La casa in collina: autoritratto di un’anima

Era il 1949 quando la nota casa editrice Einaudi pubblicò in unico volume dal nome Prima che il gallo canti, quelli che possono essere definiti i romanzi più intimi di Cesare Pavese: Il Carcere (risalente al periodo di esilio a Brancaleone Calabro) e La casa in collina che racconta della Resistenza, a cui lo stesso Pavese non parteciperà, rifugiandosi in campagna. La narrazione si presenta fortemente autobiografica, delineando come in autoritratto di Van Gogh, i costanti lineamenti della poetica pavesiana: la disarmonia tra l’intellettuale e la realtà, tra la città e il primitivo mondo delle Langhe, il ruolo della memoria individuale.

Si nasce e si muore da soli…

Il racconto vede protagonista Corrado, un docente che si ritira in collina per sfuggire ai bombardamenti che imperversavano nel periodo post armistizio del settembre ’43. Corrado predilige passare le sue giornate in solitudine e isolamento, accompagnato solo dal cane Belbo (omaggio alla città natale di Pavese). Si trova però sempre più spesso a frequentare un’osteria, le Fontane, che scopre essere gestita da Cate, un amore proveniente direttamente dal passato, con il figlio Dino che potrebbe essere suo.

“Con la guerra divenne legittimo chiudersi in sé, vivere alla giornata, non rimpiangere più le occasioni perdute.”

Corrado da una vita scansa le responsabilità, anche adesso, di fronte alla tragedia della guerra, vive con apparente indifferenza le vicende storiche che accadono intorno a lui. Il protagonista si presenta come l’inetto per eccellenza: non esterna mai le proprie idee, non si risolve mai all’azione, resta a guardare da spettatore la barbarie della guerra. L’apparente stasi della vita di Corrado viene sconvolta da una retata nazista che porterà all’arresto di Cate e degli amici, solo lui e Dino riusciranno a salvarsi insieme.  Dopo vari nascondigli, i due si separeranno, Dino si arruolerà nella resistenza partigiana, Corrado, insicuro e incapace di affrontare l’impegno di una scelta, deciderà di tornare al paese natale e alla sua “casa in collina”.

Non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo.

Il viaggio di ritorno con la vista degli orrori della guerra, farà da sfondo alla più intima e disillusa riflessione sul senso della guerra e dell’esistenza umana, una crisi esistenziale destinata a non avere fine.

La casa in collina di Cesare Pavese
Cesare Pavese mentre fuma la pipa. Fonte: ilmiolibro.kataweb.it

Vivere per caso non è vivere…

Nella casa in collina, ancora una volta Pavese ci parla del dissidio, del contrasto tra la solitudine contemplativa dell’intellettuale e le azioni che il momento storico e ideologico richiedono, e lo fa proprio attraverso Corrado (alter ego dello stesso Pavese) debole e irresoluto che non sa decidersi tra le tante antitesi poste nel romanzo:

Tra la città e la collina, Torino devastata dai bombardamenti mentre la collina risulta i locus amoenus dove Corrado può rivivere i ricordi dell’infanzia o l’amore passato con Cate, ma la storia nullifica questa opposizione.  Dopo l’8 settembre, con lo scoppio della guerra civile anche la campagna è attraversata dalla violenza e tutti sono chiamati a scelte drastiche e radicali. Significativa l’assenza di Corrado nel momento della retata e il suo successivo disimpegno, con la scelta di rimanere nascosto.

Chi si impegna e chi è vittima del dubbio e dell’incertezza, questa crisi riguarda sia la vita privata che quella pubblica di Corrado. Se egli non sa decidersi ad aderire alla lotta partigiana contro i repubblichini, sul piano personale subisce gli stessi tormenti. Questo contrasto reso ancora più evidente nel finale, quando il giovane Dino decide di abbandonare la sicurezza del collegio per entrare tra i partigiani, abbandonando Corrado nella sua incapacità di agire. Anche con Cate, il protagonista si pone innumerevoli domande per comprendere se il loro amore sia veramente finito, ma non fa nulla per riallacciare davvero il loro legame; dopo la retata, Corrado non saprà più nulla del destino della donna.

