A Pasolini, il regista delle borgate

Poeta, scrittore, regista e giornalista, Pasolini è una tra le personalità più rappresentative del Novecento italiano. Proprio quest’anno si è festeggiato il centenario dalla nascita dell’autore di Ragazzi di vita che ci ha lasciato in eredità una corposa produzione, che tutt’ora continua a dividere la critica: o lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo.

L’amore per le borgate e l’odio per la globalizzazione

Pier Paolo Pasolini è riuscito a portare la cultura nella periferia. Questa viene vista non solo in senso topografico ma come chiave d’accesso a tutto il suo percorso artistico e intellettuale.
Partito nel 1942 con la pubblicazione di Poesie a Casarsa, sua prima raccolta poetica in dialetto friulano, l’autore si avvicina poi al magmatico universo delle borgate romane che faranno da palcoscenico a gran parte delle sue pubblicazioni. Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana porrà la sua attenzione a quelle mutazioni antropologiche con cui le stesse periferie dovranno fare i conti.

Pasolini si scaglia principalmente contro quel consumismo capitalistico che non ha fatto altro che appiattire la popolazione italiana. In numerosi articoli rimpiange con amara nostalgia la felicità che un tempo caratterizzava i ragazzi di borgata, impegnati oramai a rincorrere un “sogno frustrato” che non riusciranno mai a raggiungere, in quanto limitati dalla non privilegiata condizione economica della loro stessa classe sociale d’appartenenza.

Proprio di fronte ad una periferia ormai contaminata dalla globalizzazione, Pasolini decide di abbandonare il suo disegno dei “romanzi di borgata”, progetto inaugurato nel 1955 con la pubblicazione del suo primo romanzo: Ragazzi di vita.

L’intenzione principale dell’autore era proprio quella di farsi da portavoce della realtà delle periferie. E questo non soltanto tramite un mero lavoro di documentazione, – come lui stesso ha più volte affermato, – ma provando a farsi largo nei pensieri e nella sfera emotiva della gente di borgata. È d’altronde risaputo che lo scrittore amasse passare del tempo con loro, per ammirare da vicino quella genuinità e quell’innocenza di cui era privo il resto della società. Pasolini è sempre stato dalla parte degli ultimi, degli emarginati. Ma emarginati da chi? Da una società ormai pronta ad andare in frantumi?

Una vita violenta e il dialetto come “arma” per la rivoluzione

L’autore trasporta questa realtà all’interno della sua produzione artistica. E Una vita violenta (1959), secondo romanzo pubblicato da Garzanti, ne è la prova. In quest’opera, l’autore ci racconta la storia di redenzione di Tommaso Puzzilli, ragazzo di borgata, in cerca di un riscatto sociale. Il protagonista del romanzo, pagherà col carcere l’aggressione ad un giovane, ma ad uscire di galera sarà un “nuovo” Tommaso. Ammalatosi di tubercolosi, sarà poi costretto ad un periodo di ricovero ma una volta ristabilitosi cercherà un lavoro e si iscriverà al PCI. Il salvataggio di una donna, durante un’inondazione, gli farà raggiungere il riscatto sociale da lui tanto agognato che pagherà col prezzo della sua stessa vita.

E se in Una vita violenta il protagonista si troverà davanti ad una morte fisica, riuscendo quantomeno a salvare la sua bontà d’animo; nella coralità di Ragazzi di vita, i protagonisti pasoliniani conosceranno sia la morte fisica che quella spirituale.

Pasolini, nel corso di tutta la sua produzione, si dimostrerà un eretico anche in campo linguistico, prediligendo il dialetto- visto come la giusta “arma” per combattere quel consumismo capitalistico – a discapito dell’italiano, “la lingua dell’italiano medio”, imposta dalla scuola e dai mass media.

“Ho voluto adoperare una tecnica diversa spinto dalla mia ossessione espressiva. Ho voluto cambiare lingua abbandonando la lingua italiana, l’italiano; una forma di protesta contro le lingue e contro la società.” Pier Paolo Pasolini

Pasolini (2014)

Giornalista: Prova nostalgia per l’epoca in cui la gente la insultava per strada?
Pasolini: Mi insultano ancora

Nel 2014 sui grandi schermi del cinema sono stati messi in scena gli ultimi momenti della vita dello scrittore scomodo. Il film è diretto dal regista statunitense Abel Ferrara e ad impersonare P.P.P. è il magnifico e talentuoso Willem Dafoe. Straordinario come in ogni sua esibizione, è riuscito ad interpretare l’autore in maniera impeccabile. 

Willem Dafoe (Pasolini) in una scena del film. Fonte: amazon.it

Tra Pasolini e Dafoe si  va a creare un dualismo tra il tragico e la verità: sullo sfondo gli ultimi mesi di vita dell’intellettuale. Durante la visione del film vedremo un uomo e le sue ultime volte: il suo ultimo romanzo mai terminato, Petrolio, e il lavoro dietro ad esso, i suoi ultimi amori, colloqui, interviste, e l’adorazione verso i “dimenticati”. Attorno al personaggio si delineano gli scandali sulla sua omosessualità, che non tenne mai nascosta. Una delle scene più forti e brutte del film è sicuramente quella in cui Pasolini e Giuseppe Pelosi (uno dei suoi amanti) si trovano nella spiaggia di Ostia. Proprio su quella sabbia si consumò un terribile delitto che ancora oggi è avvolto nel mistero e a cui il nostro presente cerca di dare una risposta.

La morte dietro il mistero

Quarantasette anni fa Pasolini fu strappato alla vita probabilmente per la sua penna controcorrente, ma la sua morte fu archiviata come un caso di omofobia. Il suo delitto ancora cerca una risposta: si pensa che dietro ci possa essere lo Stato, forse perché riteneva la sua opera troppo progressista, ma soprattutto perché Pasolini era un uomo che riusciva a vedere cosa fosse realmente la politica italiana. L’operato dello scrittore era dedicato agli ultimi: fu uno dei primi a rendere “persone vere” i calabresi, considerati dei reietti, e a descrivere la loro terra come “la regione più povera”, mai presa seriamente da coloro che stavano “ai piani alti”.

La morte di Pasolini ha dunque due verità, ma qual è quella vera? Pasolini all’età di cinquantatré anni fu assassinato tra la notte del 1 e 2 Novembre del 1975. Venne picchiato a suon di pugni e il suo corpo venne travolto dalla sua stessa auto. La salma fu ritrovata da una donna alle 06:30 di mattina. Fu riconosciuto come colpevole Pelosi, il “pischello” di diciassette anni, già noto alle autorità come ladro di auto, che confessò di essere stato invitato da Pasolini a salire sulla vettura con lui. Pelosi disse che lo scrittore lo costrinse con la forza a consumare un rapporto sessuale, ma egli non volle, e preso dalla rabbia lo uccise. Sorge però una domanda: perché salire in auto di uno sconosciuto e dirigersi  in un posto appartato?

La scrittura forte ha fatto di Pasolini “lo scrittore scomodo”, ma il suo lavoro non verrà mai dimenticato. Il suo essere diverso lo ha consacrato come uno degli intellettuali più profondi e complicati mai esistiti.

 

Alessia Orsa
Domenico Leonello

Combattere come una femminuccia? Si, grazie

Prima di essere le buone o le cattive della storia, prima di essere “quelle” con il mantello, i tacchi alti, il viso angelico e il destro da paura, sono le femmine affascinanti, coraggiose, intelligenti e determinate che abbiamo – fortunatamente – imparato a conoscere e stimare attraverso fumetti, film e serie tv per le loro storie e le loro gesta da supereroine o, meglio, da super-donne.

Super-donne
Panchina rossa. Fonte: freepik.com

 

In occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, se nei luoghi pubblici è ormai diventata una consuetudine vedere adagiate file di scarpe rosse; nelle programmazioni tv o nelle vetrine delle librerie non è raro imbattersi in film, serie tv e fumetti di denuncia, nella speranza forse che chi è vittima assuma maggiore consapevolezza del suo “ruolo” e, soprattutto, della sua via d’uscita.

