Asteroid City: il sogno lucido di Wes Anderson (e di tutti noi)!

 

Lento ed elegante all’inizio, romantico e incomprensibile alla fine. Ma c’è dell’altro! – Voto UVM: 4/5

 

Dimenticate per un momento i vecchi film di Wes Anderson, quelli pieni di auto che si fermano e si allontanano e di primi piani sui caffè. Ogni scatto qui ha il suo giusto peso.

L’inquadratura geometrica e la messa in scena di Anderson possono racchiudersi in un flusso di piccoli dettagli. Momento dopo momento dobbiamo cogliere i dialoghi rapidi, la segnaletica enigmatica, i non sequitur, i gesti e gli sguardi abbreviati e i guizzi di espressioni facciali.

Asteroid City, in bilico tra amore e morte, racconta due storie: una finisce più o meno bene, l’altra finisce più o meno male.

Alieni e sentimenti sono i veri protagonisti del film!

La prima, girata in widescreen anamorfico e con colori brillanti, è ambientata in una minuscola città resa famosa dal cratere di un asteroide. Qui, cinque giovani “cervelloni”, finalisti del premio Junior Stargazer, si riuniscono con le rispettive famiglie per prendere parte alla premiazione. Proprio questa sarà interrotta dall’arrivo di un visitatore del tutto inaspettato, un alieno, che in maniera sorprendentemente educata si limiterà a rubare l’asteroide, spingendo tutto il pubblico a riconsiderare le proprie opzioni di vita e, in particolar modo, i propri sentimenti (se così vogliamo definirli).

La seconda storia, intrecciata alla prima, è girata in 4:3 in bianco e nero. Presentata come se fosse un programma televisivo che ha il fine di documentare la produzione di una tipica commedia americana. Ma il conduttore, un generico annunciatore onnisciente (anche troppo), ci dice che la commedia “Asteroid City” non esiste, non è mai stata rappresentata e a detta sua:

“ha solo un’esistenza apocrifa, qualunque cosa significhi”.

Scena del film “Asteroid City”. Regia: Wes Anderson. Casa di produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Studio Babelsberg. Distribuzione in italiano: Universal Pictures. Fotografia: Robert D. Yeoman

Asteroid City non deve piacere, dev’essere compreso

L’ultimo lavoro di Wes Anderson, presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, detiene attualmente il titolo di “miglior film dell’anno ad aver nettamente diviso la critica”. A detta di molti, Wes Anderson si è fatto parodia di se stesso. La peggiore, considerando l’infinità di reel sui social in cui tutti i suoi fan (e non), testimoniano come sia facile e divertente fare delle riprese in #WesAndersonStyle.

Ma se Asteroid City fosse, invece, un buon film? Magari, l’ultimo lavoro di Wes Anderson si prefigge un solo ed unico obiettivo: raccontare quella grande eccentricità della vita quotidiana!

Un po’ come se il suo “film nel film” non sia altro che una “parodia della parodia”. Un modo per raccontare gli eccessi della società contemporanea, sottolineando poi il nostro più grande difetto: l’incomunicabilità nei rapporti umani.

D’altronde, questo film è stato scritto in uno dei momenti più “folli” del nostro tempo: la pandemia del Covid-19. Per noi tutti questo è solo un lontano ricordo ma di sicuro nessuno negherà che proprio in quel momento ci siamo resi conto della vera importanza delle relazioni.

Asteroid City
Jason Schwartzman in una scena del film “Asteroid City”. Regia: Wes Anderson. Casa di produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Studio Babelsberg. Distribuzione in italiano: Universal Pictures. Fotografia: Robert D. Yeoman

Tra inquadrature simmetriche…c’est l’amour!

Wes Anderson, meglio di chiunque altro, è stato capace di raccontare, con tanta leggerezza, uno dei momenti più tristi di questi ultimi anni, mantenendo il focus sul tema della comunicazione o, meglio, dell’incomunicabilità.

Caratteristica, questa, che contraddistingue in modi diversi tutti i personaggi del film: dal timido cervellone Woodrow (Jake Ryan), a Clifford (Aristou Meehan) che scommette su qualsiasi cosa solo per farsi ascoltare e vedere dagli altri. Passando per la giovane maestra June Douglas (Maya Hawke) che si ritrova in difficoltà nel dover dare una risposta alle tante e indiscrete domande dei suoi piccoli alunni e finisce poi per perdere credibilità di fronte a Montana (Rupert Friend) che, inaspettatamente, riesce a trovare una risposta ad ogni domanda.

Ma sono solo i due protagonisti di Asteroid City, Augie Steenbeck (Jason Schwartzman) e Midge Campbell (Scarlett Johansson) a dare davvero un volto al sentimento. Il primo, fotografo di guerra e neovedono, l’altra, attrice e mamma di quattro figli che vede nella tossicità delle relazioni la sua unica via di fuga. È solo grazie alle loro conversazioni a distanza (da finestra a finestra) che i due riescono a trovare un loro equilibrio e, finalmente, a stare bene con se stessi.

La quarantena è finita, tutto è tornato ad essere come prima. Quasi tutto. Nessuno spoiler, ma ecco un suggerimento: c’è di mezzo l’amore!

 

Domenico Leonello

Sceneggiatori in sciopero, Hollywood trema dopo 15 anni

Il due maggio scorso la Writers Guild of America (associazione che tutela a livello sindacale i lavoratori del mondo dello spettacolo) ha indetto uno sciopero contro la mancata disponibilità dell’associazione dei produttori, la Alliance of Motion Picture and Television Producers. 

Ebbene sì, sembra proprio che gli sceneggiatori di Hollywood siano fermi. Ad annunciarlo, una nota pubblicata tre ore prima dalla scadenza del contratto triennale, dove si richiedevano accordi riguardo la paga minima settimanale e maggiore attenzione sulle tutele lavorative. Tra queste, ad esempio, un numero minimo di settimane lavorate a episodio o un numero minimo di autori per ogni writers room. Con lo sciopero di oltre 10.000 sceneggiatori, secondo i media locali, si avrà una ricaduta su più di 800.000 lavoratori dello spettacolo, bloccando set, produzioni e programmi.

L’ultima protesta risale alla fine del 2007 – inizio del 2008

Uno sciopero che costò agli Studios circa 2 miliardi di dollari. Proprio quindici anni fa gli sceneggiatori “posarono le penne” (oggi i computer) per manifestare il proprio malcontento, bloccando l’industria cinematografica più produttiva e ricca del mondo per una centinaia di giorni. Questo comportò ritardi per la produzione di film e serie che furono chiuse in anticipo oppure subirono forti ritardi.

