Pulp Fiction: la strada che porta al nulla

 

Pulp Fiction, un gangster movie in cui i dialoghi sovrastano le armi. Voto UVM: 5/5

 

È con la schermata seguente che Quentin Tarantino decide di aprire il suo secondo film, cambiando la sua vita e quella di tutto il cinema. Pulp Fiction è stato scritto da Tarantino e Roger Avary nel 1993 e solo un anno dopo è arrivato nelle sale di tutto il mondo. Oggi questo cult compie 30 anni ed è tornato in sala in una versione restaurata in 4k.

Frame di “Pulp Fiction” (1994) di Quentin Tarantino. Produzione: Miramax. Distribuzione: Cecchi Gori Distribuzione.

IL CONCETTO DI “CINEMA” PER TARANTINO

Tarantino si nutriva di cinema, ne conosceva ogni sfaccettatura, ed è per questo che ha deciso di mettere insieme quelle poche cose che possedeva: follia, amore e passione, per creare qualcosa di mai visto prima.

Parlare di Pulp Fiction significa essere disposti a cambiare la visione di ciò che noi credevamo fosse “cinema”.
Non esiste più un buono, un brutto o un cattivo ma solo uno sporco e deplorevole cerchio della vita, ricco di crudeltà, violenza ed erotismo.

PULP FICTION: LA TRAMA È COSÌ IMPORTANTE?

Se dovessimo utilizzare una semplice visione oggettiva potremmo classificare Pulp Fiction come un “gangster movie” che cavalca la stessa onda (più romanzata) dell’opera prima di Tarantino: Le iene. Questa visione però è eccessivamente limitante; l’atmosfera gangster è solo il contorno di questo dipinto.

Il film racconta 6 eventi tutti concatenati fra loro e caratterizzati da dialoghi intriganti, riflessivi, divertenti e soprattutto PULP!

Tutte le azioni svolte dai nostri personaggi sono messe in secondo piano. Sono le parole, infatti, ad influenzare i protagonisti (e il pubblico) più che le loro singole gesta, talvolta estreme e grottesche.

Frame di “Pulp Fiction” (1994) di Quentin Tarantino. Produzione: Miramax. Distribuzione: Cecchi Gori Distribuzione.

PERCHÉ LO CHIAMIAMO CULT?

Perché un film confusionario, senza una vera trama e politicamente scorretto è diventato l’emblema dei film cult?

Non esiste una vera risposta, non vi è un significato ovvio che fa di Pulp Fiction una pietra miliare del nostro cinema. Ciò che ha permesso a questo film di spiccare il volo e rubare la scena a tutti gli altri film sono stati i dettagli maniacali e impercettibili che Tarantino ha inserito all’interno della pellicola.

Lo spettatore riesce ad entrare dentro lo schermo, venendo ipnotizzato da qualcosa che con fatica riesce a capire, poiché invisibile all’occhio umano. E anche alla quarta o quinta visione questo film “sputa” dettagli da far accapponare la pelle. Ogni minimo particolare è capace di procurare un “orgasmo visivo” e perpetuo. Per non parlare poi delle scene iconiche entrate nella storia come “Ezechiele 25.17” o il Twist di Vincent e Mia.

Parallelamente alle scene diventate storiche vi sono poi delle imponenti colonne sonore che oggi riconducono tutte a questo film come Misirlou di Dick Dale, You never can tell di Chuck Berry e molte altre…

Frame di “Pulp Fiction”(1994) di Quentin Tarantino. Produzione: Miramax. Distribuzione: Cecchi Gori Distribuzione.

LE MARIONETTE DI QUENTIN TARANTINO

Il talento del nostro regista si fonde in maniera osmotica con la potenza espressiva dei nostri attori. L’impulsività di Ringo e Yolanda (Tim Roth e Amanda Plummer), la divertente stupidità di Vincent Vega (John Travolta), la sadica ironia di Jules Winnfield (Samuel L. Jackson), la sensualità e l’insoddisfazione di Mia Wallace (Uma Thurman) e la determinazione di Butch Coolidge (Bruce Willis) riescono a dare vita ad una messa in scena che raffigura perfettamente il niente.

Proprio così, i nostri attori riescono a dare significato ad un film che non porta a niente, nessun obiettivo, nessun messaggio morale, nessuna investigazione sull’ambito sociale ma vero e proprio intrattenimento strategico ed intelligente.

PULP FICTION È IL FILM PERFETTO?

Cosa può portare un film ad essere considerato perfetto? Ogni risposta sarebbe superflua, non esiste veramente un film perfetto. Ciò che caratterizza Pulp Fiction è l’intelligenza e lo studio che c’è dietro ad ogni scena, ripresa, inquadratura o dialogo. Tarantino dimostra che per quanto gli studi di formazione possano essere importanti, la passione batterà sempre ogni manuale.

È con Pulp Fiction che Quentin ci permette di andare oltre i canoni classici del cinema: l’arte non necessita di un teorema o un postulato ma solo di amore e, questo, ci dimostra Tarantino, non viene insegnato in accademia ma nasce dentro ognuno di noi.

«Ezechiele 25,17. Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre; perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.»

 

di Pierfrancesco Spanò

Berlinguer: la grande ambizione – L’uomo oltre il politico

Berlinguer: La Grande ambizione
Berlinguer: la grande ambizione racconta la storia di un partito e di un uomo in maniera oggettiva – Voto UVM 4/5

Berlinguer: la grande ambizione è un biopic di Andrea Segre con protagonista Elio Germano. Presentato in anteprima all’apertura della Festa del Cinema di Roma 2024, ha già superato i tre milioni di incassi al box office. Proprio al festival romano, Germano è riuscito a portarsi a casa il premio come miglior attore, a testimonianza dell’ottima interpretazione portata in scena.

La Grande Ambizione: non solo storia, ma anche società

Il film si ambienta fra il 1973 e il 1978, anni dove il Partito Comunista Italiano vive il suo miglior periodo in termini elettorali. Il protagonista è, come suggerisce il titolo, Enrico Berlinguer, segretario del PCI all’indomani del golpe in Cile contro Salvador Allende. In piena guerra fredda, neanche l’Italia vive tempi sereni: è infatti reduce dai movimenti del ‘68, dove studenti e operai si mobilitarono in massa. Ad aggravare la situazione di inizio degli anni ’70 sono le violenze di carattere politico perpetrate dalle organizzazioni terroristiche. Queste continueranno per tutto il decennio, che verrà ricordato come il decennio degli “anni di piombo”. In questa intricata tela sociale, Berlinguer deve anche riuscire a distaccarsi dell’Unione Sovietica, che vede nel suo modello di stato l’unica via per il socialismo.