Quella tra l’uomo e la Storia, di cui la guerra è una metafora assai evidente ed esplicita. Qui la crisi interiore di Corrado si fa carico del pensiero dell’autore, rivelando una più ampia riflessione sul significato dell’esistenza umana, mettendo in relazione il valore della vita e il senso della morte, specie quella di natura violenta. Corrado non sa risolvere questo enigma, come notiamo nelle ultime righe del romanzo:

Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

Soltanto per loro la guerra è finita davvero…

 La conclusione si fa introspezione, il detto diventa esame di coscienza del protagonista (e dello stesso Pavese) che dà una visione intellettuale e letterata, osservando l’insensata sofferenza della guerra e senza trovare giustificazione alle tante morti. Corrado comprende il dolore della condizione umana e dall’altro lato si rammarica della propria impotenza e dell’impossibilità di fermare la sofferenza collettiva, realizzando il paradosso della riflessione. Ed è proprio in queste ultime pagine che il velo si squarcia e diventa impossibile distinguere Corrado da Pavese, dove gli incubi e le paure dello scrittore si fondono con il personaggio da lui creato.

 

Gaetano Aspa 

80 anni Bob Dylan: le canzoni più “pop” del premio Nobel

Cosa si dice in tanti casi? L’abito non fa il monaco e non è facile trovare una bella mente in un bel corpo e viceversa. Così i grandi amori totalizzanti, quelli che travolgono corpo e anima si riducono a eventi statisticamente rari, miracoli indicibili, fenomeni paranormali. «Guarda al contenuto, non alla forma» è quello che ci ripetono più volte i nostri genitori. «Non ti appigliare alle note, quello che conta sono le parole» ci ripetono invece gli estimatori di musica cantautoriale ritraendo spesso i grandi capolavori come inaccessibili mondi di nicchia e lagne inascoltabili.

Cosa si dice di Bob Dylan, il menestrello d’America, il “poeta laureato” dei nostri giorni, il premio Nobel per la letteratura, colui che ha portato la canzone ai livelli di un dramma shakespeariano? Di tutto si può dire, tranne che non abbia saputo coniugare profondità e leggerezza, grinta e raffinatezza, testi elevati e melodie estremamente orecchiabili.

Bob Dylan sulla cover del suo primo album. Author: Brett Jordan. Fonte: flickr.com, creativecommons.org

Forma e contenuto, musica e parole non fanno a botte nei versi eterni di Dylan, ma uno valorizza l’altra in un’armonia indescrivibile ma evidente soprattutto nelle sue prime canzoni, quelle dei mitici anni ’60. Anni in cui Dylan è stato il cantautore folk impegnato, l’idolo del mondo in protesta, ma anche una voce “pop” che risuonava nelle cuffie di un comune adolescente immerso nel relax o tra le corde di chitarra durante una festa in spiaggia. In occasione dei suoi ottant’anni, ecco a voi una manciata di canzoni che lo dimostra!

1) I want you  (1966)

Il becchino zingaro piange
The gypsy undertaker cries

Il solitario suonatore d’organo sospira
The lonesome organ grinder sighs

I sassofoni argentati dicono che dovrei rifiutarti
The silver saxophones say I should refuse you

Traccia più famosa dell’album Blonde on Blonde ( 1966) e rivisitata persino dai Nomadi in una versione italiana, I want you è un must per chi si vuole approcciare all’immensa discografia dylaniana.

Il concetto è chiaro: l’universo mi invia diecimila segnali contrari, il mondo canta una canzone ostile e mi dice di lasciar perdere, ma “io ti voglio di brutto e non sono nato per perderti”. Insomma quello che griderebbe ciascuno di noi a squarciagola sotto il balcone della propria “crush”, solo che Bob Dylan è un poeta e utilizza immagini dallo straordinario potere evocativo accompagnate da un celebre riff destinato a rimanere nella storia.

2) Just like a woman (1966)

Appartiene sempre a Blonde on Blonde, l’album della maturità, questo “classicone” della discografia dylaniana che tanto fece infuriare le femministe dell’epoca per il verso etichettante «fa l’amore proprio come una donna».