A questo proposito non possiamo evitare di nominare 5 supereroine che dall’essere donne vittime si sono trasformate – spesso, letteralmente – per salvare chi ne ha bisogno e, chissà, magari sono state d’aiuto anche a chi le ha conosciute solo attraverso lo schermo di una tv o la pagina di un libro.

  1. Wonder Woman

Figlia della regina Ippolita, Diana cresce nell’Isola Paradiso abitata da sole donne: le amazzoni che, dopo essere state violentate e uccise dall’esercito di Ercole, sono riportate in vita dagli dei dell’Olimpo. Spinta dal desiderio di portare la pace nel mondo degli uomini e dalla curiosità di scoprire cosa si celi oltre quelle “mura”, Diana Prince abbandona la sua terra d’origine e, catapultata in un mondo fortemente maschilista, diventa il simbolo dell’emancipazione delle donne.

  1. Jessica Jones

Dopo aver perso i suoi genitori in un incidente stradale, Jessica viene rapita dall’Uomo Porpora che ne violenta il corpo e la psiche (ma non l’anima da guerriera) fino a ridurla in sua schiava. Riuscita a spezzare il legame malato e tormentato con il suo rapitore, apre l’agenzia Alias Investigations per occuparsi, grazie al suo intuito e ai poteri da lei acquisiti durante l’incidente stradale, sia di casi “ordinari” sia di quelli da supereroi.

  1. Catwoman

Selina Kyle è l’inafferrabile femme fatale a cui nessun uomo può sfuggire, nemmeno Batman. Dopo aver deciso di abbandonare il “mestiere più antico del mondo”, comincia a dedicarsi ai furti. Rubando ai ricchi e ai potenti di Gotham City, riesce a conquistare il rispetto e la libertà che aveva tanto desiderato sin da giovanissima. Senza parlare dell’ammirazione e, forse, del cuore del tenebroso Pipistrello che, in più di un’occasione, la lascia fuggire col bottino.

Super-donne
Catwoman nei fumetti. Fonte: pixabay.com
  1. Harley Queen

Brillante membro dello staff del manicomio di Gotham City, finisce per innamorarsi del folle criminale Joker che la manipola, convincendola a farlo scappare. Pur essendosi resa conto di essere stata letteralmente sedotta e abbandonata, non riesce a rinunciare all’uomo che ama, e con lui instaura un rapporto fatto di continue riappacificazioni e separazioni. Comincia comunque a collaborare con i “buoni” (più o meno) della Suicide Squad, per combattere le minacce sovrannaturali.

  1. Elektra

Rimasta orfana di madre ancora prima di nascere, Elektra cresce nutrendo il terribile dubbio di essere stata stuprata dal padre alla tenera età di 5 anni. Per dominare l’odio e il desiderio di vendetta che cresce giorno dopo giorno dentro di lei, si appassiona alle arti marziali e conosce l’amore vero con “Matt” Murdock, alias Daredevil.

Super-donna non si nasce, lo si diventa!

E se è vero che il 25 novembre sembra sia diventato, anno dopo anno, una mera dichiarazione di principio, non accompagnata da un reale impegno (o, quanto meno, interesse) e che il compito di salvare le vite di donne e bambine non spetta ai registi, agli sceneggiatori e agli scrittori ma, piuttosto, alle istituzioni pubbliche e alle forze dell’ordine, è vero anche che una pellicola o un libro possano far capire a una donna che ha il diritto di non sentirsi a disagio, sbagliata e “sporca” e che ha il potere di dire “no” e “basta”, per sé e forse per tutte noi, alla violenza.

Super-donne
Donne: le nostre Supereroine. Fonte: freepik.com

 

Queste, come tante altre, sono le storie di donne che, dopo essere cadute (per mano del proprio carnefice e, spesso, della società) nell’abisso della paura e della vergogna, sono rinate… scalciando, graffiando, mordendo, piangendo e, soprattutto, urlando per quel dolore cui nessuna dovrebbe mai essere sottoposta e per quella vita cui nessuna dovrebbe mai essere privata.

 

Angelica Terranova

Dante: un road movie diretto da Pupi Avati

Favola, umanità e redenzione. Il tutto condito dallo stile classico e raffinato del cinema italiano – Voto UVM: 5/5

 

Il nome di Pupi Avati riporta alla mente dei cinefili più navigati i titoli di “Regalo di Natale” (1986) e di “La casa delle finestre che ridono” (1976) che tra le innumerevoli splendide opere del regista (la bellezza di 53 titoli nella sua carriera) spiccarono nel cinema italiano il primo per lo stile narrativo di storie di attualità e dramma, il secondo per il personale gusto orrorifico.

Ma… quale direzione avrà voluto intraprendere Avati per raccontare la vita di una figura tanto imponente come quella del poeta Dante Alighieri? Partiamo dalla trama.

Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Il viaggio di Boccaccio

Alla sceneggiatura troviamo lo stesso Avati, il quale adotta una formula alquanto interessante e semplice: la storia segue il viaggio di Giovanni Boccaccio (interpretato da Sergio Castellitto) verso Ravenna, dove morì l’esiliato Dante Alighieri (il giovane Dante è interpretato da Alessandro Sperduti, mentre quello anziano da Giulio Pizzirani). Dopo ogni tappa o ricordo di Boccaccio giungeranno flashback sulla vita del Sommo Poeta grazie ai quali avremo modo di conoscere le sue sventure, gli incubi e i sogni ad occhi aperti.

L’incarico di Boccaccio è quello di consegnare 10 fiorini alla figlia di Dante, Beatrice (Valeria d’Obici), per risarcire simbolicamente la famiglia Alighieri per l’esilio al quale il poeta fu costretto – come la sua biografia ci insegna.

Inoltre, lo stesso racconto è stato pubblicato nel libro “L‘alta fantasia – Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante” scritto dal regista stesso.

Beatrice (Valeria d’Obici) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Alla scoperta del “Prescelto”

Tra una tappa e l’altra, Boccaccio mostra costantemente un’immensa devozione per il Maestro che avrebbe sempre voluto incontrare di persona. Durante il suo viaggio viene a scoprire vari dettagli sulla sua vita. Grazie gli incontri che farà, verrà a conoscenza della sofferenza che subì Alighieri a causa dell’esilio e della sua ossessione per la sua opera più grande, quella che gli avrebbe permesso di riscattarsi, ottenere il titolo di poeta laureato e tornare alla sua amata Firenze.

Per non scadere in una semplice biografia celebrativa, Avati ha deciso di raccontare di un Dante Alighieri umano, quindi con i suoi peccati, le sue vergogne.  Ad esempio, dopo la vittoria nella battaglia di Campaldino, lo ritroviamo a saccheggiare i corpi dei soldati e poi a concedersi le grazie delle donne dei caduti, nonostante sia sposato con Gemma Donati (quella giovane è interpretata da Ludovica Pedetta, mentre quella anziana da Erika Blanc). Vedremo anche il rapporto di amicizia con Guido Cavalcanti (Romano Reggiani) che affiancherà il poeta fino alla sua scelta di ottenere il ruolo di priore.

L’autore della pellicola ha voluto anche trovare dei collegamenti tra il passato – la linea temporale di Dante – e il presente di Boccaccio. In particolare, una bambola posseduta dall’amata di Alighieri, Beatrice (Carlotta Gamba), arriva, tramite una mercante, nelle mani di Boccaccio, intenzionato a regalarlo alla figlia più piccola.

Dante Alighieri (Alessandro Sperduti) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Tra sogni e realtà

Durante la visione del film, ho trovato interessante la fotografia e la composizione delle inquadrature che caratterizzano i due filoni temporali e i sogni del Sommo Poeta.

