La diagnosi di cancro non è mai stata così precoce

Sanjiv Gambhir, direttore del Canary Centre at Stanford for Cancer Early Detection

Un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine ha messo a punto un nuovo metodo per diagnosticare precocemente il cancroLo studio è stato pubblicato il 18 marzo su Nature Biotechnology e vede tra i suoi autori principali Sanjiv “Sam” Gambhir, direttore del Canary Centre at Stanford for Cancer Early Detection, e Amin Aalipour, uno specializzando. 

“Abbiamo seguito la diagnosi precoce del cancro per anni, ma questa volta ci siamo arrivati da un’altra angolazione, ha annunciato Sam Gambhir. E forse, in un terreno già molto battuto ma ancora arduo, è questo il segreto, cambiare prospettiva. 

L’arma migliore che ad oggi la medicina offre per la cura dei tumori è la diagnosi precoce. Basti pensare a come un frequentissimo cancro al seno al primo stadio assicuri una sopravvivenza a 5 anni di oltre il 95%. Lo stesso tumore, diagnosticato al quarto stadio, abbassa l’aspettativa al 5%. Da qui l’importanza della prevenzione e dei controlli di routine, e di pari passo la necessità di strumenti sempre più precisi e complessi.

La ricerca ha fatto innumerevoli passi in avanti in quest’ambito, ma probabilmente non saranno mai abbastanza. Per la diagnosi di tumore, accanto ai mezzi radiologici (TC, PET, RMN), vengono ricercati dei biomarcatori tumoralimolecole che sono associate alla presenza di un tumore. Sono esami poco invasivi e possono essere di grande aiuto per il clinico, sia per la diagnosi che per la terapia. Hanno però una specificità ed una sensibilità poco affidabile, per questo necessitano sempre di una convalida con i mezzi tradizionali. Il gruppo di ricercatori guidati da Sam Gambhir ha sperimentato un curioso metodo per incrementare in modo significativo l’efficienza della diagnosi precoce per alcuni fra i tumori più frequenti e temibili per l’uomo: il carcinoma mammario ed il cancro del colon.

Alcuni dei più comuni marker tumorali

La squadra ha giocato sui punti di forza insiti nei macrofagi, cellule del sistema immunitario; molte cellule immunitarie, compresi i macrofagi, cambiano a livello genetico quando si preparano a svolgere compiti immunologici. Alcuni geni si attivano quando un macrofago entra in contatto con l’ambiente tumorale, aiutandolo ad eliminare le cellule morte o anomale. Nello specifico, i macrofagi possiedono due fenotipi: M1, associato all’infiammazione comune (come per una ferita), ed M2, associati ad una neoplasia. 

Quando uno di questi macrofagi incontra il tumore e muta l’aspetto verso un fenotipo M2, si avvia un meccanismo molecolare che porta all’attivazione di vari promotori (il promotore è una sequenza di DNA che innesca l’attivazione genica). Una volta che un promotore viene attivato, il gene viene espresso sotto forma di una molecola.

Nello studio, tramite tecniche di ingegneria genica, si è utilizzato il promoter del gene arginasi-1 come attivatore di un gene diverso dal normale, quello per la luciferasi (molecola luminescente, la stessa che fa brillare le lucciole!). I macrofagi, opportunamente stimolati dal tumore, liberano questa molecola che può essere rintracciata da immagini a bioluminescenza e quantificata nel sangue tramite un semplice prelievo.  

Gambhir e il suo team hanno testato i macrofagi modificati nei topi, scoprendo che potevano rilevare tumori alla mammella di solo 4 millimetri di diametro. In particolare, rilevano: tumori fino a 50 mm³ nel 100% dei casi, tumori tra i 25-50 mm³ nel 85%, tumori sotto i 25 mm³ nel 70%.

Questo metodo di immunodiagnostica ha avuto risultati eccezionali rispetto ad altri metodi convenzionali: il cfDNA (molecole di DNA tumorale liberate nel sangue) raggiunge un significato diagnostico quando il tumore ha un volume di 1500-2000 mm³; una scansione PET è capace di rilevare tumori con un volume minimo di 200 mm³; il CEA (antigene carcino embrionale) è alterato quando il tumore ha già superato i 100 mm³ (e presenta molti limiti di specificità).

Tuttavia non è tutto cancro ciò che luccica! Anche se una fiala di prelievo è fluorescente e si registrano livelli anomali di luciferasi, non può ancora essere posta una diagnosi di certezza. Infatti i macrofagi possono attivare questi geni modificati anche quando stimolati da una manciata di cellule atipiche o da una semplice ferita: si possono avere falsi positivi. 

Gli studiosi pongono come prossimo obbiettivo quello di rendere la metodica più specifica, così da poter eliminare il rischio di avere questi errori e sopravvalutare o sottovalutare la reale patologia. Inoltre il metodo può essere implementato con altre cellule immunitarie, come i linfociti T e B, e con altri stimoli target. L’intenzione è quella di estendere l’utilizzo dello strumento a tumori e patologie diverse. All’orizzonte i ricercatori immaginano di poter rendere questo strumento il più versatile ed economico possibile, così da poter essere utilizzato su larga scala.

