Cappato indagato per un nuovo caso di aiuto al suicidio: «La condizione del sostegno vitale una trappola dello Stato»

82 anni, ex giornalista toscano e residente a Peschiera Borromeo, il signor Romano era ormai costretto a vivere con forti dolori dovuti al Parkinsonismo atipico dal 2020, malattia che gli impediva di svolgere una qualsiasi attività in autonomia, ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.

«Mio marito Romano è affetto da una grave malattia neurodegenerativa, una forma di Parkinson molto aggressiva che gli ha paralizzato completamente gli arti e che ha prodotto una disfagia molto severa che lo porterà a breve a una alimentazione forzata», ha affermato la moglie di Romano.

Per questo motivo, la famiglia ha scelto di supportare l’uomo nella decisione di porre fine alla sua vita, chiedendo a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, di procedere con il suicidio assistito in Svizzera.

«Ho sempre fatto le mie scelte e ho sempre pensato che la nostra vita ci appartenga, prima ancora che questa frase diventasse centrale nella campagna dell’Associazione Luca Coscioni. Così ho iniziato ad informarmi sulle possibilità di organizzare il mio fine vita nel modo più dignitoso possibile, ma presto mi è stato chiaro che la situazione italiana è più complicata di come potessi pensare. L’opzione di recarmi in Svizzera in clandestinità mi spaventa perché non voglio assolutamente mettere i miei familiari nella condizione di rischiare di affrontare vicissitudini giudiziarie. Trovo però che sottrarre la libertà di scelta in questi casi sia anacronistico e crudele, e non mi arrendo all’idea di non essere libero».

Le condizioni per l’accesso al suicidio assistito

L’uomo, come più volte sottolineato, non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e quindi non rientrava nei casi previsti dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale per l’accesso al suicidio assistito in Italia. Secondo quanto deciso dalla Consulta, infatti, il suicidio assistito sarebbe possibile e legale quando la persona malata che ne fa richiesta risponda a determinati requisiti verificati dal Sistema Sanitario Nazionale:
1) Affetta da una patologia irreversibile.
2) Fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche.
3) Pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
4) Tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.

L’accusa di aiuto al suicidio

Non è la prima volta che ad un soggetto viene negato il trattamento in assenza di uno dei requisiti: è stato anche il caso della signora Elena Altamira, 69enne veneta malata terminale di cancro, aiutata a porre fine alla propria vita dallo stesso Marco Cappato, che risulta adesso nel registro degli indagati con l’accusa di aiuto al suicidio.

Per questo motivo Marco Cappato si è autodenunciato il 26 novembre presso i carabinieri della Compagnia Duomo a Milano per aver portato in una clinica in Svizzera l’uomo, rischiando fino a 12 anni di carcere.

Il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni però afferma che «la trappola nella quale l’82enne stava per cadere definitivamente era quella di acquisire il cosiddetto quarto criterio previsto dalla Corte costituzionale – diventare dipendente dal trattamento di sostegno vitale, ma allo stesso tempo avrebbe perso la capacità di intendere e di volere che è una delle condizioni indispensabili per ottenere l’aiuto alla morte. Questa è una condizione di oggettiva violenza esercitata dallo Stato».

Ha ribadito nuovamente la sua posizione alla trasmissione di Radio 24 “Uno, nessuno, 100Milan”: «Romano aveva due possibilità: morire come non avrebbe mai voluto, cioè incapace di intendere e di volere, attaccato a una Peg come sarebbe stato a breve, oppure morire potendo salutare senza soffrire le persone che lo hanno amato, ovvero la moglie e i figli. Questo è un suicidio? Per me non lo è».

A riguardo è stata intervistata la figlia del signor Romano, Francesca: «Mio papà ha appena confermato la scelta di morire. Io sono arrivata dalla California per essere qui con lui in questi giorni. In California, la scelta che ha fatto mio papà è legale e, nel caso di una malattia come la sua, avrebbe potuto scegliere di morire in casa, circondato dai suoi cari e dalla sua famiglia. Noi abbiamo dovuto fare questo viaggio per venire in Svizzera perché lui potesse fare questa scelta e io spero che in Italia, presto, sia possibile per le persone poter fare questa scelta a casa propria e morire a casa propria, circondate dalle persone care». 

