“Alzati e cammina” disse il neurologo

Lo scorso 31 ottobre su Nature è uscito un articolo veramente interessante, riguardante una tecnica che potrebbe permettere a pazienti paraplegici di riacquistare il controllo degli arti inferiori. La tecnica si basa su una stimolazione elettrica a livello del midollo spinale, così da rinforzare le connessioni tra encefalo e secondo motoneurone.

 

 

 

 

I ricercatori hanno prima mappato quali aree del midollo spinale sono coinvolte in ogni movimento richiesto per camminare, come la flessione dell’anca o l’estensione della caviglia. Successivamente, attraverso un intervento chirurgico, hanno impiantato stimolatori elettrici in tre persone, con diversi livelli di menomazione motoria nelle gambe a causa di lesioni del midollo spinale. Avendo scoperto quali parti del midollo spinale sono coinvolte nel camminare, il team è stato in grado di programmare una sequenza di impulsi elettrici che stimolerebbero il midollo spinale nel momento e luogo corretto per facilitare quei movimenti.

I ricercatori ci tengono a sottolineare che questo è soltanto un primo piccolo passo verso quello che potrà essere un trattamento. Sono tanti i limiti di questo studio. In primo luogo il numero di partecipanti: 3. Due di loro riuscivano parzialmente a muovere le gambe e sono riusciti a effettuare alcuni passi con l’aiuto di un supporto mentre il terzo, che non riusciva minimamente a muovere le gambe, è riuscito a fare alcuni stereotipati movimenti da sdraiato. Tutti e tre i paziente sono comunque dei paraplegici a seguito di una lesione a livello lombare del midollo spinale. Lesione non totale che salva comunque alcuni motoneuroni. I ricercatori non si esprimono se tale tecnica di stimolazione elettrica possa funzionare per ogni tipo di lesione. Per il momento ha parzialmente funzionato su questi tre pazienti, e il risultato non è né banale né scontato.

Quando una persona subisce una lesione grave a livello di midollo spinale, si blocca la comunicazione tra encefalo e periferia, dove con la periferia si intendono muscoli e recettori cutanei. In altre parole si perde la capacità motoria e la sensibilità di un parte del nostro corpo. I ricercatori hanno notato soltanto i miglioramenti sul piano motorio, senza soffermarsi se tale tecnica migliorasse anche la sensibilità degli arti inferiori di questi tre pazienti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fatto più sorprendente dei risultati di questo studio è che ad ogni nuova stimolazione, i pazienti rispondevano sempre meglio, segno che si creano nuove sinapsi a livello di midollo ogni volta che i paziente effettuavano gli esercizi.

Il lavoro è davvero entusiasmante, dice Jennifer French, direttore esecutivo del Neurotech Network di San Pietroburgo, in Florida, un’organizzazione no-profit che educa le persone con condizioni neurologiche sulle neurotecnologie. Tuttavia ci tiene a precisare che i partecipanti richiedevano ancora il supporto del corpo per muoversi.

Kim Anderson, un ricercatore clinico nelle lesioni del midollo spinale alla Case Western Reserve University di Cleveland, Ohio, aggiunge che la tecnica potrebbe non essere in grado di aiutare tutti con tali lesioni. I partecipanti allo studio hanno mantenuto un certo livello di funzione motoria al di sotto della lesione prima dell’inizio della stimolazione, mentre la maggior parte delle persone con lesioni del midollo spinale ha ferite “motorie complete”, senza alcuna capacità residua di movimento.

Il team di Courtine ha anche sviluppato una tecnologia che consente ai partecipanti di utilizzare la stimolazione elettrica epidurale all’esterno del laboratorio. Ciò include sensori indossabili che attivano la stimolazione e un’app che funziona su un orologio a comando vocale, consentendo agli utenti di scegliere la forma esatta di stimolazione necessaria.

