Ichi the killer: passione sadomasochista

Nosferatu
Un raffinato thriller/gangster movie che unisce amore, vendetta, perversione e liquidi corporei- Voto UVM: 5/5

La mente contorta e geniale di Takashi Miike prende spunto dall’omonimo manga di Hideo Yamamoto per realizzare una delle sue opere più iconiche e disturbanti: Ichi the Killer (2001) non è solo una pellicola, ma un compendio delle perversioni più intime e delle tematiche più riprovevoli, già sondate nei lavori precedenti come Audition (1999), Dead or Alive (1999) e Visitor Q (2001), che il regista impacchetta appositamente per destabilizzare il pubblico più generalista.

Prodotto dalla Toho e dalla Alpha Group, il film è attualmente disponibile nella sua versione blu-ray su amazon.

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Ichi the killer (2001) di Takashi Miike.

TRAMA

In una stanza di hotel in Giappone, nella quale il boss della yakuza Anjo sta per violentare una prostituta, il sicario “Ichi” irrompe dalla finestra ed uccide brutalmente l’uomo, senza lasciare alcuna traccia; per ritrovare il suo capo, convinto che sia fuggito con una grossa somma di denaro, il sadico Kakihara ed i suoi migliori uomini (tra i quali spicca Kaneko, un ex-poliziotto e padre di un bambino) si muovono in una splendida città, intrisa di criminalità e violenza, interrogando e torturando chiunque sospettano possa avere delle informazioni.

TAKASHI MIIKE E IL MANGA ORIGINALE

L’unicità dello stile di Miike sta nel riuscire a ipnotizzare lo spettatore grazie ad una trama fitta di colpi di scena, un ritmo cadenzato (a tratti nevrotico) ed un’estetica affascinante ed allo stesso tempo inquietante: tale dicotomia trova una personificazione magistrale già nella scelta dell’attore per il ruolo del sadomasochista mutilato Kakihara, affidato non casualmente a Tadanobu Asano, un attore belloccio che fino a quel momento aveva preso parte unicamente a prodotti scadenti ed era considerato alla stregua di un idol in madrepatria; Miike sfregia il suo volto e lo propone in una veste instabile quanto carismatica, a tal punto da risultare più iconico del protagonista sfuggente e tormentato che dà il nome all’opera.

D’altro canto, il genio del regista giapponese si rivela nel momento in cui si mette a confronto la pellicola con il manga di riferimento: Yamamoto, il mangaka, descrive in maniera dettagliata e truculenta ogni singola ferita e mutilazione, inoltre si sofferma maggiormente sul passato dei personaggi e sulle intricate macchinazioni di Jiji; Miike, nonostante imbastisca un lungometraggio con un forte impatto visivo sullo stomaco degli spettatori, gioca maggiormente con il concetto di grottesco, traendo una maggiore forza destabilizzante dal contrasto tra l’ultraviolenza messa a schermo e l’atteggiamento incurante, spesso sarcastico dei personaggi.

Del resto Miike, artista piuttosto prolifico, è noto in patria principalmente per le sue trasposizioni sul grande schermo di manga e videogiochi rinomati come The Great Yokai War, As the Gods Will, Like a Dragon, Ace Attorney e la quarta parte di Le bizzarre avventure di Jojo: Diamond is unbreakable.

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Ichi the killer (2001) di Takashi Miike.

LA VIOLENZA COME ESPRESSIONE DELL’ANIMA

Coloro che riducono Ichi the killer ad un mero monumento al “gore” non si allontano troppo dalla visione del regista: quest’opera analizza minuziosamente le varie declinazioni della violenza, che sia fisica, psicologica o cinematografica (da segnalare gli apporti fondamentali dello stesso Yamamoto alla fotografia, e la presenza nel cast di Shin’ya Tsukamoto, padre dell’estetica cyberpunk nipponica), e ci mostra come essa plasmi la vita dei personaggi e della società giapponese.

In particolar modo, nel caso dei due protagonisti (Kakihara ed Ichi) la violenza corrisponde concettualmente al desiderio, spesso sessuale: Kakihara non perde un attimo per ricordarci costantemente della sua tendenza al sadomaso, la quale, nonostante appaia inizialmente come un caos perverso, si basa in realtà su delle regole e su una filosofia di vita ben precisa, un accettare la propria inadeguatezza nelle relazioni interpersonali ed al contempo una ribellione verso le regole ipocrite di una società che lo rifiuta costantemente;

Ichi, al contrario, rivela un animo gentile quando ne ha occasione, ma la sua mente rimane soggiogata dal misterioso Jiji che amplifica i suoi impulsi più beceri e confonde la sua percezione (manipolando i suoi ricordi) trasmutando i suoi impulsi sessuali in impeti omicidi.