Nella maggior parte delle scene i soggetti sono posizionati al centro. I colori sono slavati e tendenti al giallo quando ci troviamo nel tempo passato, proprio come se stessimo leggendo da una pergamena; mentre al tempo di Boccaccio i colori sono poco più naturali e l’ambiente brilla sotto la luce del sole come se ci trovassimo in una favola.

L’unica eccezione a questo “centralismo” delle inquadrature è costituita dall’unica figura di potere in tutta l’opera di Avati: il papa Bonifacio VIII (Leopoldo Mastilloni). Le posizioni laterali costringono l’occhio a spostarsi ai lati. Infatti, secondo le regole compositive, questa scelta indica tipicamente potenza, la stessa potenza con cui si scontrerà il Nostro Poeta.

Infine, vorrei menzionare una scena. Avati è un esperto di cinema horror (vi consiglio fortemente la visione della già citata Casa delle finestre che ridono) ed è riuscito a imprimere l’angoscia tipica del suo cinema in un incubo ad occhi aperti di Dante che immagina a modo suo la morte di Beatrice. Sorvolo sui dettagli così da invogliare il lettore alla visione di questo interessante prodotto italiano.

In conclusione

Raccontare la vita di uno dei più importanti poeti al mondo non è di certo un’impresa facile. Eppure, abbiamo alla direzione un pezzo da novanta del cinema italiano. Ciò che ha fatto Pupi Avati è stato quello di rendere quanto più fruibili i punti cardine della vita di Dante Alighieri a un pubblico che potrebbe disconoscerli. Consiglierei la visione anche a chi non ricorda bene (o non ha ancora studiato) la vita del poeta, sicuramente dopo avrà dubbi e lacune che lo porteranno ad approfondire la sua vita (cosa buona e giusta!).

Per di più, a fare da condimento, ritroviamo un impatto visivo davvero forte e allo stesso tempo raffinato che sicuramente apprezzeranno coloro che il cinema lo amano, anche senza conoscere (a loro discapito) la vita di uno degli uomini che hanno contribuito alla nascita della lingua italiana.

 

Salvatore Donato

“Il signore delle formiche”: una storia che ha segnato la collettività

Un film profondo che riflette il dramma politico e sociale dell’epoca – Voto UVM: 5/5

 

Ci sono storie che, nolenti o dolenti, segnano il carattere di una società. Nel film Il signore delle formiche il regista Gianni Amelio ci fornisce la rappresentazione del caso realmente accaduto di Aldo Braibanti, giornalista, drammaturgo e poeta accusato di plagio nel 1968, un anno chiaramente segnato da continui scontri nelle maggiori piazze d’Italia ad opera dei movimenti politici estremisti e dalle rivendicazioni dei movimenti studenteschi. L’accusa in realtà, è solo uno specchio per le allodole. Il vero motivo del processo riguardava l’omosessualità di Braibanti.

Il film, che è stato presentato in anteprima alla 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, assume una forte vena critica nel raccontare come si poneva il Paese di fronte al tema, cogliendone tutto lo spirito contraddittorio dell’epoca.

Sinossi

La prima parte della narrazione si svolge nelle campagne emiliane nel 1959, tra le mura del torrione Farnese di Castell’Arquato, dove il drammaturgo crea uno spazio aggregativo per i giovani, che funge anche e soprattutto da laboratorio artistico. Egli, inoltre, è uno studioso di formiche, tanto da ottenere la fama di esperto mirmecologo.

In questo contesto avviene l’incontro con Ettore (interpretato da Leonardo Maltese), un giovane ragazzo che inizia a interessarsi di libri grazie all’influenza dello scrittore. Attraverso digressioni filosofiche sull’esistenza e poesie scritte appositamente per Ettore, tra i due nasce un’alchimia che non passerà inosservata,

Sarà proprio questa la causa scatenante del processo per plagio, portata avanti dalla madre del giovane.

Luigi Lo Cascio. Fonte: Rai Cinema

L’accusa é quella di aver sottomesso alla sua volontà, sia in senso fisico che psicologico, il suo allievo e successivamente compagno. A stabilirlo l’articolo 603 del codice penale che punisce “chiunque avesse sottoposto una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. In realtà si tratta solo di un escamotage per celare quella che è un’accusa di omosessualità.

A denunciare Aldo è proprio la famiglia di Ettore che viene portato in un ospedale psichiatrico con lo scopo di sottoporlo a devastanti elettroshock, la “cura” dell’epoca per “guarire” dall’influsso del “diabolico”. Questo particolare viene marcato dalle dichiarazioni della madre durante il processo.

 

Elio Germano. Fonte: Rai Cinema

Spostando la narrazione sul piano giuridico-sociale, il regista ci fornisce un quadro abbastanza chiaro dell’ipocrisia culturale dell’epoca, dovuta soprattutto all’influenza della Democrazia Cristiana.

Solo un uomo e una donna reagiscono all’indifferenza generale e decidono di aiutare Aldo. Uno è il giornalista Ennio Scribani (interpretato da Elio Germano) de L’Unità, che non sarà avulso da continue prese di mira da parte del direttore della testata che intende distogliere l’attenzione dal caso (anche qui, il regista ci ricorda dell’ipocrisia del maggiore partito di Sinistra dell’epoca).

E l’altra è Graziella (interpretata da Sara Serraiocco), giovane attivista politica che manifesta per rivendicare un cambiamento culturale. La particolarità del suo atteggiamento ricorda – per certi aspetti – le mosse del Partito Radicale Italiano i cui principali esponenti furono Emma Bonino e Marco Pannella.

Da premiare, a questo proposito, l’omaggio alla Bonino, realizzato inserendo un suo fermo immagine che scorre brevemente durante il discorso di Graziella all’esterno del tribunale. In merito a ciò, il regista ha dichiarato:

“Ho saputo da Emma Bonino che nel ’68 non faceva assolutamente parte del Partito Radicale. Lei mi ha chiesto:  «Perché vuole me quando potrebbe prendere un sosia giovane di Pannella?»  Perché vorrei raccontare della lotta che hanno fatto i radicali per la storia di Braibanti. Questo partito ha fatto cancellare nel 1981 il reato di plagio. Volevo rendere omaggio al Partito Radicale, mi sembrava più degno far vedere una Emma Bonino come è oggi piuttosto che un sosia di Pannella. “

 

Emma Bonino. Fonte: Rai Cinema

La tragica ipocrisia moderna

“Dietro una facciata permissiva, i pregiudizi esistono e resistono ancora, generando odio e disprezzo per ogni ‘”irregolare’” Non abbiamo sconfitto certi demoni che erano e tutt’ora sono all’interno della società perbenista.”

Con queste parole, Gianni Amelio restituisce allo spettatore il quadro di un’epoca contaminata dalle storture di un pensiero retrogrado che, purtroppo, si è protratto negli anni. Forse oggi potremmo dire che non è più come prima, eppure il film ci invita a non distogliere l’attenzione né la preoccupazione, visti i frequenti casi di omofobia nel nostro Paese.

Dalla fotografia impeccabile di Luan Amelio Ujkaj  all’interpretazione magistrale ed empatica del cast – in particolare Lo Cascio che mostra un Braibanti con la schiena dritta dinanzi le accuse, consapevole del fatto che per certe persone vige il dovere indispensabile di rispettare gli ordini – passando per la costruzione della sceneggiatura e l’ambientazione, Il signore delle formiche ci mostra, un passo alla volta, l’amore verso l’amore, separando l’attrazione sentimentale da quella intellettuale, stimolando la curiosità verso la società di una volta e quella attuale.

Un racconto che funge da canale di istruzione e de-costruzione del paradosso culturale, denunciando il bigottismo e ogni forma di violenza.

 

Federico Ferrara

Ricordando Godard: il regista che ha influenzato Tarantino

Critico, cineasta e agitatore politico. È così che ricordiamo Jean-Luc Godard morto all’età di 91 anni, in Svizzera, facendo ricorso al suicidio assistito.