Questi dispositivi sono ancora in fase di sviluppo, afferma Courtine, ma i partecipanti li hanno usati per camminare e persino, in un caso, per un triciclo a due gambe. Nei prossimi tre anni, afferma Courtine, mira a ottimizzare la tecnica e convalidarne la sicurezza e l’efficacia.

Francesco Calò

 

Fonti:

https://www.nature.com/articles/d41586-018-07251-x

 

Cervello che batte come il cuore? Facciamo chiarezza

Vi sarà probabilmente capitato, seguendo gli aggiornamenti online delle pagine di un noto quotidiano generalista, di imbattervi nel titolo di una breve news scientifica: “La scoperta dello Stevens Institute: il cervello batte come il cuore. Ripreso per la prima volta.”

Lo scarno commento, accompagnato al video diffuso dai ricercatori dello stesso Stevens Institute of Technology del New Jersey, potrebbe farci pensare che sia la prima volta che si viene a scoprire questa interessante caratteristica del cervello. Ma è davvero così?

Facciamo un po’ di chiarezza: che il cervello abbia una sua pulsazione, in sincronia col battito cardiaco, non è affatto una novità, anzi, tutt’altro.

Quando il cuore contraendosi manda il sangue in circolo, la pressione esercitata sul sangue si trasmette attraverso le pareti elastiche delle grandi arterie a tutto il sistema vascolare. Questo fenomeno, detto “onda sfigmica”, è quello grazie al quale il vostro medico curante, poggiandovi semplicemente le dita sul polso o sul collo, riesce appunto a “prendervi il polso” valutando approssimativamente la frequenza cardiaca. Lo stesso termine, polso, viene dal latino “pulsus”, cioè pulsazione.

I vasi del cervello non fanno eccezione a questa regola: anche essi trasmettono l’onda sfigmica che  arriva loro dal cuore e che si va a manifestare come un leggerissimo spostamento ritmico che si trasmette a tutto l’encefalo attraverso il liquido che scorre nelle meningi. Il nostro cervello, però, è racchiuso in una scatola dura e inestensibile formata dalle ossa del cranio: per questo in alcune regioni dell’encefalo, come il tronco encefalico, più libero di muoversi e su cui si appoggia una arteria di grosso calibro (l’arteria basilare), il movimento si apprezza di più, mentre in altre meno; se qualcuno di voi ha mai visto il video di un intervento con craniotomia (si trovano anche su YouTube) potrà facilmente notare come, una volta rimosso l’ostacolo delle ossa craniche, la pulsazione della superficie della corteccia cerebrale sia apprezzabile a occhio nudo.

Questo fenomeno è da tempo noto anche a chi si occupa di neuroimaging; mentre le acquisizioni strutturali (per intenderci, la MRI classica che si usa nella diagnostica clinica)  non sono in grado di percepirlo, questo movimento influenza molto alcune acquisizioni particolari che si usano a scopo di ricerca, per fare MRI funzionale o anche trattigrafia; si vengono così a generare degli artefatti che potrebbero distorcere i risultati (specialmente quando si studiano quelle regioni in cui il movimento é più evidente) e che vanno quindi rimossi o minimizzati con dei complessi escamotage tecnici. Uno di questi è il cardiac gating, ossia l’acquisizione dei parametri cardiaci in contemporanea a quella della risonanza, che rende più facile l’eliminazione di questi difetti di acquisizione.

Dove sta dunque la novità nella scoperta dello Stevens Institute?

Nel fatto che, come abbiamo detto prima, la MRI convenzionale non è in grado di rilevare questi movimenti, e che per la prima volta è stato messo a punto un metodo di acquisizione strutturale che consente di “riprendere” questi movimenti e visualizzarli, o addirittura amplificarli per renderli più visibili anche nelle regioni in cui si notano di meno. Questo risultato tecnico, tutt’altro che scontanto, verosimilmente potrebbe nei prossimi anni rendere la vita più facile ai ricercatori che devono avere a che fare con la rimozione degli artefatti legati alla pulsazione, favorendo la messa a punto di metodi più sofisticati ed efficaci. Ma c’è di più: potrebbe anche aiutare i clinici nella diagnosi precoce di alcune patologie cerebrali o vascolari che alterano la pulsazione cerebrale; per questo, gli autori del lavoro hanno messo alla prova il loro metodo anche su un paziente con la sindrome di Arnold-Chiari tipo 1, mettendo in evidenza sostanziali differenze nella trasmissione della pulsazione che potrebbero, se confermate su più pazienti, aiutare la diagnosi.