Antonio Nuccio

 

Bibliografia: https://www.nature.com/articles/s41587-019-0064-8

 

Addio Lorenzo, morto il giovane medico affetto da linfoma che aveva raccolto i fondi per fare l’immunoterapia negli Stati Uniti

La speranza è l’ultima a morire e questo ragazzo, in tal senso, rappresenta un gran esempio.

Lorenzo Farinelli era un giovane medico di Ancona, che a poco più di 30 anni ha dovuto fare i conti con una diagnosi: linfoma diffuso a grandi cellule di tipo B. Lo scorso 1 Febbraio ci ha raccontato brevemente la sua storia in un video registrato dopo “tanta chemioterapia, radioterapia, e immunoterapia“, le quali si sono rivelate inutili per un tumore che si è mostrato resistente. Il suo appello è stato condiviso da associazioni, sportivi e politici di tutti i colori. Nonostante avesse “cominciato a perdere l’autonomia, l’uso delle gambe parzialmente, la capacità di andare in bagno da solo” il messaggio appariva ben chiaro: “Non è finita finché non è finita“. Lorenzo ha continuato a sperare e lottare fino alla fine, tanto da chiedere, attraverso il video, un supporto economico per viaggiare negli Stati Uniti ed accedere ad una terapia chiamata CAR (Chimeric Antigen Receptor) T Cell Therapy.

La metodica, che rientra nell’immunoterapia cellulare, è stata approvata nel 2017 negli Stati Uniti per il trattamento di tumori resistenti come quello di Lorenzo, e rappresenta, al momento, l’ultima speranza per tutte le persone nella sua condizione. Si sfruttano delle cellule citotossiche (linfociti T) del sistema immunitario del paziente stesso, le quali vengono estratte, modificate e reimmesse nel paziente. Queste cellule sono capaci attraverso un recettore “chimerico” di riconoscere dei segnali sulla superficie delle cellule tumorali e ucciderle selettivamente. Gli studi hanno mostrato, per la condizione di Lorenzo, una sopravvivenza a 5 anni del 60% dei pazienti sottoposti al trattamento, che altrimenti avrebbero avuto una prognosi molto sfavorevole. Si tratta comunque di una possibilità, molto costosa, ristretta a pazienti che non hanno beneficiato delle terapie classiche che al momento risulta approvata solo per due tipi di tumori. Dallo scorso anno esiste la possibilità teorica di somministrare la terapia anche in Europa nonostante la situazione sia burocraticamente nebulosa e i costi, particolarmente alti, a carico dei pazienti; ma questi sono comunque solo i primi passi.

Tuttavia dopo essere tornato a casa dall’ospedale in previsione della partenza, mentre erano in preparazione tutti i documenti per volare negli Stati Uniti, Lorenzo è morto l’11 Febbraio a causa di alcune complicanze legate alla sua condizione.

Nella lotta contro il tempo, questa volta, ha vinto il tempo. Piange la famiglia, piange Ancona, piange chiunque fosse a sostegno della causa, anche solo moralmente.

Come dichiarato nella pagina raccolta fondi, i soldi donati verranno devoluti in beneficenza per promuovere la ricerca o per supportare cause parallele a quella di Lorenzo. Perché, comunque, non si deve mai smettere di lottare e di sperare.

Ciao Lorenzo.

Antonino Micari

Qual è il futuro della lotta al cancro? – In esclusiva il Prof. Alberto Mantovani

“Immunità e salute: sfide, dal cancro ai vaccini”, questo il titolo della Lectio magistralis che il Professor Alberto Mantovani, Direttore Scientifico di Humanitas, Accademico dei Lincei e Socio corrispondente dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, ha tenuto lunedì 26 Novembre nell’Aula Magna dell’Ateneo. Di fronte ad una platea affollata di medici, professori, specializzandi e studenti ha riassunto in una breve ma esaustiva trattazione, i traguardi di quello che lui ama ricordare come un “sogno”: l’immunologia applicata all’oncologia. Il Prof. Mantovani è lo scienziato italiano più citato al mondo, vanta pubblicazioni sulle maggiori riviste scientifiche mondiali, è stato insignito di numerosi riconoscimenti, tra gli ultimi il Premio Milstein, International Cytokine and Interferon Society, nel 2015, il Premio Roma allo sviluppo del Paese, nel 2016 ed il Premio Zanibelli – Leggi in salute, nel 2017, ma nonostante ciò ripete più volte di essere, citando Bernardo di Chartres, “un nano su spalle di giganti” . Noi di UniVersoMe siamo riusciti ad incontrare il Prof. Mantovani poco prima della lectio ed a fargli qualche domanda. Il professore ci ha risposto dedicandoci tutta la sua disponibilità ed esperienza.

Prof. Mantovani, i suoi studi hanno portato ad una nuova concezione della patologia neoplastica, mostrando come e quanto il tumore, per crescere, abbia bisogno di un microambiente favorevole e di un sistema immunitario “corrotto” in qualche suo elemento. Qual è il ruolo di questi due elementi nel cancro?