Dopo i fatti in Cile, per timore di una deriva antidemocratica anche in Italia, Berlinguer teorizza la sua grande ambizione, il compromesso storico. Capisce che per arrivare al governo non bastano i consensi, ma è necessaria un’alleanza con gli altri partiti sorti dalla resistenza antifascista. Il quadro politico della prima repubblica è infatti influenzato dalla conventio ad excludendum, una legge non scritta che esclude a priori le forze di sinistra dagli accordi di governo. Berlinguer quindi ambisce all’apertura al fine di instaurare un dialogo con i democristiani, altra principale forza popolare, in carica dalla nascita della repubblica.

Berlinguer: La Grande Ambizione
“Un italiano su tre vota comunista!” – Fonte: esquire.com

Nonostante un attentato fallito da parte dei servizi segreti bulgari, con il quale il film si apre, continua comunque imperterrito per la sua strada. Riuscirà pian piano, come vedremo, a separarsi anche pubblicamente dal giogo di Mosca, affermando il partito come forza democratica. Seguendo il segretario nel suo tragitto, incontriamo altri maggiori esponenti del PCI: Pietro Ingrao, Ugo Pecchioli, Nilde Iotti e molti altri. Questi lo affiancano nelle sue visite alle fabbriche popolari o durante i grandi comizi, credendo in Berlinguer tanto quanto credono nel loro ideale politico comune.

Il film però non ci parla solamente del Berlinguer politico. Accanto alla vita politica, c’è quella privata composta dalle figure della moglie Letizia Laurenti e dei quattro figli Bianca, Maria Stella, Marco e Laura. Il ruolo di Enrico si fa quindi duplice: non solo funzionario maggiore di partito, ma anche padre di famiglia e fedele marito. Purtroppo le due vite sono difficilmente sovrapponibili, con la prima che toglie continuamente spazio all’altra con suo grande rammarico. Nei rapporti con la famiglia però la politica non manca affatto: vengono infatti continuamente dibattuti accadimenti e questioni dell’epoca.

La Grande Ambizione: l’altra Italia di Berlinguer

L’Italia raccontata in Berlinguer – La grande ambizione, quella della “prima repubblica”, è sì lo spaccato di una società diversa dalla nostra, ma che non è troppo distante. La differenza più evidente sta proprio nel coinvolgimento popolare nella politica. Questa è molto più partecipata e sentita rispetto ad oggi, a testimonianza del fatto che il tema dell’affluenza è oggi più centrale che mai. Impressionante è ad esempio la scena finale che mostra il funerale del segretario. Il corteo che si forma per rendergli onore è immenso e anche le emozioni viste in sala testimoniano quanto sia cambiata la situazione.

Berlinguer: La Grande Ambizione
Festa dell’Unità di Firenze, 1975 – Fonte: iodonna.it

Berlinguer, come mostrano le scene, si batte fino all’ultimo per un comunismo dal volto umano, volto a portare il volere dei lavoratori in alto. Quando Andreotti, in occasione della formazione del suo terzo governo spera di convincerlo, lui risponde “non è me che dovete convincere, ma i lavoratori”. Attraverso interviste e testimonianze, il film mostra anche un uomo riservato e profondamente etico, che riuscì a conquistare la fiducia di molti italiani. La pellicola invita a riflettere sulla politica di oggi, sull’assenza di figure di simile statura morale e sulla necessità di rinnovamento della società odierna.

Giuseppe Micari

La Cosa: fantascienza paranoica e guerra fredda

Parthenope
Il ritratto di una società violenta e psicotica in uno dei film horror-fantascientifici più iconici di sempre: “La Cosa”. Voto UVM: 5/5

La Cosa è indubbiamente uno tra i cult cinematografici più discussi di sempre: remake di La cosa da un altro mondo di Christian Nyby e Howard Hawks (1951), fu eclissato dal roboante successo della fantascienza sciatta e buonista di E.T. l’extra-terrestre in quel novembre del 1982 ma riuscì, nel tempo, a farsi strada nel cuore degli appassionati grazie ad una sceneggiatura semplice ma ricca di colpi di scena, degli effetti visivi straordinari per l’epoca e tutt’ora mozzafiato, nonché La magistrale colonna sonora di Ennio Morricone. Tutti questi elementi, coadiuvati da una regia politica e visionaria del maestro John Carpenter, delineano una pellicola ricca d’azione ma con tempi dilatatissimi, orrorifica e disgustosa ma al tempo stesso leggera e grottesca, fantascientifica nella sua atmosfera e nel suo iconico villain ma terribilmente concreta ed impressionista nelle sue dinamiche e nella critica contro una società americana violenta, paranoica e menefreghista.

LA TRAMA

Il film si apre con l’inseguimento di un cane da parte di due ricercatori norvegesi a bordo di un elicottero. I due sembrano più che determinati a sopprimere la bestia in fuga, la quale trova rifugio nella base americana U.S. Outpost #31, ma la cattiva sorte fa si che il pilota rimanga coinvolto nell’esplosione dell’elicottero, causata dal lancio maldestro di una granata, e che l’altro ricercatore non riesca a spiegare la gravità della situazione ai suoi colleghi statunitensi, per via della barriera linguistica che li separa: nel picco massimo di tensione, il norvegese colpisce erroneamente uno degli americani e la situazione degenera in una sparatoria. Ucciso il pazzo straniero dal comandante Garry (Donald Moffat), la crew dovrà affrontare una minaccia ultraterrena, che sembra infettare ed assumere le sembianze di ciò che tocca, e che loro stessi hanno lasciato entrare…

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

LA DECOSTRUZIONE DELL’EROE

Nonostante le varie personalità del gruppo siano ben delineate ed ampiamente caratterizzate, tra i 12 membri della squadra di ricercatori spicca immediatamente quella di R.J. MacReady (Kurt Russel), per via del suo carisma prorompente ed anche grazie ad una certa spavalderia.

La messa in scena suggerirebbe il più banale dei protagonisti valorosi e puri di cuore, eppure già nei primi minuti del film MacReady perde a scacchi contro un computer e lo accusa di aver barato, per poi annegare i suoi circuiti nel Whiskey; ciò che all’apparenza potrebbe sembrare il classico eroe da film d’azione americano, sicuro di sé e sempre pronto a salvare la situazione, Carpenter lo trasforma lentamente in una macchietta arrogante, cocciuta e violenta, perennemente confusa ed incapace di accettare la sconfitta.

