Marco Bellocchio: il grande cinema a Messina

Lo scorso 7 dicembre 2023, Marco Bellocchio, noto regista, sceneggiatore, produttore e docente di cinema, è stato insignito dall’Università di Messina del dottorato di ricerca honoris causa in Scienze Cognitive, curriculum Teorie e tecnologie sociali, territoriali, dei media e delle arti performative. Nel pomeriggio della stessa giornata, è stato ospite al Messina Film Festival Cinema & Opera ed ha partecipato alla consegna del premio per miglior cortometraggio a tema, vinto dalla giovane regista Maria Francesca Monsù Scolaro con il filmCon-Divise.

Biografia di Marco Bellocchio

Marco Bellocchio nasce il 9 novembre 1939 a Bobbio, in provincia di Piacenza ed è durante la frequentazione delle scuole salesiane che scopre la sua grande passione per il cinema, che lo porta a frequentare il Centro sperimentale di cinematografia di Roma, dove si diploma come regista nel 1962, sotto la guida di Andrea Camilleri. Il suo primo lungometraggio, I Pugni In Tasca, realizzato alla giovane età di ventisei anni, gli garantisce la selezione al Festival del film Locarno e vince il premio  Vela d’argento nel 1965. In questa e in altre pellicole come La Cina è Vicina (1967), premiato con il Leone D’Argento al Festival di Venezia, ha dimostrato il suo anticonformismo, mettendo a nudo l’ipocrisia borghese e facendo riferimento ai moti del’68.

In moltissimi dei suoi lungometraggi, caratterizzati da un procedere piuttosto calmo e lento, traspaiono i suoi interessi sociali e politici. Alcuni tra i titoli più noti sono Buongiorno, Notte (2003) in cui racconta il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; Il Traditore (2019), relativo al mondo della mafia. Il culmine della sua carriera è stato raggiunto proprio quest’anno con Rapito, in cui racconta il caso di Edgardo Mortara.

 

Il regista Marco Bellocchio con il prof. F.Vitella. Ph. © Ilaria Denaro

Dottorato honoris causa a Marco Bellocchio

Non ho più l’età per perdere la testa, ma sono estremamente felice

Sono queste le parole pronunciate da Bellocchio, una volta insignito del dottorato. Egli è stato accolto come membro dell’Università di Messina dai docenti Alessandra Falzone, Coordinatrice del Dottorato in Scienze Cognitive; Carmelo Maria Porto, Direttore del Dipartimento di Scienze Cognitive; il Prorettore Vicario Eugenio Cucinotta; il Direttore Generale Francesco Bonanno e il Decano Antonio Panebianco.

Marco Bellocchio
Da sx Carmelo Maria Porto, Direttore del Dipartimento di Scienze Cognitive,il Prorettore Vicario Eugenio Cucinotta, il Decano Antonio Panebianco, il Direttore Generale Francesco Bonanno. Ph.©Ilaria Denaro

 

La Laudatio, invece, è stata affidata al professore Federico Vitella, ordinario di Cinema, fotografia e televisione, che è stato il primo sostenitore del conferimento del titolo a Bellocchio e che, con il suo discorso, ha ripercorso le tappe principali della carriera del regista.

Abbiamo l’onore di consegnare il dottorato – ha esordito – al più grande regista italiano vivente. Esponente del nuovo cinema italiano degli anni Sessanta, ha saputo innovare l’arte cinematografica, svecchiandone la narrazione e spalancando le porte al cinema moderno. Ha saputo anche rinnovare costantemente sé stesso, pur rimanendo fedele a uno stile inconfondibile, come la scelta dell’inquadratura lunga o della teatralità dello spazio, ed alcuni temi che definiscono il suo orizzonte poetico.

Queste, invece, le parole di Bellocchio:

Questo titolo, che arriva dopo la Laurea Honoris Causa alla Iulm, non sarà qualcosa che metterò al muro e lascerò impolverare, ma un segno davvero importante, una conferma e una soddisfazione che mi dà ancora più voglia di lavorare e creare. […] Stiamo mettendo a fuoco questo progetto che è una serie in sei episodi su Enzo Tortora. In questi mesi cerco di non distrarmi in nessun altro progetto, poi vedremo, prima di tutto vediamo di farlo e di farlo bene. Poi se uno ci pensa, ci sono tanti progetti da realizzare, da Giovanni Pascoli o storie molto internazionali come il processo di Norimberga, per esempio, però il nostro lavoro è molto concreto, bisogna capire se ci sono anche le possibilità economiche per poterlo fare; quindi, ci misuriamo sempre con il possibile. […] Il Dottorato Honoris Causa ricevuto in questo affascinante contesto mi inorgoglisce molto e mi impegna a rispondere ad una responsabilità in più. Dovrò compiere una meticolosa ricerca, al di là della gloria, dei traguardi o degli onori, che possa essere fortemente umana nell’ambito di un mestiere molto pratico, abituato a mediare tra diverse esigenze per produrre i suoi risultati. Il riconoscimento odierno testimonia l’entusiasmo per il mio lavoro e mi dona ancora più forza e convinzione per continuare a fare ciò che mi piace. Ai giovani, dico di essere entusiasti e di indagare a fondo per comprendere se il cinema è davvero la loro più grande passione da inseguire con tutte le energie di cui dispongono.

Nel pomeriggio, poi, come detto in precedenza, il regista è stato ospite al Messina Film Festival Cinema & Opera, ed in questa occasione, sono stati proiettati quattro dei suoi lavori: I pugni in tasca (1965); Vincere (2009); Addio del passato (2002); Pagliacci (2016).

 

Giorgio Maria Aloi

Hunger Games e la distopica filosofia dell’Usignolo e del Serpente

 

Hunger Games
Una versione più “rudimentale” degli Hunger Games ma che riesce comunque a tenere lo spettatore incollato allo schermo. – Voto UVM: 3/5

 

Il prequel/spin-off del franchise diretto da Francis Lawrence è un ottimo motivo per farci tornare a Panem, in cui scopriremo le crudeli origini dei Giochi della Fame e del carismatico, e tutt’altro che “candido”, anti-eroe.

Il film è la trasposizione cinematografica del romanzo di Suzanne Collins pubblicato nel 2020, ed è ambientato durante i 10° Hunger Games.

Benvenuti ai 10° Hunger Games!

Il protagonista è un giovane Coriolanus Snow (colui che diventerà il temuto presidente di Panem): un giovane uomo, determinato a concludere gli studi per fare carriera e ripristinare il fascino del cognome di famiglia con il suo talento. Per questo, a soli 18 anni, non può rifiutare l’offerta di figurare come mentore di un tributo per gli Hunger Games. Il suo compito è di fare da mentore a Lucy Grey Baird, una ragazza povera del Distretto 12.

Nonostante i timori iniziali, Snow e Lucy Grey trovano un modo per affrontare l’arena, soprattutto quando la ragazza dimostra di avere una voce da usignolo.

