Lina Wertmüller: una donna dietro la cinepresa

«Povera tua moglie se sei minuti sono un’eternità» rispondeva nel film Bohemian Rapsody un provocatorio Freddie Mercury al suo discografico.  Nella pop culture, in cui regna il paradigma del “breve ma intenso”, dei tweet sotto i 280 caratteri, delle ig stories di 24 ore, sfornare hit che durino più di tre minuti o film dal titolo Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici, era ed è a maggior ragione adesso una scelta folle, audace.

E audace è la parola giusta per descrivere il cinema e la personalità di Lina Wertmüller, la più celebre regista italiana, scomparsa ieri all’età di 93 anni.

La regista con la sua stella nella Walk of Fame. Fonte: tuttalativu.it

In un’epoca in cui le donne stavano solo davanti alla cinepresa, dive stupende ma semplice oggetto dello sguardo maschile sul mondo, la Wertmüller divenne la prima italiana a stare dietro la cinepresa. “Dietro” senza nascondersi, ma anzi distinguendosi come solo i grandi del cinema sanno fare, imprimendo il proprio timbro di originalità e ribellione. 

Solo una regista della sua statura poteva passare dai musicarelli con una frizzante Rita Pavone a opere commoventi come Io speriamo che me la cavo (1992), passando per le commedie e il cinema d’impegno politico anni ’70.

Difficile percorrere la sua intensa carriera, premiata nel 2020 con un Oscar onorario, in un solo articolo. Ci basterà però parlarvi di tre film significativi, incrociando le dita nella speranza che, finito di leggere, correrete a guardarli!

3 must di Lina Wertmüller 

1) Tutto a posto niente in ordine (1974)

Scritto e diretto interamente dalla nostra regista, la pellicola narra la storia di gente meridionale costretta ad abbandonare la propria terra per cercare fortuna nel settentrione.

Il film è ambientato a Milano, città che “va veloce”: già dai primi fotogrammi notiamo come tutti corrono a lavoro e nessuno si ferma mai, nemmeno negli scontri accidentali.

I protagonisti sono Gino (Luigi Diberti) e Carletto (Nino Bignamini); appena mettono piede nel “futuro”, ai due succederà la qualunque, tanto che rimarranno meravigliati di come il Nord sia così diverso dal sud anche negli atteggiamenti dei suoi abitanti che corrono tutti così velocemente.

Operai che protestano in una scena del film. Fonte: Euro International Film

Lina porta in scena la classe operaia di Milano, costituita principalmente da meridionali, e lo sfruttamento del capitalismo nonché le proteste che fa nascere.

Tutto a posto e niente in ordine ci mostra come il più delle volte l’essere umano, anche se animato da buone intenzioni, sia costretto dalle circostanze della vita a sporcarsi le mani e di come l’ingenuità dei protagonisti, stanchi dell’umiliazione e delle etichette imposte dalla società, venga sfruttata dai più forti.

2) Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974)

Osannato e imitato senza successo anche all’estero, il film è una perla di cinema d’autore su cui si potrebbe scrivere un intero trattato.

 La trama sembrerebbe delle più trite e banali: la ricca polentona si innamora del povero terrone come nelle favole la principessa del ranocchio.  Ma Travolti da un insolito destino non ha niente della tenerezza zuccherosa della fiaba o degli stereotipi della commedia leggera: è una storia drammaticamente realista condita da comicità tagliente, sesso e passione travolgente (ecco perché il titolo sebbene chilometrico si addice alla perfezione!).

E’ originale in tutto, partendo dai dialoghi veloci intrisi di critica sociale, finendo alla caratterizzazione dei suoi protagonisti: Gennarino (Giancarlo Giannini), il “troglodita” ma intelligente marinaio siciliano e la signora Raffaella Pavoni Lanzetti (Mariangela Melato), la “pu***na industriale” dall’accento meneghino.

Giancarlo Giannini e Mariangela Melato in una scena del film. Fonte: Medusa Film

I due, finiti su un’isola deserta, si innamoreranno, rompendo le convenzioni della società classista, ma riproponendo – stavolta ribaltata – quella dialettica servo-padrone che vedeva il marinaio sottomesso. Gennarino qui diverrà “signore” e Raffaella sua “schiava per amore”. Sbaglia però chi vede in questo rapporto di sottomissione una scivolata maschilista della regista. La Wertmüller ha infatti sottolineato come il suo intento fosse mettere in scena un’analisi della contrapposizione Nord/Sud e borghesi/operai.

Un’analisi lucida ma anche molto divertente!


3) Pasqualino Settebellezze (1975) 

La pellicola candidata a quattro Premi Oscar nel 1977 ( regia, attore protagonista, film straniero e sceneggiatura originale) ha consacrato la cineasta romana rendendola la prima donna candidata agli Academy Awards come miglior regista e facendola entrare nella storia del cinema.

Il film è ambientato nella Napoli degli anni ’30, la città in cui l’arte scorre nelle vene dei suoi abitanti.

Il protagonista è Pasquale Frafuso (Giancarlo Giannini), da tutti conosciuto come Pasqualino “settebellezze” per essere l’unico maschio in una famiglia di sette donne. E’ un soldato che, dopo essere scappato da un treno diretto al fronte assieme al commilitone Francesco, cerca di sfuggire dalla morte, attraversando la Germania. La fuga viene interrotta dalle SS che deportano i due in un campo di concentramento.

Giancarlo Giannini in una scena del film. Fonte: Medusa Film

Qui ormai abbattuto, Pasqualino ripercorre la sua vita passata. Dai suoi ricordi, sbirciamo come sia stato condannato per varie cause. Tra queste l’aver ucciso, accecato dalla rabbia, l’uomo che aveva indotto la sorella a prostituirsi. Dopo quella vicenda Pasqualino verrà soprannominato “il mostro di Napoli”.

Il film dopo i ricordi ritorna al presente in cui Pasqualino, per salvarsi dalla prigionia del lager, userà l’astuzia andando contro i suoi stessi compagni e la morale.

Lina Wertmüller assieme a Giancarlo Giannini. Fonte: lasinistraquotidiana.it

Pasqualino settebellezze è un film sublime sulle ingiustizie e gli orrori che la popolazione ha dovuto affrontare a quell’epoca. La regista anche qui è geniale perché non sceglie un eroe come protagonista, ma un antieroe, un folle arrogante che vive con il credo dell’ insolenza e per cui nonostante tutto il pubblico prova pena.

Lina Wertmüller è riuscita con grande maestria a interrogare lo spettatore, ponendogli domande che solo il più attento però riesce a cogliere. E’ giusto che Pasqualino viva tutto ciò considerati i suoi gesti abominevoli? O lo perdoniamo perché la sopravvivenza spinge l’essere umano a compiere determinate nefandezze?

L’arte per gli ultimi

I film di Lina Wertmüller sono vere e proprie opere di denuncia sociale, che rappresentano la realtà con eleganza, a volte con ironia, altre con crudezza, puntando spesso il dito verso il patriarcato e le ingiustizie sociali.

Ci mancherà la regista dagli occhiali bianchi, che è riuscita in un mondo maschilista a lottare, usando l’intelletto e la cinepresa, la sua «arma politica preferita».

“Amare è essere impegnati, è lavorare, è avere interessi, è creare.”

 

   Alessia Orsa, Angelica Rocca

Martin Scorsese: il maestro dei maestri

Ogni forma d’arte, disciplina o sport presenta una o più figure di spicco che ormai nell’immaginario collettivo costituiscono dei veri e propri simboli.