Show come il Tonight Show, l’Ellen Show e The Daily Show furono bloccati per quindici settimane, la prima stagione di Breaking Bad fu ridotta a sette episodi invece di quattordici e molte altre (come Scrubs Lost) incontrano alcune difficoltà.

Anche gli sceneggiatori italiani sostengono i colleghi americani

Writers Guild d’Italia si dice profondamente solidale con quella americana, in quanto i ritmi serrati delle nuove piattaforme in streaming sembrano essere un problema comune. Infatti, i lavoratori producono una maggiore quantità di prodotti ma guadagnano il minimo sindacale. Il presidente di Wgi, Giorgio Glaviano, sottolinea:

Abbiamo seguito con estrema trepidazione la trattativa dei colleghi americani. Abbiamo sperato fino alla fine che la frattura con i produttori Usa si sarebbe composta, ma così non è stato. Esprimiamo la nostra solidarietà ai colleghi della Wga, perché le loro lotte sono anche le nostre. In tutto il mondo la figura dello sceneggiatore è minacciata da compensi sempre più risicati e da condizioni lavorative sempre più vessatorie .Non solo, se a questo aggiungiamo le presunte scorciatoie offerte dalla IA vista come panacea, il nostro lavoro rischia di diventare sempre più una lotta per la sopravvivenza. Noi non tradiremo i nostri colleghi al di là dell’oceano, come qualcuno ha scritto, prestandoci al dumping, noi sosterremo in tutti i modi i colleghi americani.

Timore per l’ IA : potrebbe diventare una degna sostituta?

Un’altra problematica sembra essere quella dell’ intelligenza artificiale. Gli sceneggiatori temono che in futuro potrebbe sostituirli, perché è ormai noto come l’IA sia in grado di ideare nuovi scenari – in taluni casi, anche soddisfacenti. WGA, quindi, ha chiesto un aumento della regolamentazione sull’utilizzo dei software che possano sostituire l’uomo in prima persona. Dall’altra parte l’AMPTP, società che rappresenta gli studios e le piattaforme,  ha sospeso il giudizio e si limita a mettere al vaglio i motivi della protesta avanzata dagli sceneggiatori.

Anche alcune celebrità hanno espresso il loro parere sulla questione. George Clooney teme che l’uso dell’ IA comporti un aumento delle disuguaglianze e le discriminazioni a causa di algoritmi che riproducono stereotipi.  Tom Hanks, nonostante sarà ringiovanito dall’intelligenza artificiale, considera impossibile sostituire il genio umano di coloro che “come per magia”, riuniti ad un tavolo, costruiscono una storia che potrebbe diventare un nuovo capolavoro cinematografico.

Serena Previti

Con UniVersoMe alla (ri)scoperta del grande cinema…al cinema!

Cosa sia il cinema se lo sono chiesti in tanti nel corso della storia. Dai fratelli Lumière alle sorelle Wachowski, passando per Woody Allen, Godard, Bertolucci e perché no, guardando al presente anche l’acclamato Quentin Tarantino che di recente ha pubblicato un libro sul suo “vizio”, Cinema Speculation, presentato a Milano dov’è stato acclamato da una folla di appassionati. Ognuno, ovviamente, dando una propria ed originale interpretazione.
Una cosa però, a mio parere, potrebbe mettere tutti d’accordo: la magia che da sempre l’arte cinematografica esercita sulla vita delle persone.
Il cinema, anzi, non è “semplicemente” un’arte; è quel compagno di viaggio di cui molti non possono fare a meno. Un film, un buon film, ha il potere di farci emozionare, di farci piangere, ridere, come nessun’altra espressione culturale e artistica riesce a fare. Forse perché questa le racchiude un po’ tutte?
Una cosa è certa, il cinema è una vera e propria esperienza, e solo dopo essere stati dentro una sala cinematografica potremo vantarci di averla vissuta per davvero. Questa mia affermazione, che per certi versi potrebbe pure sembrare scontata, contiene del vero ed è sempre più riscontrata dal grande pubblico. Al giorno d’oggi, noi, cittadini globali e al tempo stesso soli; figli di una società postmoderna, o “liquida” come direbbe il sociologo polacco Bauman, siamo costretti a fare i conti con molte (e forse troppe) esperienze mediali. E la cosa, forse più dolorosa, è che alcuni di noi ne sono totalmente inconsapevoli.
Mi riallaccio ad un discorso fatto dal professore Federico Vitella, ordinario di storia del cinema all’Università degli studi di Messina, che nel corso di una sua lezione ha evidenziato il fatto che ormai sempre meno persone, ed in particolar modo le nuove generazioni, risultano attratte dalla “magia” dell’esperienza vissuta in sala, preferendo piuttosto quel famoso “hic et nunc” (qui ed ora) e spesso meglio se nel mondo virtuale.
Abbiamo reso la nostra quotidianità sempre più “smart”. E guardare un film, scelto minuziosamente su una delle tante piattaforme, stando seduti comodamente sul nostro divano, può attirare maggiormente piuttosto che stare ore seduti su delle poltrone, – talvolta anche scomode – in attesa di un prodotto cinematografico che poi magari nemmeno ci piace. Ma non fa anche questo parte di un’esperienza?
E ancora, il cinema, non è come le altre arti fondamentale per la nostra crescita personale?
In questo mondo “frammentato”, forse, ciò di cui abbiamo bisogno è di alcune verità, e credo che il regista Jean-Luc Godard, esponente di rilievo della Nouvelle Vague, avesse ragione nell’affermare che se la fotografia è verità, il cinema lo è ventiquattro volte al secondo. E forse, per riscoprire certe verità urge entrare in una sala cinematografica, qualunque essa sia, per distaccarci da quei prodotti commerciali e mediali e andare alla riscoperta di quei capolavori che hanno fatto la storia del cinema. Proprio da questo è nata l’esigenza, da parte di UniVersoMe, in collaborazione col Cinema Lux di Messina, di dar vita ad un cineforum che avesse come scopo principale quello di riscoprire certi titoli. In primis, per un arricchimento personale ma senza tralasciare l’aspetto sociale, al giorno d’oggi più che fondamentale.
Si è tenuta così mercoledì 5 aprile la prima proiezione, “8½” di Federico Fellini, accompagnata dall’intervento del professore Federico Vitella, che nel fare un breve excursus sul regista e sulla sua arte ha comunque evidenziato, ancora una volta, l’importanza dell’arte cinematografica. Il progetto del cineforum continuerà fino al mese di maggio e prevede la proiezione di film come “Uccellini e uccellacci” di Pier Paolo Pasolini, “Effetto notte” di Truffaut, e “Mulholland Drive” di Lynch, tutti in versione restaurata dalla Cineteca di Bologna. Con l’obiettivo di ricordare a tutti l’importanza della settima arte!