Una storia d’amore senza lieto fine…

Coriolanus Snow (interpretato da Tom Blyth), a diciotto anni è già ingegnoso e astuto, ed il suo iniziale e genuino desiderio di riscatto, scaturito dal trauma per la perdita prematura di entrambi i genitori, si tramuterà ben presto in cieca ambizione.

Ben lontano dall’essere lo spietato presidente di Panem presentato nella saga principale, Snow mostra spesso le proprie vulnerabilità. Non è totalmente cattivo o spietato nel prequel, così come non è esattamente buono ed innocente. Ed è nelle sue sfumature di grigio che prende forma man mano quella personalità pericolosa che poi incontreremo nella saga principale.

Lucy Gray Baird (interpretata da Rachel Zegler) fa parte dei Covey, un gruppo di musicisti itineranti confinati nel 12 durante i Giorni Bui. Orfana di entrambi i genitori, si guadagna da vivere esibendosi sul palco. Dal carattere libero, frizzante e senza peli sulla lingua, Lucy Gray proprio grazie a queste sue caratteristiche riesce ad attirare su di sé l’attenzione e il favore del pubblico.

Tra i due protagonisti, nonostante le differenti origini, nascerà una storia d’amore non a lieto fine. Coriolanus che inizialmente reputava i giochi solo come una punizione per la passata ribellione, alla fine del film affermerà di aver finalmente capito a cosa servono veramente gli Hunger Games:

“La natura umana è intrinsecamente violenta e Capitol City è l’unica forza in grado di tenere a bada i distretti”.

Hunger Games
Frame del film: Hunger Games – La ballata dell’Usignolo e del Serpente. Distribuzione: Medusa Film.

Curiosità (distopiche) sul fenomeno mondiale Hunger Games

Suzanne Collins nel 2008 ispirandosi a George Orwell ed al suo distopico romanzo 1984, pubblica Hunger Games e ci catapulta per la prima volta a Panem, che altro non è che una versione moderna della orwelliana Oceania ed il set rappresenta, dunque, un futuro post apocalittico.

La Nazione è formata dalla ricca Capitol City e dai dodici distretti controllati dalla stessa Capitol (in origine erano 13, ma quest’ultimo è stato raso al suolo dopo la ribellione). Come suggerisce il titolo del romanzo, il tema chiave è la fame: intesa sia come libertà politica, sia come vera e propria fame, data la povertà di molti distretti.

In memoria di una passata ribellione dei Distretti, ogni anno la capitale organizza gli Hunger Games, un gioco trasmesso in tutte le tv nel quale due giovani per distretto, un ragazzo e una ragazza, vengono selezionati via sorteggio durante la mietitura, per affrontarsi brutalmente in un’arena iper tecnologica e piena di telecamere.

Negli Hunger Games è molto importante come i tributi vengano percepiti dal pubblico: più sono i favoriti e più riceveranno aiuti durante i combattimenti. Questo è ciò che ha dovuto fare Katniss Everdeen (distretto 12 come Lucy Gray), protagonista dei romanzi principali, per sopravvivere e vincere. Quest’ultima interpretata dalla bellissima e talentuosa Jennifer Lawrence.

E mentre Lucy Gray è una performer inserita in un campo di battaglia e costretta a diventare una cacciatrice per la sua sopravvivenza, Katniss è una cacciatrice inserita in un campo di battaglia, costretta a trasformarsi in una performer per la sua sopravvivenza.

In questo mondo la civiltà aliena le persone da ciò che dovrebbe essere reale e naturale, come la stessa Katniss aveva affermato:

“Distretto 12. Il miglior posto per morire di fame in tutta sicurezza”.

Hunger Games
Frame del film: Hunger Games – La ballata dell’Usignolo e del Serpente. Distribuzione: Medusa Film.

Gli Hunger Games visti da Jean Jacques Rousseau

Da Hunger Games ci si può ricollegare a Jean Jacques Rousseau e alla sua L’Origine della disuguaglianza (1755). Nell’opera, Rousseau riteneva che occorre risalire all’origine del tempo e della vita umana per capire l’uomo prima dell’avvento della civilizzazione umana e delle istituzioni che tanto hanno determinato la sua condotta. Ai suoi occhi il potere, la sopraffazione, l’egoismo, la guerra, appartengono al mondo civilizzato e sono sconosciuti all’uomo di natura.

In Hunger Games – La ballata dell’Usignolo e del Serpente, vediamo una versione più rudimentale dei giochi, con una tecnologia scarsa rispetto a quella della saga originale (basti pensare all’arena nella quale dovrà combattere Lucy Gray, molto più piccola e con meno astuzie tecnologiche di quella di Katniss).

Tuttavia, il film è pieno di suspense e di protagonisti affascinanti e coraggiosi che riescono a tenerci incollati allo schermo per tutta la durata del film.

 

Carmen Nicolino

Asteroid City: il sogno lucido di Wes Anderson (e di tutti noi)!

 

Lento ed elegante all’inizio, romantico e incomprensibile alla fine. Ma c’è dell’altro! – Voto UVM: 4/5

 

Dimenticate per un momento i vecchi film di Wes Anderson, quelli pieni di auto che si fermano e si allontanano e di primi piani sui caffè. Ogni scatto qui ha il suo giusto peso.

L’inquadratura geometrica e la messa in scena di Anderson possono racchiudersi in un flusso di piccoli dettagli. Momento dopo momento dobbiamo cogliere i dialoghi rapidi, la segnaletica enigmatica, i non sequitur, i gesti e gli sguardi abbreviati e i guizzi di espressioni facciali.

Asteroid City, in bilico tra amore e morte, racconta due storie: una finisce più o meno bene, l’altra finisce più o meno male.

Alieni e sentimenti sono i veri protagonisti del film!

La prima, girata in widescreen anamorfico e con colori brillanti, è ambientata in una minuscola città resa famosa dal cratere di un asteroide. Qui, cinque giovani “cervelloni”, finalisti del premio Junior Stargazer, si riuniscono con le rispettive famiglie per prendere parte alla premiazione. Proprio questa sarà interrotta dall’arrivo di un visitatore del tutto inaspettato, un alieno, che in maniera sorprendentemente educata si limiterà a rubare l’asteroide, spingendo tutto il pubblico a riconsiderare le proprie opzioni di vita e, in particolar modo, i propri sentimenti (se così vogliamo definirli).

La seconda storia, intrecciata alla prima, è girata in 4:3 in bianco e nero. Presentata come se fosse un programma televisivo che ha il fine di documentare la produzione di una tipica commedia americana. Ma il conduttore, un generico annunciatore onnisciente (anche troppo), ci dice che la commedia “Asteroid City” non esiste, non è mai stata rappresentata e a detta sua:

“ha solo un’esistenza apocrifa, qualunque cosa significhi”.