Entrambi sono dei “puri” legati dalla passione per il sangue, in un equilibrio costante sulla sottile linea che separa il dolore ed il piacere; o almeno questo è ciò che pensa Kakihara, manifestando una profonda alienazione dalla realtà mista ad un nichilismo crudele e spietato verso il prossimo quanto lo è verso se stesso.

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Ichi the killer (2001) di Takashi Miike.

UNA PROFONDA INADEGUATEZZA

Il finale criptico e da molti criticato, sottolinea come il vero peccato capitale della società odierna sia l’impossibilità di una comunicazione sincera tra gli individui, la quale porta a disattendere le aspettative di ogni singolo: ciascun protagonista ottiene il risultato diametralmente opposto rispetto a quello auspicato e faticosamente costruito per tutta la durata del film; persino coloro che raggiungono in ultima istanza il loro obiettivo, non riescono a provare minimamente il senso di appagamento e soddisfazione tanto ricercato.

Ed è qui che Miike sferra un altro colpo da maestro: l”unico personaggio moralmente superiore agli altri, Kaneko, il quale si premura unicamente di tenere lontano il proprio figlio dalla spirale di violenza che avvolge la sua vita, fallisce miseramente; i sentimenti di inadeguatezza, alienazione ed odio verso il prossimo vengono passati alle nuove generazioni, e l’essere umano continua ignominiosamente la sua esistenza incapace di esternare i propri sentimenti.

 

 

Aurelio Mittoro

Salò o come Pasolini raccontò del fascismo

Salò o come Il fascismo sia lo stupro dell’anima. Voto UVM: 5/5

Salò o le 120 giornate di Sodoma è un film scritto e diretto da Pierpaolo Pasolini nel 1975. Il terribile capolavoro è tratto dal romanzo incompiuto del Marchese Donatien Alphonse François de Sade scritto in prigione nel 1785. Pasolini concepì questo film come primo lungometraggio di una trilogia detta “della morte”, iniziata subito dopo il termine della trilogia della vita la quale comprende Il Decameron; I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte. Sfortunatamente Salò vide la luce in sala solo un anno dopo l’omicidio del grande poeta e regista. Oggi il nostro cult viene considerato un Dogma da chi fu in grado di vederlo e un oscuro mistero viscido da tutti gli altri.

UNA TRAMA DANTESCA

Il nostro film si apre nell’Antinferno con uno sguardo limpido sulla Repubblica fascista di Salò tra il 1944 e 45. In questo scenario drammatico 4 Signori rappresentanti del potere fascista, un Duca, un Monsignore, un Eccellenza e un Presidente, incaricano i soldati della Repubblica di rapire 9 ragazzi e 9 ragazze provenienti da famiglie Antifasciste. I nostri giovani martiri verranno rinchiusi in una villa e saranno sottoposti per 120 giorni a delle esperienze di sodomia al di là della dignità del genere umano; il tutto gestito dai racconti di 4 prostitute che proprio come Virgilio nella Divina Commedia dipingeranno i gironi che le nostre vittime affronteranno, il girone delle Manie, della Merda e del Sangue. Non mi pronuncerò ulteriormente sulla trama poiché:
trasumanar significar per verba non si poria; però l’essemplo basti a cui esperienza grazia serba.
Paradiso; Canto I: vv70-72

Salò o le 120 giornate a Sodoma
I 4 Signori della Repubblica di Salò. “Salò o le 120 giornate a Sodoma” (1975) di Pierpaolo Pasolini. Alberto Grimaldi per PEA/Les Productions Artistes Associés.

PASOLINI O IL CINEMA DELLA CRUDA VERITÀ

Pierpaolo Pasolini fu il Vate della denuncia cinematografica della seconda metà del ‘900. Accattone (1962) e seguenti furono tutti film di eccezionale critica sociale. Pasolini raccolse i semi del Neorealismo Italiano per descrivere le pagine più infelici della povertà, della rabbia e della frustrazione italiana dando sfogo ai sentimenti che i più deboli non riuscirono mai a mostrare. Per questo e altri mille motivi il regista fu sempre un personaggio scomodo e giudicato da molti per il suo metodo necessario e anticonformista di esprimere la verità.