Insomma una scoperta interessante che meriterebbe però qualche approfondimento in più per essere resa comprensibile al pubblico, piuttosto che essere, come spesso succede, trasformata in un fuorviante titolone da breaking news; ma questo, purtroppo, è un altro paio di maniche…

 

Gianpaolo Basile

Vuoi essere mio amico? Processi neurali ci suggeriscono se saremo mai amici

Non esiste uomo che non abbia, almeno una volta nella vita, provato il sentimento dell’amicizia, né qualcuno che non abbia provato o desiderato amore. Sfido chiunque a dire il contrario. Un’introduzione un po’ sdolcinata, vero, ma pur sempre realistica. La complessità e la necessità delle reti sociali testimoniano quanto la specie umana sia incline a relazionarsi con chi gli è simile in termini di caratteristiche fisiche (età, sesso), di interessi (studi, tempo libero, idee) e di cultura. Ormai numerose evidenze antropologiche suggeriscono come, la tendenza all’aggregazione, sia, nella specie umana, un primordiale principio organizzatore della società che conosciamo oggi. Vari ormoni e strutture anatomiche regolano, seppur ancora in maniera non del tutto chiara, le emozioni provate durante l’esperienza della relazione interumana, e per quanto l’amicizia e l’amore siano sperimentati da tutti gli umani, resta ancora da capire il perché vengano a formarsi certi legami.

A suggerire l’esistenza di una sorta di “firma neurale” dell’amicizia è un gruppo di ricercatori dell’Università della California a Los Angeles e del Dartmouth College ad Hanover, nel New Hampshire, coordinati dalla Dott.ssa Carolyn Parkinson. Il gruppo ha infatti voluto indagare se tali similitudini possono derivare da altre più nascoste, connessioni neuronali che codificano il modo in cui percepiamo, interpretiamo e interagiamo con il mondo che ci circonda.

Per il loro studio, pubblicato su “Nature communications” lo scorso mese dal titolo “Similar neural responses predict friendship” –Risposte neurali simili predicono l’amicizia-, sono stati reclutati 279 studenti da un corso di laurea della stessa Università, a cui poi è stato sottoposto un questionario online in cui gli veniva chiesto di indicare i ragazzi, partecipanti allo stesso studio, cui erano legati da un sentimento di amicizia. Si è così costruita una mappa matematica a partire da una rete sociale reale, qui sotto illustrata.

Un campione di 42 studenti è stato poi selezionato casualmente per partecipare allo studio mediante risonanza magnetica funzionale. Tale esame valuta l’attività della corteccia cerebrale in una determinata zona, quindi se il soggetto è stimolato da un’immagine, la fMRI noterà un segnale proveniente dalla corteccia visiva, un’altra immagine provocherà un segnale proveniente dalla stessa zona, ma leggermente diverso. Durante l’esame ogni soggetto ha guardato la stessa selezione di videoclip, che comprendevano un ampio range di argomenti, dagli sketch comici ai documentari, fino ai dibattiti politici, tutti scelti secondo un unico criterio: i soggetti non dovevano averli già visti. In questo modo, i ricercatori hanno indotto uno sforzo mentale di attenzione, interpretazione ed evocazione di risposte neuronali nuove.