Scena del film “Asteroid City”. Regia: Wes Anderson. Casa di produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Studio Babelsberg. Distribuzione in italiano: Universal Pictures. Fotografia: Robert D. Yeoman

Asteroid City non deve piacere, dev’essere compreso

L’ultimo lavoro di Wes Anderson, presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, detiene attualmente il titolo di “miglior film dell’anno ad aver nettamente diviso la critica”. A detta di molti, Wes Anderson si è fatto parodia di se stesso. La peggiore, considerando l’infinità di reel sui social in cui tutti i suoi fan (e non), testimoniano come sia facile e divertente fare delle riprese in #WesAndersonStyle.

Ma se Asteroid City fosse, invece, un buon film? Magari, l’ultimo lavoro di Wes Anderson si prefigge un solo ed unico obiettivo: raccontare quella grande eccentricità della vita quotidiana!

Un po’ come se il suo “film nel film” non sia altro che una “parodia della parodia”. Un modo per raccontare gli eccessi della società contemporanea, sottolineando poi il nostro più grande difetto: l’incomunicabilità nei rapporti umani.

D’altronde, questo film è stato scritto in uno dei momenti più “folli” del nostro tempo: la pandemia del Covid-19. Per noi tutti questo è solo un lontano ricordo ma di sicuro nessuno negherà che proprio in quel momento ci siamo resi conto della vera importanza delle relazioni.

Asteroid City
Jason Schwartzman in una scena del film “Asteroid City”. Regia: Wes Anderson. Casa di produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Studio Babelsberg. Distribuzione in italiano: Universal Pictures. Fotografia: Robert D. Yeoman

Tra inquadrature simmetriche…c’est l’amour!

Wes Anderson, meglio di chiunque altro, è stato capace di raccontare, con tanta leggerezza, uno dei momenti più tristi di questi ultimi anni, mantenendo il focus sul tema della comunicazione o, meglio, dell’incomunicabilità.

Caratteristica, questa, che contraddistingue in modi diversi tutti i personaggi del film: dal timido cervellone Woodrow (Jake Ryan), a Clifford (Aristou Meehan) che scommette su qualsiasi cosa solo per farsi ascoltare e vedere dagli altri. Passando per la giovane maestra June Douglas (Maya Hawke) che si ritrova in difficoltà nel dover dare una risposta alle tante e indiscrete domande dei suoi piccoli alunni e finisce poi per perdere credibilità di fronte a Montana (Rupert Friend) che, inaspettatamente, riesce a trovare una risposta ad ogni domanda.

Ma sono solo i due protagonisti di Asteroid City, Augie Steenbeck (Jason Schwartzman) e Midge Campbell (Scarlett Johansson) a dare davvero un volto al sentimento. Il primo, fotografo di guerra e neovedono, l’altra, attrice e mamma di quattro figli che vede nella tossicità delle relazioni la sua unica via di fuga. È solo grazie alle loro conversazioni a distanza (da finestra a finestra) che i due riescono a trovare un loro equilibrio e, finalmente, a stare bene con se stessi.

La quarantena è finita, tutto è tornato ad essere come prima. Quasi tutto. Nessuno spoiler, ma ecco un suggerimento: c’è di mezzo l’amore!

 

Domenico Leonello

Sceneggiatori in sciopero, Hollywood trema dopo 15 anni

Il due maggio scorso la Writers Guild of America (associazione che tutela a livello sindacale i lavoratori del mondo dello spettacolo) ha indetto uno sciopero contro la mancata disponibilità dell’associazione dei produttori, la Alliance of Motion Picture and Television Producers. 

Ebbene sì, sembra proprio che gli sceneggiatori di Hollywood siano fermi. Ad annunciarlo, una nota pubblicata tre ore prima dalla scadenza del contratto triennale, dove si richiedevano accordi riguardo la paga minima settimanale e maggiore attenzione sulle tutele lavorative. Tra queste, ad esempio, un numero minimo di settimane lavorate a episodio o un numero minimo di autori per ogni writers room. Con lo sciopero di oltre 10.000 sceneggiatori, secondo i media locali, si avrà una ricaduta su più di 800.000 lavoratori dello spettacolo, bloccando set, produzioni e programmi.

L’ultima protesta risale alla fine del 2007 – inizio del 2008

Uno sciopero che costò agli Studios circa 2 miliardi di dollari. Proprio quindici anni fa gli sceneggiatori “posarono le penne” (oggi i computer) per manifestare il proprio malcontento, bloccando l’industria cinematografica più produttiva e ricca del mondo per una centinaia di giorni. Questo comportò ritardi per la produzione di film e serie che furono chiuse in anticipo oppure subirono forti ritardi.

Show come il Tonight Show, l’Ellen Show e The Daily Show furono bloccati per quindici settimane, la prima stagione di Breaking Bad fu ridotta a sette episodi invece di quattordici e molte altre (come Scrubs Lost) incontrano alcune difficoltà.

Anche gli sceneggiatori italiani sostengono i colleghi americani

Writers Guild d’Italia si dice profondamente solidale con quella americana, in quanto i ritmi serrati delle nuove piattaforme in streaming sembrano essere un problema comune. Infatti, i lavoratori producono una maggiore quantità di prodotti ma guadagnano il minimo sindacale. Il presidente di Wgi, Giorgio Glaviano, sottolinea:

Abbiamo seguito con estrema trepidazione la trattativa dei colleghi americani. Abbiamo sperato fino alla fine che la frattura con i produttori Usa si sarebbe composta, ma così non è stato. Esprimiamo la nostra solidarietà ai colleghi della Wga, perché le loro lotte sono anche le nostre. In tutto il mondo la figura dello sceneggiatore è minacciata da compensi sempre più risicati e da condizioni lavorative sempre più vessatorie .Non solo, se a questo aggiungiamo le presunte scorciatoie offerte dalla IA vista come panacea, il nostro lavoro rischia di diventare sempre più una lotta per la sopravvivenza. Noi non tradiremo i nostri colleghi al di là dell’oceano, come qualcuno ha scritto, prestandoci al dumping, noi sosterremo in tutti i modi i colleghi americani.

Timore per l’ IA : potrebbe diventare una degna sostituta?

Un’altra problematica sembra essere quella dell’ intelligenza artificiale. Gli sceneggiatori temono che in futuro potrebbe sostituirli, perché è ormai noto come l’IA sia in grado di ideare nuovi scenari – in taluni casi, anche soddisfacenti. WGA, quindi, ha chiesto un aumento della regolamentazione sull’utilizzo dei software che possano sostituire l’uomo in prima persona. Dall’altra parte l’AMPTP, società che rappresenta gli studios e le piattaforme,  ha sospeso il giudizio e si limita a mettere al vaglio i motivi della protesta avanzata dagli sceneggiatori.