UNA REGIA FUNZIONALE ED INNOVATIVA

Le sue abilità registiche, Carpenter, le aveva già messe in mostra in svariate pellicole, passando dai classici horror slasher come Halloween – La notte delle streghe a film d’azione ritmati alla 1997: Fuga da New York, eppure non aveva ancora sfoggiato una tale creatività e polivalenza come in questo film: il regista statunitense dà voce a tutte le sue influenze accostando momenti di body horror puro a dialoghi freschi e cadenzati, alternando scene d’azione con un montaggio serrato ad inquadrature fredde e serafiche (e per questo inquietanti), il tutto mantenendo il ritmo sempre costante ed oscillando continuamente tra il destabilizzante ed il grottesco.

Di grande aiuto furono gli interventi di Robert Bottin, un artigiano degli effetti speciali analogici che contribuì ad ideare ed a realizzare la “cosa” nelle sue varie e spaventose forme.

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

GLI ANNI ’80 E LA VISIONE DI CARPENTER

Negli anni ’80 del secolo scorso la guerra fredda era ormai agli sgoccioli, e gli U.S. spalancavano le porte al cosiddetto “Edonismo Reaganiano“, un decennio segnato dal consumismo dilagante, nonché una vacua ricerca dell’appariscenza e della spensieratezza nettamente in contrasto con le lotte politiche e il clima di terrore che avevano segnato gli ani passati: i cittadini americani rigettarono l’impegno collettivo atto a migliorare la società e si rinchiusero nella loro sfera privata, perseguendo unicamente la propria felicità personale.

Carpenter coglie perfettamente questo clima di disinteresse apatico e disillusione politica, e lo trasforma nel suo film in una crescente diffidenza tra i membri della crew, alle prese con una minaccia che potrebbe tranquillamente assumere le sembianze dell’uomo con cui hai condiviso la stanza fino a ieri; la fiducia reciproca viene meno, la cooperazione diventa impossibile ed è così che l’uomo è costretto a regredire allo stato di bestia.

IL FINALE

La Cosa
Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

Del resto è la natura stessa della “cosa” a rappresentare una minaccia ideologica per gli americani: il timore di essere assimilati ad un essere senza identità, che può diventare la tua identica copia in tutto e per tutto è indubbiamente terrificante, ma nella cultura dell’io tale prospettiva scardina completamente ogni certezza che abbiamo su ciò che siamo effettivamente.

Nel film risulta impossibile distinguere un organismo originale da uno assimilato, ed in alcuni momenti sembra che neanche quest’ultimo si renda conto di essere ospite della “cosa” fino a quando essa non si palesa. Il culmine viene raggiunto nel finale, quando gli ultimi superstiti si incontrano dopo aver fatto esplodere la base: la minaccia sembra svanita, eppure la tensione è al suo picco; non vi è un minimo segno di empatia, solo due esseri umani pronti a morire da soli pur di non dialogare l’uno con l’altro. 

 

di Aurelio Mittoro

C’era una volta in America: un sogno durato una vita

 

Parthenope
C’era una volta in America: un viaggio tra amore, amicizia e criminalità lungo quarant’anni. Voto UVM: 5/5

 

C’era una volta in America ha da poco compiuto 40 anni dalla sua prima uscita in Italia, nel 1984, tornando al cinema in versione restaurata in 4K.

Il maestro Sergio Leone, definito “l’italiano che inventò l’America”, autore di pellicole del calibro di C’era una volta il West e della famosa Trilogia del dollaro, termina la sua carriera con questo capolavoro senza tempo. Accompagnato dalla magnifica colonna sonora di Ennio Morricone.

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA: TRAMA

Il film narra la storia di Noodles (Robert De Niro), di Max (James Woods) e dei loro amici, ragazzini ebrei che inizieranno ad avere a che fare con la malavita nella New York degli anni ’20 e i quali ricordi riaffioreranno in vecchiaia, all’arrivo di una misteriosa lettera…

L’INFANZIA DELLA GANG DI MAX E NOODLES

«Guarda, sono le 6 e 34 e io non ho tempo da perdere!»

L’infanzia di Noodles, segnata dalla vita di strada e dalle esperienze negative alle quali deve far fronte, non è di certo ideale. Ciò che fa riflettere però è che quando i personaggi sono piccoli, a volte non si rendono conto di ciò verso cui vanno incontro.

La scelta di rimarcare che, nonostante le azioni mature, i ragazzi rimangano innocenti, viene direttamente dal regista che a proposito mette in scena una delle sequenze, a mio parere, più belle di tutta la storia del cinema: Patsy, uno dei ragazzini che fa parte della gang di Noodles e Max, compra una Charlotte Russa con la panna a Peggy, una ragazzina del quartiere, per cercare di ottenere qualcosa in cambio da lei, ma mentre la aspetta fuori dalla porta si fa ingolosire dal dolce, inizia con l’assaggiare un po’ di panna e finisce con il mangiarlo tutto rimanendo a mani vuote davanti a Peggy, alla quale dirà in modo imbarazzato: “Sarà per un’altra volta”.

C'era una volta in America
Gli amici di Noodles durante la loro infanzia.

LO SGUARDO POETICAMENTE CRUDO DI LEONE

Per l’intera durata del film ci si sente immersi, grazie alla messa in scena impeccabile, alla fluidità data dai movimenti di macchina e dal montaggio, e alla bellezza delle immagini, in un sogno lungo più di quarant’anni.

Per tutti i 240 minuti della pellicola abbiamo la sensazione di vivere un’altra vita, come se stessimo assistendo anche noi in prima persona alle vicende dei personaggi.

Ad ogni modo, tutta l’armonia e la meraviglia viene alternata a momenti di pura violenza e orrore, che riguardano soprattutto le azioni spregevoli dei protagonisti, sia nei confronti delle vittime nell’ambito malavitoso, che delle donne che amano e che non sanno rispettare poiché “figli” della violenza.

Grande critica sociale mossa da parte di Sergio Leone durante tutta l’opera che mostra i più grandi problemi della società americana, raccontandocene la storia e gli sviluppi dagli anni ‘20 agli anni ‘60, passando per il proibizionismo e per le lotte del movimento operaio.

Sergio Leone sul set di “C’era una volta in America”.

IL PASSARE INESORABILE DEL TEMPO E L’IMPORTANZA DEI RICORDI

«Sono le 10 e 25 e non ho più niente da perdere… Un amico tradito non ha scelta, deve sparare».

Verso il finale del film, Max, mittente della misteriosa lettera, incita più volte Noodles ad ucciderlo. L’esortazione a sparare può essere interpretata come una metafora che indica l’essere “costretto” a eliminare i ricordi genuini della giovinezza condivisa dai due dopo essere venuto a conoscenza del tradimento subito. 

La vita del protagonista è ormai stata rubata, per trent’anni, da quello che definiva il suo migliore amico. La donna che amava, i soldi, la fama, gli sono stati sottratti senza possibilità di rimediare.

