Metti la nonna in freezer: black humor all’italiana

Cosa accadrebbe se un irreprensibile maresciallo della finanza (Fabio de Luigi) e una restauratrice che cerca di sbarcare il lunario e mantenere in vita la sua azienda (Miriam Leone) con la pensione della nonna (Barbara Bouchet), si incontrassero e si innamorassero? E se tutto questo accadrebbe dopo la morte della nonna che viene congelata per evitare la bancarotta?

E’ l’incipit di questa commedia italiana diversa dal solito, ispirata a un fatto di cronaca, costellata di chiare ispirazioni British. La regia a quattro mani di Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, poco più che trentenni, e la sceneggiatura ben costruita di Fabio Bonifacci, dimostrano quanto sia possibile fare commedia all’italiana senza scadere nel trash. La narrazione scorre fluida, in modo naturale, nonostante gli equivoci, le bugie, i momenti grotteschi e i travestimenti. Anche il reparto tecnico degli effetti speciali ha svolto un ruolo davvero fondamentale.

I personaggi sono sfaccettati, approfonditi quanto serve, ma non piatti. Fabio De Luigi ha potuto dimostrare di poter interpretare un ruolo diverso da quelli in cui era rimasto incastrato nelle ultime pellicole. Bravissima Miriam Leone, che si conferma un’attrice capace anche in commedie brillanti. Lucia Ocone Marina Rocco sono delle complici perfette, irresistibili. Senza dimenticare la nonna, Barbara Bouchet, e tutti gli altri comprimari, che fanno da cornice.

Un film piacevole, che non fa pentire di aver speso i soldi del biglietto. Black Humor, ma non troppo; in fondo in Italia non siamo così abituati, ma strappa una risata con un po’ di amaro in bocca e fa riflettere.

Consigliato.

Ah e non congelate i vostri nonni, è un reato penale. Don’t try this at home.

 

Saveria Serena Foti

Il concerto: la funzione della musica in tutte le sue sfaccettature.

Radu Mihăileanu, regista conosciuto al grande pubblico per Train de vie, film del 1998, torna nel 2009 con Il concerto, vincitore di un David di Donatello, di un Nastro d’argento e nominato ai Golden Globe come miglior film straniero.

Il protagonista è Andrei Filipov, un direttore di orchestra del teatro Bol’šoj di Mosca che nel 1981 si rifiuta di licenziare tutti i musicisti ebrei della sua orchestra, come richiesto dal presidente Brežnev. Per questo motivo Filipov perde il posto e con lui tutti i musicisti dell’orchestra.

Trent’anni dopo Filipov lavora ancora al Bol’šoj, ma come custode. Casualmente legge un fax indirizzato al direttore in cui si legge che l’orchestra è invitata a Parigi per tenere un concerto al Teatro Châtelet. Senza pensarci due volte, Filipov distrugge le prove del fax e decide di riunire i suoi vecchi amici musicisti spacciandoli per la vera orchestra del Bol’šoj per esibirsi a Parigi nel Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij. A Parigi avrà modo di conoscere Anne Marie Jacquet, una giovane violinista francese di fama internazionale a cui il protagonista è legato da un vecchio segreto.

Gli elementi in comune con Train de Vie sicuramente non mancano: dall’impostura positiva che permette ai protagonisti di raggiungere un obbiettivo, l’impianto che oscilla vertiginosamente tra favola e realtà e la musica che diventa strumento di unione tra varie etnie. Lavoro eccellente quello di Armand Amar, che ha curato la colonna sonora e che è riuscito a trovare un connubio tra la musica classica, la musica gitana e la musica popolare dell’est.

Già dalle prime scene il film delinea la società odierna di una Russia piena di contraddizioni, descrivendo una manifestazione comunista i cui partecipanti sono comparse, o con un matrimonio di un mafioso finito in una grottesca sparatoria.