Anche alcune celebrità hanno espresso il loro parere sulla questione. George Clooney teme che l’uso dell’ IA comporti un aumento delle disuguaglianze e le discriminazioni a causa di algoritmi che riproducono stereotipi.  Tom Hanks, nonostante sarà ringiovanito dall’intelligenza artificiale, considera impossibile sostituire il genio umano di coloro che “come per magia”, riuniti ad un tavolo, costruiscono una storia che potrebbe diventare un nuovo capolavoro cinematografico.

Serena Previti

Con UniVersoMe alla (ri)scoperta del grande cinema…al cinema!

Cosa sia il cinema se lo sono chiesti in tanti nel corso della storia. Dai fratelli Lumière alle sorelle Wachowski, passando per Woody Allen, Godard, Bertolucci e perché no, guardando al presente anche l’acclamato Quentin Tarantino che di recente ha pubblicato un libro sul suo “vizio”, Cinema Speculation, presentato a Milano dov’è stato acclamato da una folla di appassionati. Ognuno, ovviamente, dando una propria ed originale interpretazione.
Una cosa però, a mio parere, potrebbe mettere tutti d’accordo: la magia che da sempre l’arte cinematografica esercita sulla vita delle persone.
Il cinema, anzi, non è “semplicemente” un’arte; è quel compagno di viaggio di cui molti non possono fare a meno. Un film, un buon film, ha il potere di farci emozionare, di farci piangere, ridere, come nessun’altra espressione culturale e artistica riesce a fare. Forse perché questa le racchiude un po’ tutte?
Una cosa è certa, il cinema è una vera e propria esperienza, e solo dopo essere stati dentro una sala cinematografica potremo vantarci di averla vissuta per davvero. Questa mia affermazione, che per certi versi potrebbe pure sembrare scontata, contiene del vero ed è sempre più riscontrata dal grande pubblico. Al giorno d’oggi, noi, cittadini globali e al tempo stesso soli; figli di una società postmoderna, o “liquida” come direbbe il sociologo polacco Bauman, siamo costretti a fare i conti con molte (e forse troppe) esperienze mediali. E la cosa, forse più dolorosa, è che alcuni di noi ne sono totalmente inconsapevoli.
Mi riallaccio ad un discorso fatto dal professore Federico Vitella, ordinario di storia del cinema all’Università degli studi di Messina, che nel corso di una sua lezione ha evidenziato il fatto che ormai sempre meno persone, ed in particolar modo le nuove generazioni, risultano attratte dalla “magia” dell’esperienza vissuta in sala, preferendo piuttosto quel famoso “hic et nunc” (qui ed ora) e spesso meglio se nel mondo virtuale.
Abbiamo reso la nostra quotidianità sempre più “smart”. E guardare un film, scelto minuziosamente su una delle tante piattaforme, stando seduti comodamente sul nostro divano, può attirare maggiormente piuttosto che stare ore seduti su delle poltrone, – talvolta anche scomode – in attesa di un prodotto cinematografico che poi magari nemmeno ci piace. Ma non fa anche questo parte di un’esperienza?
E ancora, il cinema, non è come le altre arti fondamentale per la nostra crescita personale?
In questo mondo “frammentato”, forse, ciò di cui abbiamo bisogno è di alcune verità, e credo che il regista Jean-Luc Godard, esponente di rilievo della Nouvelle Vague, avesse ragione nell’affermare che se la fotografia è verità, il cinema lo è ventiquattro volte al secondo. E forse, per riscoprire certe verità urge entrare in una sala cinematografica, qualunque essa sia, per distaccarci da quei prodotti commerciali e mediali e andare alla riscoperta di quei capolavori che hanno fatto la storia del cinema. Proprio da questo è nata l’esigenza, da parte di UniVersoMe, in collaborazione col Cinema Lux di Messina, di dar vita ad un cineforum che avesse come scopo principale quello di riscoprire certi titoli. In primis, per un arricchimento personale ma senza tralasciare l’aspetto sociale, al giorno d’oggi più che fondamentale.
Si è tenuta così mercoledì 5 aprile la prima proiezione, “8½” di Federico Fellini, accompagnata dall’intervento del professore Federico Vitella, che nel fare un breve excursus sul regista e sulla sua arte ha comunque evidenziato, ancora una volta, l’importanza dell’arte cinematografica. Il progetto del cineforum continuerà fino al mese di maggio e prevede la proiezione di film come “Uccellini e uccellacci” di Pier Paolo Pasolini, “Effetto notte” di Truffaut, e “Mulholland Drive” di Lynch, tutti in versione restaurata dalla Cineteca di Bologna. Con l’obiettivo di ricordare a tutti l’importanza della settima arte!

Domenico Leonello
Caposervizio UniVersoMe

* Articolo pubblicato il 13/04/23 nell’inserto “Noi Magazine” di Gazzetta del Sud

Massimo Troisi: l’ultimo pulcinella

Io penso che Massimo Troisi appartenga a una rarissima categoria di uomini che si sono espressi in arti o in lavori — pittura, musica, letteratura, altro — senza che ce ne fosse assolutamente bisogno. Perché Troisi era una scultura vivente, un incendio pittorico lui stesso. E il fatto che abbia sputato parte della sua grandezza in pochissimi film non ha alcun valore, se non quello di fissarlo nella nostra memoria o nei nostri schermetti. Voglio dire questo, voglio tentare di farmi capire: Massimo Troisi è il quadro, la partitura, l’Opera. Non ha bisogno di esprimersi.

( Giovanni Benincasa su Massimo Troisi)

 

Tra le strade di Napoli, tra le lenzuola appese e i murales, 70 anni fa veniva al mondo Massimo Troisi. Pino Daniele, in una delle sue canzoni lo identificò come l’ultimo Pulcinella, la maschera più famosa di carnevale e della bella Napoli.

Nacque il 19 Febbraio del 1953, da tutti considerato come il pulcinella senza maschera, il comico dei sentimenti.  Massimo rientra tra i nomi dei principali attori italiani come Totò, Monica Vitti, Anna Magnani, Alberto Sordi e tantissimi altri attori che hanno consacrato la cinepresa.

Troisi era dotato di un talento straordinario, la sua mimica facciale, le doti verbali e gestuali lo rendevano un attore unico, capace di far provare empatia. Le capacità attoriali di Troisi, hanno donato una nuova luce alla società borghese napoletana e italiana. Paladino attoriale dei diritti delle nuove ideologie, come il femminismo e l’individualismo. Gli fu donata la figura dell’antieroe, fu il rappresentate degli emarginati, colui che pose l’accento sugli individui che non hanno una forma, come la nostra generazione, e quelle dopo di noi.

Troisi iniziò la sua carriera a soli 15 anni nel teatro parrocchiale della Chiesa di Sant’Anna. Negli anni ’80, passò al grande schermo con il film del 1981 “Ricomincio da Tre”. Con il passare degli anni, passò all’esordio televisivo con il trio de La Smorfia, sketch teatrali, in cui venivano messe in scena le abitudini odierne della società umile.