All’inizio del nuovo millennio l’essenza di essere cancro era stata cristallizzata in sei proprietà che avevano tutte a che vedere con la cellula tumorale. Gli immunologi, le persone come me, la pensavano un po’ diversamente. Nei primi anni del 2000 è stata accettata una visione un po’ diversa, per cui il microambiente e la nicchia ecologica in cui cresce la cellula tumorale vengono considerati di pari importanza alla cellula tumorale stessa. Ecco, della nicchia ecologica fanno parte, in particolare, componenti cellulari e molecolari della cascata dell’infiammazione. Io uso una metafora “se gli eventi genetici sono il cerino che accende l’incendio che chiamiamo cancro, i meccanismi dell’infiammazione sono la benzina che tiene acceso l’incendio”.

L’immunoterapia sembra essere la strada più promettente per una cura del cancro sempre più efficace. Tuttavia, ad oggi, lo è stata solo in un quinto dei casi dei pazienti eleggibili a questo tipo di terapia. Quali sono le strade percorse finora che hanno portato a questo piccolo ma fondamentale traguardo?

Abbiamo avuto accesso a questo nuovo mondo sostanzialmente attraverso due strade: uno è un cambio di paradigma, ovvero, come dicevo, si è accettato che il nostro sistema immunitario lavori tutto il giorno per eliminare cellule tumorali, e che il microambiente sia fondamentale per la crescita tumorale; la seconda è stata identificare i freni del sistema immunitario. Il sistema immunitario è come una straordinaria automobile, capace di viaggiare ad elevata velocità: per funzionare bene e non andare fuori strada ha bisogno di acceleratori che la fanno partire e correre, ma anche di freni che le consentono di rallentare e, quando è il caso, fermarsi. Al momento siamo capaci di togliere due tra i tanti freni al sistema immunitario (CTLA4 e PD-1/PD-L1 ndr) e questi sono bastati a raggiungere questo piccolo obbiettivo. Stiamo oggi esplorando un continente nuovo.

Ha definito, nel suo ultimo libro, il tumore come un “bersaglio mobile”. In che modo sarà possibile aumentare l’efficacia dei trattamenti ed aumentare il range di pazienti eleggibili alla terapia?

La cellula T ha molti altri freni, ed altre cellule possono essere frenate. Due nuovi freni sono stati scoperti qui in Italia. Uno nel laboratorio di Carlo Riccardi a Perugia, GITR, ed un uno nel mio, IL-1R8. Si sta affacciando in questo periodo un mio editoriale sul New England Journal of Medicine in cui prospettiamo una nuova “era” di immunocheckpoints sulla cellula T, che sono al momento una promessa per il futuro dell’immunoterapia. Abbiamo anche le cellule dell’immunità innata, in particolar modo i linfociti NK, che possono essere stimolati in senso anti-tumorale. Infine la regolazione delle cellule mieloidi le quali, modificate eliminando una proteina segnale “Don’t eat me signal” CD47, hanno dato risultati clinici straordinari.

Si può ipotizzare quindi un futuro vaccino anti-cancro?

Non un vaccino anti-cancro, ma diversi vaccini anti-cancro, personalizzati. Non dimentichiamo però che esistono già due vaccini: il vaccino contro il virus del papilloma umano (HPV) e contro l’epatite B (HBV) che sono sicuramente preventivi nei confronti del cancro della cervice uterina (ma non solo) e del fegato provocati da questi virus. La prossima speranza è quella di un vaccino contro l’Helicobacter Pylori, tra le maggiori cause di cancro allo stomaco. Questi sono vaccini preventivi. I vaccini terapeutici, quelli che invece potrebbero curare il cancro quando è già presente, sono una sfida per il futuro della ricerca.

Cento anni fa con l’avvento degli antibiotici, la medicina si è plasmata intorno allo schema contrai una malattia -> prendi un farmaco -> elimini l’agente patogeno. Una metafora talmente potete che per un secolo ha guidato la farmacopea secondo questa successione. Oggi però sembra che la gerarchia del paradigma terapeutico possa essere invertita in senso ascendente. Lei ritiene che il futuro della medicina sia quindi concentrarci su una triade cellula -> organismo -> ambiente ?

Certamente è il futuro, ma questo dovrebbe già essere il presente! 
Le risorse dedicate alla prevenzione sanitaria sono ancora insufficienti in tutto il mondo occidentale. Prevenzione che però va intesa in senso trasversale così come le malattie più frequenti oggi sono sostenute da meccanismi trasversali. Vi invito a leggere il lavoro CANTOS di Paul M. Ridker pubblicato su Lancet. Un trial-clinico per la prevenzione delle complicanze dei fenomeni aterosclerotici che mostra che bloccando l’interleuchina-1 con un anticorpo monoclonale diminuisce del 50% la mortalità di cancro del polmone, si riduce il rischio di gotta, artrite e tante altre condizioni.

Per me l’immunologia è la metanarrazione della medicina contemporanea. Se non esistessero il fumo attivo e quello passivo il cancro al polmone sarebbe un tumore raro. Io abito all’ottavo piano e se non ho le valigie prendo sempre le scale, mentre oggi i bambini si alimentano male e fanno una vita sedentaria già dalla tenera età, tanto che il 10% dei bambini italiani ad oggi è obeso e tutto questo lo pagheremo caro fra qualche anno.