Il regista in varie interviste ha precisato che l’intento del film è quello di opporsi a tutte quelle dittature che mettono in ginocchio le persone e impediscono loro di compiere il loro destino. In fondo Il Concerto mette in scena proprio questo, musicisti eccezionali acclamati in tutto il mondo che si ritrovano da un giorno all’altro a fare i lavori più umili, dal facchino al tassista, al doppiatore di film erotici.

Ad ogni modo, trascendendo l’aspetto puramente socio-economico, rimane soltanto la musica, l’Armonia suprema ricercata in maniera ossessiva dal protagonista. La musica diviene strumento di catarsi, che permette a Filipov di riconciliarsi con il passato; diviene strumento di verità per la giovane violinista, che scoprirà qualcosa che riguarda i suoi genitori; diviene strumento di rivalsa per degli uomini che sono stati messi in ginocchio da una dittatura a cui è stato impedito di compiere il loro destino; diviene infine strumento di unione e armonia. Citando Filipov

“L’orchestra è un mondo. Ognuno contribuisce con il proprio strumento, con il proprio talento. Per il tempo di un concerto siamo tutti uniti, e suoniamo insieme, nella speranza di arrivare ad un suono magico: l’armonia.”

La scena è retta meravigliosamente da un talentuoso Aleksej Gus’kov (nel ruolo di Filipov) stella del cinema russo che speriamo di vedere presto nelle produzioni occidentali. Non si può infine non citare Mélanie Laurent (Shoshanna nel tarantiniano Bastardi senza gloria) che interpreta egregiamente la violinista Anne Marie Jacquet.

Nonostante a volte scada nel grottesco, Il concerto è un film godibile che sicuramente vi strapperà più di una risata.

 

Renata Cuzzola

Anteprima di Ready Player One di Steven Spielberg (SENZA SPOILER)

2045. In un futuro distopico la popolazione mondiale è spaccata economicamente in due, fra ricchezza e povertà.
L’unico punto in comune fra i due ceti è una tecnologia particolare e complessa che permette di vivere interamente la propria vita in rete, eccetto che per mangiare e dormire, grazie all’ausilio di un immenso videogioco: OASIS.
Dai bambini agli anziani, chiunque è attratto da questa piattaforma ibrida fra Realtà Virtuale e Realtà Aumentata, permettendo all’utente di percepire ogni sensazione provata dal proprio alter ego digitale in tutto e per tutto nella vita reale.
Talmente di grande portata e successo che OASIS fa parte della quotidianità ad un punto tale che il semplice socializzare è ripiegato alla piattaforma, considerando il mondo reale quasi come un momento di transizione tra una pausa e l’altra dal gioco.

Il perché di tutto questo successo? Chi riuscirà ad individuare un Easter Egg posizionato in maniera assolutamente casuale fra gli infiniti mondi di gioco del software, otterrà l’intera eredità del suo creatore James Donovan Halliday (Mark Rylance) equivalente a 500 miliardi di dollari e il controllo completo di OASIS. Wade Owen Watts (Tye Sheridan) è un semplice ragazzo che usa il videogioco per evadere dalla realtà che vive tutti i giorni, con una profonda conoscenza della piattaforma e del suo creatore. Ma ben presto capirà che anche questa “altra” realtà ha un suo prezzo.

E’ risaputa la voglia di Spielberg di spaziare nei suoi argomenti trattati nei vari film e cercare di narrare una storia che possa quanto più distanziarsi dal normale, ed anche questa volta si dimostra essere un maestro con un tentativo di pieno successo.
Trattare un tema quale quello dei videogiochi non è mai facile, sia per il pubblico d’utenza molto esigente, sia per la conoscenza limitata dell’ambito soprattutto nel comparto Hollywood, ma Steven sembra aver fatto i compiti a casa.