Basti pensare a Michelangelo, Albert Einstein, Maradona: quando ci viene in mente uno di questi personaggi, ci si immedesima totalmente e con amore nel loro mondo grazie alle scoperte, ai capolavori e alle emozioni che ci hanno donato.

Tutto ciò accade anche quando viene pronunciato il nome di Martin Scorsese per quanto riguarda il cinema. Proprio per questo noi di UniVersoMe, in occasione del suo 79esimo compleanno, vogliamo rendergli omaggio andando ad analizzare tre dei suoi più grandi film.

Martin Scorsese – Fonte: cheatsheet.com

1) Taxi Driver (1976)

E’ la pellicola che segna l’ascesa del regista e di Robert De Niro. Come è noto, i due si conoscevano fin dai tempi dell’adolescenza essendo cresciuti per le strade di Little Italy a New York. Precedentemente avevano già lavorato insieme, ma è con Taxi Driver che entrambi sono riusciti ad esprimersi al massimo delle proprie potenzialità, grazie soprattutto alla fiducia reciproca. Potrebbe apparire come un concetto banale, quasi una frase fatta, ma la fiducia è in realtà il motivo principale in base al quale questo film è divenuto una pietra miliare della settima arte.

Facciamo degli esempi: l’iconica scena in cui il protagonista Travis (Robert De Niro) parla allo specchio, è stata improvvisata integralmente dall’attore stesso e ciò fu possibile in quanto Martin gli disse di recitare liberamente senza alcuna direttiva. Venne fuori la migliore interpretazione attoriale di De Niro dal 1985 a oggi.

Robert De Niro e Martin Scorsese sul set di Taxi Driver – Fonte: galerieprints.com

Nella scena in cui il tassista porta in macchina l’uomo gelosissimo della moglie, l’attore che avrebbe dovuto ricoprire il ruolo all’ultimo momento non riuscì a prendere parte alle riprese. Scorsese decise quindi di interpretarlo in prima persona basandosi solo ed esclusivamente su alcuni consigli di De Niro.

La fiducia che sta alla base di questo rapporto professionale ovviamente non è l’unico elemento distintivo di Taxi Driver: le innovative tecniche di ripresa introdotte dal regista, la celeberrima interpretazione di De Niro e l’impeccabile sceneggiatura la rendono una delle pellicole più belle della storia del cinema.

L’elemento clou di tutto il film si racchiude poi semplicemente nello sguardo finale del protagonista. (allarme spoiler!)

Dopo tutte le vicissitudini, i risvolti di trama e le lotti interiori di Travis, nella scena finale il tassista lancia una gelida occhiata che viene riflessa dallo specchietto retrovisore dell’auto.

Con quell’espressione De Niro non ci fa capire più nulla: non è chiaro infatti se Travis sia guarito o se dentro di sé nasconda ancora tutta quella violenza e che quindi sarà pronto nuovamente a compiere una carneficina (esattamente come in Shutter Island qualche anno più tardi).

2) Quei bravi ragazzi (1990)

Siamo davanti ad uno dei più grandi capolavori dei gangster-movies. Scorsese ha dato vita ad un’opera con la quale rappresenta gli aspetti più violenti della criminalità come se fossero momenti di vita quotidiana di un comune cittadino medio. Durante i vari crimini, infatti, è possibile notare come i protagonisti parlino del più e del meno, scherzino tra loro, cenino insieme alla propria madre mentre magari hanno un cadavere nascosto nel bagagliaio.

Vi sono diverse scene del film in cui il regista, con una serie magistrale di inquadrature e delle musiche ad hoc, riesce ad incantare lo spettatore facendolo immergere totalmente in ciò che sta accadendo nella pellicola (per esempio quando vengono presentati i bravi ragazzi).

Joe Pesci, Ray Liotta e Robert De Niro in una scena del film – Fonte: Warner Bros.

Scorsese esalta in maniera esponenziale anche i dettagli, un po’ alla Sergio Leone. Memorabile è a questo proposito la scena del taglio dell’aglio in carcere, che ormai è divenuta un tratto peculiare del film.

Il cast infine trasuda qualità da ogni poro grazie alle interpretazioni di Ray Liotta, Robert De Niro e Joe Pesci, quest’ultimo premiato con l’Oscar nel 1991 come migliore attore non protagonista.

3) The Wolf of Wall Street (2013)

Una delle pellicole hollywoodiane più spinte ed amate di sempre. La lussuria ed il capitalismo sono gli elementi portanti della trama.

Il regista tuttavia non si lascia intimorire dai temi che dovrà affrontare e parlerà per 3 ore di fila esclusivamente di droghe, sesso e soldi senza mai deviare il tiro, ma anzi decidendo di rincarare la dose.

Con un ritmo frenetico ed una serie di inquadrature alla Scorsese, è impossibile annoiarsi durante la visione.

Leonardo Di Caprio nei panni di Jordan Belfort – Fonte: 01 Distribution

L’interpretazione di Leonardo Di Caprio nei panni di Jordan Belfort è impeccabile: immedesimatosi completamente nel personaggio, l’attore dà vita in maniera elegante ad un uomo ossessionato dai soldi e dalle droghe, ma con un senso dell’umorismo molto forte che lo rende profondamente carismatico.  Insomma, un uomo che, anche se sostanzialmente truffatore, riesce a conquistarsi la simpatia del pubblico.

 

Fonte: nonsolofilm.it

Martin Scorsese è l’incarnazione del Cinema.

Non esistono aggettivi in grado di rendergli giustizia per definire quello che è riuscito a creare nel corso della sua carriera. Possiamo solamente dire: «Grazie Martin, a nome di tutti!»

Vincenzo Barbera

 

 

Freaks out: esci dal tendone

 

Un film in cui l’arte circense infrange il timore della diversità. Voto UVM: 5/5

 

“Per te è facile, eh?! Perché sei normale! Noi senza circo siamo solo na banda di mostri!”

Venghino Signori venghino!  E’ approdato da poco sul grande schermo un film in cui i pregiudizi sulle differenze vengono abbattuti e il nazifascismo è dipinto come una grande barzelletta, il tutto accompagnato dall’arte circense: un mondo in cui l’immaginazione diventa realtà e quest’ultima prende le forme della favola.

“Signore e signori, l’immaginazione diventa realtà e niente è come sembra”

In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, dove si è portato a casa l’ambito leoncino d’oro -assegnato dalla giuria dei giovani di Agiscuola-  Freaks Out è un film diverso rispetto a quelli che siamo abituati a vedere nel panorama del cinema Italiano. Un’opera in cui la fantasia e la magia prendono vita.

Dimenticatevi le classiche pellicole italiane perché Freaks Out è un film in cui colori e luci hanno una prospettiva diversa, sono più vivi; è un po’ come se i personaggi dei fratelli Grimm uscissero da un libro per camminare nella Roma della seconda guerra mondiale. Una “favola” bramata da tanti mesi, perché a causa del Covid, il film è stato posticipato di un anno.

I quattro freaks. Da sinistra a destra: Matilde (Aurora Giovinazzo), Mario (Giancarlo Martini), Fulvio (Claudio Santamaria), Cencio (Pietro Castellitto)

Storia suggestiva, in cui il termine “banale” non trova posto, Freaks Out segna il ritorno di Gabriele Mainetti, che già ci aveva incantato con “Lo chiamavano Jeeg Robot” (2016).