Nonostante tutto, Noodles decide di fingere di non riconoscere Max, chiamandolo continuamente “Mr. Bailey”, nome della sua nuova identità, e fa come se nulla fosse cambiato rispetto a poco prima della scoperta, come se ormai la giovinezza non appartenesse nemmeno più alla sua vita e non volesse macchiarla ulteriormente.

La spensieratezza mostrataci durante l’infanzia dei personaggi è direttamente proporzionale alla nostalgia provata da Noodles durante la vecchiaia, parte montata intelligentemente in modo discontinuo durante il film cosicché si alternasse con le diverse linee narrative della storia e che rendesse al meglio le sensazioni espresse in modo eccellente da Robert De Niro.

TUTTO TORNA ALLE ORIGINI

C’era una volta in America si conclude nello stesso luogo in cui vediamo Noodles per la prima volta all’inizio del film, in un teatro cinese, che è anche una fumeria d’oppio. Si è fatto un salto indietro al 1933, a subito dopo che Noodles legge su un giornale la notizia che riguarda il colpo in banca della sua gang che lui stesso ha provato a sventare chiamando la polizia. L’inquadratura che chiude il film e sulla quale passeranno i titoli di coda consiste in un primissimo piano di Noodles che sorride, inebriato dall’oppio, che fa quasi nascere nello spettatore il dubbio che tutto ciò che ha visto sia stato solo un “sogno oppiaceo” di Noodles che rappresentava una realtà alternativa nella quale Max non era davvero deceduto durante quel colpo.

L’inquadratura finale con Noodles che sorride.

Consiglio in modo spassionato la visione di questo capolavoro, attualmente disponibile in abbonamento su Now Tv e sui canali premium di Prime Video.

 – Che hai fatto in tutti questi anni, Noodles?
– Sono andato a letto presto. 

 

di Alessio Bombaci

Zagarrio presenta “Le seduzioni” a Messina

Lunedi 21 ottobre è stato presentato al Cinema Lux il film Le seduzioni diretto da Vito Zagarrio, tratto dal romanzo Le seduzioni dell’inverno di Lidia Ravera. La pellicola, presentata al Procida Film Fest nel 2021 e disponibile nelle sale dal 22 febbraio 2024, è sbarcata ufficialmente a Messina.

Trama e genesi di un “thriller sentimentale”

Stefano (interpretato da Andrea Renzi), è un editore che ha una relazione con una scrittrice molto più giovane di lui, Silvia (interpretata da Serena Marziale), che scrive per la sua stessa casa editrice a Napoli. Ad un certo punto a casa sua spunta Sophie (Amélie Daure), una domestica mandatagli dalla sua ex moglie prima di partire. I due da quel momento vivono sotto lo stesso tetto e nel corso del tempo Stefano inizierà a provare qualcosa, come non era mai riuscito a fare prima di allora.

Stefano e due suoi colleghi in una scena del film
Stefano e due suoi colleghi in una scena del film.

La storia è ambientata a Napoli e non a Roma come nel romanzo. Zagarrio ha voluto fortemente trasportare il tutto nel capoluogo campano mostrando però un’altro lato della città, quello borghese, che nel cinema e/o nelle serie televisive ha sempre avuto troppo poco spazio:

Ho chiamato questo film un thriller sentimentale, un thriller dei sentimenti perché anche i sentimenti possono essere un giallo e qui c’è certamente una trama gialla dietro una storia d’amore. Quindi attraverso questo tono da romance volevo raccontare anche le contraddizioni della società

Zagarrio con questo film ci permette di riflettere sulla freddezza come sentimento di privazione e lo fa proprio attraverso il personaggio di Stefano che durante il corso della storia scoprirà che la freddezza vera non è quella che pensava di possedere ma un sentimento di mancanza.

Il titolo del romanzo è Le seduzioni d’inverno e racconta di un uomo freddo, in crisi, che piano piano si “scongela”. È anche per questo che il protagonista ci permette di capire come la realtà sia ambigua; non è sempre tutto come appare. 

Lo storico di cinema Nino Genovese introduce il film insieme al regista Vito Zagarrio
Lo storico di cinema Nino Genovese introduce il film insieme al regista Vito Zagarrio al Cinema Lux.

Zagarrio e Genovese: due grandi rappresentanti del cinema in Sicilia

Vito Zagarrio con la presentazione delle “sue seduzioni” ritorna a quelle che sono state le sue origini. Il regista, nato a Firenze da una famiglia siciliana, ha scelto proprio la città di Messina per presentare il suo ultimo film.

Insieme a lui a presentare vi era anche Nino Genovese, il più grande storico cinematografico siciliano, che ha deliziato a sua volta il pubblico introducendo il film e la figura del suo regista, dimostrando a sua volta come Messina, e in generale la Sicilia, sia un luogo molto più cinematografico di quanto si possa immaginare. Eventi come questo ne sono la piena dimostrazione!

 

di Rosanna Bonfiglio e Marco Castiglia

The Apprentice: il lato di Trump che non vi voleva svelare

The Apprentice non si perde in chiacchiere ed è attuale. Voto UvM: 4/5

 

A poco meno di un mese dalle elezioni presidenziali negli USA, esce nelle sale un film incentrato proprio sulla figura di uno dei due candidati alla Casa Bianca: Donald J. Trump. “The Apprentice – Alle origini di Trump” è stato mostrato in anteprima al Festival di Cannes in quanto concorrente per la prestigiosa Palma d’Oro. L’ambientazione degli anni ’70 e ‘80 lo vede agli albori della sua lunga attività imprenditoriale, interessandosi all’apprendimento dei trucchi del mestiere. L’ex presidente è magistralmente interpretato da Sebastian Stan, conosciuto per l’interpretazione del Soldato d’Inverno nei film Marvel, affiancato da Jeremy Strong nei panni dello spietato Roy Cohn.

Da piccolo gestore immobiliare alla Trump Tower

La storia del film inizia con un Donald irriconoscibile che cerca di barcamenarsi nell’adrenalinica New York. All’ombra del padre, il rude Fred Trump, è poco considerato quando si tratta di chiudere affari. La sua fortuna risiede nell’azienda immobiliare di famiglia, anche se Fred pone poche speranze nel figlio. Il loro rapporto è di fatti per lo più composto da conflitti, soprattutto quando si parla del processo federale in cui la famiglia è coinvolta. In una delle serate dell’alta società newyorkese, fa la conoscenza di Roy Cohn, rinomato avvocato che viene visto come la soluzione ai problemi legali. Roy si presenta apparentemente senza un briciolo di umanità, non sapendo che ciò farà la fortuna di Trump.