In definitiva, anche se migliorare l’ambiente in senso più lato è la sfida del futuro, per iniziare bastano poche raccomandazioni che io riassumo nella formula 0-5-30:
– 0 sigarette
– 5 volte al giorno frutta e verdura fresca  
– 30 minuti al giorno di esercizio fisico.


Grazie ad i suoi studi oggi possiamo affermare che un ambiente infiammatorio favorisce la progressione del cancro. In termini evoluzionistici, lei come si spiega che un meccanismo innato difensivo come l’infiammazione abbia in questi casi un effetto negativo?

È stato pubblicato tempo fa un lavoro molto importante sul New England in cui veniva detto che “il cancro sono ferite che non si rimarginano”. Ci si riferisce al fatto che l’oncogenesi è un meccanismo di riparo dei tessuti che va fuoristrada. La riparazione dei tessuti è una priorità per l’organismo ma quando la stimolazione della crescita cellulare è esagerata l’ambiente infiammatorio ha una azione oncoprogressiva.

Nel suo libro “Non aver paura di sognare” stila un decalogo per gli aspiranti scienziati. Quali sono i tre punti che, secondo lei, sono necessari per i giovani che vogliono cimentarsi in questa avventura?

Il primo senza dubbio la passione. Sono innamorato del mio lavoro. Anche se sono vecchio (ride), ieri ho iniziato a lavorare nel primo mattino, dopo un’ora di corsa, ed ho finito alle 23, perché sono appassionato di ciò che faccio! Il secondo è il rispetto dei dati, ed è questo un messaggio che, chi fa medicina e chi fa scienza, deve sempre osservare. E’ in verità un messaggio che dò all’intera società, che avrebbe bisogno di imparare a tenere in considerazione i dati. In ultimo, non per importanza, la voglia di cambiare il mondo intorno a sè, e chi fa scienza e chi fa medicina deve aver voglia di cambiarlo.

Alessio Gugliotta,Antonio Nuccio

Ettore Castronovo: una vita donata alla ricerca

Ettore Castronovo, radiologo e scienziato messinese, è conosciuto per le sue ricerche sull’impiego dei raggi x nella lotta ai tumori.

Primogenito di tre fratelli, nasce a Gesso il 21 gennaio del 1894. Frequenta la facoltà di medicina presso l’università di Roma, ma abbandona gli studi per partire come volontario nella fanteria allo scoppio della prima guerra mondiale.
Nel 1917 completa gli studi di medicina a Padova e dopo essere stato nominato ufficiale medico, parte con le truppe italiane in Francia.
L’anno successivo inizia la sua attività come radiologo presso l’ospedale militare di Messina. La sua permanenza nella città dello Stretto non dura molto, infatti tre anni dopo torna a Padova per lavorare come assistente universitario.
L’anno successivo si stabilisce definitivamente a Messina, dove inizia ad occuparsi di ricerca nel campo della radioterapia oncologica. Dirige per cinque anni il servizio radiologico dell’ospedale Puglisi Allegra ed istituisce il primo laboratorio di Radiodiagnostica e Radioterapia dei tumori della città.
Nel giugno del 1927 ottiene l’incarico della direzione dell’Istituto di Radiologia dell’Università di Messina e nonostante i gravosi impegni accademici, prosegue senza sosta la sua attività di ricerca presso l’ospedale Piemonte. È per lui il periodo più fruttuoso come ricercatore, diviene conosciuto a livello internazionale per le sue pubblicazioni su delle innovative applicazioni della radioterapia nella cura del cancro, campo che a quel tempo era poco sviluppato.

Grazie al grande contributo da lui dato nella ricerca in campo radiologico ed oncologico, dal 1946 al 1950 diviene vicepresidente della Società Italiana di Radiologia Medica e nel 1947 viene nominato presidente della Lega Italiana per la Lotta ai Tumori. In questa prospettiva il professore Castronovo diviene promotore di importanti innovazioni per la realtà oncologica siciliana. Il suo sogno, in occasione della costruzione del Policlinico di Messina è di trasformare l’Ospedale Piemonte in un Istituto oncologico di riferimento per tutta la Sicilia che si occupi sia della cura degli ammalati che della ricerca scientifica.

Nel 1948 a causa della reiterata esposizione alle radiazioni subisce l’amputazione di due dita della mano sinistra. Nonostante l’accaduto, nei successivi 6 anni continua a lavorare senza sosta sia nell’ambito della ricerca che in quello accademico. Le successive esposizioni riducono le sue mani a due monconi piagate :le stesse mani che sono scolpite sulla tomba del professore nel cimitero monumentale di Messina . Due mani di marmo bianco che squarciano un blocco di granito nero, simbolo del lavoro instancabile nella lotta contro il cancro di un uomo straordinario.

Il professore Castronovo si spegne nel 1954 a causa dello stesso male contro il quale aveva lottato per tutta la vita. Il suo operato rimane fonte di ispirazione per tutti i medici messinesi.