Molti critici hanno definito l’ultima pellicola del regista come uno dei suoi più grandi capolavori, un’opera da fare invidia al cinema hollywoodiano.

“A noi non ci separa nessuno, manco la guerra!”

Il film è ambientato nella Roma del ’43, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, in un tempo in cui il sorriso era scomparso. I protagonisti sono quattro circensi che lavorano nel circo dell’ebreo Israel ( Giorgio Tirabassi), un tendone diverso fra gli altri .

I protagonisti di Freaks Out sono dei fenomeni da baraccone, dei “mostri” per la società, adatti solo alla vita circense o forse troppo speciali per un mondo che si veste di pregiudizi e in cui la “normalità” viene vista come la vera “soluzione”.

I quattro freaks con Israel (Giorgio Tirabassi)

Matilde (Aurora Giovinazzo) è una ragazza di 15 anni  che produce elettricità ed è per lei una maledizione, perché chiunque la tocchi viene fulminato; Cencio (Pietro Castellitto) invece è un ragazzo albino capace di controllare tutti gli insetti, Fulvio (Claudio Santamaria), un “uomo bestia” affetto da ipertricosi, ma dotato di forza sovrumana e con un’intelligenza fuori dal comune. Per ultimo troviamo Mario (Giancarlo Martini), un nano con un lieve ritardo mentale, ma dal “corpo -calamita” , che riesce di sua spontanea volontà ad attrarre a sé tutti gli oggetti metallici. Dimenticavo di parlare di Israel, personaggio che non ha niente al di fuori dal comune, è “normale”, ma viene definito mostro in quanto ebreo.

Durante uno degli spettacoli dei freaks, le strade vengono bombardate, il circo distrutto e i cinque  sono costretti a scappare. Israel sogna di portare il suo circo in America, lontano dagli orrori che affliggano l’ Europa, ma Fulvio propone di andare a trovare lavoro presso il Berlin Zircus, un circo sontuoso, allestito dai nazisti e guidato da Franz (Franz Rogowski). Anche quest’ultimo è un “diverso”: è un pianista con sei dita, dotato di poteri di chiaroveggenza.

Freaks out: locandina promozionale

Mi fermo qui cari lettori, non voglio fare spoiler: dovrete correre al cinema per sapere cosa accadrà ai nostri freaks! Vi lascio però con una domanda o forse più di una … Cosa fa più paura? Il diverso? O degli ebrei picchiati e trasportati come bestie sui treni? Fanno più paura i freaks o l’omertà che non ha il coraggio di opporsi agli orrori umani?

                                                                                                     Alessia Orsa

Tutte le donne di Monica Vitti: i 90 anni di un’antidiva

Il 3 novembre del 1931 nasceva a Roma Monica Vitti, attrice sicuramente poco nota ai nati dopo del 2000, anche perché da quasi 20 anni si è ritirata dalle scene volontariamente a causa di una malattia degenerativa. In occasione del suo 90esimo compleanno vorremmo provare a farvela conoscere meglio o a sbloccare qualche ricordo ai più che molto probabilmente ricordano i suoi film.

Monica Vitti, dopo aver trascorso alcuni anni di vita nella nostra Messina perchè il padre era un agente di commercio estero, scopre la passione per il teatro che diventa quasi un diversivo per intrattenere i suoi fratellini durante la seconda guerra mondiale.

Dopo il diploma all’Accademia di Arte Drammatica nel 1953, le si apriranno le porte di una lunga carriera che durerà quasi quaranta anni. Vitti collaborerà con i più grandi registi dell’epoca: Scola, Monicelli, Risi, Antonioni, senza dimenticare il sodalizio artistico con Sordi.

Monica Vitti. Fonte: Blog ModApp

Le donne della Vitti sono molto diverse rispetto a quelle delle commedie all’italiana (filone che diverrà molto famoso in quel periodo), nonostante nelle pellicole interpretate i tradimenti, la gelosia, la sterile vita coniugale e i triangoli siano temi predominanti. Molto probabilmente per questo viene considerata da molti l’Antidiva.

Ma quante donne è in fondo Monica Vitti? Ne abbiamo scelte cinque che racchiudono la sua innata versatilità.

1) Complicata seduttrice

Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) – Ettore Scola (1970)

Dalla regia di Ettore Scola, Dramma della gelosia è uno di quei film che segna il passaggio dell’attrice dalla carriera drammatica a quella comica. Adelaide è una giovane fioraia romana un po’ sui generis che si ritroverà coinvolta in un menage a trois con i giovani Oreste Nardi (Marcello Mastroianni) e Nello Serafini (Giancarlo Giannini).

Sensuale quanto basta, mai volgare, la Vitti riesce a caratterizzare il personaggio di Adelaide caricandolo di isterismo,  vulnerabilità ma anche di ironica eleganza e notevole dignità.

Da sinistra a destra: Mastroianni, Vitti e Giannini in una scena del film. Fonte: Titanus

Con la sua voce roca e il “burino accento romanesco” renderá leggera la “disgrazia” di questa protagonista che prova a liberarsi del triangolo amoroso.

2) Moglie borghese

Io so che tu sai che io so – Alberto Sordi (1982)

Qui troviamo l’attrice romana nei panni di Livia sposata con il banchiere Fabio Bonetti (interpretato dal regista). Livia si ritrova imbrigliata in un rapporto di coppia monotono con il classico uomo medio italiano tutto lavoro e partite di calcio in TV.

Sordi e Vitti in una scena del film. Fonte: Scena Film

È lei che tra mille peripezie riesce a tenere in piedi la famiglia e a ricucire il rapporto con Fabio.

Livia è un personaggio che a tratti sembra essere in preda a crisi isteriche, una donna a cui la Vitti riesce a dare forza di volontà e anche velata comicità. Livia è tutte le mogli medio borghesi che sono salde come una roccia ma che a volte possono crollare.

3) Siciliana forte e sanguigna

La ragazza con la pistola – Mario Monicelli (1968)

Assunta Patanè (Monica Vitti) è una ragazza siciliana d’altri tempi, “onesta” e sempre vestita di nero. Rapita e poi lasciata dall’uomo di cui era segretamente innamorata, deciderà di vendicare l’onore ferito. Monicelli dà un risvolto inedito e più ridanciano alla classica vicenda della fanciulla “sedotta e abbandonata”, attorno a cui ruota l’omonimo cult di Germi del ’64 e ci riesce proprio perché cuce addosso alla Vitti un personaggio degno delle sue doti attoriali.

Sebbene Sedotta e abbandonata sia pellicola nettamente più raffinata de La ragazza con la pistola, c’è qualcosa che alla prima manca ed è proprio la notevole presenza scenica della Vitti (lei romana si calerà perfettamente nei panni della siciliana), superiore a quella dimostrata da Stefania Sandrelli nelle vesti della vittima inerme dietro le quinte di teatrini orchestrati dalla famglia per salvare l’onore.

A sinistra Stefania Sandrelli in “Sedotta e abbandonata”, a destra Monica Vitti ne “La ragazza con la pistola”. Da notare il look simile delle due protagoniste

Assunta, invece, anche se complice di una mentalità arretrata, è lei stessa a prendere la pistola in mano e tentare il riscatto. Certo erano già altri tempi e le lotte femministe stavano scrivendo un pezzo importante di pagine di storia. Ma avere nel cast una grande interprete come la Vitti sicuramente permise al regista di dare carne e ossa a un personaggio comico nella sua drammaticità meridionale, quanto determinato.