I PERSONAGGI DI PASOLINI

Una caratteristica dei personaggi che incontriamo all’interno dei film di Pasolini è la loro derivazione, la maggior parte di essi sono attori raccolti dalla strada, attori che più di altri possono incarnare la vera disperazione umana, molti di loro hanno voci fastidiose e non sanno neanche parlare in italiano ma sono proprio loro i soggetti che egli predilige. Se entrare in empatia con un professionista è facile, immaginate farlo con qualcuno che non ha mai letto un libro ma riesce ugualmente a palesare la stessa sofferenza di un attore.

LA CREAZIONE DI UN MOSTRO O IL TESTAMENTO PER ECCELLENZA DI PASOLINI

Pasolini dichiara apertamente che Salò sarebbe stato un film sbagliato, un film che non sarebbe mai stato apprezzato né dalla sua né dalle generazioni successive poiché usare la violenza carnale per descrivere cosa sia stato il fascismo in Italia e nel mondo non sarebbe mai stato valutato in modo positivo e costruttivo, ma il regista non avrebbe potuto utilizzare altre maniere se non quelle per descrivere a pieno tutto ciò che ancora oggi vien preso sottogamba. Se si riesce a trascendere dal pensiero estremista-comunista di Pasolini, e di conseguenza se si guarda la pellicola con neutralità politica, si comprende a pieno quanto di più orribile il potere può fare se vi si trova nelle mani sbagliate.

UN BIGLIETTO PER L’INFERNO

La cosa che più inquieta della pellicola è la sua capacità di riportarci a quegli anni respirando la densa tensione della guerra e della violenza che ha un inizio ma non si sa se avrà mai una fine. Nessuno saprà mai se quegli atti di violenza siano stati riprodotti realmente e occultati in seguito o se mai sia stato fatto qualcosa anche lontanamente simile e ciò, insieme alla presenza di attori non attori, rende la visione ancora più disturbante.

Salò o le 120 giornate a Sodoma
Il matrimonio. “Salò o le 120 giornate a Sodoma” (1975) di Pierpaolo Pasolini. Alberto Grimaldi per PEA/Les Productions Artistes Associés

IL FILM ESTREMO PER ECCELLENZA

Quando penso ad un film grottesco ed eccessivo, nonostante gli infiniti cataloghi che ci sono, la prima cosa che mi viene in mente è Salò o le 120 giornate di Sodoma. Questo film è talmente capace di farti entrare all’interno di quella villa infernale che inevitabilmente porta lo spettatore a dover fare una pausa durante la visione perché si rischia di non riconoscere più la realtà, e questo potrebbe procurare grande disturbo, disgusto e forti attacchi di panico. Il film era solo il primo di una trilogia che non ha mai potuto vede la luce e ancora oggi ci interroghiamo di quale terribile visione siamo stati privati per colpa dell’omicidio Pasolini. Forse il pubblico non avrebbe sopportato tale violenza.

Salò o le 120 giornate a Sodoma
I signori si presentano ai ragazzi rapiti “Salò o le 120 giornate a Sodoma” (1975) di Pierpaolo Pasolini. Alberto Grimaldi per PEA/Les Productions Artistes Associés

«Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla Terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti.»
(Il Duca)

Pierfrancesco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Milano calibro 9: “E cenere ritorneremo”

Una contorta e malsana fotografia dell’animo umano  – Voto UVM: 5/5

Milano calibro 9, tratto dall’omonima antologia di racconti dello scrittore Giorgio Scerbanenco, è un gangster movie estremamente cupo, con tinte noir ed una componente thriller/giallo che tiene incollati gli spettatori allo schermo durante le convulse vicende del nostro presunto protagonista Ugo Piazza (Gastone Moschin) fino ad un finale magistrale; il tutto in una Milano anni ’70, tetra e costantemente soffocata dal fumo, sia che provenga dalle sigarette, dalle marmitte delle vecchie FIAT, o dalla canna di una pistola.

Scritto e diretto da Fernando di Leoe distribuito dalla Minerva Pictures nel 1972, è attualmente disponibile gratuitamente su RaiPlay.