In un film costellato di effetti speciali ottimizzati in maniera splendida e con una cura non indifferente.
I riferimenti, le allusioni e quant’altro si colleghi al mondo video-ludico sono sempre azzeccati, lasciando allo spettatore il compito di individuare quel personaggio noto di un determinato videogioco o perfino scegliendo di guidarlo nella conoscenza di alcuni fatti “storici” dell’ambito non molto noti, circondato da un’aura di nostalgia che attraversa il vecchio per abbracciare il nuovo.
L’influenza dalla cultura degli anni ’80 – ’90, rende il prodotto curioso e fruibile anche a chi i videogiochi non vanno proprio a genio. Successo che si conferma anche tagliando fuori il tema principale dei videogiochi, evidenziando una buona regia, una sceneggiatura abbastanza scontata e prevedibile, ma non per questo da considerare debole e una pellicola godibile alla vista ottima per passare il tempo in compagnia di qualche amico.

Ready Player One, in uscita nelle sale italiane il 28 marzo 2018, è un film diretto da Steven Spielberg e ispirato all’omonimo romanzo di Ernest Cline, il quale ha collaborato alla stessa sceneggiatura del film.

 

                                                                                                                       Giuseppe Maimone

The Shape of Water

È candidato a 13 oscar la visionaria pellicola del maestro Guillermo Del Toro ed ha già vinto il Leone d’oro al miglior film alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Nella Baltimora degli anni ’60, in piena guerra fredda, russi e americani si contendono il dominio sul mondo. All’interno di un laboratorio segreto avvengono esperimenti su una strana creatura marina catturata in Amazzonia, dove era venerata come un dio.
Nel laboratorio lavora la giovane Elisa Esposito (Sally Hawkins) orfana, muta e con una vita estremamente solitaria che divide solamente con la collega nera Zelda (Octavia Spencer) e il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), omosessuale discriminato.

Sarà proprio Elisa la prima ad avvicinarsi alla creatura, spinta da una forte curiosità che la porterà a scoprire che quel “mostro” è in grado di farsi capire, provare emozioni ed innamorarsi.
La storia si divide quindi tra la dura realtà della guerra e la dolcezza di quell’inverosimile amore subacqueo.
L’interpretazione della Hawkins è impeccabile. La donna può esprimersi solamente attraverso gesti ma riesce benissimo a far comprendere e far arrivare al pubblico le emozioni e la passione che la attraversano.

Lo stesso regista ha definito il film “una fiaba per tempi difficili”.

Ed è proprio così che ci appare: una fiaba, una storia d’amore surreale calata in un’atmosfera onirica e fantastica.Tale atmosfera è ottenuta grazie ad un fotografia e ad ambientazioni eccellenti.
Il sole sembra non sorgere mai, la luce è sempre bassa, tenue, proprio a voler sottolineare come tutto avvenga in maniera nascosta, alle spalle del mondo reale.

È una storia che ha come protagonisti gli ultimi, gli emarginati, dei reietti che spinti da un reciproco senso di solidarietà riescono a riscattarsi.
È un film che resta dentro, che colpisce per la sincerità dei sentimenti e per l’alone di magia che lo circonda.

 

Benedetta Sisinni

A casa tutti bene

“Io sono cresciuto orfano, a me la famiglia mi sta sul cazzo!”

Cosa succede quando una numerosa e aggrovigliata famiglia si riunisce dopo tanto tempo?
Può un banale festeggiamento di un anniversario mettere fortemente in bilico la tranquillità apparente di così tante persone? E può un luogo così bello e tranquillo da apparire quasi fuori dal tempo, quale un’isola, diventare scenario di tradimenti, litigi, concerti improvvisati e crisi isteriche?
Se dietro la macchina da presa c’è Gabriele Muccino, e sulla scena un cast di attori di un livello indiscutibilmente alto, la risposta è sì, è assolutamente possibile!

Per i loro 50 anni di matrimonio, i due pensionati Alba (Stefania Sandrelli) e Pietro (Ivano Marescotti), che da tempo si sono ormai ritirati a vita privata su di un’isola, decidono di riunire la loro numerosa famiglia per un tranquillo pranzo in casa.
Quando la giornata e i festeggiamenti volgono al termine, tutti si affrettano, decisamente sollevati, a dirigersi verso i traghetti che li riporteranno a casa. Ma il caso, il destino o semplicemente un’immensa sfortuna fanno sì che infuri un tempo talmente brutto da impedire ai traghetti di partire. Nonostante il generale sgomento, a tutti non resta che rassegnarsi ad un inatteso, forzato, breve ma intenso prolungamento del soggiorno. Ed è a questo punto che inizia tutto quello che mai si sarebbero aspettati.