A disoccupazione pure è un grave problema a Napoli, chae pure stanno cercando di risolvere… di venirci incontro… stanno cercando di risolverlo con gli investimenti… no, soltanto ca poi, la volontà ce l’hanno misa… però hanno visto ca nu camion, eh… quante disoccupate ponno investi’? […] cioè, effettivamente, se in questo campo ci vogliono aiutare, vogliono venirci incontro… na politica seria, e ccose… hann’ ‘a fa’ ‘e camiòn cchiù gruosse.

Massimo Troisi  ne il film “Ricomincio da Tre”. Fonte: Nuova Irpinia

 

Sono tanti e sono troppi i film di Massimo, oggi vi parlerò di due che mi sono entranti non solo “into coré”  mio, ma in tutti i cuori degli italiani.

Che ora è? (1989)

“Mamma mia io…24 ore su 24, sempre aperto, tutto aperto, correre, miche’ correre, io non voglio stà 24 ore aperto papà, io voglio chiudere!

E’ un film del 1989, diretto dal regista Ettore Scola, con protagonisti Marcello Mastroianni  considerato come uno tra i maggiori artisti di sempre, e il nostro Troisi. I due interpretano Marcello (Marcello) e Michele (Massimo), che sono esattamente padre e figlio, il quale hanno perso ogni tipo di rapporto. In questo lungometraggio, Marcello è un avvocato che cercherà di riconquistare l’amore della propria “creatura”. Michele è un giovane laureato in lettere, che sta per terminare la leva obbligatoria.

Marcello cercherà di regalare al proprio figlio regali lussuosi, ma per Michele rappresentano solo dei beni materiali senza alcun significato, a parte l’orologio d’argento appartenuto al nonno.

Nel lungometraggio potremo vedere un rapporto difficile, composto da incomprensioni e litigi, ma pian piano i due si riavvicineranno tra loro. Marcello nutre tante aspettative verso Michele, senza capire che la sua è solo una banalità egoista.

Marcello Mastroianni e Massimo Troisi in una scena del filmFonte: Comune di Cesena
Marcello Mastroianni e Massimo Troisi in una scena del film Fonte: Comune di Cesena

 

Il Postino (1994)

“E’ colpa tua se mi sono innamorato… perché mi hai insegnato ad usare la lingua non solo per attaccare francobolli!”

 Il Postino, è un film diretto da Michael Radford, ispirato al romanzo “Il Postino di Neruda”  dello scrittore cileno Antonio Skármeta. Massimo Troisi, poco ore dopo la fine delle riprese, morì a solo 41 anni per un arresto cardiaco.

Il lungometraggio ebbe un grande successo, non solo in Italia ma anche all’estero, ottenendo cinque candidature agli oscar. Ma ne vinse solo una per la “miglior colonna sonora drammatica”, una tra le musiche più belle al mondo, composta da Luis Enríquez Bacalov.

Ma vinse tanti altri premi come  il David di Donatello per il miglior montatore.

Massimo Troisi, in una scena del film. Fonte: Metropolitan Megazine

 

La storia è ambientata in un’isola del sud Italia del 1952, dove la maggior parte degli abitanti sono pescatori. Mario Ruoppolo (Massimo Troisi) è un giovane figlio di un pescatore vedovo. Mario della pesca non né vuole sapere niente, decide quindi di lavorare come postino. Nell’isola, vi è il poeta cileno Pablo Neruda (Philippe Noiret), che è stato esiliato dalla sua terra e ha richiesto l’asilo politico, perché perseguitato per le sue idee  comuniste. Il direttore della posta, spiega a Mario che dovrà consegnare la posta con la sua bicicletta, solamente a Neruda, giacché il resto della popolazione è analfabeta. Ogni giorno che passa, Mario si interesserà sempre di più al poeta, tra i due nascerà una amicizia sincera. Le loro passeggiate saranno costellate di dialoghi che vanno dall’arte alla politica, pian piano il postino si avvicinerà alle ideologie comuniste.

Mario incontrerà la bellissima Beatrice Russo (Maria Grazia Cucinotta), di cui si innamorerà a prima vista. Mario cercherà di conquistare l’amore di Beatrice, recitandole proprio le poesie di Neruda.

Massimo e Maria, in una scena del film. Fonte: Vigilianza Tv

 

Mario: ‘Don Pablo, vi devo parlare, è importante… mi sono innamorato!’

Pablo Neruda: ‘Ah meno male, non è grave c’è rimedio.’

Mario: ‘No no! Che rimedio, io voglio stare malato.

 

Massimo ci manchi tanto, il tuo sorriso e le tue smorfie hanno dato una speranza a tutte le nuove generazioni, ci hai insegnato cos’è l’amore con tutte le sfumature che esso comprende. Ci hai parlato della comunità, di quanto essa sia dispensabile per ogni essere umano e di come il teatro rappresenti il vero. Ti ringraziamo “de coré” Pulcinella senza maschera, non riesco a spiegare appieno cosa hai rappresentato per lo spettacolo. Tu stesso quando leggevi le poesie di Neruda o quando interpretavi il teatro, non riuscivi a dare un senso, come si può spiegare cos’è realmente l’arte?

 

Alessia Orsa

Totò: 125 anni dalla nascita del principe della risata

Nel mondo del cinema italiano, c’è chi ha avuto il privilegio (e chi no) di poter assistere, sul grande schermo e a teatro, alle grandiose performances attoriali di note donne e uomini appartenenti al filone della commedia all’italiana, genere cinematografico affermatosi nel secondo Dopoguerra. Tra questi, uno in particolare lo ricordiamo affettuosamente e con grande stima: Totò! Al secolo Antonio de Curtis, l’attore napoletano è stato tra i più grandi della scena italiana e regionale per le sue doti sia come attore, ma anche come paroliere, poeta e filantropo.

L’esordio a teatro e l’approdo al cinema

Signori si nasce e io lo nacqui, modestamente! (frase tratta dal film Signori si nasce)

Nato nel 1898, Totò iniziò, in età giovanissima, a frequentare i teatrini periferici esibendosi – con lo pseudonimo di “Clerment“— in macchiette e imitazioni del repertorio di Gustavo De Marco, illustre interprete napoletano dalla grande mimica e dalle movenze snodate, simili a quelle di un burattino. Proprio su quei palcoscenici di periferia incontrò attori come Eduardo De Filippo e suo fratello Peppino.

Nel 1927 fu scritturato da Achille Maresca, titolare di due diverse compagnie. Due anni dopo, venne contattato dal barone Vincenzo Scala, titolare del botteghino del teatro Nuovo di Napoli per scritturarlo come “vedetta” in alcuni spettacoli di Mario Mangini e di Eduardo Scarpetta, tra cui Miseria e nobiltàMessalina e I tre moschettieri (dove impersonò d’Artagnan), accanto a Titina De Filippo, sorella di Eduardo e Peppino.