Con un po’ di insistenza Donald riesce a diventare suo cliente: l’incontro gli cambierà la vita poiché l’avvocato gli trasmette i propri insegnamenti. Tre spietate regole per vincere nel mondo degli affari, dei processi e della vita che diventeranno un vero e proprio mantra per il costruttore. Il suo primo obiettivo è quello di farsi notare vincendo una grande scommessa: l’acquisizione del Commodore, un lussuoso hotel in rovina, al fine di rilanciare l’economia cittadina. Grazie all’aiuto di Cohn, che non si fa scrupoli di nessun genere, riesce a vincere il processo contro l’azienda. In seguito riesce anche ad ottenere la struttura del Commodore senza tassazione. Questo lo porta ad affermarsi nella scena pubblica come costruttore, come gli piace definirsi, in ascesa nella grande mela.

Il rapporto col mentore

Il suo avvocato gli insegna anche come curare la sua immagine, che presto imparerà a elevare sopra ogni cosa attorno a lui, tanto da affermare che l’utilizzo del suo nome per oggetti di lusso o grandi edifici “non ha niente a che vedere con l’ego, semplicemente vende”. La sua vera vocazione si palesa essere quella della figura di spicco più che del grande uomo d’affari che non sbaglia un colpo, anzi tutt’altro. Lo stesso Cohn, colui che l’ha costruito, inizia ad essere fatto da parte.

The Apprentice: Individualismo oltre ogni cosa

Dopo l’apertura della Trump Tower e l’espansione spropositata dei casinò ad Atlantic City iniziano a sorgere i problemi relativi ai mutui accumulati per queste grandi costruzioni. Anche la relazione con la sua prima moglie, Ivana, conosciuta durante una delle tante cene della New York per bene, inizia a scricchiolare. L’avanzamento dell’età e la fama portano Donald a compiere scelte ambigue ed egoistiche: la scarsa considerazione del fratello Fred Jr. porterà alla sua morte, perde interesse in Ivana, costretta a sottoporsi a una mastoplastica, e allontana definitivamente Roy Cohn. Nel film ci sono continui riferimenti ad avvenimenti futuri, come la creazione del motto “Make America Great Again”. Non mancano neanche domande riguardo una eventuale candidatura come presidente.

The Apprentice
Lo stile del maccartista.  Fonte: npcmagazine.it

La figura di Cohn come specchio della società

Per analizzare bene The Apprentice è necessario dare uno sguardo anche al mentore dell’imprenditore. L’avvocato Roy Cohn, seguace del maccartismo, è additato come il diavolo, anche se andrà a creare una creatura ben più spregevole. Come già accennato, il mantra di Donald sono state le determinate tre regole di Cohn: attaccare, attaccare, attaccare, senza dare tregua, negare la verità fino a crearsi la propria verità e infine mai confessare, al fine di risultare sempre vincitore. Tutto questo, unito a qualche trucchetto non propriamente legale, fanno di Roy l’avvocato e il maestro perfetto, ma solo all’apparenza. Dietro i suoi processi contro comunisti e omosessuali, si nasconde un uomo anch’esso omosessuale, che finirà per contrarre l’AIDS negli anni dell’epidemia. La rivelazione del suo lato umano, anche nei confronti del compagno, porterà Trump ad allontanarlo e a ripudiarlo per la sua malattia.

The Apprentice
Roy Cohn interpretato da Jeremy Strong. Fonte: bbc.com

Conclusioni su The Apprentice

La de-umanizzazione di Donald passa dalla liposuzione e dalla chirurgia estetica fino all’abuso della moglie. Questa scena in particolare ha creato problemi nella distribuzione del film stesso, che si pensava fosse ideato per celebrare ancora di più la figura del candidato presidente. Lo stesso Trump ha cercato di oscurarlo, minacciando azioni per vie legali, ma mai effettivamente attuandole. The Apprentice si conclude con il climax della scrittura dei primi libri del magnate, che ormai diventato un uomo copertina si prepara a prendersi il mondo intero con insaziabile ambizione.

 

Giuseppe Micari

Megalopolis: il “film della vita” di Coppola è Cinema ma non convince

Megalopolis
Un film che dal punto visivo coinvolge e che con un linguaggio particolare vuole lanciare un messaggio, ma lo fa con ritmo discontinuo e risultando anche “fuori tempo” Voto: 3/5

 

Megalopolis è un film del 2024 scritto, autofinanziato, prodotto e diretto da Francis Ford Coppola (regista di film come Apocalypse Now, o la trilogia de Il Padrino). È stato presentato in anteprima al Festival di Cannes tenutosi lo scorso Maggio e anche di recente, al Festival Del Cinema Di Roma, dove ha rilasciato una stupenda intervista.

Il cast è composto da Adam Driver, Giancarlo Esposito, Nathalie Emmanuel, Aubrey Plaza, Laurence Fishburne, Dustin Hoffman, Shia LaBeouf, Jon Voight.

Trama

Cesar Catilina (Adam Driver) è una delle persone più importanti di New Rome, affermato architetto che ha vinto il Premio Nobel per aver inventato il Megalon, un materiale capace di far avere una visione futura della città, che appare piuttosto rivoluzionaria. È ingiustamente accusato di aver avuto un ruolo nel suicidio della moglie dal procuratore distrettuale Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito). Quest’ultimo è divenuto sindaco e vuole ostacolare a tutti i costi il progetto architettonico di Cesar, che consiste nell’utilizzo del Megalon per restaurare la città e costruire Megalopolis, per mantenere una visione conservatrice e non lasciare che la città progredisca. Cesar ha l’appoggio di suo zio Hamilton Crassus III (Jon Voight), mentre suo cugino Clodio (Shia LaBeouf) cerca di ostacolarlo con una campagna politica. Julia (Nathalie Emmanuel) è la figlia del sindaco, diverrà presto l’amante di Cesar e questo la porterà a ritrovarsi combattuta tra quest’ultimo e suo padre Franklyn.

In tutto questo, la città sta arrivando sempre di più verso la decadenza.

Megalopolis, osare alla maniera di Francis Ford Coppola

Nel bene e nel male, Francis sa come fare il regista e il suo tocco ha dato una svolta non indifferente alla storia del cinema. Appartenente alla categoria di registi che hanno formato la nuova Hollywood (la stessa dove si annoverano anche Steven Spielberg, Martin Scorsese, Stanley Kubrick), Coppola è sempre stato un uomo che adora fare cinema e nonostante abbia avuto diverse difficoltà nella vita e non tutti i suoi film siano stati dei successi, non si è mai arreso e ha sempre voluto osare o sperimentare alla regia, uscendo sempre a testa alta. La sua passione per il cinema si vede dai suoi prodotti e dal suo stile osmotico. I suoi film uniscono intelletto, bellezza, stile ed emozione e riescono a toccare sia la mente che il cuore, con un tocco che include sia la poetica che la drammaticità e che garantisce uno spettacolo visivo e sentimentale.