Domenico Leonello
Caposervizio UniVersoMe

* Articolo pubblicato il 13/04/23 nell’inserto “Noi Magazine” di Gazzetta del Sud

Massimo Troisi: l’ultimo pulcinella

Io penso che Massimo Troisi appartenga a una rarissima categoria di uomini che si sono espressi in arti o in lavori — pittura, musica, letteratura, altro — senza che ce ne fosse assolutamente bisogno. Perché Troisi era una scultura vivente, un incendio pittorico lui stesso. E il fatto che abbia sputato parte della sua grandezza in pochissimi film non ha alcun valore, se non quello di fissarlo nella nostra memoria o nei nostri schermetti. Voglio dire questo, voglio tentare di farmi capire: Massimo Troisi è il quadro, la partitura, l’Opera. Non ha bisogno di esprimersi.

( Giovanni Benincasa su Massimo Troisi)

 

Tra le strade di Napoli, tra le lenzuola appese e i murales, 70 anni fa veniva al mondo Massimo Troisi. Pino Daniele, in una delle sue canzoni lo identificò come l’ultimo Pulcinella, la maschera più famosa di carnevale e della bella Napoli.

Nacque il 19 Febbraio del 1953, da tutti considerato come il pulcinella senza maschera, il comico dei sentimenti.  Massimo rientra tra i nomi dei principali attori italiani come Totò, Monica Vitti, Anna Magnani, Alberto Sordi e tantissimi altri attori che hanno consacrato la cinepresa.

Troisi era dotato di un talento straordinario, la sua mimica facciale, le doti verbali e gestuali lo rendevano un attore unico, capace di far provare empatia. Le capacità attoriali di Troisi, hanno donato una nuova luce alla società borghese napoletana e italiana. Paladino attoriale dei diritti delle nuove ideologie, come il femminismo e l’individualismo. Gli fu donata la figura dell’antieroe, fu il rappresentate degli emarginati, colui che pose l’accento sugli individui che non hanno una forma, come la nostra generazione, e quelle dopo di noi.

Troisi iniziò la sua carriera a soli 15 anni nel teatro parrocchiale della Chiesa di Sant’Anna. Negli anni ’80, passò al grande schermo con il film del 1981 “Ricomincio da Tre”. Con il passare degli anni, passò all’esordio televisivo con il trio de La Smorfia, sketch teatrali, in cui venivano messe in scena le abitudini odierne della società umile.

A disoccupazione pure è un grave problema a Napoli, chae pure stanno cercando di risolvere… di venirci incontro… stanno cercando di risolverlo con gli investimenti… no, soltanto ca poi, la volontà ce l’hanno misa… però hanno visto ca nu camion, eh… quante disoccupate ponno investi’? […] cioè, effettivamente, se in questo campo ci vogliono aiutare, vogliono venirci incontro… na politica seria, e ccose… hann’ ‘a fa’ ‘e camiòn cchiù gruosse.

Massimo Troisi  ne il film “Ricomincio da Tre”. Fonte: Nuova Irpinia

 

Sono tanti e sono troppi i film di Massimo, oggi vi parlerò di due che mi sono entranti non solo “into coré”  mio, ma in tutti i cuori degli italiani.

Che ora è? (1989)

“Mamma mia io…24 ore su 24, sempre aperto, tutto aperto, correre, miche’ correre, io non voglio stà 24 ore aperto papà, io voglio chiudere!

E’ un film del 1989, diretto dal regista Ettore Scola, con protagonisti Marcello Mastroianni  considerato come uno tra i maggiori artisti di sempre, e il nostro Troisi. I due interpretano Marcello (Marcello) e Michele (Massimo), che sono esattamente padre e figlio, il quale hanno perso ogni tipo di rapporto. In questo lungometraggio, Marcello è un avvocato che cercherà di riconquistare l’amore della propria “creatura”. Michele è un giovane laureato in lettere, che sta per terminare la leva obbligatoria.

Marcello cercherà di regalare al proprio figlio regali lussuosi, ma per Michele rappresentano solo dei beni materiali senza alcun significato, a parte l’orologio d’argento appartenuto al nonno.

Nel lungometraggio potremo vedere un rapporto difficile, composto da incomprensioni e litigi, ma pian piano i due si riavvicineranno tra loro. Marcello nutre tante aspettative verso Michele, senza capire che la sua è solo una banalità egoista.

Marcello Mastroianni e Massimo Troisi in una scena del filmFonte: Comune di Cesena
Marcello Mastroianni e Massimo Troisi in una scena del film Fonte: Comune di Cesena

 

Il Postino (1994)

“E’ colpa tua se mi sono innamorato… perché mi hai insegnato ad usare la lingua non solo per attaccare francobolli!”

 Il Postino, è un film diretto da Michael Radford, ispirato al romanzo “Il Postino di Neruda”  dello scrittore cileno Antonio Skármeta. Massimo Troisi, poco ore dopo la fine delle riprese, morì a solo 41 anni per un arresto cardiaco.

Il lungometraggio ebbe un grande successo, non solo in Italia ma anche all’estero, ottenendo cinque candidature agli oscar. Ma ne vinse solo una per la “miglior colonna sonora drammatica”, una tra le musiche più belle al mondo, composta da Luis Enríquez Bacalov.

Ma vinse tanti altri premi come  il David di Donatello per il miglior montatore.

Massimo Troisi, in una scena del film. Fonte: Metropolitan Megazine

 

La storia è ambientata in un’isola del sud Italia del 1952, dove la maggior parte degli abitanti sono pescatori. Mario Ruoppolo (Massimo Troisi) è un giovane figlio di un pescatore vedovo. Mario della pesca non né vuole sapere niente, decide quindi di lavorare come postino. Nell’isola, vi è il poeta cileno Pablo Neruda (Philippe Noiret), che è stato esiliato dalla sua terra e ha richiesto l’asilo politico, perché perseguitato per le sue idee  comuniste. Il direttore della posta, spiega a Mario che dovrà consegnare la posta con la sua bicicletta, solamente a Neruda, giacché il resto della popolazione è analfabeta. Ogni giorno che passa, Mario si interesserà sempre di più al poeta, tra i due nascerà una amicizia sincera. Le loro passeggiate saranno costellate di dialoghi che vanno dall’arte alla politica, pian piano il postino si avvicinerà alle ideologie comuniste.

Mario incontrerà la bellissima Beatrice Russo (Maria Grazia Cucinotta), di cui si innamorerà a prima vista. Mario cercherà di conquistare l’amore di Beatrice, recitandole proprio le poesie di Neruda.

