Fortunata – la guerriera di Tor Pignattara

Il caldo di un torrido agosto e un desolante quartiere romano fanno da sfondo a questa storia. E tra pettini, spazzole, tubetti di tinta per capelli, si muove la sua protagonista.

Fortunata (Jasmine Trinca) è una donna messa a dura prova dalla vita: un matrimonio fallito con un uomo, Franco (Edoardo Pesce), che non si rassegna ancora alla rottura e la tormenta con violenze psicologiche e fisiche, la sua piccola Barbara (Nicole Centanni) da crescere da sola e un duro lavoro di parrucchiera a domicilio (e “a nero”) da svolgere.

Nonostante ciò Fortunata non si arrende, a testa alta porta avanti la sua vita e coltiva il sogno di aprire un suo personale salone, spinta da un profondo desiderio e bisogno di emancipazione, indipendenza e felicità.

È il sesto lavoro da regista di Sergio Castellitto, la sceneggiatura è invece opera dell’autrice Margaret Mazzantini; tale connubio artistico da vita ad un’opera tanto cruda quanto realistica, tragica e al tempo stesso vitale, personaggi complessi ma umani e molto vicini a noi.
È una storia attuale, sono tante le donne che potrebbero riconoscersi nella figura di Fortunata, ed è principalmente a loro che è rivolto il messaggio di speranza che avvolge continuamente il film. Da un punto di vista tecnico la pellicola è perfettamente realizzata.

Sergio Castellitto mostra ancora una volta il suo talento, non solo davanti ma anche dietro la macchina da presa. Perfetta la scelta degli attori.
Jasmine Trinca è immensa nel sua interpretazione e perfettamente calata nel personaggio, si può dire quasi lo stesso di Stefano Accorsi, nei panni dello psicoterapeuta infantile; anche se probabilmente il suo personaggio poteva essere più approfondito in fase di scrittura del film, un perdonabile errore della Mazzantini.

Jasmine Trinca

Le ambientazioni e la fotografia rendono perfettamente giustizia a quella che vuole essere la realtà rappresentata, quella di una Roma periferica,”sporca” e degradata. Ottima anche la scelta delle colonne sonore che incorniciano perfettamente le scene più forti e crudeli.

Il cast a Cannes (da sx Nicole Centanni, Jasmine Trinca, Sergio Castellitto, Stefano Accorsi, Alessandro Borghi e Hanna Schygulla)

Il film è stato presentato il 20 maggio 2017 al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard, dove Jasmine Trinca ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione, ed è stato successivamente candidato a 7 Nastri d’argento.

Ci troviamo di fronte ad un piccolo capolavoro, un film diverso, uno schiaffo a coloro che pensano che il cinema italiano non abbia più nulla da offrire.

Benedetta Sisinni

La storia fantastica del cinema America. Il recupero dei beni comuni

C’era una volta a Trastevere , in via Agostino Bertani, il teatro Lamarmora , là al suo posto negli anni Cinquanta venne costruito il Cinema America.

L’arena venne chiusa nel 1999 per fare spazio prima ad una sala bingo e poi ad una palazzina ad uso residenziale.
A Roma come nel resto di Italia, negli anni a venire, vengono chiuse tante sale: cementificare piuttosto che curare e valorizzare il luoghi di cultura.
Nel 2008 il “comitato cinema America” , grazie anche al supporto dei trasteverini, riesce a bloccare il progetto di costruzione di un palazzo ad uso abitativo,ma le richieste per destinarlo ad uso sociale e culturale vengono rifiutate e la sala viene abbandonata.
È il 2012, accade un evento tipicamente giovanile: i “trast invaders” , ragazzi del liceo e dell’università, occupano per qualche ora il cinema e grazie alle foto che affollano i giornali la condizione di degradante abbandono del luogo è sotto gli occhi di tutti.
Di propria iniziativa e con il supporto degli abitanti del quartiere i ragazzi ricostruiscono il tetto, i pavimenti e creano una biblioteca e un’aula studio. Diventa uno spazio di aggregazione culturale.

Veloce aumenta l’interesse di attori, registi e produttori che passano dalla sala e supportano i ragazzi.
La sala è piena ogni giorno, vengono proiettati film e presentati prima dagli stessi registi o attori creando una atmosfera di scambio culturale. Il Maestro Ettore Scola è stato da sempre vicino a loro.
La storia non finisce qui: i ragazzi vengono fatti sgomberare ma i trasteverini, conquistati dalla passione dei ragazzi, concedono in comodato d’uso l’ex forno accanto il cinema.
È ora che nasce l’arena San Cosimato : cinema all’aperto nella piazza di Trastevere.
Più di un successo.