Federica Lizzio

“Verso il diritto di non soffrire?”: Il deputato Trizzino alla conferenza sull’eutanasia

Sabato 27 novembre, nell’Aula Magna del Padiglione F del Policlinico si è tenuto un importante dibattito riguardante l’eutanasia il suicidio assistito.

L’evento dal titolo “Verso il diritto di NON SOFFRIRE?” è stato organizzato dall’Associazione Universitaria Ares con il patrocinio di UniMe.

Lo stesso permetteva il riconoscimento di 0,25 CFU a tutti gli studenti partecipanti.

Le tematiche

I temi affrontati sono stati innumerevoli: si è parlato del Referendum sull’Eutanasia, della sentenza Cappato, degli aspetti penali e di quelli deontologici di queste pratiche e di molto altro ancora. L’obiettivo dell’incontro era quello di porre al centro del dibattito una tematica scottante che chiede a gran voce una soluzione in tempi brevi, ma che purtroppo continua a essere “rimbalzata” dai palazzi del governo.

Marco Cappato: uno dei volti al centro del dibattito.

L’intervento fondamentale in apertura è stato quello dell’onorevole Giorgio Trizzino, eletto alla camera dei deputati nel 2018 con il Movimento 5 Stelle (partito che ha abbandonato lo scorso marzo). Trizzino è stato in prima linea nei reparti e si è interessato personalmente delle pratiche legate al suicidio assistito. L’intervento del deputato si è focalizzato nel chiarire i punti fondamentali da cui partire per poter dibattere di queste tematiche: le definizioni di suicidio assistito, eutanasia e cure palliative. L’onorevole Trizzino ha infatti sottolineato l’errore molto diffuso che vede queste tre pratiche come un unicum.

Il deputato ha iniziato il discorso rimarcando l’importanza delle parole, che, a detta sua, troppo spesso assumono significati diversi da quelli reali, soprattutto nel mondo di internet. Ha poi lanciato un accusa contro l’ignoranza che indebolisce e sterilizza il dibattito riguardo queste tematiche. In molti infatti, a detta dell’onorevole, si lanciano nella discussione pur essendo poco informati sui fatti e che facendo spesso confusione nel distinguere i singoli casi. Lo stesso Trizzino nel suo intervento ha infatti cercato di chiarire meglio le differenze tra le diverse pratiche, parlando dell’eutanasia come di “un’azione o omissione volontaria da parte di un terzo che procura la morte di un malato per alleviarne le sofferenze”. Ha poi specificato come invece il suicidio assistito, sussista “quando un malato si auto-somministra un farmaco con l’aiuto di un soggetto terzo (spesso un medico o un infermiere)”.

L’onorevole ha quindi sottolineato come l’astensione o sospensione di trattamenti non siano eutanasia, e come questo valga anche per la rinuncia all’accanimento terapeutico.

L’onorevole Giorgio Trizzino. Fonte: il Fatto Quotidiano.

Ha poi chiarito l’ultimo concetto, quello inerente alle cure palliative, di cui egli stesso si è occupato lungo il suo percorso lavorativo. Il deputato ha chiarito come questo tipo di cure siano un approccio integrato che mira ad “aiutare il malato in fase avanzata al fine di prevenire dolori e altri problemi, non solo fisici ma anche psicosociali e spirituali”.

In questo senso possono considerarsi cure palliative le terapie specifiche, ma anche alcuni tipi di riabilitazione, sostegno psicologico e quello religioso, tutte pratiche che mirano ad aiutare i pazienti e le loro famiglie.

Il caso Cappato

Poi, attraverso un’introduzione del famigerato caso Cappato, Trizzino si è espresso sul pessimo trattamento che viene riservato a queste tematiche dai suoi colleghi in parlamento, parlando di un vero e proprio “ostruzionismo” della discussione che ne esaspera la situazione.

L’onorevole Trizzino ha poi concluso così il suo intervento.

Il parlamento non ha il coraggio di affrontare questi temi, voi lo avete e io vi ringrazio per questo. Il parlamento non può però sottrarsi a questo obbligo soprattutto se incentivato dalla corte costituzionale”.

Uno degli interventi durante la conferenza.