Il cast è eccezionale, Sabrina Impacciatore da prova per l’ennesima volta della sua immensa bravura; unica figlia femmina della coppia, è la classica donna, moglie e madre, che pur essendo sull’orlo di un esaurimento nervoso e pienamente cosciente dei tradimenti del marito, fa finta che tutto vada bene e continua a cantare Jovanotti.

Altrettanto bravo e perfettamente calato nel suo personaggio è Pierfrancesco Favino, altro figlio della coppia, che si ritrova diviso tra la vecchia e la nuova famiglia; lì entrambe le donne sono presenti, la ex Valeria Solarino e l’attuale, Carolina Crescentini, bravissima a interpretare la moglie isterica possessiva e con evidenti crisi di inferiorità che passa dal chiedere “perché non mi fai sentire amata?” a “perché non mi scopi più spesso?“.
Terzo e ultimo figlio della coppia è Stefano Accorsi, eterno Peter Pan, scrittore, che di ritorno da un viaggio in bicicletta decide di aprire le danze del caos generale che si andrà poi creando, portandosi a letto la cugina. Ma, vuoi la banalità delle affermazioni con cui se ne esce, molto più adatte ad uno pseudo film adolescenziale, vuoi che la figura dell’artista giramondo ormai non convince più molto, il suo personaggio è decisamente quello meno riuscito dell’intero film.

Dunque, tradimenti nuovi e tradimenti vecchi che vengono a galla. Scenate di gelosia che portano a tentativi di “omicidio”.
Canzoni suonate al pianoforte da un Gianmarco Tognazzi che insieme alla moglie Giulia Michelini, sono la coppia assolutamente più fuori luogo ma anche la più vera. Ed è proprio della Michelini l’ultimo sfogo, un’esplosione di rabbia, dolore e verità nei confronti di tutti gli altri.
Esplode in una crisi isterica anche Claudia Gerini, moglie di un eccellente Massimo Ghini, malato di Alzheimer che è l’unico che, purtroppo o per fortuna, non si accorge del malessere generale che incombe su quella casa.
“Li trovo così inquieti i miei figli” afferma la Sandrelli.

Lo stile Mucciniano è inconfondibile. Il senso di inquietudine, di smarrimento e di angoscia, la fanno infatti da padrone; questo accade grazie ad un perfetto lavoro di sceneggiatura, ad una grandiosa caratterizzazione dei personaggi, che pur essendo molto numerosi vengono tutti perfettamente descritti, nessuno viene messo maggiormente in luce rispetto agli altri.
La bravura del regista si mostra ancora una volta. Tratta un tema apparentemente semplice, quello della famiglia, dell’eterno attaccamento alle nostre origini. Ma va oltre i grandi pranzi, il cibo, i classici racconti e pettegolezzi familiari e le vecchie canzoni cantate a squarciagola. Ci mostra inizialmente la facciata di una famiglia apparentemente serena che non si aspettava certamente forti scosse e poi ne rivela violentemente la realtà, i segreti, tutto quello che si nasconde dietro.

Gabriele Muccino ha creato un film decisamente superiore ai suoi lavori precedenti, sensibile e insieme destabilizzante. Un piccolo capolavoro del cinema nostrano assolutamente da non perdere.