Questa è una storia di sgomberi, occupazioni e continue battaglie legali, l’ultima vede protagonista la sindaca Raggi e la l’appello del mondo del cinema (in direttissima da Cannes sottoscrivono Almodovar, Chastain e Sorrentino). Passando per iniziative bellissime come gli “Schermi pirata” e proiezioni nella periferia romana.
Intanto i ragazzi sono riusciti a vincere il bando per l’assegnazione della sala Troisi , altra sala chiusa da anni, e anche quest’anno da giugno ad agosto la piazza San Cosimato si illumina di cinema e riempie di persone (https://trasteverecinema.it/).

La realtà italiana vede, nella maggior parte delle città, sempre più coinvolti i cittadini nella cura e recupero dei beni comuni.
Non solo le sale vengono chiuse sempre più frequentemente, i luoghi di cultura o di interesse artistico vengono tenuti chiusi per mancanza di fondi. O almeno così molti dicono.

Le vicende che ho riportato potrebbero essere solo l’inizio di un vero e proprio movimento culturale italiano.
Chi meglio di noi, col nostro patrimonio, dovrebbe recuperare il rapporto coi nostri luoghi? Ritrovandone la bellezza, curandoli, rispettandoli e valorizzandoli tramite attività culturali : dalle proiezioni alle esibizioni alla creazione di luoghi di ritrovo per scambiare idee e conoscenza.
A Messina ci sono una quantità di luoghi chiusi al pubblico, riaperti ogni tanto per le Giornate di Primavera del Fai, che hanno tutte le caratteristiche.

È una idea bizzarra forse e potrebbe spaventare perché è un territorio ignoto.

I ragazzi del cinema America erano interessati ad avere uno spazio dove fare cultura, tutto è stato consequenziale, hanno studiato, hanno imparato a chiedere autorizzazioni e permessi, si sono fatti aiutare dai consigli di esperti. Difendono l’arte e i beni comuni, in un mondo che sembrerebbe andare in direzione contraria.
Non hanno mollato davanti alla bestia nera italiana che è la burocrazia.
Grazie ragazzi.

Checché se ne dica i “giovani d’oggi” sono interessati alla cultura, molto. Sono certa che non solo a Roma starebbero (o stanno già) in prima fila per migliorare la condizione delle città.
Questa è una avventura che stimola chi , come i ragazzi dell’America, ama i luoghi che ha attorno e crede nelle stesse idee.

Si dice sempre che l’Italia potrebbe andare avanti solo col patrimonio culturale e paesaggistico che ha, e allora perché non osare? 

Arianna De Arcangelis

 

ndr: per chi fosse interessato qui il link della pagina Facebook https://www.facebook.com/piccoloamerica/

Pirati dei Caraibi: la vendetta di Salazar

“Non vado in cerca di guai”
“Che orribile stile di vita ! “

Chi è che ad oggi non ha mai visto questa famosa e fortunatissima saga cinematografica?

Chi non ha mai subito il fascino dello stravagante e carismatico Capitan Jack Sparrow (Johnny Depp)? E chi non ha mai desiderato di trovarsi al suo posto e vivere le sue stesse avventure, oltremodo fuori dal normale?

Per tutti coloro che, dopo aver sospirato per la storia tra Sparrow e Angelica Teach (Penelope Cruz) in quello che sembrava essere l’ultimo capitolo, si sono chiesti se fosse davvero finita lì o ci sarebbe stato un seguito…beh, eccovi accontentati!

A distanza di ben sei anni, esce nelle sale italiane, il 24 maggio 2017, il quinto attesissimo episodio della saga: “La vendetta di Salazar”.

Jack Sparrow, più svampito del solito, è come sempre in balia della sfortuna e dei guai: una flotta di pirati fantasma guidati dal vendicativo Capitano Armando Salazar (Javier Bardem), fuggono dal Triangolo del Diavolo, a bordo della Silent Mary, e hanno come obbiettivo quello di ripulire il mare uccidendo ogni pirata, e in particolare vogliono uccidere Sparrow!

L’unica speranza di salvezza del nostro capitano è riposta nel Tridente di Poseidone, capace di spezzare ogni maledizione. La ricerca di quest‘ultimo porterà Jack ad incrociare la propria strada con quella di Carina Smyth (Kaya Scodelario) un’avvenente astronoma ed Henry Turner (Brenton Thwames) marinaio della Royal Navy, nonché figlio di Will Turner (Orlando Bloom) ed Elizabeth Swann (Keira Knightley), coppia che in quest’ultimo film fa il suo grande ritorno.