Il dibattito

In seguito i vari docenti si sono susseguiti in diversi interventi mirati sulle singole materie di interesse.

Il Professore Stefano Agosta, ordinario di Diritto costituzionale è intervenuto sul quesito referendario, provando ad intercettare gli scenari futuri che si profilano per il prossimo anno. Il professore Agosta ha dunque chiarito che l’eventuale abrogazione, prevista dal referendum, colpirebbe solo una parte dell’articolo 579 e che in ogni caso la corte costituzionale potrebbe comunque rifiutare l’abrogazione.
 La Professoressa Marianna Gensabella si è invece occupata degli aspetti etici e morali che sono al centro di una discussione di questo tipo.

La Professoressa Tiziana Vitarelli ha parlato dell’approccio penalistico, sfruttando la vicenda Cappato e dj Fabo come caso di studio.

Il Professore Vincenzo Adamo ha fatto riferimento alla sua lunga esperienza da medico oncologo per riportare la differenza che ha potuto cogliere tra la scelta suicidaria e quella dell’eutanasia in un paziente oncologico affetto da depressione.

Il Professore Alessio Asmundo ha infine trattato gli aspetti deontologici e medico legali di queste pratiche, avvolti da altrettante problematiche e punti oscuri.

Le parole dell’Associazione Ares

Giovanni Savoca e Gabriele Portaro, studenti portavoce di Ares, hanno così commentato il loro evento:

È davvero bello e sorprendere vedere tanti ragazzi impegnarsi in prima persona per la realizzazione di un progetto di questo tipo . In un periodo come quello che abbiamo appena trascorso , in cui la socialità è stata messa da parte a causa della Covid , riuscire a creare un gruppo forte e interessato alle tematiche attuali non è per nulla scontato . Oggi abbiamo dimostrato come da parte dei giovani ci sia sempre un maggior interesse verso tematiche attuali , maggior interesse che si dimostra tramite la nostra partecipazione, impegno e disponibilità al dialogo e all’ascolto . oggi abbiamo avuto l’opportunità di conoscere i punti di vista e le opinioni di diversi esperti .
Alla luce di ciò auspichiamo che si trattino sempre più spesso tematiche così attuali rendono partecipi i giovani favorendone il confronto e la crescita.

Antonio Ardizzone

Suicidio assistito, prima storica applicazione della Sentenza Cappato

Era il 25 settembre 2019 quando la Corte Costituzione italiana stabiliva che non sempre è punibile chi aiuta un’altra persona a morire. Il provvedimento, che prese il nome di Sentenza Cappato, aprì per la prima volta nel nostro ordinamento la strada alla possibilità di ricorrere al suicidio assistito. E questa settimana quella strada è stata praticata per la prima volta. Il Tribunale di Ancona ha infatti accolto la richiesta di un 43enne tetraplegico di ricorrere a tale pratica.

fonte: TuttoVisure.it

La Sentenza del Tribunale di Ancona

L’uomo, 43enne marchigiano, è ormai da 10 anni immobilizzato a letto. Una condizione irreversibile e dovuta a un incidente stradale. Quest’ultimo però non ha intaccato la sua capacità di intendere e di volere. Ben conscio del proprio stato e venuto a sapere dell’esito del processo a carico di Marco Cappato, l’uomo ha infatti fatto richiesta all’Azienda Sanitaria Locale (ASL) di potere accedere al suicidio assistito. Richiesta però respinta dalla struttura che si è rifiutata di attivare le procedure previste all’interno della stessa sentenza della Corte Costituzione.

In seguito al rifiuto da parte dell’ASL delle Marche, l’uomo si è quindi rivolto al tribunale del capoluogo marchigiano. I giudici hanno però respinto in primo grado la richiesta. Questo perché, per i giudici, sebbene il 43enne possedesse tutti i requisiti previsti all’interno della sentenza Cappato la sussistenza degli stessi non comporta automaticamente un obbligo nei confronti della struttura sanitaria e del suo personale di garantire la procedura di assistenza al suicidio. Posizione del Tribunale che però è cambiata successivamente alla presentazione di un reclamo da parte dello stesso paziente e che adesso obbliga l’ASL a procedere all’erogazione della procedura previa la verifica della sussistenza dei requisiti indicati.