Analizzando i dati raccolti, Parkinson e colleghi hanno dimostrato che durante la visione di uno stesso video, il profilo dei livelli di attività nelle aree del cervello implicate nell’interpretazione dell’ambiente sensoriale e nelle risposte emotive era molto simile tra coloro che si definivano amici. La somiglianza della risposta neurale diminuiva invece con l’aumentare della distanza tra gli individui nella stessa rete sociale. Le regioni corticali più interessate nella discriminazione dell’amicizia sono quelle coinvolte nell’allocazione dell’attenzione, nell’interpretazione narrativa e nella risposta affettiva, suggerendo che gli amici possono essere eccezionalmente simili nel modo in cui si occupano, interpretano ed emotivamente reagiscono a ciò che li circonda. Era inoltre possibile prevedere, con un esercizio speculare, la stessa mappa dell’immagine precedente partendo dalla sola acquisizione in fMRI. Oltre alle regioni corticali sopracitate, sono state notate associazioni con zone sub-corticali implicate nella motivazione, apprendimento e formazione di nuovi ricordi, come l’amigdala, e parte dei nuclei della base.

L’immagine mostra aree corticali ad alta associazione (rosso) tra amici, che risultano ad associazione minore (rosa/azzurro) tra individui legati da una distanza sociale maggiore.

I profili ottenuti con la risonanza, concludono gli autori, “forniscono quindi firme ricche di informazioni sulle risposte di questi individui agli stimoli, che presumibilmente sono modellati dalle caratteristiche delle loro disposizioni, conoscenze preesistenti, opinioni, interessi e valori. Queste firme possono essere utilizzate per identificare le persone che possono diventare amiche e quelle che possono essere collegate indirettamente tramite amici comuni.”

Lo studio in questione è stato ispirato da un’altra scoperta fatta precedentemente dallo stesso team di scienziati: non appena vediamo qualcuno che conosciamo, il nostro cervello ci dice immediatamente quanto è importante o influente quella persona e la posizione che occupa nella nostra rete sociale. La prossima sfida per il gruppo dii ricercatori sarà quella di “comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda”.

Antonio Nuccio

Il grande sconosciuto blu: l’autismo

nws_oggi_l_viii_giornata_mondiale_consapevolezza_dell_autismo_360_1L’autismo colpisce una persona su centosessanta nel mondo, con un’incidenza dieci volte maggiore negli ultimi quarant’anni, ma di cosa si tratta realmente? Tanta confusione e tanta disinformazione aleggiano sull’argomento di cui, forse, si sente parlare troppo poco.

Dare una definizione precisa di autismo è alquanto difficile, si tratta infatti di una patologia che si manifesta nei primi anni di vita, caratterizzata da una grande varietà di sintomi e che porta oggi a parlare più precisamente di disturbi dello spettro autistico.

Complessivamente, gl’individui affetti presentano difficoltà, più o meno gravi, nel relazionarsi agli altri ed al mondo esterno sia verbalmente che non, un repertorio ristretto e ripetitivo d’interessi e comportamenti stereotipati; talvolta può esserci un’associazione con problemi fisici come l’epilessia o la sindrome di Down.

Tuttavia, molti individui autistici presentano una spiccata intelligenza, grandi abilità visive ed artistiche, non a caso si ritiene che personaggi di spicco della cultura in genere, come Emily Dickinson o Isaac Newton, fossero affetti da questa patologia.

Non esiste un’etnia maggiormente colpita rispetto ad un’altra, a differenza invece del sesso maschile che sembra esserne interessato fino a cinque volte in più rispetto a quello femminile.

Proprio per la varietà di sintomi che caratterizzano il disturbo e per i gradi di complessità estremamente variabili che si riscontrano nella pratica clinica, spesso diagnosticare con precisione l’autismo risulta difficile ed è per questo che la ricerca e la comunità scientifica in generale sono impegnati sempre più a trovare un riscontro patologico a livello anatomico e fisiologico del cervello.

Recentemente, grazie alle nuove tecniche di imaging che evidenziano con grande dettaglio le attività cerebrali, è stato possibile riscontrare, nei soggetti autistici, differenti connessioni tra varie aree dell’encefalo coinvolte nell’elaborazione dell’espressione facciale o delle emozioni, rispetto a soggetti sani.