Saprà il nostro irriverente Jack, a bordo del suo malandato vascello, far fronte a tutti i pericoli che incomberanno e a salvarsi anche sta volta?

Dopo un quasi deludente quarto capitolo, che aveva fatto credere che più niente ci sarebbe stato da raccontare sulla vita di questi “cattivi del mare”, la regia dei norvegesi Joachim Rønning ed Espen Sandberg, si pone come obbiettivo quello di riportare il film ad avere lo stesso successo iniziale. Sono stati gli stessi registi ad affermare di voler realizzare “il miglior film della saga”; e per far ciò hanno voluto radunare, sempre citandoli ”la vecchia gang”.

Ecco spiegato allora il ritorno di Will ed Elizabeth, del figlio Henry e la presenza sempreverde di Geoffrey Rush nei panni di Hector Barbossa e ancora, come non sottolineare la partecipazione di Paul McCartney, anche lui col nome di Jack, ad interpretare lo zio del protagonista?

Protagonista che ci si presenta irriverente, scanzonato, impudente come sempre, insomma…il solito Capitan Jack Sparrow!

Un mix di personaggi vecchi e nuovi, un cast di tutto rispetto che gli conferisce la verve del primo film, quello che ha reso questa saga un cult del cinema fantastico.

Già dalla data di uscita il film è stato apprezzatissimo dai fans e ben accolto dalla critica; questo lascia forse ben sperare in un proseguimento? Lo scopriremo, nel frattempo continuiamo a riempire sale e come sempre… Vita da pirata!

Benedetta Sisinni

“The Big Kahuna”

Di film indipendenti se ne trovano a bizzeffe, specialmente da dopo la miracolosa discesa in terra della piattaforma mistica di nome “Netflix”, ma sono veramente pochi quelli che riescono a rimanere all’altezza degli standard delle grandi produzioni Hollywoodiane nonostante il loro budget molto limitato.
The Big Kahuna (La Grande Occasione) è uno di questi, una piccola, sbiadita e remota stellina lucente in mezzo ad un panorama troppo scuro…

E’ un film del 1999 diretto da John Swanbeck, tratto dalla commedia teatrale Hospitality Suite di Roger Rueff (che sarà anche sceneggiatore della stessa pellicola) che vede protagonisti “solo” tre attori: Danny DeVito, Kevin Spacey e un giovanissimo Peter Facinelli che interpretano il ruolo di tre venditori di lubrificanti industriali per una azienda sempre più sull’orlo del fallimento.
L’unica location utilizzata è una modesta stanza d’albergo di Wichita, Kansas dove i tre hanno organizzato un incontro con un grosso cliente che con il suo ordine potrebbe risollevare le sorti della loro azienda. Il problema è che nessuno di loro conosce il suo volto.

Ogni personaggio è diverso dall’altro e tutto il film ruota proprio attorno ai dialoghi che queste tre personalità tanto diverse riescono a partorire.
Il primo di cui facciamo la conoscenza è Phill Cooper (Danny DeVito) saggio venditore di mezz’età dalla personalità profonda e confusa che rappresenterà uno dei punti chiave di tutto il film. Insieme a Cooper troviamo Bob Walker (Peter Facinelli) giovanissimo venditore, neoassunto, ligio al dovere e fortemente legato alla religione Battista di cui è un fervido credente. L’ultimo ad intervenire è Larry Mann (Kevin Spacey) cinico ed astuto venditore, dotato di un grande sarcasmo che spesso lo spinge ad esagerare nell’uso di parole taglienti, specialmente nei confronti del giovanissimo Bob Walker.

“Be’, guardate, sono allibito! Io non fumo, tu non bevi e Bob non fa pensieri licenziosi sulle altre donne. Messi insieme noi tre siamo praticamente Gesù”

I dialoghi sono la vera perla di questo film, soprattutto se si considera che il tutto si ambienta in una sola, piccola e semplice stanza dalle pareti color kaki di un altrettanto anonimo albergo del Kansas. L’azione è bandita dalle scene, la parola viaggia libera e tocca i temi più disparati, dal senso della vita alla religione, dall’importanza della famiglia al valore dell’amicizia, fino, ovviamente, ai temi più concreti della finanza e del linguaggio imprenditoriale. Tutto si muove sulla linea del confronto/scontro tra Larry e Bob, troppo distanti caratterialmente per vivere una giornata intera gomito a gomito sotto la costante pressione di un cliente che non si palesa; confronto che scoppia nella costante battaglia tra il cinismo dato dall’esperienza di vita del primo e la forte e quasi eccessiva fede religiosa del secondo.