4)  Moderna e insicura

Amore mio aiutami – Alberto Sordi (1969)

Raffaella (Monica Vitti) è una donna sposata che si innamora di un altro uomo e indovinate un po’ a chi deciderà di confidare le proprie pene d’amore? Esattamente al marito (Alberto Sordi)!

Alberto Sordi e Monica Vitti nei panni di Giovanni e Raffaella. Fonte: Documento Film

Satira amara su un certo progressismo, Amore mio aiutami è un divertente teatro dell’assurdo in cui la coppia Sordi-Vitti dimostra per la prima volta sul grande schermo un feeling coinvolgente e fuori dal comune. Gli sfoghi di Raffaella si amalgamano alla perfezione con la finta compostezza piccolo-borghese del marito banchiere Sordi (qui un nostro articolo sull’attore romano). Vitti all’apice della sua bravura nel saper caricare di pathos ed emotività un personaggio come Raffaella, donna innovativa ma fragile.

5) Raffinata e misteriosa

La notte – Michelangelo Antonioni (1961)

Ultimo ma non meno importante, un film della Vitti meno conosciuta, quella più di nicchia, drammatica, musa del cinema dell’incomunicabilità del regista Antonioni.

A primo acchitto sembra marginale il ruolo ricoperto dalla Vitti in questa pellicola dalle tinte esistenzialiste. A dominare le scene è la storia di due coniugi in crisi: gli affascinanti (Lidia) Jeanne Moreau e Giovanni (Marcello Mastrianni), mentre Valentina (Monica Vitti) è soltanto di passaggio nella loro vita, un’affascinante sonosciuta che incontrano a una festa.

Eppure bastano poche inquadrature per cogliere il talento della Vitti nel calarsi in un personaggio fuori dalle righe, al di là degli steccati della classica seduttrice, una ragazza riflessiva e misteriosa che si rivelerà il punto di svolta necessario alla paralisi esistenziale dei protagonisti.

Da sinistra a destra: Jeanne Moreau, Marcello Mastroianni e Monica Vitti ne La notte di Michelangelo Antonioni. Fonte: Dino De Laurentiis

In un’intervista ad Enzo Biaggi, Monica Vitti si definì “femminista”. Il suo impegno politico non era manifestare nelle piazze o spendersi in grandi dimostrazioni, ma intepretare “donne che hanno fatto dei passetti” come amava lei stessa affermare.

Angelica e Ilenia Rocca

Tragedia sul set di ‘’Rust’’: Alec Baldwin spara ed uccide una donna. Nuovi dettagli sull’incidente

Giovedì 21 ottobre, Santa Fe, New Mexico: si consuma la tragedia sul set del film western ‘’Rust’’ – nel bel mezzo di prove con una pistola scenica – che ha visto coinvolto l’attore americano Alec Baldwin in un incidente fatale, costato la vita alla direttrice della fotografia del film e alcune ferite al regista.

Fonte: Sky TG24

Sono già passati diversi giorni dal tragico evento, ma dopo una prima ricostruzione della polizia locale – che suggerisce l’ipotesi di un mero incidente – nelle ultime ore, sono giunte nuove informazioni, che potrebbero dare un risvolto all’inchiesta. Dietro la tragedia si nasconderebbe, infatti, una catena di errori e tensioni, oltre al passato controverso di un membro della troupe.

Sospese le riprese del film (che sarebbero dovute terminare a novembre) almeno fino alla fine delle indagini.

Una prima ricostruzione della tragedia

Secondo le prime ricostruzioni, l’incidente è avvenuto verso le due del pomeriggio al Bonanza Creek Ranch, durante le riprese di alcune scene del film western “Rust”, di cui Baldwin è protagonista e co-produttore, insieme al regista Joel Souza.

Baldwin si stava esercitando prima di un ciak ad estrarre un’arma dalla fondina, quando, inaspettatamente, parte il colpo di un vero proiettile, mentre la pistola veniva puntata sulla telecamera. Nelle immediate vicinanze si trovavano la direttrice della fotografia 42enne Halyna Hutchins e Joel Souza, appena dietro di lei.

La direttrice della fotografia Halyna Hutchins e Joel Souza. Fonte: Ck12 Giornale

Il regista, rimasto ferito alla spalla dal colpo di pistola, è stato portato in ospedale e dimesso quella sera stessa. Tuttavia, non c’è stato niente da fare per Halyna Hutchins, ferita gravemente al petto e morta poco dopo in ospedale.

Souza ha raccontato di aver sentito “come il rumore di una frusta” e quindi “un forte colpo”, secondo quanto riportato da Reuters. Continua poi dicendo di ricordare la Hutchins cominciare alamentarsi di un dolore al petto e allo stomaco, oltre a dire di non sentire più le sue gambe.

Baldwin rammaricato e le dinamiche del colpo d’arma

“È stato un incidente, è stato un incidente”, alcune immagini del quotidiano locale mostrano un Baldwin sotto shock e in lacrime sul ciglio della strada all’uscita dell’ufficio dello sceriffo, poco dopo l’accaduto.
L’attore 68enne si era recato spontaneamente dalla polizia per rispondere a domande e fornire chiarimenti:

“Il mio cuore è spezzato – scrive l’attore sui social – Non ho parole per esprimere il mio shock e la mia tristezza per il tragico incidente che ha tolto la vita a Halyna Hutchins, moglie, madre e nostra collega profondamente ammirata”.

Alec Baldwin interrogato dopo la tragedia. Fonte: Tag43

Baldwin non era a conoscenza del fatto di stare utilizzando un’arma caricata con proiettili veri, nessuno è stato infatti accusato o arrestato fino a questo momento, anche se la polizia ha ritenuto necessarie indagini più approfondite sui fatti.

Baldwin avrebbe utilizzato un’arma che gli era stata consegnata dall’assistente alla regia David Halls, il quale aveva urlato ‘’cold gun’’ (letteralmente ‘’pistola fredda’’, termine molto utilizzato nel gergo cinematografico) per segnalare che la pistola potesse essere maneggiata in modo sicuro essendo scarica. Ma poco dopo l’incidente avrebbe rivelato tutto il contrario.

Accuse di negligenza contro l’aiuto regista

La società di produzione non si capacita di come un’arma che doveva essere caricata a salve (le cartucce a salve contengono polvere da sparo che produce una fiammata ma il proiettile vero è sostituito da cera o ovatta) abbia potuto uccidere.

Ci sono ancora diversi elementi da chiarire sull’incidente, come il tipo di proiettile contenuto nella pistola, chi l’avesse caricata e chi avesse le responsabilità di verificarne le condizioni. L’indagine è dunque ora concentrata sui proiettili partititi e, soprattutto, su chi avesse maneggiato l’arma prima dello sparo. Si devono inoltre verificare le responsabilità di David Halls, specie dopo quanto emerso da alcune testimonianze raccolte nei giorni scorsi sul suo passato cinematografico.

L’assistente alla regia, che ha, per ultimo, maneggiato la pistola prima dello sparo per mano di Baldwin sarebbe già stato due volte oggetto di reclami in passato, per via di gravi negligenze nel rispetto dei protocolli di sicurezza sull’uso di armi ed esplosivi. Lo racconta a CNN una pirotecnica e addetta agli oggetti di scena che nel 2019 aveva lavorato con lui in una serie di film horror, Into the Dark.