Anche nel “peggiore” dei suoi film si percepisce ciò e che non è infallibile lo ha dimostrato ora nel suo “film della vita”: Megalopolis.

Megalopolis
Veduta di New Rome.  Fonte: Eagle Pictures

 

Il Caso “Megalopolis”

In un’epoca difficile come questa, il cinema sembra che punti più sui guadagni che sulla comunicazione. Questo non sta a significare che sia un male ed è giusto che ci siano i prodotti d’intrattenimento (che possono essere anche questi di qualità), ma non si deve perdere la vera magia del cinema e l’amore per esso.

Registi come Coppola hanno un problema, ossia sono rimasti ancorati a vecchie tradizioni (nobilissime) senza adeguarsi alla contemporaneità. Ciò porta le case di distribuzioni a non scommettere tanto su di loro, il che rende assurdo che il regista de Il Padrino faccia fatica a lavorare e che debba autofinanziarsi un progetto verso cui credeva tantissimo. Investire diverso tempo e molti soldi per il “lavoro della vita” può portare ad un grande risultato, ma solo perché si parla di Coppola non significa che sia per forza un capolavoro.

Megalopolis
Cesar Catilina (Adam Driver). Fonte: Eagle Pictures

“Megalopolis” è cinema con la C maiuscola, ma capace di far discutere

Megalopolis è cinema con la C maiuscola, una di quelle pellicole che comunicano messaggi con un linguaggio non troppo semplice ed estetica ricercata. E’ palese che il regista ci tenesse a realizzare una pellicola che avesse idee sue personali da inserire nei personaggi. Una denuncia alla società contemporanea su tutti i fronti, rappresentata qui come un’antica Roma che fa fatica ad adeguarsi ai tempi che corrono. L’odissea che ha dovuto affrontare Coppola nella realizzazione del suo progetto viene raccontato con una favola metaforica. Anche il personaggio di Cesar ha delle similitudini con Coppola stesso, è un uomo che ha una grande visione che non viene compresa da tutti.  Un uomo che deve fare i conti con il tempo che scorre e con la difficoltà di adeguatezza che lo contraddistingue. Megalopolis è una pellicola che mostra una visione del futuro già passata e quindi “fuori tempo”.

La trama del film è semplice, ci si può fare un’idea sugli ideali del regista, ma è lontano dall’essere definito un capolavoro. Alcuni errori sono stati commessi, come un ritmo discontinuo e con una mancata cura nella scrittura di qualche personaggio.

Un film forse già vecchio

Se da una parte si può considerare una storia che rispecchia il regista, con la sua visione e il suo stato d’animo, dall’altra questo mancato adattamento ai tempi che corrono hanno reso Megalopolis un film già “vecchio” ancor prima che uscisse, perché la visione sul futuro è una visione già passata. Megalopolis è un film destinato a far dividere e a far discutere, perché non sarà compreso da tutti, naturalmente. C’è chi lo definirà un capolavoro e chi invece, un pasticcio confusionario con delle scene che sfiorano anche il trash, in alcuni momenti.

Ma lo si può anche considerare un film che attira l’attenzione e che riesce trasmettere qualcosa, notando tuttavia anche difetti che stonano con la pellicola, su alcuni fronti.

 

 

Giorgio Maria Aloi

 

 

 

 

 

 

 

“Iddu”: Fotografia dell’ultimo latitante

"Iddu"
Un film che vuole scavare a fondo nella psiche di Matteo Messina Denaro e lasciare una riflessione sulla dinamica sociale presente, anche sfiorando l’immaginazione – Voto UVM: 3/5

 

Iddu – L’ultimo Padrino è un film del 2024, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con protagonisti Elio Germano e Toni Servillo. Distribuito da 01 Distribution e prodotto da Rai Cinema e Indigo Film , è ispirato a un momento specifico della latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro. E’ stato presentato in anteprima lo scorso 5 Settembre alla 81° Mostra d’arte cinematografica di Venezia ed è arrivato nelle sale il 10 Ottobre.

Trama di “Iddu”

Sicilia, primi anni 2000, Catello Palumbo (interpretato da Toni Servillo), condannato per concorso esterno ad associazione di tipo mafioso, esce dal carcere dopo aver pagato il suo debito con la giustizia. Ritornato a casa dalla sua famiglia, viene messo in contatto con i servizi segreti che gli propongono di collaborare alla cattura del suo figlioccio, ovvero Matteo Messina Denaro (interpretato da Elio Germano), che è in latitanza da diversi anni.

Di conseguenza, Catello inizia a scambiarsi dei pizzini con lui (quest’ultimo stanco della sua vita da latitante) e spera che in uno di questi venga rivelato per sbaglio il suo nascondiglio o che riesca a proporgli un incontro, in modo da farlo uscire allo scoperto e permetterne la cattura.

“Iddu”: un insolito film di mafia

Questo film non vuole rappresentare la verità assoluta, anzi non lo è affatto. È una possibile chiave di lettura che riesce a raccontare degli avvenimenti accaduti, mostrati con uno stile romanzato. Proprio per questo si consiglia, prima o dopo la visione di informarsi su questo personaggio e su tutto ciò che lo riguarda.

I due registi hanno deciso di prendere un momento specifico della vita di Messina Denaro per mettere in risalto la psicologia del noto criminale e capire cosa l’ha spinto a compiere quelle azioni. Un film ispirato a fatti realmente accaduti ma narrati con un tono autoriale e a tratti fantasioso trova anche spazio per la “possibile” umanità di questo personaggio.

“Bisogna stare attenti ai valori trasmessi. Dietro ogni azione maligna c’è un essere umano” – Elio Germano all’81ª edizione del Festival di Venezia

Inoltre pone anche un aspetto riflessivo sulla condizione sociale di oggi e, guardando al passato, ci si rende conto che la situazione non è così differente.

“Uno dovrebbe domandarsi com’è possibile che da questo universo così miserabile, da questi narcisismi così squallidi, nasca un potere che tiene in scacco un isola intera, una regione intera e un intero paese”. – Toni Servillo nell’intervista al podcast “ArteSettima”

 

 

"Iddu"
Toni Servillo nei panni di Catello Palumbo Fonte: AGENsir

 

I Due Pilastri

Una carta vincente di questa pellicola è sicuramente l’incredibile performance dei due attori protagonisti, appunto Elio Germano e Toni Servillo.