Non è un film che eccelle sotto tutti i punti di vista, anzi, spesso dimostra molte lacune sul piano della regia e della trama in se stessa, ma, nonostante la forte mediocrità dell’organizzazione di base, riesce a mettere in luce le splendide performance dei tre attori che riescono a cucirsi addosso perfettamente i loro ruoli, senza troppi eccessi, in maniera semplice, ma diretta. L’apice del film lo si raggiunge nel finale che riesce a condensare perfettamente il senso di tutta la storia in pochi minuti dalla straordinaria forza d’impatto, dimostrandosi così una perfetta chiosa per un film dalle poche aspettative, ma dai molti punti di riflessione e di indagine interiore.

“Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno.”

È un film consigliato a tutti coloro che non hanno paura di mettersi in dubbio, di porre sotto i riflettori del giudizio altrui la propria personalità, i propri difetti e le proprie paure; che sono disposti a cambiare in meglio, a chiedere scusa e ad affrontare i problemi di ogni giorno con spensieratezza, perché, prima o poi, anche loro riusciranno a cogliere la loro grande occasione.

Giorgio Muzzupappa

13 Assassini e la lotta per la giustizia del popolo.

Sono tredici, ma non sono audiocassette di una ragazzina suicida. 

Lord Naritsugu Matsudaira, fratello minore dello Shogun in carica, semina morte e paura per suo semplice diletto, in un periodo di assoluta pace che perpetua nel Giappone. Ciò non è accettabile, ma nonostante il disgusto e la disapprovazione delle più alte cariche, il legame di Naritsugu con il fratello lo rende fondamentalmente intoccabile, almeno dal punto di vista formale. Proprio per questo motivo, un nobile samurai di nome Shinzaemon Shimada viene incaricato di una missione assolutamente segreta e di vitale importanza: quella di ucciderlo. Shinzaemon sa perfettamente che questa sarà la missione della sua vita e che come ricompensa avrà solo la morte, dunque, con animo nobile e giusto di samurai, accetta di buon grado la missione senza esitare. Così comincia la ricerca di valorosi, fidati e abili guerrieri favorevoli al compimento della missione e pronti a tutto pur di portarla a termine. A ricerca conclusa, il gruppo risulta essere formato da soli dodici uomini, formidabili samurai votati all’arte della spada puntando sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Lealtà e giustizia sono i punti cardine. Il loro appuntamento con la morte è dunque alle porte.

13 Assassini” di Takashi Miike è un’opera curata e controversa, remake dell’omonimo lavoro del 1963 a cura di Eiichi Kudo. Azione, esplosioni, combattimenti fra samurai, sangue. Gli ingredienti ci sono tutti o forse c’è qualcosa in più. Infatti la pellicola nipponica produce un buon risultato finale, nonostante la trama sia piuttosto lineare e prevedibile, senza trascurare elementi poco credibili e realistici utili ad alimentarne la spettacolarità, assolutamente gradita. Vi è da precisare che il genere non è proprio per tutti, specialmente nel caso trattato, dove per alcuni le sequenze iniziali potrebbero essere considerate “disturbanti”. Nel complesso si mantiene un certo equilibrio, con scene di piena azione, ma non troppo crude, alternate a combattimenti godibili. L’atmosfera che si viene a creare è sicuramente appropriata per il genere e in ogni singolo tratto del film, si respira Giappone dei tempi dello Shogunato (forse con qualche pizzico di stereotipi, ma non è dato saperlo con certezza). Se si è alla ricerca di un buon lavoro cinematografico e samurai impavidi con katana al loro seguito, “13 Assassini” sicuramente non deluderà.   

                                                                                                                                                Giuseppe Maimone

Star Wars 40 : un tributo a Carrie Fisher

Qualche giorno fa si sono svolte le celebrazioni per i 40 anni dall’uscita del primo Star Wars
Durante le quali è  stato mostrato questo video tributo a Carrie Fisher: l’eterna principessa Leila deceduta lo scorso dicembre.

Dal video si comprende il tipo che era: una Jedi non una principessa.
Lei e il suo femminismo galattico e la costante lotta , sullo schermo e nella vita reale, con il Lato oscuro della forza.