Altre ipotesi di responsabilità 

La responsabile armi, Hannah Gutierrez-Reed. Fonte: Corriere

Per molti la responsabilità risale direttamente alla società di produzione, accusata di assumere «persone non pienamente qualificate per un lavoro complicato e pericoloso» come quello del capo armaiolo «in una produzione che deve contenere molte scene di combattimento con armi da fuoco», ha scritto con rabbia Serge Svetnoy, riferendosi alla presunta inesperienza di Hannah Gutierrez-Reed, un’armaiola cinematografica di soli 24 anni. Era lei ad aver preparato la rivoltella e ad averla messa su un carrello con altre due armi.

Secondo una fonte citata dal sito ‘’The Wrap’’, la pistola era stata fra l’altro usata poche ore prima da alcuni membri della troupe con munizioni vere per fare “plinking“, termine utilizzato per indicare l’atto di sparare a lattine di birra o altri bersagli con pallottole vere.

16 ottobre, protocolli di sicurezza e proteste

Nelle ultime ore, è stato anche reso noto che sul set si era già verificato almeno un altro incidente con le armi, avvenuto il 16 ottobre scorso: la controfigura di Baldwin avrebbe sparato accidentalmente due colpi di pistola che gli avevano detto essere scarica, mentre che diversi membri della troupe, tra cui Hutchins, si trovavano all’interno di un edificio usato per le riprese. Questi avevano poi immediatamente presentato un reclamo al responsabile della sicurezza sul set, che però in quel momento non era presente.

Per questo e per via delle pessime condizioni di lavoro durante le riprese, diversi membri della troupe hanno deciso di licenziarsi poche ore prima della morte di Hutchins.

Il dramma di Santa Fe ha rilanciato un dibattito sulla sicurezza delle troupe e l’uso delle armi sui set tanto che una petizione sul sito change.org ha già raccolto più di 27.000 firme richiedendo il divieto delle armi da fuoco durante le riprese, al giorno d’oggi non più necessarie.

Fonte: Corriere

Gaia Cautela

Sam Raimi: una favola di regia

Nel corso della storia del cinema possiamo contare diversi esempi di uomini e donne capaci di imporre le proprie idee e farsi amare dal pubblico internazionale partendo da zero.

Compie oggi 62 anni Sam Raimi, regista che ha fatto la storia della settima arte imponendosi autonomamente in un settore estremamente ostico verso chi non possiede le conoscenza necessarie per poterci lavorare.

Noi di UniVersoMe vogliamo celebrarlo andando a ripercorrere le tappe più significative della sua carriera.

Le origini e la trilogia de La Casa

Alla base del successo del regista gioca un ruolo fondamentale l’amicizia con Bruce Campbell. I due si conoscono dai tempi della scuola e fin da adolescenti iniziano a girare dei cortometraggi con una cinepresa regalata a Sam dal padre.

Trascorrono gli anni e la passione per il cinema porta i due a fondare una propria società insieme a Robert Tapert (l’allora compagno di stanza d’università di Raimi): la Renaissance Pictures. Il primo film della nuova casa di produzione fu La Casa (1981).

La pellicola racconta di cinque ragazzi che si recano in uno chalet sito all’interno di un bosco per divertirsi. Qui vi trovano un libro scritto in sumero (il Necronomicon), mediante il quale involontariamente evocano un’entità maligna che li perseguiterà. Toccherà ad Ash Williams (Bruce Campbell) cercare di salvare se stesso e i suoi amici.

Una scena del film – Fonte: Renaissance Pictures

La Casa inizialmente venne accolto da pareri discordanti della critica e non ottenne particolare successo al botteghino. Nel corso degli anni però, grazie alla redistribuzione in home video, venne ampiamente rivalutato fino ad essere considerato uno dei cult movie a basso costo più amati della storia. A causa del budget bassissimo, Raimi dovette arrangiarsi parecchio durante le riprese: molti effetti speciali vennero creati con mezzi di fortuna sul set stesso.

Ciò che colpisce enormemente della regia è sicuramente l’utilizzo della telecamera nei momenti in cui l’entità si muove tra i boschi: il regista ha deciso di effettuare delle riprese in soggettiva del demone mentre insegue i ragazzi. Gli inseguimenti vengono mostrati dal punto di vista dell’entità grazie a una sorta di steadicam (creata dal regista stesso), montata su un supporto mobile che garantisce un movimento fluido e veloce della cinepresa. Il risultato è un effetto tremolante senza alcuna perdita di qualità dell’immagine.

Nel 1987 il regista gira una sorta di sequel/remake, intitolato La Casa 2, con Bruce Campbell nuovamente nei panni  di Ash Williams. Grazie alla distribuzione di Dino De Laurentis e ad un budget 10 volte superiore al film precedente, Raimi riesce a riproporre ciò che aveva già realizzato ne La Casa, innalzando esponenzialmente la qualità della pellicola.

Un elemento estremamente importante della pellicola è certamente l’aspetto del protagonista: Ash ad un certo punto del film è costretto ad amputarsi una mano e poi ad autoimpiantarsi una motosega per sostituirla. Con una mano-motosega da un lato ed un fucile dall’altro, diviene a tutti gli effetti un personaggio iconico nel panorama del genere horror. Un esempio di come Raimi riesca ad aggiungere particolari significativi alla trama che restano impressi in maniera indelebile nella mente dello spettatore.

Ash ed il suo amato braccio-motosega

Nel 1992 esce il seguito diretto de La Casa 2 intitolato L’armata delle tenebre, film visceralmente diverso dai precedenti.  Non ci troviamo più di fronte ad un horror con sprazzi di comicità, ma più propriamente davanti ad un fantasy che vede sempre Ash Williams catapultato nel medioevo dove dovrà fronteggiare le forze del male.

La trilogia di Spider-Man: rinascita del cinecomic

Dopo il successo della trilogia de La casa, arriva un’occasione più unica che rara per il regista: nel 2000 la Sony gli affida il compito di dirigere Spider-Man. Un momento significativo per la carriera di Raimi: se prima il regista aveva tutta la libertà del mondo per esprimere la sua creatività da cineasta senza particolari pressioni, ora si ritrova su un livello estremamente più elevato.

Impostando la pellicola come una sorta di commedia d’azione con spruzzi di romanticismo d’alta classe (il bacio tra Peter Parker e Mary Jane meriterebbe un intero articolo a parte!) e gag esilaranti, il regista gira un film che incassa 800 milioni di dollari.

Il famoso bacio tra Peter Parker (Tobey Maguire) e Mary Jane (Kirsten Dunst) – Fonte: Columbia Pictures/ Sony Pictures

Fino ad allora i film sui supereroi erano considerati B-movies e le grandi case di produzione – a parte rarissime eccezioni- non investivano in tali progetti. Spider-Man (2002) fu un salto nel buio per la Sony, che grazie a Raimi decise poi di girarne due seguiti dal medesimo stile (in Spider-Man 3 però non sono presenti gag degne di questo nome). Da lodare anche le brillanti interpretazioni di tutto il cast (presente anche l’amico Bruce Campbell in un cameo).

La trilogia di Spider Man trascina una mole gigantesca di persone in sala ad assistere a un film di supereroi, segnando la rinascita del cinecomic e l’inizio di un periodo d’oro per il genere che arriverà fino ai giorni nostri con le pellicole del Marvel Cinematic Universe.

Sam Raimi – Fonte: horrorstab.com

Raimi è un esempio lampante non solo di come si fa cinema, ma di come si possa creare qualcosa che abbia qualità in qualsiasi condizione. Senza soldi gira una pietra miliare del genere horror, con i soldi dà linfa vitale al genere cinematografico più redditizio di sempre. Chapeau Mr Raimi.