Ugo Piazza (Gastone Moschin). “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

TRAMA

Dopo 3 anni passati in carcere, il malavitoso corriere Ugo Piazza si ritrova tormentato dalla polizia e dagli uomini di un boss della zona, “L’Americano”, entrambi convinti che l’ex-galeotto avesse tenuto per sé i 300.000 dollari che gli furono affidati durante un colpo precedente.

Piazza nega tutte le accuse, ma si vede costretto a lavorare per “L’Americano” che lo vuole tenere sott’occhio: in questa clima di tensione, composto di rapine, sparatorie e  giochi di potere, il nostro protagonista incontra una sua vecchia fiamma, Nelly Bordon (Barbara Bouchet), la quale lavora in un night club.

La passione arde ancora tra i due, i quali decidono di scappare insieme e lasciarsi tutto alle spalle, ma il corriere avrà ancora un’ultima faccenda da sistemare…

LA “TRILOGIA DEL MILIEU”

Gli anni 60-70 del Novecento furono caratterizzati da una massiccia presenza, sia in sala che in libreria, di opere che presentavano (spesso in maniera convincente, molte altre volte in maniera dozzinale) una commistione di generi come il thriller, il giallo, il noir, il poliziesco e l’hard-boiled; gli autori spesso cadevano nella trappola, nel tentativo di umanizzare i propri protagonisti, di romanticizzare figure come criminali assetati di sangue e malavitosi senza scrupoli.

La “Trilogia del Milieu” di Fernando di Leo, composta dai tre film “Milano Calibro 9” (1972), “La mala ordina” (1972) ed “Il Boss” (1973), riesce magistralmente a rappresentare la società criminale senza alcun tipo di ambiguità: ogni singolo personaggio che appare a schermo, che sia un protagonista o un villain, ragiona secondo un intricato sistema di interessi personali, finti valori e passioni sfrenate, dunque non appartiene né ai buoni né ai cattivi.

Il regista non crea un mondo diviso in bianco e nero, ma si sofferma a raccontare la società con crudo cinismo, delineando ogni singolo carattere con infinite sfumature di grigio.

Rocco (Mario Adorf) ed il suo scagnozzo Alfredo (Omero Capanna). “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

“CENERE SIAMO…”

Alla calma serafica del protagonista, di Leo contrappone la personalità impulsiva e schietta di Rocco Musco (l’eccezionale Mario Adorf, protagonista del secondo film della trilogia): i due rappresentano una dicotomia costante per tutto il film, due modi completamente antinomici di affrontare la vita, nonostante abbiano in comune più di quello che pensano.

Questa antitesi diventa il “Lietmotiv” della pellicola, che incatena numerose sequenze in cui una coppia di personaggi si scontrano per la loro visione diversa del mondo, come il continuo duello tra il commissario di polizia (nel quale riecheggiano le influenze dei lavori di Elio Petri) ed il suo vice, oppure con il confronto tra la disillusione di Don Vincenzo, e del suo fidato Chino, e l’incomprensibile ottimismo di Piazza.

Il film, come un abile pugile, lavora lo spettatore ai fianchi e lo stordisce imbastendo una narrazione frenetica, che dipinge i personaggi in maniera furba e non lascia tempo per riflettere, per ragionare su cosa stia effettivamente accadendo: il regista delinea una storia intrigante ma piuttosto lineare, nella quale il nostro protagonista si erge a detentore dei valori morali, contrapposti all’avidità dell’Americano, alla follia di Rocco, alla violenza della polizia ed al nichilismo di Don Vincenzo.

Chino (Philippe Leroy), il sicario amico di Ugo. “Milano Calibro 9” (1972) di Fernando di Leo.

“… E CENERE RITORNEREMO”

L’intuizione geniale  di Fernando di Leo sta nel non far dubitare neanche per un momento lo spettatore della presunta innocenza di Piazza: il pubblico la dà per scontata sin dal primo istante, d’altronde è il protagonista di questa storia.

Eppure, della parabola di Ugo Piazza rimarrà soltanto cenere, sparsa sulle strade di una Milano già stracolma di racconti simili: di Leo ci fa assaporare questa spirale di violenza come una sigaretta, una delle tante; intensa, ma che restituisce sul finale un retrogusto amaro in bocca.

Del resto, di cenere sono fatti gli ideali dei nostri personaggi, pronti a rinnegare tutto non appena intravedono la possibilità di guadagno, trasformando miracolosamente l’odio in rispetto, l’onestà in malizia, la passione in tradimento.