Massimo e Maria, in una scena del film. Fonte: Vigilianza Tv

 

Mario: ‘Don Pablo, vi devo parlare, è importante… mi sono innamorato!’

Pablo Neruda: ‘Ah meno male, non è grave c’è rimedio.’

Mario: ‘No no! Che rimedio, io voglio stare malato.

 

Massimo ci manchi tanto, il tuo sorriso e le tue smorfie hanno dato una speranza a tutte le nuove generazioni, ci hai insegnato cos’è l’amore con tutte le sfumature che esso comprende. Ci hai parlato della comunità, di quanto essa sia dispensabile per ogni essere umano e di come il teatro rappresenti il vero. Ti ringraziamo “de coré” Pulcinella senza maschera, non riesco a spiegare appieno cosa hai rappresentato per lo spettacolo. Tu stesso quando leggevi le poesie di Neruda o quando interpretavi il teatro, non riuscivi a dare un senso, come si può spiegare cos’è realmente l’arte?

 

Alessia Orsa

Totò: 125 anni dalla nascita del principe della risata

Nel mondo del cinema italiano, c’è chi ha avuto il privilegio (e chi no) di poter assistere, sul grande schermo e a teatro, alle grandiose performances attoriali di note donne e uomini appartenenti al filone della commedia all’italiana, genere cinematografico affermatosi nel secondo Dopoguerra. Tra questi, uno in particolare lo ricordiamo affettuosamente e con grande stima: Totò! Al secolo Antonio de Curtis, l’attore napoletano è stato tra i più grandi della scena italiana e regionale per le sue doti sia come attore, ma anche come paroliere, poeta e filantropo.

L’esordio a teatro e l’approdo al cinema

Signori si nasce e io lo nacqui, modestamente! (frase tratta dal film Signori si nasce)

Nato nel 1898, Totò iniziò, in età giovanissima, a frequentare i teatrini periferici esibendosi – con lo pseudonimo di “Clerment“— in macchiette e imitazioni del repertorio di Gustavo De Marco, illustre interprete napoletano dalla grande mimica e dalle movenze snodate, simili a quelle di un burattino. Proprio su quei palcoscenici di periferia incontrò attori come Eduardo De Filippo e suo fratello Peppino.

Nel 1927 fu scritturato da Achille Maresca, titolare di due diverse compagnie. Due anni dopo, venne contattato dal barone Vincenzo Scala, titolare del botteghino del teatro Nuovo di Napoli per scritturarlo come “vedetta” in alcuni spettacoli di Mario Mangini e di Eduardo Scarpetta, tra cui Miseria e nobiltàMessalina e I tre moschettieri (dove impersonò d’Artagnan), accanto a Titina De Filippo, sorella di Eduardo e Peppino.

Debutta sul grande schermo con il film Fermo con le mani (1937), il quale però non riscuote grande successo. L’attore continua comunque la sua attività alternando teatro e cinema, producendo un repertorio molto vasto che lo ha portato al grande successo solo più tardi, negli anni ’50, recitando in compagnia di Aldo Fabrizi (celebre la pellicola Guardie e ladri) e di Peppino de Filippo (tra le più straordinarie pellicole ricordiamo Totò, Peppino e la malafimmina, La banda degli onesti, Totò, Peppino e i fuorilegge) , anche lui consacratosi al cinema dopo aver rotto con il fratello maggiore.

Totò, Peppino de Filippo e Giacomo Furia in una celebre scena del film La banda degli onesti (1956).

Totò interpretò dal 1937 fino alla morte (nel 1967) ben 97 film per il grande schermo, quasi sempre come attore protagonista, per una media di oltre 4 all’anno (numero che non tiene conto della sua pausa durante la guerra). Lavorò con 42 registi differenti, quelli con cui produsse maggiormente furono Mario Mattoli (16 film), Steno (14 film), Camillo Mastrocinque (11 film), Sergio Corbucci (7 film), Mario Monicelli (7 film) e Carlo Ludovico Bragaglia (6 film).

Il totoismo: aspetti della lingua di Totò

Oltre le abilità attoriali, risaltano anche quelle linguistiche, peculiarità non indifferente della figura dell’attore la quale è stata (e ancora lo è) oggetto di studio di noti linguisti e cinematografi. Citando alcuni passi del libro del prof. Fabio RossiLa lingua in gioco. Da Totò a lezione di retorica”, la lingua dei film con Totò è:

puro suono fine a sé stesso, malleabile, manipolabile all’infinito, spesso senza alcuna apparente utilità. […] l’ascoltatore-spettatore è perturbato nell’assistere al dissolvimento del codice di comunicazione ridotto a mero suono o a veicolo di significati lontanissimi. (pp. 18-19)

Sembra che emerga un tentativo di confondere il pubblico, ma in realtà l’operazione adottata da Totò è lungimirante:

l’importanza linguistica di Totò non è consistita tanto nell’invenzione o nell’abuso di singole forme, ma nell’aver portato il linguaggio al centro dei propri spettacoli, della propria riflessione, e nell’aver svolto un ruolo non marginale. (p. 24)

La sua lingua diventa, così, “iper parlata”, poiché è composta da un insieme di “gradazioni possibili a scopo ora ludico-deformante, ora ironico-satirico”(Lingua italiana e cinema, Fabio Rossi, p.81). Volendo scendere nel pratico, tra le formule più care ricordiamo che che, è (o fa) d’uopo, etiandio, quisquillie, bazzecole e pinzillacchere (“cosa da nulla” “reca proprio, come prima attestazione nota nei vocabolari, il 1930 ed è attribuita a Totò” cit.) Tutti i suoi film sono costruiti “sul gioco verbale”, servendosi di due figure retoriche: la paronomasia, per la quale si accostano due parole di suono simile o uguale ma di significato differente, e la polisemia, vale a dire “lo scambio tra significati diversi di una medesima parola”.

L’anima poetica

Fotografia in bianco e nero di Totò.

La livella è le escroveto che l’usa il muratore per nivelari il muro, dunqueOgn’anno, il due novembre, c’é l’usanzaPer i defunti andare al CimiteroOgnuno ll’adda fà chesta crianzaOgnuno adda tené chistu penzieroOgn’anno, puntualmente, in questo giornoDi questa triste e mesta ricorrenzaAnch’io ci vado, e con dei fiori adornoIl loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza

Tra le poesie più note, ‘A Livella rappresenta un unicum nella vita artistica di Totò. Composta nel 1964 e formata da 104 versi, la poesia affronta con ironia il tema della morte, dimostrando come al di là dello status che possediamo in vita, davanti all’ultimo passo siamo tutti uguali e umani, come se tutto si azzerasse:

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a ssenti…nun fa”o restivo,
suppuorteme vicino-che te ‘mporta?

Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!

Tra innumerevoli successi, – ma anche dispiaceri, come la morte del figlio e la malattia agli occhi, – Totò è stato l’attore napoletano che più di tutti, all’epoca, ha interpretato egregiamente i vizi e le caratteristiche tipiche dell’italiano medio, e anche del napoletano, omaggiando sempre la sua terra. Non è dato sapere se un altro come lui possa rinascere, quel che è certo è che ha ispirato generazioni di attori e commediografi napoletani e continua ancora, poiché il suo immaginario non si può mica dimenticare. Per dirla con una sua frase: “ma mi faccia il piacere!

 

Federico Ferrara

Il cinema è nato a Messina

Il cinema a Messina nacque in un epoca contemporanea alla prima proiezione cinematografica avvenuta a Parigi.

Dal febbraio del 1897 Messina fiorisce di locali cinematografici in pianta stabile e di conseguenza si fa strada un primordiale quanto efficace mezzo pubblicitario, la locandina cinematografica affissa nelle strade o nelle vetture delle imprese mobili, che raccoglieva tutte le informazioni utili per l’evento cinematografico così  affacciando la società messinese del tempo ad una nuova forma di arte.

Cinématographe Lumière. © Musèe des arts et mètiers-Cnam/photo studio Cnam.

 

Il primo cinema a pianta stabile si ha con l’apertura del Reale Cinematografo Lumière in Via S. Camillo, successivamente tra il 1905 e il 1908 si registrano la Sala Italia in Corso Vittorio Emanuele con trasferimento di sede nel periodo invernale in Piazza S. Giacomo, a seguire s’inaugura l’Edison Cinématographe  allo Chalet in Corso Vittorio Emanuele. Il Cinematografo imperiale” in via Cardines e il  Cinematografo Mignon ad opera di Ernesto Mastrojeni sino ad essere inaugurato il “Moderno” al palazzo Cianciafara e il “Cinematografo Iris”.

Nel periodo post terremoto sorgono diversi cinema tra cui: il cinema “Progresso”; l’indimenticabile cinema “Trinacria” e il cinema più frequentato da giovani e famiglie il cinema “Star” ad angolo tra la via Consolare Vecchia e via Bonino, trasformato in un supermercato. Infine l'”Eden cinema-concerto” nel quale il giovane Giovanni Rappazzo inventa il cinema sonoro.

 

Il Cinema Teatro EDEN-Messina. Fonte: Pinterest
Il Cinema Teatro EDEN-Messina. Fonte: Pinterest

 

Insomma, Messina zampilla di nuovi locali che racchiudono l’arte del cinema.

A seguire il cinema messinese è perfezionato dal Cinematografo Lumière che presenterà i suoi film in tre occasioni: al Teatro La Munizione nell’ottobre 1898, al Reale Cinematografo Lumière in Via S. Camillo nel 1898 e al Teatro di Villa Manzini nel 1905.

Preceduto dalla prima cassetta che proiettava delle immagini in movimento, il Kinetoscopio di Edison, il vero apparecchio cinematografico inaugurato a Messina fu il Kinefotografo di origine inglese registrato in una strada adiacente al Teatro Vittorio Emanuele, periodo coincidente con il Cinematografo dei fratelli Lentini. Sono questi gli anni in cui i registi utilizzano apparecchiature per riprendere scene dal vivo, come accadde per Lo sbarco dei passeggeri dal Ferry-Boat, Il convegno dei ciclisti messinesi allo Chalet.

Kinetoscopio di Edison. Fonte: occhiovolante.it

 

Fu altresì frequente la realizzazione di film a soggetto, all’indomani del terremoto del 1908,  come Dalla pietà all’amore (Il disastro di Messina). Negli anni dieci e quaranta del ‘900, Messina inaugura i film d’epoca in cui viene risaltato il magnifico paesaggio che divide lo Stretto dalla penisola e che ancora oggi incanta i cittadini e migliaia di turisti. Sono diversi i registi che includono scene dell’attraversamento dello stretto come al tempo fu la scelta di Giuseppe Tornatore in L’uomo delle stelle.

Il cinema a Messina introduce anche un’altra novità non ancora registrata sul territorio, la presenza di cinecircoli e associazioni culturali cinematografiche. Già a partire dagli anni ’30 esisteva un CineGUF interamente gestito e dedicato agli studenti universitari che diede vita anche alla produzione di documentari.

 

L’attrice Jayne Mansfield al Rassegna Internazionale del Cinema di Messina e Taormina nel ’62. Fonte: Taorminafilmfest

 

Infine, nel dopoguerra fu inaugurato il Circolo messinese del cinema che cambiò denominazione negli anni.

Ma il vero periodo aureo del cinema messinese del dopoguerra, si ebbe grazie alla vicinanza di Taormina protagonista di diverse edizioni cinematografiche con una fama che conserva ancora oggi.

Siamo così giunti ai giorni nostri in cui, grazie a questo excursus storico-cinematografico, possiamo vantare che il cinema è nato a Messina.

Sarebbe interessante organizzare una serie di eventi da “tuffo nel passato” da trascorrere nei cinema storici ancora presenti sul territorio messinese,  riproponendo un film di quegli anni.

 

Elena Zappia

Fonti:

Storia e civiltà Messina, Ed. GBM, 1997, Messina

The Fabelmans: il film testamento della vita di Steven Spielberg

Un film che pone in risalto la maturità artistica e umana del grande cineasta. – Voto UVM: 5/5

 

Parlare di Steven Spielberg non sembra quasi mai un’operazione semplice, specialmente se pensiamo al vissuto e alla carriera del regista. Eppure, dopo aver realizzato una serie di successi strepitosi, — per citarne alcuni Lo Squalo, E.T. l’extra terrestre, Jurassic Park, Schindler’s List (premi Oscar alla miglior regia e miglior film 1994) e molti altri, tra cui la saga su Indiana Jones, — il grande cineasta ritorna con The Fabelmans, un film capolavoro che parrebbe essere una sorta di testamento artistico oltre che introspettivo. Per la prima volta Spielberg decide di mettersi a nudo, raccontando la storia della sua vita dal punto di vista familiare.

Trama

Spielberg
Sammy Fabelman in una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

La pellicola inizia con la visione al cinema del film di John Ford, Il più grande spettacolo del mondo (1952, il primo che il regista abbia mai visto in vita sua) assieme ai suoi genitori (Paul Dano nei panni del padre Burt e Michelle Williams nei panni di Mitzi). Lo sguardo del bambino, inoltre, sembra ricordare quello del protagonista di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.

I film sono sogni che non dimenticherai mai.