Benedetta Sisinni

Il padre di Italia: lo stretto di Messina al culmine di un viaggio on the road

Un anno fa usciva nelle sale Il padre di Italia, secondo lungometraggio del giovane regista reggino Fabio Mollo.
Opera intensa e delicata, costruita intorno all’esile contrappeso delle emozioni, interpretata da un Luca Marinelli in stato di grazia – protagonista, dopo l’ottima prova in Lo chiamavano Jeeg Robot (2016), de il Principe libero, film dedicato a Fabrizio De André, in programmazione su Rai 1 il 13 e 14 febbraio – e da Isabella Ragonese, attrice palermitana di talento.
Il tema è di strettissima attualità. Paolo in un locale gay conosce Mia, ragazza dalla personalità ribelle, abbandonata dall’uomo che l’ha messa incinta.
La sua contagiosa e vulcanica energia metterà alla prova i due giovani in un disperato viaggio senza bussola che li trascinerà, come in un rito di liberazione, sempre più a sud.
Dall’operosa Torino, dove Paolo ha tradito il suo sogno iniziale di fare l’architetto vendendo kit di arredo in un grande magazzino, ad Asti per le prove del gruppo di Mia, a Roma e Napoli, fino alla meta ultima tra Reggio Calabria e Messina, nel luogo in cui forse finalmente potranno lasciare alle spalle un passato di incertezza e solitudine per guardare al futuro con speranza.

Luca Marinelli sulla spiaggia della “Punta”

Vincitore di un Golden Globe nel 2017 e candidato ai Nastri d’argento, Il padre di Italia si avvicina con tatto e tenerezza, senza cedere il passo a una retorica fumosa che facilmente avvolge questioni che hanno un rilievo nella società contemporanea, a trattare argomenti sensibili dell’Italia di oggi, ma lo fa certo non in maniera forzata costringendo a una concezione che vincola ad un immobile punto di vista.
Per primo trova spazio il discorso della precarietà esistenziale di una generazione allo sbando, e il conseguente difficile passaggio dall’essere figli al diventare genitori.
Ma genitorialità non vuol dire possedere uguale corredo genetico. Considerazione che emerge dal peso stesso conferito agli affetti: una profonda empatia lega infatti individui diversi nel semplice atto della solidarietà e condivisione.
Come spiega il regista: “il film è una storia di amore assoluto, puro e universale. Perché i sentimenti non devono mai essere etichettati”.

L’incontro di Paolo e Mia permette di avviare un itinerario segreto, scandito da un inarrestabile viaggio verso il meridione per risalire alle origini da cui i protagonisti avevano voluto allontanarsi (la Calabria, il mare e i suoi colori) e che pure li richiama a sé. Il tutto è evidenziato da una evocativa colonna sonora in cui spiccano le canzoni di Loredana Bertè, cantante di Bagnara Calabra, dove alcune scene sono state girate (altre nel litorale di Torre Faro).
Il momento in cui Mia interpreta in una drammatica sequenza There is a light that never goes out degli Smiths segna invece il definitivo addio.

Il film si basa del resto su una regia giocata proprio intorno ai primi piani, una scrittura viscerale che tiene attaccati alla visione, nonostante alcune lacune presenti nella sceneggiatura.
Inevitabile (con le dovute proporzioni) il parallelo con Una giornata particolare di Ettore Scola, omaggiato dalla citazione della scena dell’abbraccio sulla terrazza.

Eulalia Cambria

Black Panther

Se volete passare un San Valentino differente giorno 14 febbraio uscirà in sala Black Panther.

Il film della Marvel trae origine dall’omonimo supereroe apparso per la prima volta nel 1966 su Fantastic Four n. 52.
Pantera Nera è il sovrano e protettore del Regno di Wakanda, nazione dell’Africa subsahariana tra le più ricche e tecnologicamente avanzate della Terra. È dotato di abilità sovrumane dopo averingerito “l’erba a forma di cuore” , spesso combatte affianco degli Avengers.
La trama del film vede T’Challa (Chadwick Boseman) tornare a casa a causa della morte del padre, diviene così re del Wakanda.
Wakanda è una città ricchissima ed molto più evoluta rispetto al mondo intero, è un luogo semi mitico, definita la “città dorata”.
T’Challa deve combattere due nemici che cercano di detronizzarlo Erik Killmonger (Micheal B. Jordan) e M’Baku e così veste i panni di Pantera Nera. Farà squadra con l’agente della CIA Everett K. Ross (Martin Freeman) e con il corpo speciale wakandiano delle Dora Milaje, tra le quali figura anche l’amata Nakia (Lupita Nyong’o).