Non era malato, era soltanto esausto. (Da una fonte vicina al regista citata da Libération)

Nato a Parigi il 3 dicembre 1930, è stato tra i più significativi autori cinematografici della seconda metà del Novecento. Esponente di rilievo della Nouvelle Vague, dal suo primo lungometraggio, À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), è diventato un punto di riferimento per molti registi statunitensi della New Hollywood e, più recentemente, per autori come Quentin Tarantino. In particolare, sono stati due i film di Godard che hanno influenzato il regista nella realizzazione del suo cult, Pulp Fiction: Vivre sa vie e Bande à part. Quest’ultimo, una vera e propria esperienza cinefila, ha inoltre ispirato il regista statunitense nel dare il nome alla sua casa di produzione: A Band Apart.

Non va dimenticato nemmeno l’amore sconfinato e l’ammirazione che Bernardo Bertolucci provava nei confronti di Godard. La splendida sequenza del film sopracitato Bande à part girata al Louvre, dove tre ragazzi corrono come forsennati lungo gli immensi spazi del museo verrà ripresa molti anni dopo dal regista italiano nel suo film The Dreamers – I sognatori, dove i protagonisti Eva Green, Louis Garrel e Michael Pitt ripetono la corsa proprio al Louvre identificandosi in Franz, Arthur e Odile, tre giovani spensierati che girano per Parigi con una vecchia SIMCA decappottabile e passano le giornate tra un corso d’inglese e un bistrot dove bere qualcosa e fantasticare sul loro futuro.

E Godard, che girava due o tre film all’anno, era l’autore che ci rappresentava meglio, con la sua severità un po’ calvinista e la sua capacità di tenere il mondo e quel che scorreva intorno nell’incavo delle sue mani. (Il regista italiano Bernardo Bertolucci)

Da grande critico a grande regista

Ma prima di diventare il cineasta che oggi tutti conoscono, Godard fu un grande critico. Risale al 1950 il suo primo articolo sulla Gazette du Cinéma, intitolato Joseph Mankiewicz, a cui seguiranno molte recensioni. La più impegnata è quella su L’altro uomo di Alfred Hitchcock pubblicata per Cahiers du cinéma.

Solo dopo aver abbandonato l’attività di critico cinematografico e dopo una serie di cortometraggi, arriva il suo primo lungometraggio À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro): che diverrà il vessillo della Nouvelle Vague francese. Il film, che è stato girato in sole quattro settimane e con un budget limitato, ottiene il premio Jean Vigo e dà inizio al primo periodo della filmografia godardiana. All’interno di questa sua prima opera sono già presenti quelle “trasgressioni” ai modelli narrativi tradizionali che la Nouvelle Vague utilizzerà per distanziarsi dal cosiddetto “cinema di papà” che per oltre sessant’anni anni Godard attaccò prima come critico e poi come regista: montaggio sconnesso, attori che si rivolgono direttamente al pubblico, sguardi in macchina. Evidente risulta anche la cinefilia di Godard, che cita ossessivamente i film statunitensi di genere degli anni Cinquanta.

Il cinema copia la vita. Sai cosa diceva Jean Renoir? Bisognerebbe dare onorificenze alla gente che fa i plagi.” (Godard durante un’intervista)

 Adieu Godard!

Il regista appartiene anche alla storia della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia dov’è stato più volte premiato. In particolare, nel 1982, ottenendo il Leone d’oro alla carriera. E nel 1983, quando la Giuria internazionale presieduta da Bernardo Bertolucci ha premiato col Leone d’oro il suo Prénom Carmen.

Oggi anche il presidente francese, Emmanuel Macron, ha espresso il suo rammarico per la morte del regista tramite un tweet:

Nel cinema francese, fu come un’apparizione. Poi, ne divenne un maestro. Jean-Luc Godard, il più iconoclasta fra i registi della Nouvelle Vague, aveva inventato un’arte assolutamente moderna, intensamente libera. Perdiamo un tesoro nazionale, uno sguardo da genio.

Addio a Jean-Luc Godard. Per molti un maestro ma anche un padre, un amico, un confidente, un amante, un guardiano dell’anima e del pensiero. Uno dei più grandi rivoluzionari della storia del cinema. Addio, addio e grazie di tutto. Grazie per averci insegnato a vedere il cinema nella realtà!

Ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà. (Da un’intervista del 1964)

Domenico Leonello

 

Marcello come here!

“Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l’ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io, sono pronti a mandarselo giù in un boccone”. (Federico Fellini)

Perché parlare proprio oggi di Marcello Mastroianni? Non è il suo compleanno, ma semplicemente i miti non muoiono mai, dopo anni il loro nome ancora riecheggia, perché Marcello era un attore vero, non costruito. Con i suoi film torniamo indietro nel tempo, a quell’Italia in bianco e nero dove vedevi una coppia di innamorati, trasportati dalle due ruote di una vespa che sfrecciava nei vicoli e nelle strade del bel paese.

Marcello e le maschere

Marcello viene considerato come uno tra i maggiori artisti di sempre. Non solo in Italia, ma anche all’estero molti registi lo volevano con sé. Nella maggior parte dei film a cui ha preso parte, ha sempre ricoperto ruoli da protagonista, ha lavorato con cineasti i cui i nomi sono leggenda, tra cui il mitico Federico Fellini. Ha recitato con la bellissima Sophia Loren, Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi. Attore molto versatile, ha indossato mille volti, dai ruoli drammatici fino ad arrivare a quelli comici.

Per tre volte è stato candidato all’Oscar, senza mai portarsi a casa l’ambita statuetta, ma in compenso ha vinto numerosi premi: due Golden Globe, otto Nastri D’argento ( di cui uno postumo), due Premi BAFTA, otto David di Donatello, cinque Globi d’oro e un Ciak d’oro. Nel 1990 ha vinto il Leone D’oro alla Carriera. Insomma il suo talento è stato riconosciuto, (anche se il genio non viene consacrato da un premio ma da ciò che un artista lascia ai posteri e Marcello ha trionfato in pieno).

Marcello Mastroianni in una scena de “La Dolce Vita”. Fonte: Cineriz

Marcello comincia a incamminarsi verso il mondo del cinema dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando inizia a prendere lezioni di recitazione e nel 1948 fa il suo debutto nel film I Miserabili tratto dal romanzo di Victorio Hugo, diretto da Riccardo Freda. Pian piano comincia a interpretare piccoli ruoli teatrali in compagnie di dilettanti, facendosi notare da Luchino Visconti, che gli offre il primo ruolo importante in “Rosalinda o Come vi piace”. Da lì in poi l’ascesa del nostro protagonista non conoscerà mai la parola fine.

Sono tanti e sono troppi i film di Marcello memorabili: oggi avrei voluto parlare di almeno due pellicole che sono entrate nel mio cuore, due opere che racchiudono non dialoghi, ma vere e proprie poesie, ma ci vorrebbe un articolo a parte …

La Dolce Vita (1960)

“Vorrei vivere in una città nuova, e non incontrare più nessuno”

Piccolo tesoro del cinema mondiale, La Dolce Vita è un film diretto e scritto da Federico Fellini e considerato uno dei suoi più grandi capolavori. Ha ottenuto quattro candidature agli Oscar vincendone una, nonché la Palma d’oro al 13º Festival di Cannes. Il titolo del film rappresenta il periodo storico di fine anni ’50 e inizio ’60 e racchiude tutte quelle vite mondane sbocciate in quell’era, tra champagne e hotel lussuosi.

In quelle stanze scintillanti troviamo Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) giornalista di cronaca mondana, il cui sogno però è quello di diventare un romanziere, stanco di quella vita costruita in cui l’immagine viene prima di ogni cosa.

“A me invece Roma piace moltissimo: è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene.”

 

Marcello Mastroianni in “La Dolce Vita”. Fonte: Cineriz

Il nostro protagonista non è così, è un artista, quindi una persona che vede il mondo con occhi diversi. Il suo lavoro l’ha portato a vivere quella vita di eccessi che tanto detesta.