Renata Cuzzola

La nuova scoperta nella lotta al cancro. Orgoglio italiano (fuggito) su Nature

Correva l’anno 2000 quando, sulle pagine de La Repubblica, nei primi giorni di ottobre, compariva l’ennesimo articolo sulla fuga di cervelli italiani all’estero.

Forse, il Prof. Antonio Iavarone e la moglie Anna Lasorella, autori di quell’articolo-denuncia, non immaginavano che dopo vent’anni la situazione per gli studenti e ricercatori italiani sarebbe rimasta la stessa, anzi peggiorata.

I due lavoravano al Gemelli di Roma, presso il reparto di Oncologia pediatrica, dove portavano avanti ricerche estremamente innovative riguardo tumori pediatrici: il loro laboratorio “non aveva nulla da invidiare a quelli americani” affermava con una nota di rabbia e dispiacere Lavarone ai tempi. Fin quando, per il solito nepotismo e ostruzionismo, furono costretti a percorrere vie legali contro il primario di allora. Come è facile immaginare, nonostante la causa fu vinta, quel laboratorio non sarebbe stato più loro, e “l’esilio” oltre oceano si fece obbligatorio.

Oggi, 18 anni dopo, il gruppo di ricerca guidato dal Prof. Iavarone alla Columbia University a New York (Department of Neurology and Institute for Cancer Genetics) conta una equipe di circa 20 ricercatori, di cui 8 italiani. Stefano Pagnotta, Marco Russo, Luciano Garofano, Angelica Castano, Luigi Cerulo, Michele Ceccarelli, Anna Lasorella, Antonio Iavarone, sono loro gli italiani che hanno inaugurato il nuovo anno con la pubblicazione sulla rivista Nature di una scoperta che offre un potenziale del tutto nuovo per la terapia contro il cancro, e che apre strade finora inesplorate. Il 3 gennaio, infatti, l’articolo A metabolic function of FGFR3-TACC3 gene fusions in cancer annunciava, sulla rinomata rivista scientifica, l’avvenuta “identificazione della funzione di un’importante alterazione genetica che causa una consistente percentuale di diversi tipi di tumori, fra cui il glioblastoma, il più aggressivo e letale di quelli al cervello”. È difatti, il culmine di un lavoro che va avanti da anni, frutto di una serie di mattoncini impilati a poco a poco grazie anche all’utilizzo di tecniche complesse ed estremamente innovative, come l’analisi dei Big Data: lo studio delle sequenze genetiche dei tumori, catalogati dal progetto americano The Cancer Genome Atlas (Tcga) di cui Iavarone ricopre la carica di coordinatore per la sezione riguardante i tumori al cervello.

Scendendo più nei dettagli, già nel 2012 era stata descritta, dallo stesso gruppo di Iavarone, la fusione dei geni fgfr3-tacc3 (abbreviata f3-t3) nel 3% dei casi di glioblastoma umano. Il primo è un gene che codifica per la proteina “Fibroblast Growth Factor Receptor 3”, recettore di membrana che gioca un ruolo cardine nella regolazione della crescita, differenziazione e divisione cellulare fin nello sviluppo embrionale. Il secondo è un gene che codifica per la “Transforming Acid Coiled-coil Protein 3”, che ricopre un ruolo cardine nella generazione e regolazione del fuso mitotico durante la proliferazione cellulare.

I due geni risiedono sullo stesso braccio del cromosoma 4, ed è qui che avviene la loro fusione, dovuta ad una duplicazione in tandem (vedi figura).

Successivamente altri studi hanno riportato una simile frequenza di tale alterazione in altri tipi di neoplasie, indicando che f3-t3 è ormai da ritenere una tra le alterazioni che conferisce potere oncogenico in cellule di vari tessuti.

La novità è aver scoperto come la fusione FGFR3-TACC3 genera e fa crescere i tumori. Questa alterazione genica scatena un’attività abnorme dei mitocondri, organelli presenti all’interno della cellula che funzionano come centraline di produzione energetica. L’eccesso di energia alimenta l’impulso alla proliferazione incontrollata e all’invasione tipico delle cellule tumorali. Appurato il significato dell’alterazione, la strategia che si profila è ora quella di colpire non solo la fusione genica, ma anche la sua funzione, bloccando il metabolismo energetico, cruciale per la sopravvivenza delle cellule tumorali.

L’integrazione di inibitori classici e inibitori specifici per tale alterazione renderebbe la terapia oltre che più efficace, anche mirata in quei casi in cui è presente l’alterazione in questione. Sono in atto sperimentazioni cliniche con farmaci «bersaglio» all’ospedale Pitié Salpetrière di Parigi, dirette dal prof. Marc Sanson, coautore dello studio di Iavarone. I primi risultati dei test su cellule tumorali in coltura e nei topi mostrano che si può interrompere la produzione di energia e fermare la crescita tumorale.

L’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano potrebbe partecipare alle nuove sperimentazioni. “Da tempo sono in contatto con i suoi ricercatori – dice Iavarone – per questioni burocratiche e regolamentari non è stato possibile trasferire rapidamente le nostre sperimentazioni cliniche anche in Italia, spero che dopo la pubblicazione su Nature dello studio si riesca presto a lavorare insieme”.