<<Tu, quando vedi uno come Ugo Piazza… il cappello ti devi levare!>>

 

 

 

Aurelio Mittoro

Psycho: Il Thriller Freudiano

Psycho, il complesso di Edipo Hitchcockiano. Voto UVM: 5/5

 

Psycho è un film prodotto e diretto dal maestro Alfred Hitchcock nel 1960. Il capolavoro è tratto dall’omonimo romanzo di Robert Bloch del 1959 il quale racconta le vicende reali del serial killer Ed Gein. Oggi il film viene considerato il principale cult thriller della storia del cinema e viene studiato in ogni corso e accademia cinematografica per aver cambiato le regole del gioco del genere thriller. Il film fu prodotto dalla Universal Pictures (1960)

LA TRAMA

Marion Crane (Janet Leigh), in preda all’incoscienza e al bisogno di una vita migliore, dopo aver rubato 40mila dollari al suo datore di lavoro Mr Lowery (Vaughn Taylor), decide di fuggire dalla città, ma per colpa della pioggia la vista le si appanna e si ritrova involontariamente di fronte al Bates Motel, affiancato da una casa imponente e tetra. Il proprietario dell’autostello è Norman Bates (Anthony Perkins), un giovane ragazzo bizzarro che stravolgerà le sorti di Marion.

 

Marion Crane in fuga da Phoenix. Psycho (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures
Marion Crane in fuga da Phoenix. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

Marion Crane in fuga da Phoenix. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

COS’È PSYCHO

La trama si limita a delineare in maniera poco esplicita la linea temporale dei principali eventi che ritroveremo all’interno della pellicola ma a malincuore quel che è stato fino ad ora enunciato è relativamente utile se non del tutto inutile. Psycho non è una storia, tanto meno un’avventura; Psycho è la malattia autoimmune che flagella le debolezze dei più sensibili animi umani. Alfred Hitchcock decide di far impugnare ad Edipo un coltello, lasciando ad egli carta bianca, ma tutto ciò resterà nascosto allo spettatore fino alla fine del film.

 

 

 

La scena della doccia in Psycho
“La scena della doccia”. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

 

SANGUE E FILOSOFIA

Sigmund Freud fu un grande Neurologo e Psicoanalista ma nella sua vita non partorì mai l’idea di dirigere un thriller; fin quando, inconsciamente senza chiederglielo men che meno pagandolo, Hitchcock decise di riportarlo in vita per co-dirigere insieme ad egli questo spaventoso colosso cinematografico. Ogni singola sequenza del film pullula di riferimenti alle teorie sulla psicoanalisi e al disagio della civiltà sui quali Freud dedicò molteplici scritti.

NORMAN BATES, IL NUOVO EDIPO

Nella concezione classica freudiana, il complesso edipico indica un insieme di desideri sessuali ambivalenti che il bambino prova nei confronti delle figure genitoriali: desiderio di morte e sostituzione nei confronti del genitore dello stesso sesso e desiderio di possesso esclusivo nei confronti del genitore di sesso opposto.
-Tre saggi sulla teoria sessuale
di Sigmund Freud

Se inizialmente, Marion e tutto il resto del pubblico, vedendosi di fronte un ragazzo goffo, timido e affettuoso nei confronti della madre, riescono ad entrare in empatia con Norman, non ci vorrà molto prima che costoro cambino totalmente idea. Verso lo spettatore Norman farà la trasformazione inversa rispetto a quella di Alex, il protagonista di Arancia Meccanica (Vedi recensione: Arancia Meccanica: la compassione della violenza). Il nostro protagonista diventerà uno schiavo innamorato delle catene che gli stringono i polsi e la gola fino a farlo soffocare perdendo la sua vera essenza. Norman Bates attua un finto suicidio nel tentare di recuperare tutti gli errori da lui commessi. E sua madre? Chi è la donna che sembra tenere al guinzaglio un povero innocente? Quanto ci si potrà fidare delle loro parole e quante di esse saranno vere e quante solo un riflesso?