Decisamente più sconosciute e difficilmente individuabili sono invece le cause che stanno alla base della patologia; che il vaccino trivalente contro il mobillo-parotite-rosolia causi questo disturbo è ormai ampiamente superato, data la completa mancanza di evidenze scientifiche.

Pare invece che oggi i ricercatori siano concordi nel ritenere che sia presente un coinvolgimento genico ed ambientale, infatti il 10% dei bambini affetti da autismo presenta altre condizioni genetiche come la sindrome di Down e la sindrome dell’X fragile e sembrano essere correlati al rischio di autismo l’età avanzata dei genitori al momento del concepimento o l’esposizione della madre a pesticidi ed inquinamento, parti estremamente prematuri e complicati.

Tutt’oggi non esistono cure per questo disturbo permanente, che nelle forme più gravi è estremamente invalidante, tuttavia è consigliato intervenire con terapie per lo sviluppo del linguaggio, del gioco e dell’adattamento all’ambiente fisico e sociale, pertanto risulta essenziale il supporto e la preparazione dei genitori per la buona riuscita dell’intervento.

Trattandosi di un disturbo sempre più diagnosticato ma poco conosciuto dalla popolazione,  da pochi anni è stata introdotta dalle Nazioni Unite la giornata mondiale per la consapevolezza dell’autismo, il 2 aprile, così da promuovere la conoscenza della patologia e la solidarietà nei confronti dei bambini e delle persone affette.

Non a caso è stato scelto come simbolo della patologia e della Giornata il colore blu, essendo una “tinta enigmatica, che risveglia il desiderio di conoscenza e di sicurezza” come spiegano i promotori della Giornata stessa.

Morgana Casella

The Theory of Mind: alla scoperta del nostro pensiero e di quello altrui

jmTantissime sono le qualità che ci rendono unici in natura, ma nessuna è equiparabile alle nostre attività cognitive superiori, che sebbene non siano da considerarsi una esclusiva del genere umano, rasentano in esso quanto di più perfetto la natura ci abbia donato. Ovviamente tutto quello che ci caratterizza oggi non è altro che il risultato di millenni di lenta evoluzione che hanno portato allo sviluppo di queste straordinarie quanto ancora poco conosciute capacità. E quale di queste ci rende particolarmente unici se non la capacità di sviluppare dei pensieri? O meglio ancora  la capacità di immedesimarsi nella mente degli altri? Proprio quest’ultima abilità è nota come “Theory of Mind” (ToM), ed è alla base della nostra personalità, delle nostre relazioni sociali e quindi della capacità della nostra specie di costituire delle società così complesse. Ma non ci fermiamo qui perché siamo in grado, grazie a queste capacità, di assaporare tutte le sfaccettature tipiche della comunicazione, dall’ironia ai sottintesi, dall’umorismo alla decodificazione del linguaggio del corpo. Pensiamo a una mamma che vede il proprio figlio tornare da scuola sbattere la porta di casa e lasciare cadere lo zaino, la prima cosa che sarà portata a pensare è che qualcosa è andato storto. Questo è un tipico esempio di “vitality forms”, studiato dallo psichiatra Daniel Stern, secondo cui analizzando 4 variabili di una determinata azione, ossia forza, direzione, tempo e spazio, siamo in grado di capire lo stato mentale di chi ci sta davanti. Più recentemente secondo uno studio tutto italiano ad opera di Rizzolatti e Gallese sembra che si sia individuato un circuito “somatosensoriale-insulare-limbico” che si attiva quando viene osservata una vitality form e quindi un’azione.

Nell’essenza della ToM è da considerarsi la presenza di una sinergia, un legame indissolubile tra l’attività cognitiva e l’attività affettiva. Entrambe contribuiscono in maniera differente ma allo stesso tempo indispensabile al cosiddetto processo di mentalizzazione ossia alla rappresentazione interna degli stati mentali propri e di altri individui: in altre parole non è possibile che tale processo si verifichi se non vi è un adeguato apporto sia delle dotazioni cognitive che della componente affettiva.