Dopo la visione, Sammy resta folgorato dalla potenza evocatrice delle immagini e la madre, rimasta estasiata da ciò, decide di fargli usare la macchina da presa del padre. Naturalmente Sammy inizia ad usarla sempre insieme alle sue sorelle, finché divenuto grande non ne ottiene una tutta per sé (Bolex H8, doppia 8mm) con cui gira dei cortometraggi prettamente western insieme ai suoi amici. Un aspetto molto importante è la rappresentazione di come Sammy pulisce e taglia le pellicole per ottenere degli effetti speciali, quasi a voler ricordare che la tecnica è un dettaglio da non sottovalutare mai per la riuscita di un film.

Il film prosegue mettendo in evidenza anche il rapporto complicato con il padre, il quale inizialmente non vuole che Sammy faccia di questa passione un lavoro. Probabilmente, questo pensiero è dovuto al clima altalenante dell’epoca (fine anni ’50, inizio anni ’60), in cui la domanda di lavoro non soddisfaceva a pieno le esigenze di determinati nuclei familiari. Sammy comunque non si abbatte e prosegue per la sua strada, nonostante la morte della madre che provocherà un forte scossone all’interno della famiglia (una scena importante è nella seconda parte del film, rappresentata servendosi di un climax discendente). Per non parlare delle discriminazioni razziali (il protagonista così come lo stesso regista, è di origini ebraiche) che Sammy subirà a scuola, una volta approdato in Arizona.

Tra autorialità e filosofia del cinema

Spielberg
Una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

L’arte ti darà corone nella testa e aria nel cielo, ma ti strapperà il cuore.

Il percorso di crescita del protagonista ci porta a vedere due lati della stessa medaglia, ovvero la concezione del cinema come mezzo in grado di canalizzare i propri sogni, ma anche la potenza di un medium in grado di manipolare la realtà a proprio piacimento. L’attenzione incredibile di Spielberg verso gli strumenti del suo futuro mestiere, come citato in precedenza, è una toccante dichiarazione d’amore verso il grande schermo, quasi commovente per la sua limpidezza e sincerità. In ogni scena traspare la forza dirompente della passione del Maestro; quella che gli ha permesso in oltre cinquant’anni di carriera di creare pellicole di grande spessore, assurte a veri e propri culti. La natura della storia, inoltre, permette a chiunque di relazionarvisi senza scadere nella banalità poiché, grazie allo sviluppo perfetto dei caratteri dei personaggi, possiamo ritrovare il significato della vita intesa come una sfida continua, con l’invito a non arrendersi mai.

Questo aspetto, infatti, è messo a fuoco negli ultimi minuti della pellicola, rappresentanti una forte lezione per i giovani autori: quello che conta, alla fine, non è tanto ciò che si rappresenta ma come lo si rappresenta. Il Cinema è una questione di sguardo, di prospettiva, di orizzonte, come suggerisce John Ford (interpretato da David Lynch, davvero!):

Quando l’orizzonte si trova in basso è interessante, quando si trova in cima è interessante, quando si trova in mezzo è una merda noiosa.

Questo sta a significare che solo l’occhio dell’artista, di chi sa guardare davvero oltre, è in grado di donare quell’aura di unicità al film. Qui risiede il segreto dell’arte cinematografica e Spielberg, non poteva spiegarcelo meglio di così.

 

Federico Ferrara

Lando Buzzanca era la voce indispensabile al grande cinema

Si è spenta ieri all’età di 87 anni l’ultima voce del grande cinema italiano, quella di Lando Buzzanca. Una voce qualche volte trascurata – seppur amata dal grande pubblico che lo conobbe anche sul piccolo schermo – proprio come quella del suo alter ego, il “merlo maschio” Niccolò Vivaldi, nella grande orchestra di strumenti – tra attori e registi- che hanno composto la magnifica sinfonia della storia del cinema nostrano.

Violoncellista col complesso di inferiorità accanto a Laura Antonelli ne “Il merlo maschio”, commedia del ’71 a tinte psicologiche, ingiustamente liquidata come “sexy”. Fonte: Clesi Cinematografica

 

Volto poco noto alla nostra generazione rispetto al pantheon di mostri sacri (Gassman, Tognazzi, Mastroianni, Sordi), spesso sottovalutato da una certa critica che lo considerò esponente di tutta una scena anni ’70 straripante di b movies  (quando invece Buzzanca decise presto di non prendere parte alle pellicole più eccessive della commedia sexy all’italiana), relegato alla provincialità con lo stereotipo di maschio siciliano sciocco, ma anche sanguigno e lussurioso, ruoli che ha spesso interpretato sul grande schermo, Lando Buzzanca è stato molto di più.

Nasone adunco, viso squadrato, occhi scuri e intensi, spesso attraversati da quel guizzo di follia che contraddistinse i suoi personaggi migliori, l’attore nato a Palermo nel 1935, aveva proprio quella che si può dire una faccia da cinema. Non la faccia da divo – come poteva essere quella del latin lover Mastroianni o dell’attraente e signorile De Sica – ma proprio da attore, da lavoratore che fa del cinema la sua vita e la sua professione. Riferendosi a lui una volta mio nonno disse: «Lavora bene!»

E forse con un’unica quanto “ingenua” frase, ha colto quello che l’inchiostro di tanti critici non ha saputo mettere in luce in miriadi di recensioni. Lando Buzzanca era un artigiano della recitazione, attività che iniziò a svolgere all’età di 17 anni affiancandola ad altri lavoretti umili.

Artigiano, nella fiction Rai “Il Restauratore”. L’attore negli anni recenti ha vissuto una vera e propria rinascita professionale grazie a molte serie Rai. Fonte: RaiPlay.it

 

Poi la notorietà, all’età di 22 anni, diretto da Pietro Germi nel suo capolavoro Divorzio all’Italiana, film a metà strada tra un neorealismo che conobbe la sua apoteosi nel decennio precedente e un certo cinema politico che si sarebbe affermato di lì a poco e si serviva spesso delle tinte della satira per dipingere quell’affresco di costumi strani e spesso ipocriti, di vizi e virtù della società italiana.

Accanto ai divi Stefania Sandrelli e Marcello Mastroianni, la coppia di adulteri che ripiega per una soluzione tutta italiana – anzi siciliana! – per porre fine a un matrimonio in crisi, Lando Buzzanca ha il ruolo per così dire secondario del focoso e giovane fidanzato della sorella disonorata dell’inetto barone Cefalù.

Sempre per Germi si ritroverà stavolta a vestire un ruolo più di rilievo nel 1964. Qui sarà Antonio Ascalone, fratello di una Sandrelli “sedotta e abbandonata”: sarà lui incaricato a vendicare l’onore della sorella in un dramma corale a tratti grottesco che vede però protagonisti più la Sandrelli (e l’interpretazione di quest’ultima a dire il vero non è nemmeno memorabile!) e Saro Urzì nel ruolo del pater familias strenuo difensore della morale domestica.