Come cantava Meryl Streep in “Postcards from the edge” adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo della Fisher : “I’m checking out of this heartbreak hotel…”
Di nuovo arrivederci Carrie.

“Ora, credo che questa cosa diventerebbe un fantastico necrologio, e allora dico a tutti i miei amici più giovani di me che non importa come morirò: voglio che sia detto che sono affogata nella luce lunare, strangolata dal mio reggiseno.”

Arianna De Arcangelis

Ghost in the Shell: un remake come tanti o qualcosa di più?

L’idea di un remake live action di Ghost in the Shell (in sala dal 30 marzo), manga e poi anime tra i più riusciti degli anni 90, rappresenta, a film ancora non visto, una sfida quasi arrogante nei confronti di un’opera d’arte conclamata.
Il rischio tangibile che la profondità dell’anime di Mamoru Oshii potesse svanire dietro i seni di Scarlett Johansson (su cui pure torneremo) non si esaurisce di fronte alla resa grandiosa di un’animazione che è stata magnificamente ri-tradotta sul grande schermo.

Se da un lato persino il Titanic di Cameron deve molto del suo stile visivo al film di Oshii, dall’altro questo GITS chiude di fatto un cerchio, portando al cinema qualcosa che finora vi era rimasto essenzialmente escluso e che eppure così tanto aveva influenzato registi come i Wachowski ed il già citato Cameron. Per realizzare l’impresa, i tecnici della Dreamworks hanno attinto dagli autori di cui sopra, oltre che dall’illustre predecessore Ridley Scott e non solo: sin dalle primissime inquadrature appare chiaro come GITS sia un film che propone in veste commerciale colori delle più recenti avanguardie cinematografiche d’autore, Noé e Winding Refn in primis.

Eccellente il lavoro del direttore della fotografia Jess Hall, già sul set di Wally Pfister (ex cinematographer di Christopher Nolan) per Transcendence e frutto di una ricerca apposita per una mdp in grado di avvicinarsi il più possibile alla cel animation di Oshii.

Nonostante la relativa esperienza del regista Rupert Sanders, ci troviamo di fronte ad una sapiente ricostruzione del mondo di Oshii, mondo in cui è bello vedere qualcosa di più che semplici ricostruzioni delle scene più celebri dell’anime come il salto nel vuoto iniziale, l’inseguimento del camion della spazzatura o la scena della barca. E di questo siamo grati, perché il qualcosa in più arriva e non senza nuovi significati suoi precipui, con effetti speciali finalmente in grado di trasmettere emozioni e livelli di interpretazione, oltre il mero intrattenimento.

La cultura orientale viene stritolata, ingollata e digerita in forma nuova dalla tecnologia futuribile mostrata nel film. La vita quotidiana è arricchita da streaming cerebrali, enormi sistemi olografici alti quanto e più dei grattacieli e una certa estetica anni 80, umido riferimento a vicoli e veicoli di Blade Runner, che però combacia armoniosamente con la palpitante CGI contemporanea.

Impossibile sentirsi soli in un ambiente simile, tranne per il maggiore Mira Killian (Johansson): un prototipo di cyborg costituito da un corpo interamente artificiale in cui è stata installata una mente umana, un ghost e che promette di aprire le porte verso una nuova frontiera dell’umanità. Contro tale prospettiva un misterioso terrorista (Michael Pitt) sta scagliandosi con inaudita ferocia e abilità.
Compito della Sezione 9, servizio di sicurezza capeggiato da Daisuke Aramaki (Takeshi Kitano), è fermare il terrorista con l’aiuto del maggiore e dell’agente Batou (Pilou Asbæk).