 

Eutanasia (attiva e passiva) e suicidio assistito nell’ordinamento italiano

Nel nostro Paese manca una legge che riconosca l’eutanasia attiva e il suicidio assistito. Pratiche che permetterebbero, rispettivamente, la somministrazione di un farmaco letale da parte del personale della struttura sanitaria e l’assunzione del farmaco autonomamente da parte del paziente. Ad essere invece garantito è il diritto all’eutanasia passiva che prevede unicamente lo spegnimento dei macchinari che tengono in vita il soggetto e la sospensione delle cure.

fonte: AGI

Marco Cappato e la battaglia per i diritti civili

Nome che si è legato inscindibilmente alla lotta per il riconoscimento in Italia proprio dell’eutanasia e del suicidio assistito è quello di Marco Cappato. Da anni attivo nella lotta per i diritti civili, la sua figura è balzata agli onori della cronaca con il cosiddetto “caso Dj Fabo“. Cappato ha infatti accompagnato in Svizzera Fabiano Antoniani per mettere fine alla sua vita come da lui richiesto più volte. Rientrato successivamente in Italia, questi si è consegnato alle autorità autodenunciandosi per il reato di aiuto al suicidio (art.580 del codice penale per cui è prevista una pena tra i 6 e i 12 anni). Dal processo che ne è seguito, come da lui stesso voluto, si è originato un notevole dibattito che si sperava potesse portare il nostro legislatore a produrre una legge sul fine vita. Purtroppo però la legge ancora non vi è. Come spesso accade quando l’oggetto del dialogo rappresenta un tema divisivo e rischioso per il consenso la classe politica si è defilata da qualsiasi presa di posizione. Ma dove i partiti non arrivano spesso i giudici sono già avanti. La Corte Costituzionale, chiamata in causa dal Tribunale di Milano proprio nell’ambito del caso Cappato circa la legittimità costituzionale della non distinzione nell’articolo 580 del codice penale dell’aiuto e dall’assistenza al suicidio, ha emesso la famosa sentenza 242 del 2019 denominata per l’appunto “Sentenza Cappato”.

Marco Cappato durante il processo a suo carico, fonte: Avvenire

La Sentenza Cappato

La sentenza Cappato, la n°242 del 2019, riconosce un’area di “non punibilità” all’interno del 580 c.p. Viene infatti esclusa la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale”. 

Sostanzialmente il suicidio assistito può essere concesso al paziente nel caso in cui questi:

  • sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale;
  • sia affetto da una patologia irreversibile la quale procuri al paziente sofferenze fisiche e psicologiche reputate dallo stesso intollerabili;
  • che nonostante le proprie condizioni il paziente sia capace di intendere e di volere in maniera libera e consapevole.

Le implicazioni della sentenza sono importantissime perché, grazie ad essa, chi si trova in condizioni simili a quelle di Dj Fabo o del 43enne marchigiano ed esprime l’intenzione di porre fine alla propria esistenza non sarà più costretto a recarsi all’estero per realizzare la sua volontà. Così facendo, inoltre, chi lo assiste non solo non dovrà sobbarcarsi le spese necessarie (trasporto, alloggio, clinica) ma non rischierà nemmeno una pena non indifferente (tra i 6 e i 12 anni; la medesima per il reato di violenza sessuale ex. art.609bis del c.p.) solamente per un atto di civiltà.

Filippo Giletto

 

 

ASL rifiuta richiesta di aiuto al suicidio. L’associazione Coscioni: «È contro la costituzione»

Dieci anni fa la vita di un uomo – di cui non si riporta il nome per motivi legali – venne sconvolta da un incidente stradale che gli causò la frattura della colonna vertebrale e lesione al midollo spinale. Ora, quarantaduenne e tetraplegico, chiede di poter ricorrere al suicidio assistito alla Asl di riferimento, che però gli nega la richiesta.

Immediata è stata la reazione di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Coscioni, organizzazione no profit impegnata in numerose battaglie etiche, che ha lanciato un appello al Ministro della Salute Speranza:

“Sta accadendo che una persona gravemente malata, che sta patendo sofferenze insopportabili, chiede di morire e di poter essere aiutato a farlo. È un suo diritto dopo la sentenza della Corte Costituzionale e invece il servizio sanitario nazionale, contro la Costituzione, glielo impedisce.”