Norman Bates in Psycho
Norman Bates”. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

LA GABBIA EDIPICA

Ispirata al dipinto del 1925 “House by the Railroad” di Edward Hopper, la casa dove abita Norman insieme alla madre premurosa rappresenta uno schema Freudiano dove appunto vi ritroviamo il piano del super io (il primo piano) dove Norman con le sue gesta opprime il piano dell’io (piano terra) che mostra una dimensione visibile a tutti coloro che si addentrano nell’abitazione. In fine ritroviamo l’inconscio (la cantina) dove il complesso edipico acquista la sua forma definitiva. Come volevasi ben dimostrare, la Casa di del signor Bates è l’archetipo del virus che si dilaga dentro un innocente tramutato nel mostro privo di identità.

“House by the Railroad” di Hopper e “La casa” di Psycho. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

CURIOSITÀ

Il maestro Alfred Hitchcock, visionario per com’era, trattò Psycho come il suo figlio prediletto e per tale motivo riuscì ad ottenere per solo 9.000 dollari i diritti del romanzo di Robert Bloch e in seguito comprò tutte le copie per evitare che gli spettatori scoprissero il finale. Inoltre egli, nonostante avesse già diretto molti film a colore, scelse il bianco e nero per poter giocare con le varie intensità cromatiche del chiaro-scuro e per far risaltare in maniera esplicita ma non grottesca la violenza e il sangue. Per finire, un aneddoto divertente riguarda il trailer di Psycho: per destare un po’ di confusione nel pubblico, il regista decise che all’interno di esso doveva esserci lui stesso che visitava il Bates Motel spoilerando in maniera giocosa la pellicola.

COME GUARDARE PSYCHO

Psycho è un film da gustare in 2 tempi; per apprezzarlo fino in fondo serve una doppia visione anche a distanza di pochi giorni se non immediata. Durante la prima visione abbandonate ogni parola scritta fino ad ora e immaginate di star guardando un banalissimo film di Alfred Hitchcock. Una volta finito il film, ed aver fissato il vuoto cercando di metabolizzare il tutto; riguardate il film cercando di apprezzare ogni singolo dettaglio di uno stile di cinema che non ritornerà più.

Spero che mi stiano osservando, così vedranno: vedranno e sapranno, e diranno tutti: “Ma se lei non farebbe male neppure ad una mosca!”.

Pierfrancesco Spanò

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stalker: lo specchio della nostra anima

 

"Stalker" di Tarkovskij è elegante connubio tra cinema, filosofia e teologia
“Stalker” di Tarkovskij è elegante connubio tra cinema, filosofia e teologia   – Voto UVM: 5/5

Ispirato vagamente dal romanzo “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli  Strugackij, Stalker risulta essere il film anti-fantascientifico per eccellenza: imbastendo un lungometraggio  pacato, riflessivo ed esistenzialista, Andrej Tarkovskij ci regala un’alternativa di stampo sovietico al cinema sci-fi americano, imbottito di azione e spesso magniloquente.

Prodotto dalla Mosfil’m (1979) e distribuito in Italia dalla C.I.D.I.F., è attualmente disponibile su Youtube integralmente sia in lingua originale con i sottotitoli in inglese, sia nella versione doppiata in italiano.

Lo scrittore di Stalker
“Lo scrittore” (Anatolij Solonicyn). “Stalker” (1979) di Andrej Tarkovskij.

LA TRAMA

In un imprecisato luogo dell’est Europa, un intellettuale ed uno scienziato decidono di avventurarsi in un sito protetto e difeso dall’esercito, la cosiddetta “Zona”, poiché si pensa che al suo interno ci sia una “Stanza” miracolosa che ha il potere di realizzare il desiderio di chiunque entri al suo interno: si rivolgono dunque, ad uno “stalker”, ovvero un’esperto della “Zona” che durante il film li aiuterà a superare le insidie e le trappole sovrannaturali che costituiscono il pericolo principale della suddetta area.

UNA FANTASCIENZA ATIPICA

Uno dei principi narrativi più attenzionati e misinterpretato da registi e sceneggiatori nell’ultimo secolo, è la cosiddetta “Pistola di Cechov”; il drammaturgo russo sovente consigliava ai propri allievi di eliminare dai loro lavori qualsiasi elemento futile ai fini della narrazione, riassumendo il concetto nell’iconica frase: «Non si dovrebbe mettere un fucile carico sul palco se non sparerà. È sbagliato fare promesse che non si vuole mantenere.»

Questo è ciò che contraddistingue Stalker da qualsiasi altro film fantascientifico: Tarkovskij ci promette una pellicola frenetica, nella quale i nostri protagonisti dovranno superare eroicamente le insidie nascoste nella pericolosa “Zona”, ed alla fine ottenere il loro meritato premio, come nei più classici dei romanzi o poemi epici.

