsi mirati ad affondare la strategia dell’altro. Dall’altro lato l’occidente e i suoi messaggi mediatici tendono a dipingere una società che conoscono poco (perchè chiusa ai rapporti con l’estero) secondo l’interpretazione che i “buoni” della storia si trovino da questa parte. Entrambe le fazioni si attaccano a vicenda su aspetti che potrebbero essere davvero negativi o sbagliati, ma senza aver verificato che le cose stiano realmente così. È evidente quindi che le fila di questa battaglia siano tirate da prospettive etnocentriste e nazionaliste. A guidarci nella scoperta di questa nazione sconosciuta troviamo l’unico straniero presente sul luogo: Alejandro Cao de Benós, spagnolo naturalizzato nordcoreano. Questi, insieme alle più disparate figure e personalità, risponderà a tutti i quesiti posti da Longoria argomentando e motivando ogni risposta al fine di proporre un’immagine diversa da quella che ogni giorno i nostri media ci danno. Ogni aspetto preso in considerazione è infatti analizzato fin nei minimi dettagli, seppur in ordine non lineare nel montaggio delle scene.

Il motivo per cui è facile considerare quest’opera come prondamente innovativa è per la sua totale imparzialità: la regia non esprime un’opinione personale e non suggerisce per chi dovremmo essere simpatizzanti, al contrario fa un’analisi oggettiva di tutti i meccanismi e gli interessi in gioco. Come prodotto mediatico fa proprio il contrario di ciò che normalmente i media fanno in situazioni del genere, anzi la sua natura denuncia implicitamente queste pratiche.

Il caso Corea del Nord-Usa è soltanto un esempio dell’ormai dilagante fenomeno della “post-verità”, atteggiamento in cui è considerata come parte più rilevante di una notizia quella che suscita emozioni, non i fatti oggettivi. Questo è solo un tassello della guerra postmoderna, caratterizzata da una frenetica caccia all’informazione e da attacchi mediatici; per quanto riguarda il caso qui analizzato potremmo dire che la guerra armata con gli Stati Uniti si è fermata al 38°parallelo della penisola coreana per continuare sulla via della nuova guerra mediatica.

Qual è dunque la soluzione per non diventare vittime di questo gioco?

Leggere la realtà con il coraggio di andare oltre le apparenze, anche se scomodo, è un buon inizio. Lo è anche informarsi consapevolmente, calandosi nei panni di entrambe le parti. Ma risolutiva è sicuramente la sempre attuale e mai banale massima socratica “conosci te stesso”, la quale ci insegna a prenderci cura di noi e a imparare “l’arte di non essere eccessivamente governati”.

                                                                                                                            Angela Cucinotta

A Girl At My Door: la vita nella Corea di periferia.

Lee Young-nam (Bae Doona), un’ ispettrice di polizia, è costretta a trasferirsi da Seoul alla stazione di Yeosu, qualificabile come un paesino tranquillo.

La donna, essendo “la nuova arrivata” mantiene un profilo basso, chiudendo un occhio su qualche infrazione, ma senza dimenticare compito che deve svolgere. Nonostante ciò alcuni abitanti di Yeosu sembrano avere una certa diffidenza e un atteggiamento di superficialità nei confronti di Lee, probabilmente non riconoscendola al pari delle normali autorità.
La sua figura, inoltre, è circondata da un alone di mistero, derivante non solo dalla mancata conoscenza della causa del suo trasferimento, ma anche per la sua abitudine a bere una volta tornata a casa dopo il turno.
Un giorno, dirigendosi alla stazione per svolgerne uno, Lee incrocia dei ragazzini intenti a bullizzare un loro compagno di classe. Fatto tornare l’ordine, scopriamo che in realtà quella ad essere stata picchiata è una ragazzina molto trasandata e questo particolare fa incuriosire l’ispettrice, che segue la bambina nel suo tragitto di ritorno verso casa.
In questo modo scopre che quest’ultima vive con il padre e la nonna, senza la madre che li ha abbandonati.
Questo non sarebbe un problema se non per il fatto che proprio questa sua “famiglia” la maltratta sia psicologicamente che con veri e propri abusi fisici. La situazione non è accettabile e Lee decide di denunciare il fatto alla polizia, ma qualcosa va storto.
Sembrerebbe che il padre della bambina, di nome Park Yong-ha (Song Sae-byeok), sia il maggior allevatore di ostriche del paese rivestendo un ruolo chiave nell’economia di Yeosu, per cui gli ufficiali decidono di parlare con Yong-ha in persona piuttosto che procedere per via legali poiché questo avrebbe compromesso la sua figura e attività.
Il tentativo di aiuto e l’interesse mostrato nei confronti di Sun Do-hee (Kim Sae-ron) – ovvero la bambina maltrattata – portano quest’ultima ad  avvicinarsi a Lee, nonostante l’ispettrice non ne sia molto felice.

A Girl At My Door è un film di totale produzione coreana e particolare per molti aspetti.
Tratta temi delicati, difficili da trattare e sicuramente importanti (non si entrerà nello specifico per evitare di rovinare l’esperienza a chiunque voglia vedere il film). Ma questa è solo una delle varie particolarità di cui si è detto prima, infatti le due protagoniste del dramma coreano, Bae Doona e Kim Sae-ron, decisero di recitare nonostante non vi fosse un budget che permettesse alla produzione di pagare la loro prestazione. In parole povere, hanno recitato in maniera assolutamente gratuita.
Con un budget di soli $300,000, la regista July Jung, ha proposto un problema forte ed evidente che spesso è presente nelle periferie coreane. Il film non risulta eccelso, comprensibilmente vista la misera disponibilità economica per girarlo, con diverse vicende discutibili e toni che a volte tendono ad essere un po’ troppo bassi e quasi noiosi. Tuttavia, A Girl At My Door è da apprezzare nelle sue piccolezze e sicuramente, visti i molti ostacoli di produzione, non da biasimare.

Giuseppe Maimone