Marcello Rubini è fidanzato e convive con Emma (Yvonne Furneaux), ma la sua natura da “don Giovanni” lo fa passare da una donna all’altra, poi c’è Maddalena (Anouk Aimée), una donna che ama, ma con cui vuole solo un rapporto carnale. Con l’arrivo della bellissima Sylvia (Anita Ekberg), una celebre attrice americana, il nostro giornalista comincerà a provare emozioni nuove.

“Sylvia ma chi sei?”

Lei sembra la salvezza per il nostro Marcello. Quella scena che tanto amiamo della Fontana di Trevi, nient’altro rappresenta che l’illusione di una cambiamento per il protagonista che ormai odia quella vita mondana che Fellini ha messo in scena. Con Sylvia vorrebbe una storia d’amore ma non ci riesce, non si impegnerà nemmeno con Emma e Maddalena, illudendole e trattandole come meri oggetti, come gli ha insegnato la vita da “giornalista mondano”.

“Marcello, come here, hurry up”

Il declino dell’uomo contemporaneo ne La Dolce Vita

Come ci insegna Fellini, la dolce vita non può essere eterna, e quel vuoto che attanaglia Marcello rimarrà ancorato ad esso, nei suoi occhi spenti che vediamo alla fine del film. Lo spettatore quasi si arrabbia con Marcello, perché è un uomo che non si impegna e si abbandona a quella vita che dolce non è, arrendendosi a quell’esistenza che disprezza tanto, ma che, allo stesso tempo, non riesce a lasciare: una realtà fatta di donne, tradimenti e materialismo. Fellini, in tre ore di film, riesce a mostrare la decadenza dell’essere umano contemporaneo che tutto ha, ma per inerzia non fa niente per cambiare e migliorare la realtà.

Marcello (Marcello Mastroianni) e Sylvia (Anita Ekberg) nella celebre scena della fontana. Fonte: Cineriz

Che cos’è il Cinema se non l’arte di raffigurare il vero? Cos’è la recitazione se non il modo di mettere a nudo le emozioni umane? Chi sei tu Marcello? Che hai reso grande il nostro paese con il talento e la bontà, che abbiamo visto nei tuoi lavori? E dimmi, Marcello, ti sei mai rivisto in qualche tuo personaggio, ti sei mai rispecchiato in Guido Anselmi o in Domenico Soriano? Te ne sei andato via troppo presto, a soli 72 anni, ma purtroppo – si sa – non tutte le leggende vivono fino ai 100 anni.

“Marcello ritorna da noi!” Il cinema non è più lo stesso senza di te, il perfetto gentleman che ha rubato il cuore di milioni di italiane e che il talento ha consacrato come uno dei migliori attori che la cinepresa abbia mai inquadrato.

Alessia Orsa

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Disclosure: la storia della transessualità nei media

Un documentario appassionante che offre una prospettiva molto dettagliata sulla transessualità nei media. – Voto UVM: 5/5

 

Il mondo è cambiato parecchio negli ultimi decenni. Questioni come l’identità di genere, l’orientamento sessuale o i diritti delle minoranze sono entrate a viva forza nel dibattito collettivo.
In questo contesto, una manifestazione come il Pride Month rappresenta un’opportunità: non solo per celebrare i progressi in ambito civile acquisiti dalla comunità LGBTQ+ nel suo complesso, ma anche e soprattutto per diffondere consapevolezza su quelle minoranze poco conosciute o ancora fortemente stigmatizzate persino dallo stesso movimento LGBT+, in primis quella transgender.
Disclosure, un docufilm diretto da Sam Feder e distribuito da Netflix il 19 giugno 2020, si propone di fare proprio questo.

La locandina del documentario. Fonte: Netflix

Vecchi stereotipi duri a morire

La narrazione procede tramite l’alternanza tra spezzoni di film e serie tv e le considerazioni delle personalità transgender più eminenti del cinema e della serialità televisiva. I partecipanti vengono coinvolti in un dibattito sulla rappresentazione della transessualità nei mass-media, che si rivela problematica fin dagli esordi del cinema americano.

Nel 1914 il regista D.W.Griffith nel suo film Giuditta di Betulia (1914) – uno dei primi ad aver impiegato l’invenzione del taglio per far progredire la narrazione – inserì un personaggio trans o di genere non binario: l’eunuco evirato, infatti, in quanto figura “tagliata”, richiamava alla mente l’idea del taglio cinematografico.
Un espediente che, a causa del vestiario del personaggio, associato per stereotipo alla femminilità, diede origine alla percezione collettiva dei transessuali come uomini travestiti da donne che si prestavano al crossdressing solo per essere scherniti da un pubblico, piuttosto che come esseri umani con una specifica identità di genere. Ma questa, purtroppo, non è l’unica immagine ingannevole contro cui i trans hanno dovuto lottare. Psycho, pellicola cult di Alfred Hitchcock del 1960, diede vita ad un’altra narrativa fuorviante che associava la transessualità alla psicopatia; un’interpretazione ripresa ed ampiamente alimentata da altri film usciti nei decenni successivi.
Racconta la scrittrice ed attrice transgender Jen Richards in proposito:

Mancava poco alla mia transizione e avevo trovato il coraggio di dirlo a una collega. Lei mi guardò e mi chiese: – Come Buffalo Bill? –

Perché l’unica figura di riferimento trans presente nella mente dell’amica era Jame Gumb, l’antagonista principale de Il silenzio degli innocenti (1991), soprannominato Buffalo Bill: un serial killer psicopatico che uccideva le donne per scuoiarle ed indossare la loro pelle.

Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti. Fonte: rollingstone.com

Come se non bastasse, un’altra convinzione perpetratasi fin oltre i primi anni duemila ha contribuito a far ritrarre i personaggi trans femminili come sole prostitute. E’ il caso di Sex and the City, andata in onda dal 1998 al 2004. Infatti, negli spezzoni di questa serie tv inseriti nel documentario, viene veicolato il messaggio che si prostituiscano per seguire una moda e divertirsi. Un immaginario ripreso anche da altri prodotti televisivi, senza che abbiano mai menzionato il vero drammatico motivo dietro questa realtà: le donne trans, discriminate in quanto tali, in media hanno una probabilità molto più bassa di trovare lavoro rispetto agli altri individui della società, quindi molte di loro si danno alla prostituzione per sopravvivere.

Primi significativi cambiamenti

Per fortuna, col passare del tempo, l’approccio alla rappresentazione delle persone transessuali sta lentamente cambiando.
Nella seconda decade degli anni duemila si assiste ai primi veri tentativi di normalizzare la loro presenza sugli schermi televisivi: succede in Sense8, uscita tra il 2015 ed il 2018, dove lo sviluppo del personaggio transgender Nomi Marks e la sua relazione romantica con Amanita Caplan prescindono dalla sua identità di genere. O, ancora, con Pose, ambientata nella New York tra gli anni ottanta e novanta ed uscita in America per FX dal 2018 al 2021.

“Pose” è diversa, perché racconta storie incentrate su donne trans nere su una rete televisiva commerciale
(Laverne Cox)

La presenza di questa serie tv, ideata da Ryan Murphy e scritta e diretta da persone trans, è fondamentale: non solo consente al pubblico transessuale di sentirsi, finalmente, preso sul serio e parte di una comunità unita; ma permette anche a chi non ne fa parte di comprendere meglio la Ballroom Culture, una subcultura statunitense che rappresenta un pezzo di storia molto significativo, sia per il movimento transgender che per il resto della comunità LGBTQ+.

La locandina della prima stagione di Pose. Fonte: silmarien.it (blog di Irene Podestà)

Perché guardarlo?