Vincenzo Barbera

 

 

La scuola cattolica: figli di una mala educazione

Un film che porta a riflettere sull’educazione di ieri e di oggi per fare in modo che la violenza non si ripeta – Voto UVM: 4/5

 

Presentato fuori concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia, quello tratto dal romanzo Premio Strega (2016) di Edoardo Albinati e diretto da Stefano Mordini, è un film che racchiude in sé dolcezza e atrocità.

La scuola cattolica racconta infatti uno dei fatti di cronaca nera più terribili del nostro paese: il delitto del Circeo.

La vera storia del massacro

Nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975, dopo torture morali, fisiche e sessuali, tre giovani appartenenti all’alta borghesia romana: Gianni Guido, Andrea Ghira e Angelo Izzo, uccidono la diciassettenne Rosaria Lopez, che insieme alla sua coetanea Donatella Colasanti, li aveva seguiti nella Villa al Circeo di Ghira, convinta di andare al mare. I tre caricano le due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, che parcheggiano sotto l’abitazione dello stesso Guido, per poi allontanarsi. È allora che Donatella, tramortita e ferita, con piccoli gemiti riesce a richiamare l’attenzione di un vigile notturno che la salva. Dei tre colpevoli saranno arrestati solo Guido e Izzo, mentre Ghira non sarà mai catturato.

Emanuele Di Stefano (Edoardo Albinati) in “La scuola cattolica”

Al cinema

Con una struttura complessa che si presenta quasi come un crescendo musicale, il film si dirama in più linee narrative: dall’educazione dei ragazzi ai quali vengono imposte finte punizioni, alla loro libertà incontrollata, da quelle istituzioni che si presentano come i capisaldi di una società purtroppo non più in grado di crescere quei giovani uomini, finendo per nascondere sotto il tappeto una montagna di polvere – o meglio micce pronte a prendere fuoco.

La genesi di tutto è da ricercare proprio all’interno di un liceo cattolico destinato ai figli dell’alta borghesia romana, che si presenta come il terreno ideale in cui far crescere il seme della violenza e della “mala educazione”.

Produttivamente e poeticamente sembrerebbe alludere all’ormai lontano Romanzo Criminale di Michele Placido (2005) con cui condivide gli eccessi e i difetti di un’alquanto instabile società e del suo progredire verso l’inevitabile inconsistenza di un futuro frammentato, caotico e privo di certezze. Anche se, a differenza della pellicola di Placido, Stefano Mordini, lascia ampio spazio ad atteggiamenti instabili, pericolosi ed estremi, il film non mostra quasi mai la violenza in scena ma la evoca, ad esempio, nelle suppliche sfinite di Donatella, interpretata magistralmente da Benedetta Porcaroli.

Benedetta Porcaroli (Donatella) e Federica Torchetti (Rosaria) in una scena del film.

L’opera di Mordini si chiude ricordandoci che Rosaria e Donatella furono massacrate prima fisicamente e poi moralmente da stampa e opinione pubblica, che addossarono loro la colpa per quanto accaduto. In pratica se l’erano andata a cercare, salendo su quella Fiat 12! Rispetto ad allora le cose sembra che non siano cambiate. Basterebbe entrare su qualsiasi social network, accendere la Tv o la radio per ascoltare frasi del tipo «se la sono andata a cercare», riferita a donne colpevoli semplicemente di aver messo una gonna troppo corta o aver risposto male a un uomo.

La censura

Il nostro bel paese come sempre non perde l’occasione di dimostrarsi incoerente e contraddittorio. Il film, realizzato col sostegno del Ministero della cultura (MiC), è stato poi censurato dalla Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche proprio dopo che lo scorso aprile, lo stesso Dario Franceschini, alla firma del decreto per l’istituzione della nuova commissione, aveva dichiarato abolita la censura cinematografica:

“Definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti.”

Il film è ad oggi vietato ai minori di 18 anni. La Commissione si è lamentata del fatto che le vittime e i carnefici vengono messi sullo stesso piano. Esplicito il riferimento alla scena di un professore che soffermandosi su un dipinto, mette sullo stesso livello la figura di Cristo e dei suoi flagellanti.

Al contrario, il messaggio che Mordini voleva trasmettere al pubblico, doveva essere inteso come uno strumento per capire la differenza tra le vittime e i loro carnefici, tra il giusto e lo sbagliato, per prendere atto del peso della responsabilità di chi sbaglia e non di chi subisce. È assurdo come venga vietato un film assolutamente necessario per gli adolescenti di oggi, donne e uomini di domani.

Ferrazza (Edoardo Carbonara), Edoardo Albinati (Emanuele Di Stefano), Carlo Arbus (Giulio Fochetti)

Da guardare: sì o no?

Senza ombra di dubbio, quella che il regista prova a raccontare, è una delle pagine criminali più allucinanti del nostro dopoguerra. Prova però a farlo in maniera intelligente, privilegiando una coralità narrativa, a discapito di un’analisi antropologica e sociologica del periodo storico. È infatti assente la vicinanza dei tre carnefici agli ambienti fascisti o il loro abuso di droghe.

Mordini, dunque, ci pone davanti un affresco del 1975 con scene prive di pathos e tensioni, ma pur sempre con una grande valenza sociale. Un film che tutti dovrebbero vedere, per fare in modo che la violenza non si ripeta.

Domenico Leonello

Matt Damon: il Mr. Ripley del cinema contemporaneo

Matt Damon, grande interprete del cinema contemporaneo, oggi compie ben 51 anni! Nei suoi tanti anni di carriera, ha dimostrato la sua grande versatilità nei ruoli, lavorando con i registi più acclamati e recitando in film di diversi generi.

Nato l’8 ottobre del 1970, Matt, insieme all’amico d’infanzia Ben Affleck, si appassiona subito al mondo del cinema e dello spettacolo;  dopo essere riuscito ad entrare nella prestigiosa università di Harvard, abbandona gli studi per dedicarsi alla sua carriera da attore. Da qui già con i primi ruoli – tra cui quello nel film Mystic Pizza – viene subito notato per il suo talento.

Ma ora andiamo a parlare di alcuni film con le sue perfomance più riuscite!

 Will  Hunting: genio ribelle(1997)

Matt Damon e Robin Williams nei panni di Will Hunting e Sean Maguire; fonte: sciencecue.it

Will  Hunting, uscito nelle sale nel 1997, si può considerare la pellicola con cui il duo Damon-Affleck ottiene il primo grande successo. Il film racconta la storia di Will Hunting, un ragazzo brillante cresciuto in un quartiere povero di Boston che inizia a lavorare al Massachusetts Institute of Technology (MIT), dove si occupa di pulire le aule. Un giorno ,vedendo un problema scritto su una lavagna, lo risolve e da allora verrà seguito dal Professor Lambeau e dallo psicologo Sean Maguire, interpretato da Robin Williams, che lo aiuterà a gestire la sua rabbia e i suoi sentimenti.

Matt Damon e Ben Affleck vengono premiati agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale e Robin Williams come miglior attore non protagonista; molte altre sono state le candidature sempre agli Academy Awards tra cui quella allo stesso Damon come miglior attore protagonista.