Il regista del film è Ryan Coogler (Creed) e l’ensamble è la crème della crème degli attori afroamericani, ai nominati aggiungiamo l’immensa Angela Bassett (Malcom X, AHS, La musica del cuore), il grande Forest Whitaker (L’ultimo re di Scozia, Goodmorning Vietnam),  Daniel Kaluuya (candidato quest’anno all’oscar come miglior attore protagonista per “Get Out!- Scappa!”), Letitia Wright e Danai Gurira (The Walking Dead).

La critica internazionale  ha acclamato questo film:
il NYT “L’etnia è importante in Black Panther, molto importante non solo in termini manicheistici di buoni /cattivi, ma anche come modo di esplorare preoccupazioni umane più ampie come il passato, il presente e l’abuso di potere. Anche solo questo rende il film molto più riflessivo sul modo in cui funziona il mondo di un mucchio di film mainstream.”
Collider invece “Black Panther non è un trionfo solo perché è un film importante e senza precedenti, ma anche perché è un film di supereoi pazzesco e splendido da vedere. Un equilibrio delicato e impressionante. Ci sono dei difetti, ma sono frutto dello stile Marvel – il film dura 20 minuti di troppo e ci sono troppi villain minori, ma sono piccoli difetti che non distolgono l’attenzione dal successo di Coogler.”

Il pubblico su Rotten Tomatoes gli ha dato un punteggio di 99%.

Insomma non resta che andare a vederlo per poter concordare o meno.

 

Arianna De Arcangelis

Teneramente folle: cosa vuol dire avere un orso bipolare come padre.

Il film che verrà recensito oggi è ambientato a Boston alla fine dei magnifici anni ’70.

Cameron Stuart è un marito e padre amorevole, diplomato ad Harvard, bravissimo cuoco e con una grande inventiva.
Purtroppo Cam è affetto da disturbo bipolare e a causa di uno scompenso psicotico perde il lavoro e viene ricoverato in una clinica psichiatrica per qualche settimana.
La moglie di Cam, Maggie cerca con tutte le sue forze di trovare un impiego per poter iscrivere le figlie in una scuola privata affinché ricevano una buona istruzione. Purtroppo per una donna afroamericana con figli trovare un lavoro a Boston è immensamente difficile.
Così Maggie prende una difficile decisione: rinuncia al suo ruolo di madre e si trasferisce a New York per frequentare un master di 18 mesi alla Columbia.
Con un po’ di riluttanza affida le figlie al marito, appena uscito dalla clinica psichiatrica. Come se la caverà la famiglia Stuart?

Il titolo in inglese (Infinitely polar bear) si basa su un simpatico gioco di parole per cui la figlia più piccola, Faith, usa il termine “orso polare” al posto di “bipolare”

Il disturbo bipolare è un grave disturbo psichico caratterizzato da periodi di profonda depressione che si alternano a periodi di iperattività, euforia ed eccessiva stima di sé che possono portare a veri e propri deliri. Il film quindi abbatte il radicatissimo stereotipo secondo cui il malato di mente debba per forza essere violento e quindi sia inadatto a fare il padre. Ma questo film non parla solo dello stigma nei confronti dei pazienti psichiatrici.
Parla di un padre che affronta la sua malattia per tenere insieme la famiglia, parla di una madre disposta a fare mille sacrifici pur di assicurare alle figlie un futuro migliore, parla di come nonostante tutto un lieto fine sia possibile.

Si tratta del film d’esordio come regista di Maya Forbes (uscito nel 2014), con una trama fortemente autobiografica. Quando la regista aveva sei anni infatti, sua madre ha preso un master alla Columbia e lei e la sorella sono state affidate al padre, Cameron Forbes, affetto da disturbo bipolare.
Non stupisce infatti l’atteggiamento indulgente con cui viene descritto il protagonista. La Forbes non manca di includere scene più crude – si ricorda ad esempio lo spezzone in cui le bambine spaventate chiudono fuori di casa il padre ubriaco – ma queste sono compensate da momenti che mostrano il lato tenero del padre, disposto a passare la notte in bianco pur di cucire la gonna da ballerina di flamenco alla figlia.