Marco Cappato e Filomena Gallo (fonte: Associazione Coscioni)

Filomena Gallo, avvocato e segretario dell’Associazione, ribadisce che quella dell’Asl è

una risposta che disconosce gravemente quanto annunciato dalla sentenza 242\2019 della Corte Costituzionale, che, con valore di legge, stabilisce dei passaggi specifici per tutti quei pazienti affetti da patologie irreversibili che in determinate condizioni, possono far richiesta di porre fine alle proprie sofferenza, attraverso un iter tramite SSL.

LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Nel comunicato in cui l’ASL sostiene l’impedimento nell’aiuto a morire, tuttavia, viene richiamata una realtà che certamente appare singolare. Se da un lato infatti è grazie alla sentenza 242 del 2019 che è stata fatta chiarezza sulle condizioni entro cui non è possibile punire l’aiuto al suicidio se si tratta di “una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, dall’altro lato però, proprio perché in attesa di una normativa disposta dal Parlamento, essa ha tentato di porre rimedio disciplinando esclusivamente la legge sulla DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento).

Le DAT, più comunemente conosciute con il nome di “testamento biologico” o “biotestamento” ed entrate in vigore il 31 gennaio 2018, lasciano al paziente, una volta acquisita conoscenza dell’incapacità prossima di autodeterminarsi, la libertà di rifiuto dei trattamenti sanitari necessari alla sua sopravvivenza e la somministrazione inoltre di cure palliative, intese come

l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.

La verifica di questi casi naturalmente è lasciata nelle mani non solo del comitato etico territorialmente competente ma anche delle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, il cui accertamento è inoltre stato ottenuto –anche se a 38 giorni di distanza- da un altro caso seguito dall’Associazione Coscioni. Si trattava in quel caso di un uomo di trentotto anni le cui speranze di controllare le sofferenze terribili a cui è sottoposto da anni, in mancanza di terapie che possano liberarlo dalla prigione in cui si sente rinchiuso, risiedono solo nell’impiego di cure palliative. Tuttavia, afferma l’avvocato Gallo,

Se accettasse la Dat, morirebbe dopo enormi sofferenze e tanti giorni di attesa”.

Questa affermazione spiega perfettamente perché, rifiuto alle cure e suicidio assistito sono due cose ben distinte e separate. Se da un lato, infatti, la legge n. 219 del 2017 riconosce il diritto del rifiuto alle cure e ad ogni trattamento sanitario – in toto o in parte – a ogni persona informata e capace di agire è vero anche che se il soggetto è strettamente dipendente dai “sostegni vitali”, alimentazione e idratazione il processo di fine vita può avvenire in maniera lenta e logorante e, secondo alcune visioni, in maniera non dignitosa.

Il suicidio assistito – che si distingue a sua volta dall’eutanasia- invece limita le sofferenze dei soggetti che hanno deciso di porre fine alla propria vita e viene compiuto dal soggetto stesso (per questo assimilabile al suicidio).

Questa distinzione ha caratterizzato la richiesta di morire di Dj Fabo, caso che ha aperto la strada all’accettazione del suicidio assistito in Italia.

LA VICENDA DJ FABO

La necessità di una legge sul suicidio assistito ha avuto echi profondissimi in Italia soprattutto grazie proprio al caso Dj Fabo e Marco Cappato. Quest’ultimo, autodenunciandosi nel febbraio del 2017, sollevò infatti la questione circa la legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, in relazione all’istigazione e aiuto al suicidio, per il quale sarebbe stato punito dai cinque ai dodici anni di carcere per aver aiutato a morire Dj Fabo in una clinica specializzata in Svizzera, attraverso l’assunzione di un farmaco letale. Dj Fabo, infatti, richiedeva coscientemente di voler morire subito – con il suicidio medicalmente assistito –  senza sopportare lo stato di agonia mentale e fisica – sua e dei suoi familiari – di tempo indefinito che si sarebbe verificata rinunciando alle cure e a seguito della sospensione dei sostegni vitali.