Iavarone, intervistato in questi giorni, ha dichiarato di sentirsi ancora italiano a tutti gli effetti, e che avrebbe voluto conseguire questo traguardo in Italia, così da contribuire al prestigio del proprio Paese. Il professore, a onor del vero, era stato chiamato, ai tempi del governo Monti, per prendere parte alla rifondazione della ricerca in Italia, ma di quel periodo ricorda solo “tante riunioni, importanti conferenze e nulla di concreto”. La sua visione non è totalmente pessimista, auspica che si realizzi il tanto chiacchierato Human Technopole, l’infrastruttura multi-disciplinare lanciata all’EXPO di Milano, che avrebbe come obbiettivo quello di rilanciare l’Italia nel settore delle biotecnologie, della medicina molecolare e genica, e della bio-informatica, e ancor di più spera nella realizzazione di uno Human Technopole del Sud, da cui proviene.

“Il mio sogno -rivela infine Iavarone al Corriere- è quello di proiettare l’Italia tra i primi Paesi al mondo nel settore della ricerca dei big data, della medicina personalizzata e dell’oncologia. Un sogno, certo. Ma la vita mi ha insegnato che tutto è possibile”.

Antonio Nuccio

Vaccini tumore-specifici, uno spiraglio di luce

Piccoli passi possibili: sono quelli che, progressivamente, l’immuno-terapia oncologia sembra capace di compiere nella lotta al tumore.

Si può facilmente consultare sulla rivista “Nature”,  l’esito positivo di una terapia sperimentale sviluppata in due distinti laboratori di ricerca, uno a Boston – Massachusetts, l’altro a Meinz – Germania. I due diversi team guidati rispettivamente da Catherine Wu ed Ugur Sahin, sono stati in grado di elaborare un vaccino anti tumorale specifico per i loro pazienti, tutti affetti da melanoma (= in questo caso le cellule malate sono quelle della pelle).

Gli studiosi hanno quindi sfruttato il razionale che sta alla base del comune vaccino – ovvero una soluzione contenente materiale biologico inattivo, o comunque, incapace di scatenare un’infezione violenta, assieme anche ad altre molecole coadiuvanti-  al fine di stimolare nel sistema immunitario una risposta anti-tumorale specifica. Come? Sfruttando l’evidenza per cui alcune componenti del nostro sistema immunitario (immaginatevelo come un qualcosa di molto più potente della stessa US. Army) sono in grado di riconoscere specifici antigeni presenti sulle nostre cellule, attivarsi (a determinate condizioni, sulle quali si gioca tutta l’attività dei ricercatori, fondamentalmente) e mandare in lisi le stesse.  Infatti, grazie alle ultime, assai versatili, tecnologie sviluppate negli ultimi anni, i ricercatori sono riusciti a sequenziare i geni codificanti per proteine nel tumore di ciascun paziente. Dopodiché sono stati attenti nello scegliere quelle proteine mutate che più verosimilmente avrebbero potuto determinare una risposta del sistema immunitario, utilizzandole, così, per preparare la base dei vaccini specifici.

Entrambi i gruppi di ricerca hanno quindi potuto concludere i loro lavori riportando l’esito positivo riscontrato nel trattamento del melanoma con questo mezzo assolutamente innovativo.

I risultati di queste ricerche, pertanto, dimostrano che “l’immunoterapia dei tumori sta facendo passi da gigante”, commenta Michele Maio, direttore del Centro di Immuno-oncologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Siena.  Anche Cornelius J.M. Melief, parte del dipartimento di Immuno-ematologia dell’Università di Leiden, conclude la sua presentazione al lavoro della Wu e Shain affermando: “Entrambe le ricerche confermano il potenziale di questo tipo d’approccio terapeutico al tumore, nonostante non si possa ancora parlare di validità assoluta, considerato il numero esiguo di pazienti coinvolti; il passo successivo sarà proprio continuare a provare con un maggior numero di partecipanti, in modo da poter stabilire con esattezza l’efficacia di questo trattamento terapeutico contro tutti quei tipi di cancro che producono abbastanza mutazioni da poter fornire sufficienti antigeni tumorali, necessari in questo tipo di approccio.

Ivana Bringheli

 

Può una chiamata provocare un tumore?

Recentemente un dipendente di Telecom si è ammalato di neurinoma, un tipo di tumore benigno a carico del sistema nervoso. Purtroppo una volta sottopostosi all’asportazione del nervo acustico, è diventato sordo. La persona in questione ha visto riconosciuto il danno professionale e ottenuto un risarcimento, in quanto il tribunale di Ivrea ha ritenuto plausibile il collegamento tra l’uso intenso del cellulare per lavoro e l’insorgere del tumore. Pochi giorni dopo il tribunale di Firenze è arrivata a simile conclusione per un altro lavoratore. In passato c’è stata un’altra sentenza simile risalente al 2009 a Brescia.