Eppure nella “partitura” della sinfonia cinematografica, nella composizione di un capolavoro, niente è lasciato al caso. E anche l’interpretazione minore (si fa per dire) di Buzzanca è la tessera piccola e indispensabile nel mosaico della Sicilia di Germi: calda e affascinante come ebbe a dire lo stesso attore, ma anche crudele e assolata, messa in mostra da un bianco e nero dal contrasto luminoso, quasi accecante.

Fratello disonorato, accanto al “seduttore” Aldo Puglisi e la “sedotta” Stefania Sandrelli. Fonte: Paramount

 

Buzzanca ci racconterà tutto questo in un’intervista anni dopo, con la chioma argentata e la sua voce “nuova” che ha preso il posto di quella nasale della gioventù, quella da meridionale tonto preso spesso per i fondelli dal settentrionale più scaltro. E’ una voce rauca ma solenne, da nobile siciliano d’altri tempi, ultimo di una stirpe di “gattopardi” del grande cinema, di attori di una certa statura anche intellettuale (penso a lui come al grande Gassman) che lo spettatore percepiva persino al di qua dello schermo.

 

Un “gattopardo” ben diverso da quello di Burt Lancaster, Lando Buzzanca lo interpretò davvero nel pluripremiato film del 2007 I Viceré di Roberto Faenza, ispirato al romanzo di Federico De Roberto. Padre autoritario di una famiglia nobile catanese in decadenza, quella degli Uzeda, sullo sfondo delle vicende risorgimentali, il personaggio di Buzzanca non si rassegna al suo mondo in rovina – quello dell’aristocrazia borbonica – davanti alla vittoria degli ideali unitari e cade in circolo vizioso di follia e superstizioni.

Ancora una volta l’attore porta sullo schermo il volto e la voce della sua Sicilia con i suoi chiaroscuri e le sue “tare”. Ma a ben pensarci, come lo era già stato nei film ad episodi degli anni ’60, (I mostri, Made in Italy, I nostri mariti) il volto di Buzzanca è quello dell’Italia intera con vizi e virtù che ci portiamo dietro nonostante anni di storia e un miracolo economico che in fondo «ha cambiato tutto per lasciare tutto com’era».

E questo i grandi registi lo sapevano. Per questo scelsero il talento e la voce di Buzzanca, il grande attore che per uno strano e crudele gioco del destino ha vissuto i suoi ultimi giorni relegato in una RSA, affetto da una forma acuta di afasia. Una voce che ci auguriamo non venga sommersa dal chiacchiericcio delle polemiche che circondano la sua triste morte, offuscando quelli che sono stati i meriti e le grandi intepretazioni dell’attore.

Siciliano ingenuo e seduttore accanto a Michele Mercier ne “I nostri mariti”. Fonte: Documento Films, Euro International Films

 

Perché quella di Buzzanca è una voce che merita di essere ancora solista nella storia del grande cinema italiano. E la nostra generazione, checché se ne dica, si merita di scoprire –  o anche riscoprire – un artigiano del cinema come lui.

Angelica Rocca

Del Toro dona la vita a Pinocchio

Un film eccezionale che rinarra Collodi attraverso la psiche di Del Toro – Voto UVM: 4/5

 

Del Toro ci regala un altro grande pezzo di cinematografia col suo Pinocchio. Non si tratta di una semplice trasposizione del classico di Collodi, bensì – come vedremo – di un totale rifacimento della storia.

Il regista dei recenti Nightmare Alley e de La forma dell’acqua ci regala un racconto molto più crudo di quello a cui ormai siamo abituati, anche per via delle libertà che la Disney si prese decenni fa nel suo film. Ed in questo è un film di Del Toro in tutto e per tutto: per sua stessa ammissione, infatti, la pellicola non si è limitata ad un semplice riadattamento ma a narrare una storia profondamente diversa che risonasse con l’intimo del regista.

                                                                                                 

Burattini che prendono vita

Ciò che più di ogni altra cosa in questo film traspare è la crudezza. Ogni personaggio riesce ad esprimere una varietà di emozioni enorme, soprattutto per un film in stop-motion.

Uno degli aspetti più interessanti da analizzare è proprio questo: riuscire a trasmettere la stessa mimica di un attore tramite un “burattino” da manovrare fotogramma per fotogramma è un’impresa quasi impossibile, e questo film riesce ad essere uno degli esempi migliori sotto quest’aspetto.

Pinocchio sullo sfondo di un paesino sulle montagne liguri. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

La pellicola è stata girata con in mente l’imprecisione: sia quella dei movimenti umani sia quella di un’animazione “fatta a mano”. Ogni personaggio ha qualche imperfezione che lo caratterizza, ma che soprattutto riesce a spiccare sullo schermo. Gli occhi sono forse la parte che risalta di più in questa animazione ed è qui che il legame col live action si sente maggiormente. Il regista ha trasposto la sua esperienza con gli attori in questo nuovo lavoro, portando ad un nuovo estremo le possibilità della stop-motion.

Geppetto. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Anche la regia risulta ben studiata e chiarissima nell’esposizione. Il film trasuda da ogni frame il famoso stile di Del Toro, cupo ma colorato. Se consideriamo la tecnica utilizzata, il numero e la varietà di inquadrature risultano ancora più strabiliante. La camera inquadra benissimo ogni personaggio e i set sono costruiti ad hoc per permettere ciò, con un realismo ed una cura maniacale.

Il nuovo Pinocchio

La trama è forse l’elemento più controverso del film. Ricorda molto le altre produzioni di Del Toro con una grande enfasi sull’onirico nella prima parte e un ritorno al reale verso metà della pellicola. È una cifra stilistica che torna anche qui, arricchendo la storia di Collodi di un sottotesto storico e politico. Ciò si ricollega in maniera perfetta alla metafora narrativa generale della trama: il legame tra la vita e la morte ed il nostro vivere nella coscienza di entrambe.
In questo modifica anche parecchio la storia originale – come già detto – ma il tutto risulta una narrazione interessante. La nascita di Pinocchio deve tutto al mostro di Frankestein: Geppetto è un falegname poverissimo caduto nell’alcol e interi personaggi vengono eliminati ( Fata Turchina, Mangiafuoco), altri vengono aggiunti. Il tutto risulta all’inizio straniante, ma ci si abitua presto a vedere sotto una nuova luce questa storia, che Del Toro è riuscito a fare sua in tutto e per tutto, modernizzando anche aspetti del romanzo che oggi avrebbero stonato con la nostra coscienza moderna.