Il talento di Mr. Ripley (2000)

Matt Damon, Jude law e Gwyneth Paltrow ne “Il talento di Mr. Ripley”; fonte:appiapolis.it

Con Il talento di Mr Ripley, uscito nelle sale nel 1999, Damon dà nuovamente prova del suo talento, portando sul grande schermo un personaggio molto complesso e dotato di diverse sfaccettature; inoltre si confronta anche con un genere cinematografico molto diverso dal precedente Will Hunting: il thriller. Tom Ripley ( interpretato da Matt Damon), giovane affabile di umili origini, viene mandato da un ricco signore americano ad Ischia a convincere il figlio Dickie (un giovane ed affascinante Jude Law) a fare ritorno in America. Qui Ripley si presenta al giovane come suo vecchio collega all’università di Princeton; i due, insieme alla fidanzata di Dickie, Marge (Gwyneth  Paltrow), diventano un trio inseparabile e Tom inizia ad inspirarsi sempre di più a Dickie, emulandolo.

Il film ottenne ben 5 nomination agli Oscar, senza purtroppo vincerne neanche uno.

Trilogia Ocean’s (2001-2007)

Locandina del primo “Ocean’s”; fonte: amica.it

A questo punto ci è abbastanza chiaro: a questo grande attore piace cambiare e mettersi alla prova con ruoli sempre diversi; lo ritroviamo a fianco di altre grandi stelle del cinema, George Clooney, Brad Pitt e Julia Roberts, in Ocean’s eleven (2001),  Ocean’s twelve (2004)e Ocean’s Thirteen (2007).

I tre film raccontano le vicende di un gruppo di ladri professionisti che organizzano grandi rapine; Matt Damon interpreta Linus Caldwell, ragazzo figlio di ladri ancora un po’ inesperto.

The departed: il bene e il male (2006)

Jack Nicholson e Matt Damon in una scena del film; fonte: style.corriere.it

Quando avevo la tua età i preti ci dicevano che potevamo diventare o preti o criminali. Oggi quello che ti dico io è questo: quando hai davanti una pistola carica, qual  è la differenza?

Ultimo nella nostra analisi ma non meno importante, in The departed Damon si confronta nuovamente con un thriller, ma  molto diverso dai precedenti. Nel film, scritto e diretto da Martin Scorsese, l’attore interpreta Colin Sullivan, che fin da ragazzino inizia a far parte dell’organizzazione criminale guidata dal famigerato Frank Costello; Colin frequenta l’accademia di polizia e diventa una spia nel dipartimento di Boston. Contemporaneamente Billy Costigan (brillantemente interpretato da Leonardo di Caprio) viene mandato dallo stesso dipartimento sotto copertura a far parte del clan di Costello. Le vite dei due  giovani sono inevitabilmente destinate ad incrociarsi.

Oltre ad essere un film che trasporta molto lo spettatore per il continuo susseguirsi di colpi di scena, è anche caratterizzato da un cast eccezionale: oltre a Damon e Di Caprio, troviamo anche Jack Nicholson nel ruolo di Frank Costello e Mark Wahlberg nei panni di Dignam, uno dei due poliziotti che mantiene i contatti con Billy sotto copertura.

La pellicola vince ben 4 premi Oscar come miglior film, regia, sceneggiatura non originale e montaggio.

Per concludere…

Nei suoi ormai trent’anni di carriera, Matt Damon ha vissuto una grande crescita come attore per i vari personaggi che ha impersonato, e con essi ha sotto alcuni punti di vista scritto diverse pagine della storia del cinema contemporaneo. Nello stesso modo in cui è riuscito a passare da un ruolo all’altro in maniera camaleontica (un po’ come mr Ripley), così  ha anche collaborato con svariati grandi artisti del cinema, tra cui Francis Ford Coppola, Steven Spielberg e Christopher Nolan.

In poche parole, Matt Damon è una grande star del cinema americano e internazionale: non possiamo far altro che aspettare e vedere con quale altra performance ci stupirà nei prossimi film!

Ilaria Denaro

Dune: un’epopea fantascientifica

Dune, pellicola fantascientifica in grande stile, sugli schermi italiani dal 16 settembre, delude – in parte – le aspettative della comunità cinefila internazionale. Film visivamente bellissimo: effetti speciali molto curati e spettacolari, ma scarno l’approfondimento dei personaggi che animano lo storytelling.

Il regista canadese Villeneuve (autore di tredici lungometraggi), in un film di 2 ore e 36 minuti, preferisce infatti dare spazio alle immagini con riprese di paesaggi, inquadrature magniloquenti e riferimenti artistici.

Dune si ispira alla serie omonima di romanzi dello scrittore americano Frank Herbert: un pilastro della letteratura fantascientifica che ha visto un precedente tentativo sul grande schermo nel 1984 ad opera del regista Lynch.

La trama

Siamo nel 26.000 d.C, anno più anno meno: l’umanità ha ormai colonizzato l’universo conosciuto. I viaggi interstellari sono resi possibili grazie all’avanzamento tecnologico e al “melange“, una spezia (unica nel suo genere) che si trova sul pianeta desertico di Dune. La spezia è un potentissimo propellente ed ha effetti psicoattivi sugli umani.

L’universo di Dune è governato da un sistema semi-feudale, con a capo un imperatore, ma in realtà il potere è gestito dietro le quinte dall’organizzazione “Bene Gesserit”, un ordine monastico-iniziatico di sole donne. L’ordine politico sembra molto simile al Sacro Romano Impero o all’Impero Ottomano, con a capo un imperatore-sultano che teme di essere detronizzato e provoca guerre fra le casate.

I vassalli dell’imperatore governano interi pianeti o settori. Nel film conosciamo la saggia e potente casata degli Atreides, a cui l’imperatore decide di affidare il pianeta Arrakis. Appartiene all’antica casata di chiare origini greche il giovane protagonista Paul (Timothée Chalamet), figlio del duca Leto (Oscar Isaac).

Oscar Isaac nei panni del duca Leto. Fonte: Warner Bros.

Il controllo di questo pianeta deserto è stato revocato dal monarca alla casata antagonista degli Harkonnen, uomini dalla pelle chiarissima, una casata brutale e violenta differente dalla prima che fa capo al malvagio e sadico Barone Vladimir Harkonnen (Shellan Sharsgard).

Il duca Leto, più che alla spezia, è tuttavia interessato a stringere un’alleanza con i “fremen”, popolazione autoctona di Dune, famosa per le sue doti guerriere. I nuovi governanti dovranno comunque occuparsi della raccolta della spezia su un pianeta dal clima inospitale, abitato dai vermi del deserto: animali simili a giganteschi lombrichi lunghi 300 metri.

Soltanto dopo poche settimane dall’insediamento, il barone attaccherà la famiglia rivale per riprendere il controllo del pianeta e per motivi di pura rivalità. Da qui iniziano le peripezie del protagonista Paul che tenta di salvare la propria vita sul pianeta Dune.

Pregi e difetti

rappresenatazione del pianeta deserto di Arrakis con le sue due lune
Un’immagine del pianeta deserto di Arrakis. Fonte: Warner Bros.

Le bellissime e ammalianti immagini del deserto e delle battaglie cercano di sopperire alla sceneggiatura povera e alla mancanza di approfondimento di tutti i personaggi in una pellicola a metà strada tra l’azione e la fotografia politica. Il regista vuole raccontare la complessa struttura – non solo di un mondo – ma di un intero universo con un film che vuole essere preparatorio per i successivi.

La trama si scioglie molto, troppo lentamente: il film sarebbe potuto durare anche meno per affascinare e catturare di più l’attenzione dello spettatore.