Durante tutto il percorso narrativo del documentario le emozioni di attori, produttori e sceneggiatori sono palpabili. Lo spettatore si immedesima nella loro frustrazione, nel dolore per aver subito anni ed anni di politiche discriminanti e narrative colpevolizzanti; le stesse che, con ogni probabilità, aveva interiorizzato anche Cloe Bianco, l’insegnante transgender morta suicida appena qualche giorno fa. Un fatto di cronaca che dimostra chiaramente la necessità di continuare a proporre storie con modelli di riferimento eterogenei e positivi. Una corretta rappresentazione, infatti, non è che uno strumento per raggiungere un fine più grande: migliorare le condizioni di vita di tutte quelle persone trans che conducono esistenze normali fuori dallo schermo ed assicurare loro il supporto di quanti le circondano.

Rita Gaia Asti

Fantasy: dalla carta al cinema e alla tv

Il fantasy è stato in grado nel corso degli anni, molto più di altri generi, di attrarre pubblico in sala. Film come Il mondo perduto o King Kong scioccarono le sale dell’epoca e così come nel pioneristico Fantasia della Disney (solo per citarne alcuni) furono portatori di grandi innovazioni tecniche nel Cinema. Anche Harry Potter fu di fatto un fenomeno generazionale, che ha coinvolto sia spettatori in sala che lettori per più di un decennio.

Ma quali sono, secondo noi, alcune tra le migliori trasposizioni fantasy da libro a pellicola?

L’unico anello: il fantasy per eccellenza

Quando si parla di fantasy al cinema il primo nome che viene subito alla mente è Il Signore degli Anelli (di cui abbiamo parlato in occasione del suo ultimo anniversario). Si tratta di un film che ha conquistato il pubblico, portando per la prima volta un fantasy epico al cinema come blockbuster. Si distacca dal romanzo di Tolkien avendo un ritmo ed un linguaggio per forza di cose più moderno e meno lirico.

Su carta i protagonisti vengono seguiti per ogni campo, per ogni valle ed ognuno di questi passaggi è descritto con estremo amore. C’è poi il viaggio dentro ai protagonisti: vediamo sempre la poca fiducia che il protagonista Frodo ha in sé stesso e nella sua capacità di portare a termine il suo compito.

È un racconto adatto a chiunque di ogni genere ed età, in grado di narrare qualcosa che parla all’animo di tutti noi.

Una classica casa nella contea degli hobbit (Original public domain image from Wikimedia Commons)

La magia dell’infanzia: La storia infinita e le Cronache di Narnia

L’opera sorella a questo primo racconto sono le Cronache di Narnia di C.S. Lewis, raccolta di sette libri da cui è stata tratta una sfortunata trilogia di film. Il leone, la strega e l’armadio (2005), primo dei tre film incantò molti con le sue atmosfere fiabesche e quella sua storia a tratti struggente; la trilogia è poi continuata con un secondo capitolo che cercava di avere una trama più adulta più spiccatamente dedita all’azione, senza rimanere fedele all’originale; il terzo film è poi tornato alle radici del primo senza però ottenere gli effetti sperati sul pubblico.

La maggior parte dei racconti è quindi rimasta solo dentro ai romanzi, compreso il suo finale. I sette libri narrano le avventure di vari protagonisti e dei loro viaggi dentro e fuori dalle terre di Narnia. Le storie sono raccontate per un pubblico di giovanissimi, dentro ad un mondo che ti trasporta al suo interno, narrando le imprese eroiche dei bambini protagonisti. Ciò che più risalta in questo libro è la sua capacità di inserire metafore all’interno del racconto, servendosi di immagini ed atmosfere.

Un racconto simile a quest’ultimo è la Storia Infinita di Michael Ende, dove i mondi immaginari la fanno da padrone e la fantasia stessa è la vera protagonista. Anche questo romanzo ha avuto una trasposizione in film negli anni ’80, con una pellicola che ha segnato molti della generazione millennial. Il film viene oggi ricordato soprattutto per il drago Falkor e per la scena con in groppa il protagonista Bastian. La storia, come nel libro, risulta evocativa e speciale, capace di parlare ad ogni appassionato divoratore di libri.

Il libro ed il film hanno quindi molto in comune, tranne il risvolto più maturo della trama nel primo: a metà romanzo, la storia prende infatti una piega diversa, con una grande metafora sulla crescita e sul rapporto tra il nostro mondo e quello fantastico.

I libri delle Cronache di Narnia

La rinascita in TV: Il trono di spade e The Witcher

La televisione ci ha poi regalato Il trono di spade, considerata ancora oggi la serie che ha fatto comprendere come in tv si possa davvero competere coi colossal al cinema in termini sia di pubblico che di qualità. Le prime stagioni hanno fatto rimanere incollati gli spettatori allo schermo  e aspettare con ansia le altre puntate. Un vero fenomeno globale che ha fatto appassionare un enorme pubblico di neofiti al genere fantasy, grazie alla suspense e ai colpi di scena.

La serie traspone però solo una minima parte della trama e non ha potuto inserire i dettagli presenti nei libri di George R.R. Martin ( continenti distanti, misteriose forze magiche all’opera). L’unico, vero, difetto dell’opera, in stand-by da ben undici anni, è però legato ai suoi misteri che rimarrannno perciò irrisolti: probabilmente il più grande “blocco dello scrittore” di sempre.

Il trend del fantasy è poi continuato in streaming con l’arrivo della saga dello Strigo Geralt di Rivia su Netflix con The Witcher. La serie, ispirata ai racconti di Andrzej Sapkowski, ha all’attivo due stagioni e, tra alti e bassi, è riuscita a convincere il pubblico riprendendo un fantasy fiabesco in un contesto però adulto e cruento. In questo mondo, un contadino costretto a lavorare il campo si ritrova attaccato dai mostri e Geralt, il protagonista, è chiamato a cacciarli utilizzando i suoi poteri da “strigo” (un umano modificato geneticamente attraverso la magia per cacciare mostri su  commisione), mentre sogna di trovarsi altrove. Si ritrova spesso, contro la sua volontà, in mezzo ad intrighi politici su cui pende il destino di interi popoli.

La serie ha reso ciò che di più intrigante per il grande pubblico era presente nei romanzi, tralasciando i racconti in cui il protagonista si contende con un altro uomo l’amore di una donna.

I romanzi, invece, hanno un intento diverso e spesso la risoluzione del racconto non è la sconfitta dal cattivo, ma la sua resa spirituale ed etica prima di essere passato a fil di spada!

Matteo Mangano

West Side Story: ritorna la storia d’amore più romantica di sempre

Steven Spielberg no ne sbaglia una e rende “suo” un classico come “West Side Story”- Voto UVM: 5/5

Chi rinnega l’amore, chi odia San Valentino, chi è single “per scelta”, non può però non amare Romeo e Giulietta, una delle storie d’amore più belle mai scritte. No, cari lettori, non parleremo della struggente vicenda dei due innamorati di Verona, ma del musical ad essa ispirato che trasferisce il dramma shakespeariano nei quartieri e vicoli di New York degli anni ’50.

Verso la fine del 2021, nelle sale cinematografiche è arrivato West Side Story, remake del fortunato film del 1961 diretto da di Robert Wise e Jerome Robbins, che decisero di crearne una pellicola dopo che videro a Broadway l’omonimo musical del 1957, che vinse vari Tony Awards.

Richard Beymer e Natalie Wood in “West Side Story” (1961). Fonte: Seven Arts Productions, Dear Film

Il film del ’61 ebbe un successo stratosferico: ottenendo 11 candidature agli Oscar e vincendone 10; al Box Office in Italia guadagnò tremila euro, una cifra modesta se guardiamo a campioni di incassi come Avatar, Spiderman No Way Home e tanti altri. Ai quei tempi però era un vero e proprio record.

La pellicola, infatti, entrò nella storia del cinema, tanto che un “qualunque”  regista di nome Steven Spielberg decise di farne un remake, chiudendo il 2021 in bellezza.