Debutta sul grande schermo con il film Fermo con le mani (1937), il quale però non riscuote grande successo. L’attore continua comunque la sua attività alternando teatro e cinema, producendo un repertorio molto vasto che lo ha portato al grande successo solo più tardi, negli anni ’50, recitando in compagnia di Aldo Fabrizi (celebre la pellicola Guardie e ladri) e di Peppino de Filippo (tra le più straordinarie pellicole ricordiamo Totò, Peppino e la malafimmina, La banda degli onesti, Totò, Peppino e i fuorilegge) , anche lui consacratosi al cinema dopo aver rotto con il fratello maggiore.

Totò, Peppino de Filippo e Giacomo Furia in una celebre scena del film La banda degli onesti (1956).

Totò interpretò dal 1937 fino alla morte (nel 1967) ben 97 film per il grande schermo, quasi sempre come attore protagonista, per una media di oltre 4 all’anno (numero che non tiene conto della sua pausa durante la guerra). Lavorò con 42 registi differenti, quelli con cui produsse maggiormente furono Mario Mattoli (16 film), Steno (14 film), Camillo Mastrocinque (11 film), Sergio Corbucci (7 film), Mario Monicelli (7 film) e Carlo Ludovico Bragaglia (6 film).

Il totoismo: aspetti della lingua di Totò

Oltre le abilità attoriali, risaltano anche quelle linguistiche, peculiarità non indifferente della figura dell’attore la quale è stata (e ancora lo è) oggetto di studio di noti linguisti e cinematografi. Citando alcuni passi del libro del prof. Fabio RossiLa lingua in gioco. Da Totò a lezione di retorica”, la lingua dei film con Totò è:

puro suono fine a sé stesso, malleabile, manipolabile all’infinito, spesso senza alcuna apparente utilità. […] l’ascoltatore-spettatore è perturbato nell’assistere al dissolvimento del codice di comunicazione ridotto a mero suono o a veicolo di significati lontanissimi. (pp. 18-19)

Sembra che emerga un tentativo di confondere il pubblico, ma in realtà l’operazione adottata da Totò è lungimirante:

l’importanza linguistica di Totò non è consistita tanto nell’invenzione o nell’abuso di singole forme, ma nell’aver portato il linguaggio al centro dei propri spettacoli, della propria riflessione, e nell’aver svolto un ruolo non marginale. (p. 24)

La sua lingua diventa, così, “iper parlata”, poiché è composta da un insieme di “gradazioni possibili a scopo ora ludico-deformante, ora ironico-satirico”(Lingua italiana e cinema, Fabio Rossi, p.81). Volendo scendere nel pratico, tra le formule più care ricordiamo che che, è (o fa) d’uopo, etiandio, quisquillie, bazzecole e pinzillacchere (“cosa da nulla” “reca proprio, come prima attestazione nota nei vocabolari, il 1930 ed è attribuita a Totò” cit.) Tutti i suoi film sono costruiti “sul gioco verbale”, servendosi di due figure retoriche: la paronomasia, per la quale si accostano due parole di suono simile o uguale ma di significato differente, e la polisemia, vale a dire “lo scambio tra significati diversi di una medesima parola”.

L’anima poetica

Fotografia in bianco e nero di Totò.

La livella è le escroveto che l’usa il muratore per nivelari il muro, dunqueOgn’anno, il due novembre, c’é l’usanzaPer i defunti andare al CimiteroOgnuno ll’adda fà chesta crianzaOgnuno adda tené chistu penzieroOgn’anno, puntualmente, in questo giornoDi questa triste e mesta ricorrenzaAnch’io ci vado, e con dei fiori adornoIl loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza

Tra le poesie più note, ‘A Livella rappresenta un unicum nella vita artistica di Totò. Composta nel 1964 e formata da 104 versi, la poesia affronta con ironia il tema della morte, dimostrando come al di là dello status che possediamo in vita, davanti all’ultimo passo siamo tutti uguali e umani, come se tutto si azzerasse:

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a ssenti…nun fa”o restivo,
suppuorteme vicino-che te ‘mporta?

Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!

Tra innumerevoli successi, – ma anche dispiaceri, come la morte del figlio e la malattia agli occhi, – Totò è stato l’attore napoletano che più di tutti, all’epoca, ha interpretato egregiamente i vizi e le caratteristiche tipiche dell’italiano medio, e anche del napoletano, omaggiando sempre la sua terra. Non è dato sapere se un altro come lui possa rinascere, quel che è certo è che ha ispirato generazioni di attori e commediografi napoletani e continua ancora, poiché il suo immaginario non si può mica dimenticare. Per dirla con una sua frase: “ma mi faccia il piacere!

 

Federico Ferrara

Il cinema è nato a Messina

Il cinema a Messina nacque in un epoca contemporanea alla prima proiezione cinematografica avvenuta a Parigi.

Dal febbraio del 1897 Messina fiorisce di locali cinematografici in pianta stabile e di conseguenza si fa strada un primordiale quanto efficace mezzo pubblicitario, la locandina cinematografica affissa nelle strade o nelle vetture delle imprese mobili, che raccoglieva tutte le informazioni utili per l’evento cinematografico così  affacciando la società messinese del tempo ad una nuova forma di arte.

Cinématographe Lumière. © Musèe des arts et mètiers-Cnam/photo studio Cnam.

 

Il primo cinema a pianta stabile si ha con l’apertura del Reale Cinematografo Lumière in Via S. Camillo, successivamente tra il 1905 e il 1908 si registrano la Sala Italia in Corso Vittorio Emanuele con trasferimento di sede nel periodo invernale in Piazza S. Giacomo, a seguire s’inaugura l’Edison Cinématographe  allo Chalet in Corso Vittorio Emanuele. Il Cinematografo imperiale” in via Cardines e il  Cinematografo Mignon ad opera di Ernesto Mastrojeni sino ad essere inaugurato il “Moderno” al palazzo Cianciafara e il “Cinematografo Iris”.

Nel periodo post terremoto sorgono diversi cinema tra cui: il cinema “Progresso”; l’indimenticabile cinema “Trinacria” e il cinema più frequentato da giovani e famiglie il cinema “Star” ad angolo tra la via Consolare Vecchia e via Bonino, trasformato in un supermercato. Infine l'”Eden cinema-concerto” nel quale il giovane Giovanni Rappazzo inventa il cinema sonoro.

 

Il Cinema Teatro EDEN-Messina. Fonte: Pinterest
Il Cinema Teatro EDEN-Messina. Fonte: Pinterest

 

Insomma, Messina zampilla di nuovi locali che racchiudono l’arte del cinema.

A seguire il cinema messinese è perfezionato dal Cinematografo Lumière che presenterà i suoi film in tre occasioni: al Teatro La Munizione nell’ottobre 1898, al Reale Cinematografo Lumière in Via S. Camillo nel 1898 e al Teatro di Villa Manzini nel 1905.