Germano fin dagli inizi ha dimostrato di avere delle capacità che gli permettono di entrare nel profondo dei personaggi che interpreta. Peraltro questa sua capacità gli ha consentito di interpretare nel corso della sua carriera diversi personaggi realmente esistiti (come ad esempio Giacomo Leopardi ne “Il giovane favoloso”, Nino Manfredi ne “In arte Nino”, Giorgio Rosa ne “L’incredibile storia dell’isola delle rose”, Antonio Ligabue in “Volevo nascondermi” ed Enrico Berlinguer ne “Berlinguer – La grande ambizione” che uscirà al cinema il 31 ottobre). Nel caso specifico di “Iddu”, la sua abilità mimica e il suo impegno nell’apprendere il dialetto trapanese ha reso l’interpretazione molto convincente.

Stesso discorso si può fare anche per Servillo che riesce anche lui, con una modalità differente, ad essere impeccabile in ogni ruolo. Anche nella sua filmografia troviamo interpretazioni su personaggi realmente esistiti (ad esempio Giulio Andreotti ne “Il Divo”, Silvio Berlusconi in “Loro”, Luigi Pirandello ne “La Stranezza” e prossimamente Giuseppe Garibaldi ne “L’abbaglio”).

Attraverso due metodi differenti (quelli di Stanislavskij e Brecht), Germano e Servillo riescono ad immedesimarsi nei due personaggi che, seppur distanti fisicamente per buona parte del film, sono comunque uniti da un filo conduttore che si manifesta con lo scambio dei pizzini. La pellicola trova spazio per entrambi gli archi narrativi: da un lato un uomo stanco della sua condizione di vita e che mostra la sua umanità, dall’altra un uomo mosso dalla paura di perdere tutto quello che ha.

Inoltre questo film può vantare la presenza di altri comprimari come Barbora Bobulova, Fausto Russo Alesi, Tommaso Ragno, Vincenzo Ferrara, Betty Pedrazzi e Maurizio Bologna.

Iddu
Catello Palumbo(Toni Servillo) e Mattia Messina Denaro (Elio Germano). Fonte: La Biennale di Venezia

Lo Scopo sociale del Film

Al di là di tutto, questo film non ha lo scopo di raccontare verità assolute sulla mafia, esso non ne rappresenta. Con un ritmo ben serrato e una sfumatura vicina alla commedia, accompagnata dalla colonna sonora del cantautore siciliano Colapesce, la pellicola riesce tuttavia a portare lo spettatore ad una riflessione profonda su un fenomeno che è come un cancro che non si riesce a estirpare del tutto. La mafia è come un’ombra: anche senza vederla è sempre in mezzo a noi.

 

Rosanna Bonfiglio

Giorgio Maria Aloi

Vermiglio, antica poesia tra amore e guerra

Vermiglio
Vermiglio: un piccolo capolavoro in grado di catapultarci indietro nel tempo, laddove sono collocate le radici stesse della Storia del nostro Paese. – Voto UVM: 5/5

 

Si è conclusa da poche settimane l’ottantunesima edizione del Festival del Cinema di Venezia, un edizione che ha visto come protagonisti nuove straordinarie proposte e grandi titoli come l’attesissimo sequel del Joker di Joaquin Phoenix Joker Folie a Deux o come Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza che vedrà il ritorno di Toni Servillo sul grande schermo. Tra tutti però anche una piccola perla è riuscita a spiccare aggiudicandosi non solo un enorme successo di pubblico e critica ma anche due premi di grande importanza, sto parlando di Vermiglio di Maura Delpero, un piccolo capolavoro in grado di catapultarci indietro nel tempo in atmosfere antiche e rurali laddove sono collocate le radici stesse della Storia del nostro Paese.

Una profonda storia d’amore in tempo di guerra

Siamo nelle fredde lande del Trentino e nel mondo echeggia il boato agghiacciante della Seconda Guerra Mondiale ormai però sul punto di concludersi, nel piccolo villaggio di Vermiglio la vita in ogni caso scorre lentamente finché due giovani soldati acciaccati dalla guerra, i siciliani Pietro, interpretato dal messinese Giuseppe De Domenico, e Attilio giungono sotto l’occhio critico di gran parte degli abitanti, sarà in quel momento che la vita di Pietro si incrocerà con quella di Lucia (Martina Scrinzi) e della sua numerosissima famiglia dalla quale ne nascerà una profonda storia d’amore

La storia che Maura Delpero costruisce si dimostra dunque uno
scrigno prezioso dove anche gli elementi più distanti e diversi riescono magicamente a coesistere; guerra e amore, morte e vita, e si manifesta alla perfezione nel momento in cui il maestro del paese e padre di famiglia interpretato da uno straordinario Tommaso Ragno ascolta e invita ad ascoltare i suoi brani di musica classica mentre nel resto dell’Europa impera la guerra, oppure nel momento in cui nonostante tutto il villaggio si riunisce in festa per celebrare Santa Lucia e soprattutto nel momento in cui Pietro, un uomo afflitto fisicamente ed emotivamente dall’orrore della guerra riesce a trovare la forza per tornare ad amare, regalandoci dunque una meravigliosa unione sensibile e romantica tra nord e sud Italia, anche questo aspetto estremamente difficile a quel tempo.
Pietro e Lucia in una scena del film
Pietro e Lucia in una scena del film

Un sogno proveniente dal passato

Appare evidente come nessun dettaglio sia stato lasciato al caso, si riesce a percepire alla perfezione il gelo delle montagne trentine innevate così come la brezza marina nel mare di Sicilia, ma soprattutto l’atmosfera antica e rustica che si riesce a respirare dall’inizio alla fine del film, e non è un caso perché è da quella realtà che viene Maura Delpero, dal profondo Trentino, nel dopoguerra e da una famiglia molto numerosa.
Ci troviamo, infatti, davanti ad uno speciale racconto ispirato alla sua infanzia, non una storia vera ma una storia ispirata da un sogno che, a detta della stessa regista l’ha portata indietro nel tempo a riscoprire la sua famiglia sotto un altro aspetto, un sogno felice in un momento di tristezza a seguito del lutto del padre (anch’egli maestro del paese) e di conseguenza una storia proveniente direttamente dal cuore e dai ricordi della straordinaria Delpero. 