Trama

Cari lettori, non preoccupatevi, non ci saranno spoiler dato che il film è ispirato all’opera di William Shakespeare. La storia è ambientata nella New-York degli anni ’50, tra foto in bianco e nero, gonne lunghe, nastri e outifit che fanno sognare. In quelle strade, camminando, possiamo incrociare due gang rivali: da una parte abbiamo i Jets ( alias Montecchi– famiglia di Romeo),un gruppo di ragazzi di origine Europea, e gli Sharks ( rivisatazione dei Capuleti– casata di Giulietta),  immigrati dal colorato Portorico. I due gruppi si contendono il territorio, tanto che molte volte deve intervenire la polizia per fermali.

Nel frattempo i ragazzi si preparano per l’imminente ballo, dove si incontreranno i futuri innamorati: l’affascinante Tony (Ansel Elgort) e la bella Maria (Rachel Zegler).

A  sinistra i “Jets”, a destra gli “Sharks” mentre si sfidano tra balli e canzoni. Fonte: Disneyplus

Proprio durante la scena del ballo, possiamo notare la bravura degli attori, dei veri e propri artisti. Voci, passi, colori … Niente è fuori posto, Tanto che lo spettatore sembra che guardi dei quadri animati che prendono vita. Durante la sfida di ballo, Tony e Maria si vedono per la prima volta: è amore a prima vista. Non si staccano gli occhi dI dosso, e dopo nemmeno due minuti si incontrano sotto la gradinata per non farsi notare. Già sanno che il loro amore non verrà mai riconosciuto, ma – si sa – al cuor non si comanda. Da quel momento in poi, per i due inizierà una storia d’amore clandestina. Mi fermo qui cari lettori, dovrete gustarvi la pellicola.

Valentina : La vita è importante, perfino più dell’amore

Tony: Sono la stessa cosa.”

Musiche

Lo sappiamo, non tutti amano i musical, personalmente li adoro. West Side Story è un film pieno di canzoni entrate nella storia, da Tonight ad America, canzoni scritte dal compositore Leonard Bernstein per il musical di Broadaway del lontano 1957.

Steven Spielberg non ne sbaglia una: nel suo remake ogni voce non solo si armonizza col personaggio, ma anche con la canzone stessa. La colonna sonora risulta così un capolavoro, sotto la supervisione di David Newman e l’orchestra diretta da Gustavo Dudamel.

Il sogno colorato di Spielberg

Steven Spielberg, non ha bisogno di presentazioni: i suoi lavori fatti di dinosauri, bici volanti e squali hanno segnato la storia del cinema e la nostra infanzia. Quando sentiamo il suo nome, la nostra mente ritorna indietro di 20 anni ( per qualcuno di meno), a quei sabato sera passati davanti alla tv, dopo aver mangiato la pizza fatta in casa o ordinata . Il regista sognatore, ha sempre amato West Side Story, e solo lui poteva riportare in scena un tale capolavoro, facendolo suo e aggiudicandosi ben 7 nomination agli oscar, tra cui – ovviamente- quella di miglior regia.

l film è “pieno” nei colori, negli oggetti di scena, nel cast, nelle musiche e in tanto altro ancora: tutto è studiato nei minimi dettagli, la firma del regista si vede anche dal punto più nascosto.

Spielberg ha dichiarato di amare la diversità, forse perché attraverso quest’ultima l’essere umano non smette mai di conoscere. West Side Story non è solo una storia d’amore, ma anche un film in cui si parla di xenofobia, la paura del diverso. Questa parola non viene adoperata all’interno del lungometraggio, ma possiamo coglierne il significato, osservando le due gang rivali, che non si odiano solo perché sono avversari, tesi a far prevalere la legge del più forte, ma si detestano perché provengono da  due Paesi diversi.

Steven Spielberg non è solo uno tra i più grandi registi mai esistiti, ma anche un pedagogo che con la sua arte educa il pubblico.

“Mi piace l’idea che all’interno della stessa sala cinematografica si generino diversi nuclei di spettatori: quelli che lo spagnolo lo conoscono e quelli che, invece, ne rimangono esclusi come i Jets

Steven Spielberg, dietro la cinepresa. Fonte: RollingStone

Verso gli Oscar

Oltre a quella già citata di “miglior regista”, il film concorrerà agli Oscar con ben altre 6 nominations: miglior film, fotografia, scenografia, costumi, sonoro e migliore attrice non protagonista. Per l’ultima categoria è in gara la bellissima e talentuosa Ariana DeBose, per l’interpretazione di Anita, uno dei personaggi più amati.

Anita: Se vai con lui, nessuno ti perdonerà più

L’attrice ha svolto un ottimo lavoro, rubando la scena ai due protagonisti (e non parlo dei personaggi!). Anita, che da sempre è stata vista come la “dama di corte” della bella innamorata, qui è tutt’altro. Non è solo un personaggio secondario, ma una ragazza forte e determinata, che con la sua voce incanta il pubblico, rendendo il film immortale. Molti critici hanno infatti ammirato di più la performance di Ariana che quella dei due attori principali.

 

Ariana DeBose in una scena del film. Fonte: DisneyPlus

 

Quella di West Side Story è una delle storie più romantiche mai scritte e viste, che ci ha fatto sognare e innamorare. Perché nel profondo tutti vorremmo trovare la nostra Maria ( Giulietta) o il nostro Tony ( Romeo ), per vivere quei momenti in cui ti dimentichi di essere nel mondo e davanti a te ritrovi solo la tua metà.

Ma chi sei tu, che avanzando nel buio della notte, inciampi nei miei più segreti pensieri?

Alessia Orsa

«Oh, oh! Mi è semblato di vedele un gatto…»

“Esploratori”, “indipendenti” e “dormiglioni” sono solo alcuni degli aggettivi che descrivono i protagonisti dell’odierna Giornata Nazionale del gatto.

Personaggi noti con i loro gatti

Pensando alla Regina Vittoria e a John Lennon con i loro White Heather e Salt, a Winston Churchill e a Edgar Allan Poe con i rispettivi Nelson e Cattarina, ci chiediamo se dietro ogni grande uomo, oltre a una grande donna, non ci sia anche un amico pelosetto che fa le fusa. E allora quale modo migliore per festeggiare questi compagni di vita se non accoccolandosi sul divano insieme – cioè con loro su di noi, i loro padroni-sofà – a guardare le opere di cui sono stati protagonisti?

Gatti famosi nell’arte e nella musica

Dai disegni di Louis Waine raffiguranti colorati gatti antropomorfizzati dai grandi occhi al libro illustrato“25 Cats name Sam and one Blue pussy” (1954) che Andy Warhol dedicò ai suoi mici newyorkesi, le opere pittoriche dedicate a questi animali sono numerose, così come lo sono quelle musicali.

Opere pittoriche e musicali sui gatti

Pensiamo a “La Gatta” (1960) di Gino Paoli, che racconta con nostalgia della gatta con cui condivise, nei primi anni della sua carriera, una soffitta genovese o a “Delilah” (1991) di Freddy Mercury, che si dice fosse un vero e proprio gattaro tanto da telefonargli quand’era in tournée. Oppure a pezzi ormai diventati cult, come Siamo gatti(1998), interpretata da Samuele Bersani, un vero e proprio inno alla vita felina, e Il gatto e la volpe (1977) di Edoardo Bennato, ispirato alla favola di Pinocchio.

 

Gatti da pellicola

“Everybody wants to be a cat”: alcune scene de “Gli Aristogatti” (1970)

Se vi dicessimo crème de la crème alla Edgard, non verrebbe in mente anche a voi il classico dei classici Disney, “Gli Aristogatti” (1970)? La celebre storia della gatta Duchessa e dei suoi cuccioli Bizet, Matisse e Minou salvati dal gatto randagio Thomas O’Malley che, nella traduzione italiana, si presenta come “Io so ‘Romeo, er mejo der Corosseo“. Ci dispiace per gli amici irlandesi, ma per noi Romeo è un romano de Roma!

 

I gatti “magici”

La superstizione popolare che lega gatti e magia è diffusissima, basti pesare che il mese di febbraio è noto come «mese dei gatti e delle streghe».

“Sono un aiutante furbo e affascinante che non stanca mai”. Salem nella versione cartoon e serie tv.