 

Marco Cappato abbraccia la fidanzata di Dj Fabo, Valeria Imbrogno, dopo l’assoluzione dell’esponente radicale. (fonte: Repubblica Milano)

La Corte costituzionale, dopo la pronuncia della Corte d’Assise d’Appello di Milano, infatti, con l’ordinanza 207 del 16 novembre 2018, ha sottolineato come, in assoluto, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non possa essere ritenuta incompatibile con la Costituzione e, dunque, non equiparabile all’atto di istigazione al suicidio, anche se solo nelle condizioni in cui una “persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

Infatti, la norma era stata formulata non contemplando situazioni inimmaginabili all’epoca in cui fu introdotta, ovvero situazioni in cui gli sviluppi della scienza medica e della tecnologia hanno reso possibile strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali.

Il suicidio medicalmente assistito è dunque di fatto un diritto già riconosciuto nel nostro paese ma tuttavia trova uno spazio di applicazione assai problematico a causa dell’assenza di una norma che stabilisca una volta per tutte il dovere dello Stato e il rispetto di una scelta autonoma quale quella di abbandonare la vita con la stessa libertà con cui si è scelto di viverla. In virtù di ciò Cappato afferma che

 “Insieme a Mina Welby e Gustavo Fraticelli ribadiamo pubblicamente l’impegno a portare avanti nuove disobbedienze civili. Se queste persone che si sono rivolte a noi – e tutte le altre che vorranno chiedere il nostro aiuto – non troveranno risposte alle quali hanno diritto, nei tempi giusti e rispettosi della loro malattia e del loro dolore, noi li aiuteremo ad andare in Svizzera, per porre fine alle loro sofferenze.”

Alessia Vaccarella

 

Ruby bis, l’esito della sentenza

Nel pomeriggio del 7 maggio la Corte d’Appello ha emesso la sentenza: condanne lievemente ridotte per Fede e Minetti, ora rispettivamente a 4 anni e 7 mesi e a 2 anni e 10 mesi.

L’avvocato di Nicole MinettiPasquale Pantano, ha esordito così davanti alla Corte d’Appello di Milano: “Come nel caso di dj Fabo, morto in Svizzera con il suicidio assistito, Marco Cappato ha solo aiutato quell’uomo nell’esercizio di un diritto, anche Nicole Minetti, ex consigliera lombarda, ha solo dato un aiuto alle giovani ospiti alle serate di Silvio Berlusconi ad Arcore “nell’esercizio libero della prostituzione”. Una pratica che rientrerebbe in una generica libertà di autodeterminazione.” 

 

Il legale, sostenendo questo scioccante e forzato parallelismo ha scatenato nell’opinione pubblica una massiccia indignazione: nonostante si trovi giusto che ogni imputato abbia diritto ad essere difeso dal punto di vista della libertà, non è accettabile che un avvocato possa porre sullo stesso piano suicidio assistito e prostituzione.

Per sostenere la tesi, Pantano, richiamando l’ordinanza nel processo a Cappato «sulla libertà di decidere della propria vita» , afferma:

«Non si comprende come possa essere criminologicamente rilevante aiutare qualcuno nell’esercizio libero della prostituzione, in una società che si è evoluta rispetto alla prostituzione degli anni ’40 a cui si riferisce la legge Merlin. All’epoca – ha aggiunto – non c’erano le escort che oggi si offrono liberamente». E ancora: «Se non c’è violazione della sfera di libertà, come avviene invece nella tratta delle prostitute ‘schiave’, non c’è reato».

La difesa della Minetti, così come quella di Emilio Fede – anch’egli sotto processo – ha chiesto prima l’assoluzione, per poi sollevare la questione del favoreggiamento alla prostituzione «quando non c’è costrizione ma libero esercizio».

Per questo motivo nella scorsa udienza il sostituto procuratore generale, Daniela Meliota, ha insistito sulla tesi del “sistema prostitutivo” per chiedere: sia di respingere la questione di illegittimità costituzionale sia la conferma delle condanne per l’ex direttore del Tg4 e per l’ex consigliera lombarda, affermando che:

“Oggi non è possibile pensare a un’attività di libera prostituzione”

Ciò che più indigna e lascia sconcertati è il mancato rispetto mostrato verso la questione etica, per cui un avvocato ha rischiato la galera autodenunciandosi per un caso che seppur difeso dalla rimarrà sempre sporco.

Francesca Grasso

Cristina Geraci