Un orgoglio messinese al Festival di Venezia 2024
Giuseppe De Domenico nei panni del silenzioso e sensibile Pietro ha rappresentato poi un orgoglio tutto messinese prendendo parte in maniera rilevante a questo straordinario progetto, nel ruolo per altro complesso di un personaggio dal passato nefasto e dal futuro incerto che non può far altro che vivere il presente comunicando e manifestando il suo amore per Lucia quasi esclusivamente con gesti ed espressioni.
 L’attore messinese, per altro, ci ha dato il privilegio della sua presenza venendo alle proiezioni di Domenica 22 al cinema Iris per presentare il film e per donarci anche qualche piccola preziosa chicca sulla sua interpretazione, sul backstage in generale e sull’esperienza al Festival del Cinema di Venezia.
L’attore Giuseppe De Domenico con il direttore del cinema Iris Umberto Parlagreco
L’attore Giuseppe De Domenico con il direttore del cinema Iris Umberto Parlagreco

Vermiglio: una storia preziosa dagli echi neorealisti

È un opera tanto emozionante quanto originale e particolare quella che Maura Delpero porta sul grande schermo, la scelta di attori per lo più non professionisti e l’abbondante presenza di bambini tutti ovviamente trentini e l’uso esclusivo del dialetto stretto del posto che ha portato addirittura all’esigenza dell’aggiunta dei sottotitoli fa di questo film un opera che riesce quasi a rimandare ai grandi capolavori del Neorealismo, non a caso dunque aggiudicandosi il Gran premio della giuria e il Green Drop Award al Festival del Cinema di Venezia scaturendo già alla prima visione l’entusiasmo della critica.
È un opera preziosa, una piccola perla del cinema italiano contemporaneo che ha visto per altro sbocciare una nuova figura femminile alla regia di un grande capolavoro, un viaggio delicato e intrigante nell’Italia che fu che merita assolutamente di essere visto!
Marco Castiglia

The Crow – Il Corvo: l’eroe simbolo dell’underground può diventare mainstream?

The Crow - Il Corvo
Rupert Sanders con “The Crow” prende una direzione del tutto nuova. Ha saputo individuare e perfezionare le falle del film precedente ma, in quanto interpretazione originale, ha i propri punti deboli. – Voto UVM 4/5

 

Bill Skarsgård (IT, John Wick 4) è The Crow, il leggendario personaggio della graphic novel di James O’Barr, rivisitato in questa nuova versione cinematografica diretta da Rupert Sanders, nelle sale dallo scorso 28 agosto.

Sinossi

Eric Draven e Shelly Webster vengono brutalmente assassinati da una banda di criminali. Avendo la possibilità di salvarla dagli inferi sacrificando se stesso, Eric cerca vendetta, attraversando il mondo dei vivi e quello dei morti per “rimettere a posto le cose sbagliate”.

Il Corvo
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Un remake necessario?

Eric Draven (Skarsgård) e Shelly Webster (FKA Twigs) ci sono ormai familiari con i volti di Brandon Lee e Sofia Shinas per la loro celebre performance nella versione della pellicola del 1994, un vero e proprio cult senza tempo.

Siamo però di fronte a un’arma a doppio taglio: se la fama che li precede stuzzica la curiosità degli appassionati, un remake si presta a inevitabili paragoni e basse aspettative.

C’è da tenere in conto che l’adattamento precedente, parlando specialmente ad un pubblico underground, risultava perfettamente inserito in una fetta della cultura della sua epoca. A chi si rivolge oggi il remake? La risposta è la Gen Z, ma stavolta si punta più al mainstream.

Un eroe “meravigliosamente a pezzi”

Interessante scelta d’interprete, che si accosta bene all’idea originale di O’Barr: il fumettista si era ispirato al volto di Peter Murphy e al corpo di Iggy Pop per caratterizzare Eric con tratti marcati.  Skarsgård poi, si è sempre distinto per ruoli psicologicamente complessi e sfaccettati, e l’ultimo non è da meno.

Il tenebroso vendicatore dal fascino gotico a cui ci ha abituati Brandon Lee ha lasciato il posto a un anti-eroe più contemporaneo, vulnerabile e pessimista. Il Non può piovere per sempre adesso si trasforma in un Piangi ora, piangi dopo.

Eric è “meravigliosamente a pezzi”, come lo definirà Shelly. Anche lei, spogliata della sua perfezione eterea e resa una donna moderna, incontra Eric in un centro di recupero.

The Crow - Il Corvo
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Il male ha un nuovo volto

Ecco uno dei grandi meriti di questa versione: gli antagonisti, Vincent e Marian, non sono più una coppia di vampireschi delinquenti con il gusto per il macabro. Sono ricchi malavitosi, con una vera e propria armata di scagnozzi al loro servizio. C’è poi del soprannaturale: parliamo di un patto col diavolo. La vita eterna di Vincent in cambio della dannazione degli innocenti che uccide.

La melodia della vendetta

Largo spazio allo splatter, al sangue sulla cinepresa, ad organi in vista e a spettacolari scene d’azione. Il film raggiunge il suo acme in una sequenza pulp altamente “teatrale”. Ci troviamo, infatti, proprio all’interno di un teatro, in cui un massacro si alterna con l’opera  in atto sul palcoscenico.

Riuscitissimo l’uso del sonoro: l’orchestra, diegetica all’interno della scena, segue per intensità le dinamiche del combattimento. Si tratta di una tecnica che avevamo già visto nel film precedente, ma in un contesto meno scenografico e più sommesso: un night club con musica dal vivo, che in realtà era il covo segreto degli assassini.

The Crow
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Nella colonna sonora, a cura del compositore tedesco Volker Bertelmann, è sempre presente il goth rock come omaggio alla cultura underground anni ‘90, in particolare della scena alternative rock e goth metal, di cui sia il fumetto che il primo film erano diventati i “manifesti”. Invece per le scenografie si tende più all’urban, con le immagini a vincere sui dialoghi.

È shitstorm per “Il Corvo”: quali sono i punti deboli?

La morale si è ribaltata: i sentimenti assoluti di amore e vendetta del Corvo del ’94, più favolistici, vengono corrotti dal peso del dubbio. Così tutto diventa relativo e incerto, in un certo senso anche più umano.

Questo dettaglio inedito risulta un po’ forzato per un personaggio che è l’incarnazione della vendetta, eppure aggiunge un tocco di realtà che facilita il rispecchiarsi nel personaggio. Passa però come un timido tentativo di sviluppo psicologico che, a conti fatti, resta abbastanza superficiale.

Ciò che lascia perplessi, è il suo continuo via-vai tra il nostro mondo e un aldilà dal gusto quasi distopico. Ad aspettarlo una guida, che gli chiede vendetta promettendogli in cambio il ritorno di Shelly. Questo compromesso sminuisce, se non addirittura cancella, l’elemento ossessivo e disturbante della storia, tipico sia delle le tavole di O’Barr che del primo film. Quello era il vero movente: trent’anni di inquietudine e dolore, di cui solo alla fine riesce veramente a liberarsi, restituendoli direttamente al mittente.

Insomma, si tratta di una produzione su cui si è puntato molto, che non ha preteso di riproporre al pubblico la copia carbone di una storia già fatta e finita. Invece ha preferito riesaminarla, proponendone una lettura tutta nuova.

Carla Fiorentino