Preceduto dalla prima cassetta che proiettava delle immagini in movimento, il Kinetoscopio di Edison, il vero apparecchio cinematografico inaugurato a Messina fu il Kinefotografo di origine inglese registrato in una strada adiacente al Teatro Vittorio Emanuele, periodo coincidente con il Cinematografo dei fratelli Lentini. Sono questi gli anni in cui i registi utilizzano apparecchiature per riprendere scene dal vivo, come accadde per Lo sbarco dei passeggeri dal Ferry-Boat, Il convegno dei ciclisti messinesi allo Chalet.

Kinetoscopio di Edison. Fonte: occhiovolante.it

 

Fu altresì frequente la realizzazione di film a soggetto, all’indomani del terremoto del 1908,  come Dalla pietà all’amore (Il disastro di Messina). Negli anni dieci e quaranta del ‘900, Messina inaugura i film d’epoca in cui viene risaltato il magnifico paesaggio che divide lo Stretto dalla penisola e che ancora oggi incanta i cittadini e migliaia di turisti. Sono diversi i registi che includono scene dell’attraversamento dello stretto come al tempo fu la scelta di Giuseppe Tornatore in L’uomo delle stelle.

Il cinema a Messina introduce anche un’altra novità non ancora registrata sul territorio, la presenza di cinecircoli e associazioni culturali cinematografiche. Già a partire dagli anni ’30 esisteva un CineGUF interamente gestito e dedicato agli studenti universitari che diede vita anche alla produzione di documentari.

 

L’attrice Jayne Mansfield al Rassegna Internazionale del Cinema di Messina e Taormina nel ’62. Fonte: Taorminafilmfest

 

Infine, nel dopoguerra fu inaugurato il Circolo messinese del cinema che cambiò denominazione negli anni.

Ma il vero periodo aureo del cinema messinese del dopoguerra, si ebbe grazie alla vicinanza di Taormina protagonista di diverse edizioni cinematografiche con una fama che conserva ancora oggi.

Siamo così giunti ai giorni nostri in cui, grazie a questo excursus storico-cinematografico, possiamo vantare che il cinema è nato a Messina.

Sarebbe interessante organizzare una serie di eventi da “tuffo nel passato” da trascorrere nei cinema storici ancora presenti sul territorio messinese,  riproponendo un film di quegli anni.

 

Elena Zappia

Fonti:

Storia e civiltà Messina, Ed. GBM, 1997, Messina

The Fabelmans: il film testamento della vita di Steven Spielberg

Un film che pone in risalto la maturità artistica e umana del grande cineasta. – Voto UVM: 5/5

 

Parlare di Steven Spielberg non sembra quasi mai un’operazione semplice, specialmente se pensiamo al vissuto e alla carriera del regista. Eppure, dopo aver realizzato una serie di successi strepitosi, — per citarne alcuni Lo Squalo, E.T. l’extra terrestre, Jurassic Park, Schindler’s List (premi Oscar alla miglior regia e miglior film 1994) e molti altri, tra cui la saga su Indiana Jones, — il grande cineasta ritorna con The Fabelmans, un film capolavoro che parrebbe essere una sorta di testamento artistico oltre che introspettivo. Per la prima volta Spielberg decide di mettersi a nudo, raccontando la storia della sua vita dal punto di vista familiare.

Trama

Spielberg
Sammy Fabelman in una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

La pellicola inizia con la visione al cinema del film di John Ford, Il più grande spettacolo del mondo (1952, il primo che il regista abbia mai visto in vita sua) assieme ai suoi genitori (Paul Dano nei panni del padre Burt e Michelle Williams nei panni di Mitzi). Lo sguardo del bambino, inoltre, sembra ricordare quello del protagonista di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.

I film sono sogni che non dimenticherai mai.

Dopo la visione, Sammy resta folgorato dalla potenza evocatrice delle immagini e la madre, rimasta estasiata da ciò, decide di fargli usare la macchina da presa del padre. Naturalmente Sammy inizia ad usarla sempre insieme alle sue sorelle, finché divenuto grande non ne ottiene una tutta per sé (Bolex H8, doppia 8mm) con cui gira dei cortometraggi prettamente western insieme ai suoi amici. Un aspetto molto importante è la rappresentazione di come Sammy pulisce e taglia le pellicole per ottenere degli effetti speciali, quasi a voler ricordare che la tecnica è un dettaglio da non sottovalutare mai per la riuscita di un film.

Il film prosegue mettendo in evidenza anche il rapporto complicato con il padre, il quale inizialmente non vuole che Sammy faccia di questa passione un lavoro. Probabilmente, questo pensiero è dovuto al clima altalenante dell’epoca (fine anni ’50, inizio anni ’60), in cui la domanda di lavoro non soddisfaceva a pieno le esigenze di determinati nuclei familiari. Sammy comunque non si abbatte e prosegue per la sua strada, nonostante la morte della madre che provocherà un forte scossone all’interno della famiglia (una scena importante è nella seconda parte del film, rappresentata servendosi di un climax discendente). Per non parlare delle discriminazioni razziali (il protagonista così come lo stesso regista, è di origini ebraiche) che Sammy subirà a scuola, una volta approdato in Arizona.

Tra autorialità e filosofia del cinema

Spielberg
Una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

L’arte ti darà corone nella testa e aria nel cielo, ma ti strapperà il cuore.

Il percorso di crescita del protagonista ci porta a vedere due lati della stessa medaglia, ovvero la concezione del cinema come mezzo in grado di canalizzare i propri sogni, ma anche la potenza di un medium in grado di manipolare la realtà a proprio piacimento. L’attenzione incredibile di Spielberg verso gli strumenti del suo futuro mestiere, come citato in precedenza, è una toccante dichiarazione d’amore verso il grande schermo, quasi commovente per la sua limpidezza e sincerità. In ogni scena traspare la forza dirompente della passione del Maestro; quella che gli ha permesso in oltre cinquant’anni di carriera di creare pellicole di grande spessore, assurte a veri e propri culti. La natura della storia, inoltre, permette a chiunque di relazionarvisi senza scadere nella banalità poiché, grazie allo sviluppo perfetto dei caratteri dei personaggi, possiamo ritrovare il significato della vita intesa come una sfida continua, con l’invito a non arrendersi mai.

Questo aspetto, infatti, è messo a fuoco negli ultimi minuti della pellicola, rappresentanti una forte lezione per i giovani autori: quello che conta, alla fine, non è tanto ciò che si rappresenta ma come lo si rappresenta. Il Cinema è una questione di sguardo, di prospettiva, di orizzonte, come suggerisce John Ford (interpretato da David Lynch, davvero!):

Quando l’orizzonte si trova in basso è interessante, quando si trova in cima è interessante, quando si trova in mezzo è una merda noiosa.