Salem (“Sabrina, vita da strega”) è il mentore (non troppo affidabile) di Sabrina. Ricordiamo tutti le sue gaffe e i trasferimenti spesso esilaranti, il temperamento megalomane e un tantino arrogante dello stregone che, per aver tentato di conquistare il mondo, è condannato a vivere sotto forma felina. In realtà, non ha perso le sue manie di grandezza nemmeno da gatto e noi lo amiamo anche per il suo essere un bad-cat!

 

Cagliostro nei fumetti e nell’omonimo film del 1985 con Kim Novak

Cagliostro (Dylan Dog”) è un potente felino che stringe un legame di sangue con Dylan Dog a seguito della morte della strega Kim. Per gli straordinari poteri di cui è in possesso, è condannato a vivere a vita in un limbo. Riuscite a immaginare un gatto, che ha le capacità di far sparire la Terra, rinchiuso in un limbo? Ecco, non fatelo perché tanto non si farà catturare… Ma tranquilli, alla fin fine, è un gatto buono!

Gatti prodigio: a destra Luna, a sinistra Grattastinchi

Grattastinchi (“Harry Potter”) è l’incrocio Gatto-Keazley di Hermione Granger. Apparentemente pigro e malandato, è uno straordinario cacciatore di ragni con la capacità di distinguere i buoni dai cattivi. E infatti avrebbe impedito il ritorno del Signore Oscuro, se solo gli avessero permesso di mangiare il topo Crosta alias Peter Minus… Della serie: affidiamoci all’istinto di questi animali, non sbagliano mai (tranne quando tentano di conquistare il mondo…)

Luna (“Sailor Moon”), invece, è la consiglier – con la capacità di parlare con gli uomini e di trasformarsi in donna – di Bunny che le affida la missione di trovare i Sailor Guardians e la Principessa Serenity. Sebbene spesso severa nei confronti di Bunny, per lei ci sarà sempre e, chissà, forse c’è sempre stata…

Per gli amanti dei gatti arancioni

Gli occhi ammalianti che girano in tanti meme: il Gatto con gli Stivali di Shrek

E che dire del fuorilegge Gatto con gli stivali (“Shrek”)? L’accento ispanico e il look da moschettiere francese lo rendono un perfetto micio macho o “chat fatale” capace di far cadere dinanzi alle sue zampette stivalate qualsiasi “gattina” (non solo felina…) perchè, davanti ai suoi occhioni, chi non si scioglierebbe?

“In passato mi hanno dato molti nomi: Diablo gatto, Gatanova, Chubacabras, amante picante e veleno rosso ma per tutti sono…”

Garfield in vari cartoon

Tra i gatti arancioni, spicca il paffuto e impertinente “Garfield”. Vive nell’assoluto ozio, mangiando e dormendo tutto il giorno (hobby strani per un gatto, vero?), fino a quando il padrone Jon s’innamora di Liz e adotta il cagnolino Odie.

Per fortuna Dio ha creato le lasagne! Attenzione però: le lasagne non sono adatte a nessun gatto! Garfield fa eccezione, essendo nato in una pizzeria (beato lui!).

 

Gatti famosi un pò sfigatelli

“Quasi amici”. In alto Tom e Jerry. In basso Titti e Silvestro.

Tra i gatti più sfortunati di sempre non possiamo di certo non menzionare gli iconici  Tom (“Tom and Jerry”) e Silvestro (“Looney Tunes”). Entrambi destinati a non catturare i loro furbi e adorabili nemici, Jerry e Titti, e a vivere continue disavventure nel tentativo di farlo. Ma si sa, spesso dietro grandi inimicizie si nascondono anche rispetto e lealtà, (speriamo non anche appetito!)

Gatti “cinegenici”: Fiocco di Neve e Sfigatto

E chi non ricorda gli occhi celesti di Sfigatto (“Ti presento i Miei”, 2000), il meraviglioso himalayano diventato famoso per la capacità di andare da solo alla toilette? Capacità di cui, siamo sicuri, sono dotati anche i vostri mici…

E, infine, lo splendido persiano Fiocco di Neve (“Stuart Little”,1999) che si ritrova a convivere con un nuovo padroncino: niente meno che un topo! Vi lasciamo immaginare gli innumerevoli tentativi di liberarsi di lui, da un giro in lavatrice a uno scambio di genitori-topi.

I gatti “tata”

 

“Siamo gatti siamo noi. Siamo gatti beati noi. Per le strade noi felici incontriamo i nostri amici!”. I gatti del film d’animazione del 1998 tratto dal romanzo di Luis Sepulveda.

Non possiamo dimenticare Zorba (“La gabbianella e il gatto”, 1998), il micio che si ritrova ad accudire una pulcina di gabbiano dopo aver promesso alla sua mamma, avvelenata dal petrolio, di insegnargli a volare. Questa improvvisata e “innaturale” mamma ci insegna che, se si regala tanto amore incondizionato (soprattutto a chi è diverso da noi), se ne riceve altrettanto. Pensate a quell’amore che ogni animale domestico regala al suo padrone, non chiedendo altro che un po’ di buon cibo, tante coccole, un corpo caldo umano su cui dormire … e in cui infilzare le proprie unghiette.

 

Il gatto più famoso degli anime: Doraemon

Un’altra tata, stavolta robotizzata, è “Doraemon”. Venuto dal futuro per assicurare un’infanzia felice a Nobita, ha delle ottime doti culinarie (chi non ha, almeno una volta nella vita, desiderato assaggiare i suoi famosi dorayaki?) e una tasca quadridimensionale dalla quale estrae i chiusky. Salvo nelle situazioni di stress dove si fa prendere dal panico e tira fuori solo cianfrusaglie inutili; al che ci viene spontaneo urlare, insieme a Nobita: “Doraemon!!!”.

 

Gatti guida. A sinistra lo Stregatto nella versione cartoon e poi live action di “Alice nel Paese delle meraviglie”. A destra Balzar

E poi ci sono Balzar (“Dragon Ball”), il maestro di arti marziali di Goku e coltivatore dei fagioli magici, e lo Stregatto (“Alice nel paese delle meraviglie”) che invita Alice, e tutti noi, a “incamminarci” senza preoccuparci troppo di imboccare la strada giusta o sbagliata perché ciò che conta, nel tragitto della vita, è camminare.

” E continuò: “Vorresti dirmi che strada devo prendere, per favore?”

“Dipende, in genere, da dove vuoi andare” rispose saggiamente il Gatto.

“Dove, non mi importa molto” disse Alice.

“Allora qualsiasi strada va bene” disse il Gatto.

“…purchè arrivi in qualche posto” aggiunse Alice per spiegarsi meglio.

“Per questo puoi stare tranquilla” disse il Gatto. “Basta che non ti stanchi di camminare.” “

 

Come faremmo senza di loro?

 

 In alto Lucifero in “Cenerentola” e il gatto di Ernst Blofeld (007 – Dalla Russia con amore). In basso un “innocuo” peloso in braccio a don Vito Corleone ( Il padrino I) e “Gatto” in “Colazione da Tiffany”. 

Da ottime muse ispiratrici a sveglie mattutine armate di artigli, da sopramobili miagolanti (soprattutto nelle ore notturne) a compagni di gioco pronti a seguirci ovunque (anche dove non dovrebbero, come alla toilette…), ci regalano gioie e tanti graffi.  D’altra parte, come disse il veterinario Joseph Mery, “Dio ha creato il gatto per procurare all’uomo la gioia di accarezzare la tigre”. 

Si meriterebbero una festa che duri 365 giorni l’anno ma – anche qualora gliela organizzassimo – state certi che loro ci guarderebbero sempre come coinquilini (e schiavi) e mai come padroni reclamando, con un’autoritaria zampetta sulla ciotola, altri croccantini.

Perché, come disse Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (1961), «lei e il suo gatto non appartengono a nessuno e nessuno gli appartiene».

 

Angelica Terranova