Innanzitutto c’è da dire che una sentenza di tribunale non è un riconoscimento scientifico: dopo queste sentenze non abbiamo nessun elemento in più per valutare se esista o meno una correlazione tra l’uso dei cellulari e i tumori. I giudici decidono con criteri differenti da quelli scientifici, la domanda a cui devono rispondere è se la persona danneggiata dal tumore abbia o meno diritto ad un indennizzo, o all’invalidità professionale, cosa che dipende solo parzialmente dalle nostre conoscenze sul legame causale.

Il principale lavoro di rassegna sull’argomento è quello svolto dall’IARC, che, nel 2013, ha classificato le esposizioni alle onde radio dei telefoni cellulari come “possibili cancerogeni” (categoria 2b). L’articolo analizza in dettaglio tutti gli studi disponibili, sia epidemiologici sia su animali che in vitro, trovando una debole evidenza relativa a due tipi di tumori, il glioma e, appunto, il neurinoma acustico.

Su quasi un centinaio di studi analizzati dall’IARC, metà dei quali scartati per scarsa qualità, solo pochissimi mostrano un aumento dell’incidenza di tumori. Questi sono stati svolti indipendentemente e il gruppo di ricercatori ha ottenuto gli stessi risultati solo in alcuni dei lavori. Gli studi in vitro non mostrano in generale effetti, se non a potenze molto elevate, in grado di produrre un riscaldamento apprezzabile dei tessuti.

C’è da aggiungere che non esiste alcun effetto fisico noto che possa giustificare un’azione delle onde radio, alle frequenze alle quali siamo più esposti, sui tessuti viventi e sul DNA, che dovrebbe essere alla base dei risultati osservati nei pochi studi che ne evidenziano.

Per tutte queste ragioni l’IARC ha ritenuto che gli studi in vitro o su animali non forniscano evidenze utilizzabili per valutare la cancerogenicità delle onde radio, e si è focalizzata sugli studi epidemiologici. Di questi, i soli che hanno mostrato alcuni effetti, sono relativi al neurinoma e al glioma.

In sintesi il centro di ricerca ha constatato che esiste una possibilità che il cellulare causi un neurinoma (o un glioma), ma è improbabile che questa possibilità sia reale. Nelle conclusioni si sottolinea inoltre che la decisione sulla classificazione come “possibile” (ma non “probabile”) cancerogeno è stata presa a maggioranza, con una consistente minoranza che optava per una classificazione in categoria 3, “cancerogenicità non valutabile”. Questi ricercatori sottolineavano come tutti gli studi di popolazione mostrano che tutti i tumori considerati, inclusi i neurinomi, non sono assolutamente aumentati nel tempo, nonostante la rapida diffusione dell’uso dei cellulari.

Va sottolineato come la valutazione dell’IARC si riferisca solo al collegamento tra uso intenso del cellulare e alcuni tumori cerebrali, in pratica solo il glioma e il neurinoma. Sono esclusi gli effetti dovuti a wireless, wifi, ripetitori, bluetooth, e anche l’uso normale del cellulare, e tutti i tumori differenti da quelli esplicitamente indicati. Ovviamente questo non ci deve in alcun modo far arrivare a conclusione che tali onde causino tumori cerebrali.

In generale non vi è alcuna  conoscenza sui possibili effetti, al nostro organismo, causati da questa enorme mole di nuove tecnologie. Queste si stanno diffondendo molto velocemente e sempre di più le utilizziamo quotidianamente. Unico modo per poter evitare un’eccessiva esposizione è la presa di alcuni accorgimenti: utilizzare il cellulare attraverso gli auricolari e utilizzarlo in ambienti in cui il segnale sia alto, così da minimizzare le onde rilasciate dallo strumento. Infine non fa di certo male smettere di utilizzarlo in continuazione: a pranzo, al cinema, durante una passeggiata, al bar, al mare…ogni tanto cercate di dimenticarlo.

Francesco Calò

I Tumori: Sfortuna o pessimi stili di vita?

La caratteristica più bella della Scienza è la sua continua evoluzione. Grazie al suo efficace metodo è riuscita a descrivere ed analizzare gran parte della natura che ci circonda. Tuttavia metodo ed innovazione non bastano. Infatti la comunità scientifica è provvista, nella maggior parte dei casi, da un enorme senso di umiltà che la mette in uno stato di perenne dubbio in merito a tutto ciò che viene detto o scoperto. Essa è il primo critico di se stessa. Siamo abituati a pensare che se un qualche cosa “lo ha detto la Scienza” allora è sacra ed inconfutabile, e penso che non esista frase più sbagliata. Ogni giorno vengono portate avanti ricerche, i risultati vengono continuamente pubblicati su tutte le più prestigiose riviste scientifiche e molto spesso i dati di un ricercatore contraddicono i dati di un altro.

Il 2 gennaio 2015 Bert Vogelstein ha pubblicato uno studio provocatorio su Science : utilizzando alcuni modelli matematici, stimava l’incidenza della formazione di cellule tumorali, in assenza di sostanze che inducono cancro (carcinogene), sulla base delle riproduzioni che avvengono in un determinato tessuto.