Il bimbo durante la sua crescita va incontro a diverse fasi che precedono lo sviluppo di una vera e propria ToM; ad esempio all’età di 2 anni circa ci rendiamo conto che i desideri sono alla base delle nostre stesse azioni e di quelle altrui, a 3 anni si sviluppa la cosiddetta triade “Desiderio-credenza-azione” con le quali siamo in grado di compiere determinate azioni perché pensiamo che in tal modo possiamo soddisfare i nostri desideri. Fino all’età di circa 4 anni quando, siamo finalmente in grado di prendere coscienza dell’altrui pensiero. Infatti grazie a un semplice esperimento, eseguito come un semplice gioco e denominato test della falsa credenza, è possibile appurare che il bimbo è in grado di dipingere nella sua mente un quadro di quello che sta avvenendo nella mente di un altro soggetto.

Inizialmente lo sviluppo della ToM veniva considerato un processo intraindividuale, e proprio da alcune critiche mosse da Fonagy, psicologo e psicanalista ungherese, secondo cui la figura del bimbo veniva ridotta a quella di un semplice “elaboratore isolato di informazioni”, nacque la più ampia concezione di un bimbo immerso nella realtà che lo circonda e dalla quale viene profondamente influenzato, che prende il nome di “svolta contestualistica”. Da questo momento un’ampia serie di studi hanno dimostrato come ruoli di primaria importanza vengano giocati dai genitori e dal tipo di linguaggio che essi adoperano, si è visto come l’utilizzo di termini che si riferiscano a stati mentali di altri, rappresenti un fattore stimolante l’abilità dei bambini di “leggere le intenzioni”. Basti pensare a quando da piccoli lasciavamo un gioco solo per un momento e nostro fratello ce lo “scippava”, immediatamente scoppiavamo a piangere; a quel punto la mamma veniva a tranquillizzarci e a rimettere la pace e ,magari, riferendosi al nostro fratellino diceva : “pensava che avessi smesso di giocare, non voleva farti piangere”. Altre ricerche hanno sottolineato che la presenza di fratelli, soprattutto se di età maggiore, rappresenti un vantaggio rispetto a chi è figlio unico, in quanto il continuo rapportarsi, dialogare, giocare e litigare, sono tutte attività che favoriscono lo sviluppo delle capacità mentali del bambino.

Purtroppo ci sono casi in cui si riscontrano anomalie nello sviluppo della ToM, ed è il caso dell’autismo in cui una delle ipotesi è che questi bimbi non riescano a sviluppare la capacità di meta-rappresentazione che sta alla base della Teoria della Mente e che li porta conseguentemente, a una difficoltà di interazione col mondo circostante. Altro caso patologico in cui questo deficit si verifica è la schizofrenia, che però non è necessariamente accompagnato da una qualche anomalia durante l’infanzia, al contrario dell’autismo. E proprio al fine di affrontare al meglio queste patologie di cui ancora molti meccanismi si disconoscono, è importante che la ricerca vada avanti e prosegua il suo incessante lavoro soprattutto per quanto riguarda l’individuazione delle aree cerebrali interessate nello sviluppo della ToM, al fine di evidenziarne il genere di alterazioni che sono alla base dello sviluppo di queste patologie, per poter attuare poi tutte le pratiche terapeutiche in nostro possesso.

Andrea Visalli

Cervelli in ansia: dalle neuroscienze nuovi dati per comprenderne il meccanismo

Sto in ansia. Quante volte, nella vita di tutti i giorni, avremo usato questo termine per riferirci a tante piccole quotidiane situazioni di stress psichico e nervosismo? Eppure forse non tutti sanno che, accanto a queste situazioni assolutamente fisiologiche, esiste una ansia patologica, con sintomi che spesso possono essere altamente invalidanti. In psichiatria si distinguono diversi disturbi d’ansia, diversi fra loro ma accomunati da una sintomatologia basata su componenti somatiche (sudorazione, pallore cutaneo, aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca e altri segni e sintomi correlati a una attivazione abnorme del sistema nervoso simpatico), cognitive-emotive (senso di pericolo e di allerta, calo della concentrazione) e comportamentali (atteggiamenti di fuga) che possono seriamente compromettere la vita relazionale del paziente.