Eppure le promesse non vengono mantenute; l’unica scena movimentata è la fuga dalle forze armate (che assomiglia più ad una partita a scacchi che ad un vero inseguimento) e i personaggi sono accomunati da un’aura di miserevolezza che si amplifica ad ogni estenuante lamentela, ad ogni insicurezza che viene rivelata man mano che i tre si addentrano nella “Zona” (ed è in questo che forse Stalker si avvicina maggiormente ad un’opera di Cechov).

lo stalker di "Stalker"
Lo “Stalker” (Aleksandr Kajdanovskij). “Stalker” (1979) di Andrej Tarkovskij.

IL MIRACOLO DELLA “ZONA”

L’ambientazione di Stalker è una stupenda metafora che riassume già nei primi minuti ciò che diventerà palese solo nelle battute finali: Tarkovskij descrive una realtà sospesa nel tempo, fatiscente ed immersa in uno stato catatonico, che il regista ci restituisce magistralmente impiegando uno sciatto seppiato (ricordando visivamente il cinema espressionista tedesco dei primi anni ’20) che infetta l’inquadratura come un virus, sottolineando lo stato di estrema apatia di ogni essere umano che vediamo a schermo.

È solamente grazie ai paesaggi pittoreschi della “Zona” (un misto di Russia, Estonia e Tagikistan) che la pellicola riacquista il colore e riesce ad esprimere le sue piene potenzialità: nonostante la sua natura soprannaturale, essa non è altro che la personificazione della vita stessa.

D’altronde è lo stesso Tarkovskij ad affermare stizzito di aver fatto di tutto per rendere palese questo concetto; coloro che entrano nella zona spesso non si rendono conto di cosa stia veramente accadendo, possono proseguire con un incosciente moto rettilineo uniforme verso la meta e non trovare alcun pericolo, oppure farsi sopraffare dalle paranoie,  perdersi e vagare all’infinito per poi scoprire di aver semplicemente girato in tondo per tutto il tempo.

 

La prova del "Tritacarne" in Stalker
La prova più insidiosa, il “Tritacarne”. “Stalker” di Andrej Tarkovskij.

I VIAGGIATORI

Ciascuno dei tre protagonisti rappresenta una visione diversa della realtà, spesso conflittuale l’una con l’altra. Il regista, inoltre, evita volontariamente di rivelare i loro nomi per rendere più universali i concetti che esprimeranno durante la pellicola; essi non sono soltanto degli individui, bensì degli archetipi.

Lo scrittore è un intellettuale disilluso da tutto, fatto a pezzi ed incattivito dalla società che lui stesso ancora cerca ardentemente di impressionare; ciò che cerca è l’ispirazione, ma non sa neanche lui di cosa sia composta, né tantomeno come si trovi. Il suo viaggio appare più come un costante tentativo di suicidio, un barattare la propria vita nella speranza di poter trovare finalmente l’appagamento, anche nella morte.

Il professore è uno scienziato scettico, fermamente convinto che la ragione sia la risposta a tutto e che la scienza sia la panacea per tutti i mali; infatti anch’egli intraprende il viaggio con un impreciso obiettivo, ma l’esperienza della “Zona” lo cambierà radicalmente.

                                                                                        E LO STAKER

Lo stalker è la rappresentazione di un fedele appassionato, devoto visceralmente alla “Zona”: per lui non c’è altro, nel momento stesso in cui ritorna al mondo esterno si sente svuotato del suo vero senso nella vita.

Egli istruisce i suoi due compagni nelle vie della “Zona”, esattamente come il suo maestro (il famigerato “Porcospino”) aveva fatto con lui; la sua conoscenza dei segreti della “Zona” si manifesta nei piccoli gesti, quasi dei riti che egli compie per evitare le trappole, per trovare la strada corretta, persino per ingraziarsi la buona volontà della “Zona”, come se fosse un dio che li giudica costantemente.

Egli non ha mai espresso il suo desiderio, conscio dell’avvertimento del suo maestro: sarebbe come spiegare un trucco di magia dopo averlo eseguito, o rivelare il mistero di Dio ad un fedele. Ecco perché viene definito “stalker”: si limita ad osservare e a traghettare gli altri verso qualcosa che non potrà mai raggiungere, e in questo trova la propria felicità.

Aurelio Mittoro