Mark Ruffalo (Cameron nel film) riesce meravigliosamente a rendere le varie sfaccettature di un personaggio molto complesso e risulta sempre credibile.

Zoe Saldana (che interpreta la madre, Maggie) è bravissima come sempre, ma il suo personaggio, probabilmente per scelta della regista, rimane sempre sullo sfondo.

Menzione speciale va fatta per Imogene Wolodarsky (figlia della regista) e Ashley Aufderheide, che interpretano rispettivamente Amelia e Faith.
È difficile trovare al giorno d’oggi delle piccole attrici così brave, che reggono perfettamente il confronto con due tra gli attori più famosi di Hollywood.

Il film è poi deliziosamente permeato da una dolce atmosfera nostalgica, resa perfettamente dalla colonna sonora stile anni ‘70, dai colori saturi e da alcune riprese in modalità super 8 che ricordano i vecchi filmini fatti in famiglia.

Una promettente regista che ha deciso di omaggiare il padre come solo una figlia innamorata può fare, un cast eccezionale e con un’intesa incredibile e una fotografia perfetta, fanno di Teneramente folle una pellicola che difficilmente potrà essere dimenticata.

Renata Cuzzola

 

La maledizione della vita e il benessere della morte

Manji (Takuya Kimura), un “ronin” ricercato dallo shogun per l’uccisione di alcuni samurai con persino una taglia sulla sua testa, scappa insieme alla sorella minore Machi (Hana Sugisaki) per poterla proteggere ed evitare la sua fine ormai certa.

La ragazzina, dopo essere stata testimone degli atti del fratello, subisce un trauma talmente grande dovuto allo shock a tal punto da impazzire e vivere in un pieno stato confusionale, obbligando Manji a doverla salvaguardare non solo da i pericoli incombenti, ma dalle sue stesse azioni sconsiderate. Sarà proprio una di queste a portarla nelle braccia di un gruppo di cacciatori di taglie che porrà fine alla sua vita sotto lo sguardo attonito e inerme del fratello, che colmo di rabbia e spirito vendicativo affronta l’innumerevole gruppo eliminandone fino all’ultimo membro. Le ferite riportate dallo scontro saranno talmente gravi (con un occhio e una mano perse) da lasciare Manji in fin di vita e prossimo alla morte, ma inaspettatamente una donna, annunciatasi con una età superiore ai 700 anni, porrà all’interno del corpo del ronin e contro la sua volontà, delle sanguisughe (kessenchu) che, a detta sua, rigeneranno le sue ferite e lo renderanno immortale

 

Mugen no jūnin” (letteralmente “abitante dell’infinito”), in Italia “L’immortale” vanta il primato di essere la centesima pellicola targata Takashi Miike, noto regista del Sol Levante autore anche di “13 Assassini” (altra recensione che è possibile trovare nella sezione “Recensioni” di UniVersoMe). Lo stile è classico e caratteristico: samurai, ideali, scontri e tanto sangue. Formula sempre vincente, soprattutto per film del genere. Una regia niente male guida tutto il percorso narrativo, con una sceneggiatura non troppo elaborata che nonostante tutto riesce a coinvolgere, tralasciando piccoli cali che vengono notevolmente recuperati grazie agli scontri spada-spada di una certa qualità. Tuttavia vi è da precisare come “L’immortale” sia una trasposizione cinematografica dell’omonimo manga, dunque è assolutamente apprezzabile e lodevole la scelta del regista di preservare l’opera e rimanerne fedele. Complessivamente il lungometraggio risulta piacevole, con cariche di adrenalina concernenti i duelli e un “drama” costante che accompagna il tutto con il perenne quesito di chi sia nel bene e chi nel male, anche se la prevedibilità e il cliché non mancano mai. E per non farci mancare nulla, il film è disponibile su Netflix.