Si complica la trama rispetto all’originale, che preferiva un intreccio semplificato con dialoghi dalla maggior pregnanza filosofica ed esistenziale alle numerose scene d’azione e ai dialoghi didascalici marcatamente occidentali che riempiono il film di Sanders, oltre al pastiche che è stato composto prendendo elementi anche dal sequel (sempre diretto da Oshii nel 2004), Innocence.
Fuggendo la mania della fedeltà, la trama di GITS riesce a catturare lo spettatore, a patto che si sforzi appunto di dimenticare l’originale. La pellicola si presenta radicalmente divisa in due partinella prima riesce ad accrescere sequenza dopo sequenza l’interesse di chi osserva per la bellezza del grande Waste Land futuribile, dove i fantasmi culturali del passato aleggiano insieme a spot pubblicitari e ai fumi della metropoli.
Dal momento in cui il villain di Pitt si rivela, invece, inizia lo straniamento rispetto al film di Oshii, che qui non si vuole criticare per l’eccessiva libertà nelle direzioni fatte prendere al plot in sé, quanto per quella che è la conclusione filosofica, esasperata dal finale manieristico, che tradisce la natura stessa di Ghost in the Shell.
Alla fusione tra un’intelligenza artificiale che vuole farsi umana e dunque mortale con un’umana che ha fatto di tutto per non essere più tale, Sanders preferisce omettere la fusione e relegare l’identità del maggiore alla nostalgia di un passato perduto. Passato umano e luddista. Reazionaria rivolta contro il mondo moderno che schifa la tecnologia vista esclusivamente come opprimente tecnocrazia e celebra l’identità umana, mancando quell’appuntamento con la rete, assoluto informatico – hegeliano delle coscienze già in veste industrial nel Tetsuo di Tsukamoto, cui così magistralmente il film di Oshii consegnava la propria chiusura, aprendo ad interrogativi, paure e opinioni tanto discutibili quanto prolifiche. La necessità di rendere GITS un prodotto hollywoodiano rovina così tutto il potenziale dibattito che la cultura nipponica, di posizione storicamente progressista per quel che riguarda l’etica (fanta)scientifica, aveva trasmesso ai fan dell’anime: il ruolo della tecnologia viene ridotto considerevolmente e limitato allo scopo di un abbraccio tra una madre e la figlia perduta.


La scelta di Scarlett Johansson, paventata da molti e accusata di white washing (polemica inutile che sta, almeno secondo la Paramount, causando il flop al botteghino), risulta in realtà vincente dal punto di vista recitativo e coreografico, ma l’implicita attenzione pubblicitaria verso la bellezza della diva, poi censurata da Sanders con una banale tuta di latex che sostituisce squallidamente il nudo integrale mostrato da Oshii, fagocita l’insensatezza del corpo umano trasmessa originariamente, togliendo a quel gesto così espressivo della spoliazione del maggiore la sua fredda estemporaneità.
Il “non visto”, secondo il classico meccanismo di oggettivazione del corpo femminile che Hollywood attua da sempre, ha come è noto l’effetto opposto, focalizza cioè l’attenzione sulla sensualità. Nel caso di GITS ciò è fuori luogo, data la netta sensazione di asessualità che trasmetteva il cyborg di Oshii e la controparte villain, cui viene peraltro dato un aspetto maschile (nell’originale era femminile), col risultato di recuperare un’identità di genere puramente finalizzata allo stereotipo. Insomma, Scarlett Johansson l’avremmo preferita davvero nuda, chi per un motivo chi per un altro.

All’insegna dello stereotipo anche il ruolo di Juliette Binoche, nei panni della creatrice del maggiore con una stima viscerale verso la propria creatura e una forma di venerazione per il superomismo cibernetico.

Da notare invece il ruolo di Kitano, che al momento di entrare in azione sfodera un enorme revolver “old school”, con buona pace di mitra compattabili e pelli sintetiche in grado di rendere invisibili. Cocktail d’azione incredibilmente credibile, sporcato di noir e gradevolmente vicino al personaggio di un altro celebre anime, Toshimi Konakawa in Paprika del compianto Satoshi Kon. Ma il richiamo principale è ovviamente alla filmografia dello stesso Kitano.
Tirando le somme, Ghost in the Shell di Rupert Sanders è un remake che merita di essere visto nonostante difetti, fanservice ed eccessi che paiono ad un esame più attento come il canto del cigno non solo dei suoi personaggi cupi ed alla ricerca di un sé perduto, ma di un’industria cinematografica tutta (Hollywood) in piena crisi creativa se non ancora economica, furto maldestro da un Oriente che avanza sotto il punto di vista artistico ed espressivo, rinnovandosi a discapito di un Occidente granitico e sterile che perde la capacità di fondere arte e popolarità – dovendo spesso sacrificare una delle due – e quindi di intendere il cinema per ciò che sempre è stato: arte popolare.

Andrea Donato

A Girl At My Door: la vita nella Corea di periferia.

Lee Young-nam (Bae Doona), un’ ispettrice di polizia, è costretta a trasferirsi da Seoul alla stazione di Yeosu, qualificabile come un paesino tranquillo.