In particolare, fra i vari disturbi d’ansia, il più elusivo da comprendere è il disturbo d’ansia generalizzato (GAD, generalized anxiety disease) in cui la sintomatologia ansiosa non è collegata a un oggetto o una situazione particolare (come ad es. nelle fobie) ma si verifica in maniera aspecifica, appunto generalizzata.

Da anni la ricerca scientifica cerca di comprendere perché e in che modo, con quale meccanismo, si verifichino questi sintomi. Diversi autori concordano sul fatto che alla base del GAD possa esserci una ipergeneralizzazione degli stimoli di pericolo: normalmente, la nostra esperienza ci permette di associare determinati stimoli sensoriali (per esempio, la vista di un serpente per terra o il suono di una sirena d’allarme) a una situazione di pericolo dando origine a una risposta adeguata, di tipo “combatti o fuggi” (cioè mediata dal sistema nervoso simpatico) non appena gli stimoli vengono percepiti; nel GAD una generalizzazione eccessiva fa si che vengano percepiti come potenzialmente pericolosi anche stimoli che normalmente non lo sono e questo spiegherebbe le manifestazioni della patologia.

Una delle domande dei ricercatori in proposito è se questa generalizzazione sia legata a un meccanismo cognitivo, cioè in parole povere all’incapacità di decidere quali stimoli sono pericolosi e quali no, oppure derivi da un problema percettivo, cioè legato a una anormale percezione sensoriale degli stimoli stessi. Un recentissimo lavoro in pubblicazione su Current Biology, curato da ricercatori del Weizmann Institute e del Jerusalem Mental Health Center*, propone una possibile risposta a questa domanda.

Lavorando su un gruppo di 25 pazienti di GAD e 16 controlli sani, i ricercatori hanno fatto ascoltare ai soggetti suoni di diverse frequenze, associandoli a situazioni di rischio (guadagno o perdita di denaro): dopo questo condizionamento, hanno fatto riascoltare i suoni ai soggetti chiedendo di riconoscere quelli associati al rischio, riscontrando che i pazienti di GAD tendono più dei soggetti sani ad associare al pericolo i suoni anche quando le frequenze risultano essere più distanti da quelle con cui è avvenuto il condizionamento. In un secondo luogo è stata svolta una indagine con risonanza magnetica funzionale (fMRI), una tecnica che si usa per studiare l’attivazione di aree del cervello mediante la misura delle variazioni nel loro utilizzo di sangue ossigenato, rilevate tramite MRI. Tale metodologia, in uso da anni nel mondo delle neuroscienze, ha consentito di osservare, soltanto nei soggetti ansiosi e durante il condizionamento, l’attivazione di un ben preciso network neuronale composto da aree corticali e sottocorticali (come amigdala, putamen, corteccia cingolata anteriore) correlata direttamente alla percezione del rischio e del tipo di rischio. Pertanto, pur senza negare l’importanza dei meccanismi cognitivi nello sviluppo del disturbo d’ansia generalizzato, i ricercatori concludono evidenziandone l’aspetto di disturbo principalmente percettivo. Una tale scoperta, oltre a costituire un importante passo avanti nella comprensione dei meccanismi alla base del disturbo d’ansia generalizzato, contribuisce anche, insieme a tantissimi altri lavori simili, a mettere in una nuova luce l’affascinante problema delle relazioni fra la nostra mente e il nostro cervello, e fra la nostra mente e il nostro corpo. Ma questa, naturalmente, è tutta una altra storia…

*Laufer et al., Behavioral and Neural Mechanisms of Overgeneralization in Anxiety, Current Biology (2016)Qui l’articolo 

Gianpaolo Basile