                                                                                                                                                  Giuseppe Maimone

Assassinio sull’Orient Express, l’ego del regista si gonfia e il treno esplode.

Il 30 novembre è uscito nei cinema italiani Assassinio sull’Orient Express, regia di Kenneth Branagh, basato sul celebre romanzo omonimo di Agatha Christie. 

Iniziamo col dire che ci vuole una gran faccia tosta per fare un film del genere.

Il soggetto è tratto da uno dei più celebri romanzi di Agatha Christie e ha per protagonista uno dei personaggi letterari più amati di sempre, Hercule Poirot. In più il romanzo è già stato portato sul grande schermo nel 1974 da Sidney Lumet con cinque nomination agli Oscar e persino i complimenti della stessa Agatha Christie (morta circa un anno dopo l’uscita del film).
Quindi si, il regista nonché primo attore Kenneth Branagh ha dimostrato il coraggio e la faccia tosta necessarie per sfidare dei mostri sacri quali la Christie e Lumet, ma fa la figura dello scolaretto di prima elementare che si pavoneggia con i ragazzi dell’ultimo anno

Il film ricalca fedelmente la trama del libro. Poirot si ritrova sull’Orient Express, bloccato sul territorio jugoslavo a causa della neve, ad indagare sull’omicidio di uno dei passeggeri: gli indizi sono molti, ma nulla è come sembra.
Il cast è semplicemente stellare, difficile trovare tanti attori di talento in un unico film. Stupisce in particolare Michelle Pfeiffer nel ruolo dell’eccentrica Caroline Hubbard, che regge perfettamente il confronto con la grande Lauren Bacall -che nella versione del ’74 ha interpretato il medesimo personaggio-. Anche il resto del cast non delude, basti pensare a Johnny Depp nel ruolo di Rachett, a Daniel Defoe che interpreta Gerhard Hardman e Judy Dench nei panni della principessa Dragomiroff.
Resta ancora incerto il motivo della scelta di Penelope Cruz per interpretare una severa missionaria con un grande fervore cattolico (svedese nel libro, spagnola nel film).
È vero, confrontarsi con la precedente interpretazione della divina Ingrid Bergman -che è valsa all’attrice il suo terzo Oscar- è un impresa ardua per chiunque, ma gli occhi da lupa dell’attrice spagnola rendono vano qualsiasi tentativo. Non è quindi chiaro se l’effetto straniante che ne viene fuori sia voluto oppure meno.

Un soggetto avvincente, un cast blasonatissimo, e un budget milionario: cosa potrebbe andare storto?Purtroppo diverse cose.

In primo luogo il protagonista. Branagh, forse in un accesso di egocentrismo, trasforma il complesso personaggio di Poirot in un megalomane accentratore di attenzioni, poco credibile sia per i lettori della Christie che per il pubblico in generale: quello che la scrittrice descrive come un buffo ometto con la testa a forma d’uovo, diventa magicamente un macho hollywoodiano persino vagamente affascinante. La sua presenza sulla scena è parecchio ingombrante. I primi piani insistiti, i momenti introspettivi assolutamente inutili -che fanno rabbrividire i fan del personaggio per la mancanza di credibilità- portano sia gli altri personaggi che il soggetto stesso del film in secondo piano. Che senso ha ingaggiare attori strapagati come Johnny Depp e Penelope Cruz per fargli interpretare quelle che sono diventate delle macchiette?

La fotografia altamente artificiosa, le riprese dall’alto del treno danno quasi un senso di vertigine che cozza drasticamente con l’atmosfera claustrofobica che permea il libro e il film del ‘74. Che l’ego di Branagh sia gonfiato talmente tanto da non essere contenuto nel vagone del treno?

Il regista ha recentemente annunciato di voler tornare a vestire i panni dell’investigatore Poirot in Assassinio sul Nilo. Il tempo porta consiglio e la speranza è che insegni a Branagh un po’ di umiltà.

Renata Cuzzola