La donna, essendo “la nuova arrivata” mantiene un profilo basso, chiudendo un occhio su qualche infrazione, ma senza dimenticare compito che deve svolgere. Nonostante ciò alcuni abitanti di Yeosu sembrano avere una certa diffidenza e un atteggiamento di superficialità nei confronti di Lee, probabilmente non riconoscendola al pari delle normali autorità.
La sua figura, inoltre, è circondata da un alone di mistero, derivante non solo dalla mancata conoscenza della causa del suo trasferimento, ma anche per la sua abitudine a bere una volta tornata a casa dopo il turno.
Un giorno, dirigendosi alla stazione per svolgerne uno, Lee incrocia dei ragazzini intenti a bullizzare un loro compagno di classe. Fatto tornare l’ordine, scopriamo che in realtà quella ad essere stata picchiata è una ragazzina molto trasandata e questo particolare fa incuriosire l’ispettrice, che segue la bambina nel suo tragitto di ritorno verso casa.
In questo modo scopre che quest’ultima vive con il padre e la nonna, senza la madre che li ha abbandonati.
Questo non sarebbe un problema se non per il fatto che proprio questa sua “famiglia” la maltratta sia psicologicamente che con veri e propri abusi fisici. La situazione non è accettabile e Lee decide di denunciare il fatto alla polizia, ma qualcosa va storto.
Sembrerebbe che il padre della bambina, di nome Park Yong-ha (Song Sae-byeok), sia il maggior allevatore di ostriche del paese rivestendo un ruolo chiave nell’economia di Yeosu, per cui gli ufficiali decidono di parlare con Yong-ha in persona piuttosto che procedere per via legali poiché questo avrebbe compromesso la sua figura e attività.
Il tentativo di aiuto e l’interesse mostrato nei confronti di Sun Do-hee (Kim Sae-ron) – ovvero la bambina maltrattata – portano quest’ultima ad  avvicinarsi a Lee, nonostante l’ispettrice non ne sia molto felice.

A Girl At My Door è un film di totale produzione coreana e particolare per molti aspetti.
Tratta temi delicati, difficili da trattare e sicuramente importanti (non si entrerà nello specifico per evitare di rovinare l’esperienza a chiunque voglia vedere il film). Ma questa è solo una delle varie particolarità di cui si è detto prima, infatti le due protagoniste del dramma coreano, Bae Doona e Kim Sae-ron, decisero di recitare nonostante non vi fosse un budget che permettesse alla produzione di pagare la loro prestazione. In parole povere, hanno recitato in maniera assolutamente gratuita.
Con un budget di soli $300,000, la regista July Jung, ha proposto un problema forte ed evidente che spesso è presente nelle periferie coreane. Il film non risulta eccelso, comprensibilmente vista la misera disponibilità economica per girarlo, con diverse vicende discutibili e toni che a volte tendono ad essere un po’ troppo bassi e quasi noiosi. Tuttavia, A Girl At My Door è da apprezzare nelle sue piccolezze e sicuramente, visti i molti ostacoli di produzione, non da biasimare.

Giuseppe Maimone

La Bella e La Bestia: incanto Disney per ogni età.

Era il 1991 quando nelle sale, uscì quello che è stato il 30° film d’animazione della Disney: La Bella e La Bestia.

Questo cartone ha raggiunto il primo grande traguardo del mondo Disney: è stato il primo film d’animazione in assoluto ad essere candidato agli Oscar con ben 5 nomination e, infine, ne vinse due per la Miglior Colonna Sonora e la Miglior Canzone.

La storia della Bella e la Bestia la conosciamo (quasi) tutti. Parla di questa giovane e bellissima ragazza, figlia di un inventore, che abita in un isolato paesino di campagna nel quale si trova stretta. Siamo nel pieno del ‘700 francese e questa splendida ragazza, amante della letteratura, è, per ovvie ragioni, reputata strana, diversa.

Parallelamente, in un castello non molto lontano dal villaggio della ragazza, un giovane principe è stato trasformato in Bestia da una fata, che lo ha fatto per insegnargli che non bisogna mai giudicare le persone dalle apparenze. Infatti, la stessa fata, si era presentata alle porte del castello del giovane arrogante, sotto le sembianze di una vecchina e porse lui una rosa in cambio di una notte di riparo.

Il principe la respinse e lei si rivelò. La rosa era una rosa incantata e solo il vero amore poteva spezzare l’incantesimo. Se nessuno si fosse innamorato della Bestia prima della caduta dell’ultimo petalo della rosa incantata, allora il principe sarebbe rimasto una Bestia per sempre.

Il resto lo conosciamo bene: il padre di Belle si perde nei boschi e cerca riparo nel castello della Bestia, dove viene imprigionato dalla stessa. Belle riesce a raggiungerlo e dona sé stessa in cambio della liberazione del padre.