Volpe, il nuovo proprietario del circo, a destra il Mangiafuoco “scartato”. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Le uniche recriminazioni che facciamo alla pellicola sono da imputare alla parte finale. Alcune scelte sembrano derivate da una fretta produttiva che elimina per parte del film alcuni dei personaggi più interessanti, mentre altri su cui riponevamo aspettative vengono lasciati in secondo piano.

Tutte le dinamiche delle scene finali non ci sono sembrate convincenti assieme all’utilizzo di una computer grafica scadente.

Conclusioni

Detto questo, il film risulta essere forse la cosa più lontana in tutto e per tutto dal romanzo originale, ma che in esso affonda le radici del suo spirito. Uno spirito che traspare anche dai vicoli dei vecchi paesini italiani, dalla loro povertà e dai loro modi di fare.

È una storia che parla di morte e del saper vivere assieme e che lo fa con un tatto che solo Del Toro sa trasmettere.

 

Matteo Mangano

Amsterdam, la nuova crime comedy di David O. Russell

Film leggero e piacevole da vedere, ma con un cast del genere non rispetta interamente le aspettative -Voto UVM: 3/5

 

Proiettato per la prima volta il 7 ottobre nelle sale statunitensi, e distribuito in Italia dopo la presentazione al Festival del cinema di Roma il 21 dello stesso mese, Amsterdam è una crime comedy scritta e diretta dal regista David O. Russell. Come spesso è accaduto nel periodo post pandemico (West side story, Nightmare Alley), il film ha ricevuto scarsi incassi già dal primo weekend di proiezione: con il sempre maggiore sviluppo delle piattaforme streaming, sembra che i cinefili non avvertano più lo charme di andare a sedersi nelle poltroncine rosse in sala e vivere l’esperienza di guardare un film al cinema.

Amsterdam è in parte tratto dalla storia realmente accaduta del “Business Plot”, tentativo di complotto avvenuto nel 1933, volto a deporre il presidente Roosevelt per instaurare una dittatura in America.

Un medico, un’infermiera e un soldato in giro ad Amsterdam

Francia, 1918. Qui si ritrovano nello stesso momento un medico, Burt Berendsen, mandato al fronte su consiglio dei cognati (a suo dire probabilmente per liberarsi di lui)e  Harold Woodman, un soldato americano di colore che chiede, insieme ad altri soldati neri, di avere un comando che li guidi e li rispetti. Burt stabilisce un patto con Harold: ognuno si sarebbe assicurato che l’altro sarebbe sopravvissuto.

Da questo patto nasce una forte amicizia; feriti entrambi in battaglia, vengono aiutati e curati da Valerie. Per trovare un occhio nuovo a Burt, i tre partono per Amsterdam, dove Valerie conosce un tale Paul Canterbury, commerciante di occhi di vetro (in realtà agente sotto copertura). Dopo un periodo di perfetta felicità tra i tre (ed amore tra Harold e Valerie), i tre si separano.

Ma con la morte sospetta del loro vecchio comandante Bill Meekins (Ed Begley Jr.) e di sua figlia Liz, le loro vite finiranno per incrociarsi nuovamente: i tre collaboreranno per risolvere il caso e per smascherare le cospirazioni di un misterioso gruppo chiamato “Il consiglio dei cinque”.

Amsterdam
Burt, Harold e Valerie ad Amsterdam. Fonte: Regency Enterprises, Dreamcrew, 20th Century Studios

Un patto per la vita

Pur incentrandosi su una trama a tratti tendente al crime, Amsterdam mantiene dei toni leggeri ed ironici. In particolare, alcuni personaggi vengono costruiti in maniera molto comica, quasi caricaturale, primo fra tutti Burt. Burt è un medico con un occhio di vetro ed un rapporto molto contrastante ed altalenante con la moglie Beatrice ed il suocero, un rispettabile medico di Park Avenue.  Burt ha una clinica per veterani, dove sperimenta, prima di tutto su sé stesso, nuovi farmaci spesso fallimentari. Molto ironica è anche la scena finale, ricca di suspense, in cui Burt, colpito e sotto effetto di alcune “strane gocce”, si distacca dalla realtà, in una sorta di monologo interiore.

Altra figura caricaturale è Libby Woze, moglie di Tom. Per quanto si comporti in maniera odiosa nei confronti di Valerie, risulta essere allo spettatore una figura quasi satirica.

La tematica principale di Amsterdam è l’amicizia che lega Burt, Harold e Valerie. I tre, dopo aver passato il periodo migliore della loro vita insieme in Europa, restano legati dal patto di proteggersi sempre, patto che mantengono anche dopo molti anni.

Una piccola curiosità: nelle prime scene del film Burt canta, o meglio avrebbe dovuto intonare, una breve canzone con Liz Meekins – interpretata dall’attrice e cantante Taylor Swift – in onore del padre. In un intervista al The Hollywood Reporter, Bale ammette di essere stato molto emozionato dal dover cantare con una tale pop star, che anche sua figlia rimase molto sorpresa dal fatto che lui dovesse cantare con la Swift.

Tuttavia, alla fine nel film, è solo Liz a cantare principalmente, in quanto anche il regista David. O. Russell notò come Bale offuscasse il talento della Swift.

Amsterdam
Gil Dillembeck e Burt. Fonte: Regency enterprises, Dreamcrew, 20th Century Studios

Amsterdam: un cast stellare e tante aspettative

Uno degli elementi che faceva di Amsterdam una pellicola molto promettente, sia riguardo gli incassi sia riguardo eventuali riconoscimenti, era la presenza di un cast d’eccezione. Oltre Christian Bale  (Vice) , John David Washington (Tenet, Malcom & Marie) ed un’affascinante Margot Robbie nei panni dei tre protagonisti, Burt, Harold e Valerie, vi sono molte altre le stelle del cinema in Amsterdam.

Il premio Oscar Rami Malek (Bohemian Rapsody) interpreta Tom Woze, mentre l’attrice e modella Anya Taylor Joy (Ultima notte a Soho, La regina degli Scacchi) interpreta Libby. Il fantastico Robert De Niro qui è nei panni del generale Gil Dillenbeck. In ruoli secondari abbiamo Zoe Saldana come Irma, l’infermiera, la nota cantante Taylor Swift come Liz Meekins, figlia del comandante Meekins, e Chris Rock nel ruolo di Milton, veterano amico di Burt e Harold.

Amsterdam risulta essere una pellicola con una sfumatura comica e piacevole da seguire, caratterizzata da personaggi ironici e performance interessanti. Ciononostante, non è esattamente il capolavoro che magari ci si aspettava con un cast di questo genere.

Ilaria Denaro