Gli attori sono tutti eccezionali nell’interpretazione, la fotografia eccellente, artistica e Dune è comunque un film che merita di essere visto dagli appassionati del genere anche solo per gli effetti speciali, le musiche e le scene di battaglia . Non è un flop per quanto riguarda gli incassi, non è un flop dal punto di vista della la qualità, ma la speranza in un sequel con maggiore dinamismo e un approfondimento dei  personaggi renderebbe sicuramente un’eventuale saga più appassionante e intensa.

Fonte: comingsoon.it

Marco Prestipino

Qui rido io: l’esistenza come teatro


Martone dipinge magistralmente “miserie e nobiltà” di uno dei più grandi autori teatrali di sempre. Voto UVM: 4/5

 

Che la vita è un teatro è  massima proclamata dalle penne di poeti come William Shakespeare, dalle bocche di saggi di ogni tempo e luogo, ma anche verità sottintesa nei detti dei comuni mortali, incisa nel DNA di ciascuno di noi perché – come diceva Marlon Brando– ogni uomo in fondo è attore. Poi a seconda di gusti e inclinazioni personali, c’è chi intende l’esistenza come un’immane tragedia, chi come un dramma dell’assurdo senza capo né coda e altri ancora come una commedia o ancor meglio un’esilarante farsa in cui gli sforzi dell’attore sono ripagati dalla ricompensa più preziosa del suo pubblico: la risata.

Affamato dell’amore del pubblico e incapace di dividere farsa e vita vera era Eduardo Scarpetta, nome non nuovo per tanti cresciuti a pane, Miseria e nobiltà, nel mito di quel Felice Sciosciammocca con la pasta int’a sacca immortalato dal genio di Totò nella trasposizione cinematografica del ’54.  Affamato di vita e di teatro – come lo era la sua macchietta Sciosciammocca di pane – è soprattutto lo Scarpetta dipinto da Mario Martone in Qui rido io, film presentato alla 78esima Mostra di Venezia, con un magistrale Toni Servillo.

 Show must og on

Siamo agli inizi del Novecento, Eduardo Scarpetta (Toni Servillo) è l’attore e commediografo più famoso di Napoli, una personalità imponente e arrogante, un vero e proprio divo ante litteram acclamato dal pubblico e chiacchierato da tutti, prima ancora dell’avvento di Hollywood e Cinecittà.   Ma Scarpetta è prima di tutto padre, un padre sui generis: padre affezionato di Sciosciammocca, macchietta comica che soppianta a fine Ottocento la maschera di Pulcinella, padre prolifico di celebri commedie (Miseria e nobiltà, O miedeco d’e pazze, Nu turco napulitano, Na Santarella) così come di una famiglia difficile e ingarbugliata stile tribù da patriarca biblico, un’intera dinastia di talenti che incarneranno la teatralità napoletana.

Eduardo Scarpetta, discendente reale del noto Scarpetta, impersona Vincenzo, figlio legittimo del commediografo. Accanto Alessandro Manna nei panni di un piccolo Eduardo De Filippo. Fonte. amica.it

Tra tutti i De Filippo (Titina, Eduardo, Peppino), concepiti con Luisa, nipote della moglie, che non ereditano il cognome, ma sicuramente l’amore per il teatro, trasmesso quasi come un mestiere artigianale di padre in figlio, come quel Peppiniello che tutti i piccoli della famiglia – figli illegittimi compresi – a turno impersoneranno in una sorta di rito di iniziazione sancito da quel «Vincenzo m’è patre a me!». Proprio in quella battuta è condensato l’intreccio tra vita e teatro che è il focus dell’opera di Martone; nelle luci calde della fotografia di Renato Berta i due palchi – quello dell’esistenza e della commedia- si confondono : quello del povero scrivano Sciosciammocca che si finge Principe di Casador e quello del padre padrone Scarpetta che si fa chiamare zio dai piccoli De Filippo; le quinte dietro cui si nasconde all’incipit lo sguardo attento del piccolo Edoardo e la sua condizione di figlio nascosto del genio.

Toni Servillo e il bravissimo Alessandro Manna in una delle scene più toccanti del film. Fonte: madmass.it

Inizia nel teatro, nel mezzo di quella Miseria e nobiltà che è l’apoteosi di Scarpetta- e finisce sempre nel teatro inconsueto del tribunale, Qui rido io: il perno è quel palco da cui Eduardo Scarpetta non vuole proprio saperne di scendere, di rinunciare a ridere e a far ridere.

Martone scosta il sipario e inquadra solo un piccolo scorcio della vita del commediografo: il periodo difficile del contenzioso con D’Annunzio per aver parodiato il dramma La figlia di Iorio, l’avvento dei cabaret e del cinematografo che sembrano soppiantare la commedia napoletana. Certo si poteva raccontare molto di più per arricchire la trama: nella biografia di Scarpetta e della sua tribù si poteva persino pescare a piene mani per un’avvincente saga familiare (e magari qualcuno lo farà in futuro). Non era questo tuttavia l’intento di regista e sceneggiatori che hanno preferito puntare i riflettori sul teatro che è vita e sulla vita che è teatro, sul rapporto più palpabile e difficile attore teatrale/pubblico, così come padre/figlio, sullo spettacolo che continua mai uguale a sé stesso e va avanti nonostante tutto, nonostante “u scuornu” che una famiglia di teatranti come quella di Scarpetta non sa cos’è.

Felice Sciosciammocca diletta il suo pubblico. Fonte: labiennale.org

Giullare nato

«Volevo essere il re delle feste» afferma un Servillo da dolce vita ne La grande bellezza. Edonista nato, ma decisamente meno malinconico è anche l’Eduardo Scarpetta di Qui rido io, incapace di prendere sul serio persino un processo, farsesco e arrogante, prepotente persino coi suoi figli , non meno diverso per certi aspetti dal Berlusconi mondano di Loro. Insomma Servillo si rivela ancora una volta adatto a vestire i panni di personalità eccentriche e discutibili, ma c’è qualcosa in questo Scarpetta che ce lo fa amare – nonostante tutto- più degli altri personaggi ed è quella napoletanità che ha nel sangue e in questo film può far sprizzare da tutti i pori. Mentre parla con una cadenza partenopea pronunciata, mentre gesticola anche fuori dal palco, Servillo si sente a casa e si vede!

Scarpetta e Servillo a confronto. Fonte: notizie.it

Un film per tutti?

Bisogna essere amanti di Napoli, del suo teatro, dei suoi colori e della sua storia, della sua musica che suona anche nel dialetto, per apprezzare davvero il film di Martone. Bisogna conoscere una grande commedia come Miseria e nobiltà, i De Filippo e la loro storia paradossale: loro non riconoscuti dal padre – a differenza di quanto avviene nella finzione per il piccolo Peppiniello – diverranno per assurdo i figli più famosi del grande Scarpetta, segnando profondamente teatro e cinema del XX secolo.

Bisogna collegare tutti questi fili della matassa per sentire i brividi sulla pelle quando il piccolo Eduardo indicando il palco a un indisciplinato Peppino dice: «a libertà nostra sta là!». E forse tanti giovani purtroppo non conoscono questi personaggi, la loro storia, sono digiuni di teatro. O forse non serve: magari guardando il film, possono avvicinarsi a questo mondo perchè – ad ogni modo – anche i giovani sanno cos’è la vita e il teatro, in fondo, è la stessa cosa.

Angelica Rocca