Questo sta a significare che solo l’occhio dell’artista, di chi sa guardare davvero oltre, è in grado di donare quell’aura di unicità al film. Qui risiede il segreto dell’arte cinematografica e Spielberg, non poteva spiegarcelo meglio di così.

 

Federico Ferrara

Lando Buzzanca era la voce indispensabile al grande cinema

Si è spenta ieri all’età di 87 anni l’ultima voce del grande cinema italiano, quella di Lando Buzzanca. Una voce qualche volte trascurata – seppur amata dal grande pubblico che lo conobbe anche sul piccolo schermo – proprio come quella del suo alter ego, il “merlo maschio” Niccolò Vivaldi, nella grande orchestra di strumenti – tra attori e registi- che hanno composto la magnifica sinfonia della storia del cinema nostrano.

Violoncellista col complesso di inferiorità accanto a Laura Antonelli ne “Il merlo maschio”, commedia del ’71 a tinte psicologiche, ingiustamente liquidata come “sexy”. Fonte: Clesi Cinematografica

 

Volto poco noto alla nostra generazione rispetto al pantheon di mostri sacri (Gassman, Tognazzi, Mastroianni, Sordi), spesso sottovalutato da una certa critica che lo considerò esponente di tutta una scena anni ’70 straripante di b movies  (quando invece Buzzanca decise presto di non prendere parte alle pellicole più eccessive della commedia sexy all’italiana), relegato alla provincialità con lo stereotipo di maschio siciliano sciocco, ma anche sanguigno e lussurioso, ruoli che ha spesso interpretato sul grande schermo, Lando Buzzanca è stato molto di più.

Nasone adunco, viso squadrato, occhi scuri e intensi, spesso attraversati da quel guizzo di follia che contraddistinse i suoi personaggi migliori, l’attore nato a Palermo nel 1935, aveva proprio quella che si può dire una faccia da cinema. Non la faccia da divo – come poteva essere quella del latin lover Mastroianni o dell’attraente e signorile De Sica – ma proprio da attore, da lavoratore che fa del cinema la sua vita e la sua professione. Riferendosi a lui una volta mio nonno disse: «Lavora bene!»

E forse con un’unica quanto “ingenua” frase, ha colto quello che l’inchiostro di tanti critici non ha saputo mettere in luce in miriadi di recensioni. Lando Buzzanca era un artigiano della recitazione, attività che iniziò a svolgere all’età di 17 anni affiancandola ad altri lavoretti umili.

Artigiano, nella fiction Rai “Il Restauratore”. L’attore negli anni recenti ha vissuto una vera e propria rinascita professionale grazie a molte serie Rai. Fonte: RaiPlay.it

 

Poi la notorietà, all’età di 22 anni, diretto da Pietro Germi nel suo capolavoro Divorzio all’Italiana, film a metà strada tra un neorealismo che conobbe la sua apoteosi nel decennio precedente e un certo cinema politico che si sarebbe affermato di lì a poco e si serviva spesso delle tinte della satira per dipingere quell’affresco di costumi strani e spesso ipocriti, di vizi e virtù della società italiana.

Accanto ai divi Stefania Sandrelli e Marcello Mastroianni, la coppia di adulteri che ripiega per una soluzione tutta italiana – anzi siciliana! – per porre fine a un matrimonio in crisi, Lando Buzzanca ha il ruolo per così dire secondario del focoso e giovane fidanzato della sorella disonorata dell’inetto barone Cefalù.

Sempre per Germi si ritroverà stavolta a vestire un ruolo più di rilievo nel 1964. Qui sarà Antonio Ascalone, fratello di una Sandrelli “sedotta e abbandonata”: sarà lui incaricato a vendicare l’onore della sorella in un dramma corale a tratti grottesco che vede però protagonisti più la Sandrelli (e l’interpretazione di quest’ultima a dire il vero non è nemmeno memorabile!) e Saro Urzì nel ruolo del pater familias strenuo difensore della morale domestica.

Eppure nella “partitura” della sinfonia cinematografica, nella composizione di un capolavoro, niente è lasciato al caso. E anche l’interpretazione minore (si fa per dire) di Buzzanca è la tessera piccola e indispensabile nel mosaico della Sicilia di Germi: calda e affascinante come ebbe a dire lo stesso attore, ma anche crudele e assolata, messa in mostra da un bianco e nero dal contrasto luminoso, quasi accecante.

Fratello disonorato, accanto al “seduttore” Aldo Puglisi e la “sedotta” Stefania Sandrelli. Fonte: Paramount

 

Buzzanca ci racconterà tutto questo in un’intervista anni dopo, con la chioma argentata e la sua voce “nuova” che ha preso il posto di quella nasale della gioventù, quella da meridionale tonto preso spesso per i fondelli dal settentrionale più scaltro. E’ una voce rauca ma solenne, da nobile siciliano d’altri tempi, ultimo di una stirpe di “gattopardi” del grande cinema, di attori di una certa statura anche intellettuale (penso a lui come al grande Gassman) che lo spettatore percepiva persino al di qua dello schermo.

 

Un “gattopardo” ben diverso da quello di Burt Lancaster, Lando Buzzanca lo interpretò davvero nel pluripremiato film del 2007 I Viceré di Roberto Faenza, ispirato al romanzo di Federico De Roberto. Padre autoritario di una famiglia nobile catanese in decadenza, quella degli Uzeda, sullo sfondo delle vicende risorgimentali, il personaggio di Buzzanca non si rassegna al suo mondo in rovina – quello dell’aristocrazia borbonica – davanti alla vittoria degli ideali unitari e cade in circolo vizioso di follia e superstizioni.

Ancora una volta l’attore porta sullo schermo il volto e la voce della sua Sicilia con i suoi chiaroscuri e le sue “tare”. Ma a ben pensarci, come lo era già stato nei film ad episodi degli anni ’60, (I mostri, Made in Italy, I nostri mariti) il volto di Buzzanca è quello dell’Italia intera con vizi e virtù che ci portiamo dietro nonostante anni di storia e un miracolo economico che in fondo «ha cambiato tutto per lasciare tutto com’era».

E questo i grandi registi lo sapevano. Per questo scelsero il talento e la voce di Buzzanca, il grande attore che per uno strano e crudele gioco del destino ha vissuto i suoi ultimi giorni relegato in una RSA, affetto da una forma acuta di afasia. Una voce che ci auguriamo non venga sommersa dal chiacchiericcio delle polemiche che circondano la sua triste morte, offuscando quelli che sono stati i meriti e le grandi intepretazioni dell’attore.

Siciliano ingenuo e seduttore accanto a Michele Mercier ne “I nostri mariti”. Fonte: Documento Films, Euro International Films

 

Perché quella di Buzzanca è una voce che merita di essere ancora solista nella storia del grande cinema italiano. E la nostra generazione, checché se ne dica, si merita di scoprire –  o anche riscoprire – un artigiano del cinema come lui.

Angelica Rocca