Che Bob Dylan non fosse uno stinco di santo con le donne è scritto e riscritto in mille biografie, ma in questa folk ballad dai toni amari, soprattutto nel malinconico verso «but when we meet again, introduced as friends», non ci vedo nulla di misogino o maschilista. Emerge solo una figura di donna, forse un po’ femme fatal, che sfugge e si confonde nei ricordi sbiaditi dell’artista. Chi fosse la musa ispiratrice non è ancora chiaro, certo è che nonostante le critiche Just like a woman rimane una delle più belle canzoni d’amore mai composte.

Fonte: internopoesia.com

3) Mr. Tambourine Man (1964)

Ehi, signor Tambourine Man, suona una canzone per me
Hey, Mr. Tambourine Man, play a song for me

Un Dylan ancora più folk e visionario quello di questo brano, uno dei più celebri e allo stesso tempo più enigmatici e chiacchierati del menestrello. Chi è Mr Tambourine a cui il cantautore chiede con una dolcissima preghiera di suonargli una canzone? Di «portarlo in viaggio sulla sua magica nave vorticosa», di «fargli dimenticare l’oggi fino a domani», di farlo evadere nel sogno da una realtà buia e dolorosa?

Leggenda vuole che il “mister tamburino” nominato anche dal compianto Battiato nella sua celebre Bandiera Bianca, non sia altro che un comune epiteto dello slang new yorkese per riferirsi allo spacciatore di droghe, il “venditore di sogni” in quartieri come il Greenwich Village. Ad ogni modo il sound acustico è così puro e delicato da poter diventare una ninna nanna per bambini.

4) Like a rolling stone (1965)

Prima in classifica nella celebre top 500 songs of all times della rivista Rolling Stone, il brano in questione è quello della svolta, la terra di confine tra il primo Dylan, erede di Woodie Guthrie, chitarra acustica, armonica a bocca, berretto e folk,  e il Dylan “elettrico”, aperto ad altre sonorità, pronto a confrontarsi con un altro genere che in quegli anni viveva una “golden age”: il rock.

In Like a Rolling Stone tutto questo è evidente, come anche il senso di libertà che il giro d’organo fa respirare, sensazione racchiusa tra l’altro nell’immagine della pietra che rotola libera. Un’altra grande di quel periodo, Janis Joplin, dirà: «la libertà è solo un’altra parola per indicare niente da perdere» e la stessa cosa anticipa Dylan in questi celebri versi

Quando non hai niente, non hai niente da perdere
When you ain’t got nothing, you got nothing to lose

Ora sei invisibile, non hai segreti da nascondere
You’re invisible now, you’ve got no secrets to conceal

5) Subterranean Homesick Blues ( 1965)

Dylan precursore di Eminem? E’ questo che ravvisano molti critici musicali in questo pezzo tratto da Bringing all back home, altro album della cosiddetta “trilogia elettrica”. Un cantato che è più parlato veloce, rime incalzanti e giochi di parole anticipano di qualche decennio lo stile hip hop. Le immagini evocate da Dylan si susseguono in maniera così rapida e concisa che l’ascoltatore fa fatica a stare dietro, ma riesce a cogliere sicuramente la vena provocatoria del brano.

Accenditi una candela
Light yourself a candle

Non indossare sandali
Don’t wear sandals

Cerca di evitare gli scandali
Try to avoid the scandals

5+1) Changing of the guards ( 1978)

Pezzo decisamente meno osannato e anche meno noto ai più, Changing of the guards non appartiene al Dylan degli esordi, ma è anch’esso un’esplosione d’energia condensata in un mix di classic rock e gospel in ben 6 minuti di canzone. In questo caso il testo non è di facile decifrazione (come tanti altri del nostro): scene trionfali si alternano ad altre più apocalittiche in quello che sembra un vero e proprio trip lisergico. L’ascolto tuttavia è easy: i fiati e il ritmo infondono voglia di vivere e il cantato di Dylan si alterna a quello delle coriste in un vero e proprio botta e risposta coinvolgente.

Author: Xavier Badosa. Fonte: flickr.com, creativecommons.org. 

In fatto di arte e cultura, spesso facciamo distinzioni troppo nette e affrettate tra ciò che è “mainstream” e ciò che è di qualità, tra ciò che è “pop” e ciò che è d’autore. I grandi come Dylan vanno oltre queste etichette e per questo rimarranno sempre “classici”.

Angelica Rocca