Da quel momento, tra alti e bassi, inizia questa strana convivenza tra la Bella e la Bestia e, piano piano, tra loro due sboccia l’amore. Un amore che, con una delle morali più dolci e profonde di tutta la Disney, va oltre le sembianze esterne in quanto all’amore basta il cuore e non l’aspetto esterno.

Ed è questo quello che troviamo in questo periodo nelle sale cinematografiche: la fedelissima trasposizione della trama animata in film.

Il film della Bella e la Bestia non lascia delusi perché nulla, a parte qualche parola qua e là nelle canzoni (che, comunque, costituiscono una colonna sonora assolutamente vincente), è diverso dal cartone animato. La magia è rimasta intatta e, grandi e piccini, vengono trascinati da essa in questa favola che così bene conosciamo.

Ci sono, però, delle canzoni e delle scene inedite: queste non spezzano o stravolgono la trama, anzi, ci rendono partecipi di alcuni piccoli particolari che ci fanno affezionare ancora di più a questa storia, che la rendono più umana, più reale. Queste scene inedite (che non vogliamo spoilerare) possono insegnare come tutte le nostre vite sono delle fiabe perché anche nelle fiabe c’è la realtà del dolore e delle sofferenze in cui tutti noi, durante il corso della vita, ci imbattiamo.

Il cast è un cast assolutamente vincente: da Emma Watson (Hermione ndr) a Dan Stevens, Luke Evans, Kevin Kline, Josh Gad, Ewan McGregor. Nella versione originale sono tutti da chapeu in quanto sono loro stessi gli interpreti delle canzoni, mettendo in scena, di conseguenza, un vero e proprio musical.

Nella nostra versione italiana, si riconosce il grande stile del doppiaggio italiano: non ci sono distacchi fastidiosi tra le voci parlate e le voci cantate dei personaggi e, anzi, sono quasi uguali anche alla versione cartone animato tanto da lasciare il dubbio se siano gli stessi doppiatori del ’91.

È stata criticata la figura di Emma, in quanto, ad alcuni, ha dato l’impressione di essere più piccola della Belle che conosciamo: ricordiamoci però che tutte le principesse Disney hanno 16 anni e che, anzi, sono le principesse animate a sembrare troppo donne rispetto alla loro reale età.

Altro punto di dibattito è la figura di Le Tont, il leale amico di Gaston: la Disney ha deciso, in questa versione, di renderlo palesemente un personaggio omosessuale, innamoratissimo del suo amico. Bene o male? Bene! È giusto che la Disney, per prima, spezzi i dogmi che ci circondano e insegni la bellezza della diversità a tutti i bambini, con la sua delicatezza materna.

Per me, promosso con 30 e lode: dolce, veloce, commovente e magico. Personalmente, sono molto legata a questa trama e ai suoi vari insegnamenti. Quello che a me è da sempre arrivato più di tutti, è quello della speranza, del cambiamento che prima o poi arriva: ‘’quando sembra che non succeda più, ti riporta via, come la marea, la felicità’’…

Film o cartone, comunque, il commento è sempre lo stesso: ma chi lo vuole il principe… Noi vogliamo la Bestia!

Elena Anna Andronico

Continuano le giornate di cinema2day

Grande successo di pubblico per questa settima edizione di Cinema2day che giorno 9 marzo ha registrato quasi novecentomila spettatori, con una particolare affluenza nelle sale del Sud e nelle periferie delle grandi città.

Grazie alla promozione che il Ministero ha lanciato lo scorso settembre, in collaborazione con le associazioni di categoria Anica, Anem e Anec, la giornata di mercoledì 8 marzo, ha registrato 896.847 presenze, con un aumento in picchiata rispetto al mercoledì precedente (1° marzo) che ne aveva registrate 234.737.

“È stata un’altra grande giornata di festa per i ragazzi e le famiglie” ha dichiarato il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, commentando i dati.

È Logan – the Wolverine a continuare a dominare la classifica. Seconda posizione per Beata Ignoranza di Massimiliano Bruno col duo rodato Giallini-Gassmann. Al terzo posto risale Omicidio all’Italiana di Maccio Capatonda . Al quarto posto debutta Il Diritto di Contare con Taraji P. Henson , Octavia Spencer e Janelle Monae.

Le prossime date in cui si potrà godere della iniziativa sono : il 12/4 e il 10/5.

(fonte cinematografo.it)

Arianna De Arcangelis