Tuttavia questo articolo, in seguito, fu smentito dalla stragrande maggioranza degli studi epidemiologici e dall’intera comunità scientifica. Oltre a dare vita ad un messaggio fuorviante, esponeva ad un enorme rischio di insuccesso tutto il faticoso lavoro dei medici nel pubblicizzare e sostenere i benefici della prevenzione. Sebbene da tempo sia chiaro che il numero di divisioni cellulari aumenta il rischio di mutazioni e, con esso, di cancro, la maggioranza dei tumori più comuni è fortemente correlata con le esposizioni ambientali e gli stili di vita, perciò con un miglioramento di questi, l’incidenza dei tumori, su di una specifica popolazione, si abbassa notevolmente.

A sostenere questa tesi ci sono numerosissimi studi epidemiologici, ovvero le ricerche effettuate per determinare la frequenza di una determinata malattia in una popolazione. Un esempio sono i melanomi, che hanno una incidenza 200 volte più alta in Australia che in Cina. Ovviamente uno potrebbe contrastare questi dati affermando che si tratti di un motivo genetico e legato soltanto al continente australiano. Tuttavia, durante la composizione di questi studi, si prende in esame anche una popolazione campione che in questo caso sono gli australiani trasferiti in una regione non particolarmente soleggiata come lo è l’Australia, ed, in effetti, in questa la frequenza dei melanomi è simile ad un qualsiasi altra popolazione. Altri esempi sono legati ai tumori delle cavità orali per i lavoratori esposti all’amianto, i tumori ai polmoni per i fumatori, al tratto digerente e al fegato per quanto riguarda il consumo di alcol, ed, in ultimo, al colon per quanto riguarda l’eccessivo consumo di carne rossa e di insaccati.

Nella formazione di un tumore concorrono numerosissimi fattori, sia protettivi che lesivi. Questi sono determinati, in gran parte, dalla predisposizione genetica ed, in secondo ruolo, dai fattori ambientali. Infatti una qualsiasi persona, attraverso l’adozione di uno stile di vita impeccabile dal punto di vista salutistico, non può avere la certezza di non ammalarsi di cancro, ma con esso abbasserà di molto la possibilità di contrarne uno. La prevenzione, quindi, assume ancora oggi un ruolo fondamentale nella difesa contro il cancro. Un male che, purtroppo, si difende ancora troppo bene anche dalle più innovative cure.

Francesco Calò

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Epatite C. In Italia ti curi solo se sei grave

Sofosbuvir_bottle_with_pill_on_Gray-1940x1566Nuova Delhi,India. Dopo averla inizialmente rigettata, il 12 maggio scorso l’ufficio brevetti indiano ha accolto la richiesta per la concessione del brevetto sulla componente di base del farmaco Sofosbuvir alla Gilead Sciences, per la cura dell’Epatite C. Immediata la risposta di Medici Senza Frontiere attraverso le parole della sua esperta di salute pubblica: Questa decisione – ha detto Silvia Mancini- è una cattiva notizia per le persone affette da Epatite C”. L’India fino ad oggi è stato il maggior produttore di versioni generiche della miracolosa molecola di proprietà della Gilead grazie ad una serie di privilegi, concessi dalle grandi compagnie farmaceutiche per produrre farmaci che altrove sono protetti da brevetti. La compagnia americana negli Stati Uniti aveva inizialmente immesso sul mercato il farmaco a prezzi esorbitanti: 84 mila dollari per ciclo di trattamento, una cifra che era stata parzialmente ridotta grazie alle forme generiche sintetizzate in oriente. Insomma potrebbero aumentare ulteriormente le difficoltà per coloro che sono obbligati a convivere con questa patologia.

576px-Hepatitis_C_infection_by_source_(CDC)_-_it.svgL’Epatite C è una malattia infiammatoria del fegato, causata dal virus HCV. Ha una tendenza a cronicizzare e ad evolversi in cirrosi e carcinoma epatico. Le vie di trasmissione principali del virus sono diverse e questo persiste nel fegato di circa l’85% delle persone infette. L’infezione ad oggi può essere trattata con farmaci come l’interferone, la ribavirina ed il sopracitato sofosbuvir. Nome commerciale Sovaldi, il farmaco della Gilead Sciences anche in Italia è al centro di numerose polemiche sollevate da giornali, televisioni ed associazioni come la EpaC Onlus, da anni al sostegno dei malati di epatite.

chart_01Ogni anno in Italia muoiono circa 10 mila persone malate di Epatite C, nel nostro paese per anni ci si è ammalati per colpa di trasfusioni di sangue, per operazioni con strumenti non sterilizzati. Dal 2014 sono disponibili questi farmaci che assicurano nel 90-95% dei casi la guarigione dall’infezione del virus HCV : ma sono medicinali tanto cari che il Ministero della Salute ha deciso di garantire il trattamento solo ai malati gravi. Il rischio è che non somministrandolo a tutti i non curati si aggravino, infatti solo coloro i quali hanno una perdita di elasticità del fegato catalogata in stadi definiti F3 ed F4 hanno diritto ad accedere gratuitamente a questo incredibile prodotto, cioè quelli con una compromissione della funzionalità molto grave. Un ciclo di trattamento costa al Sistema Sanitario Nazionale ben 20 mila euro, ma non per questo può essere giustificata una simile prassi, dove i pazienti “meno gravi” devono aspettare fin tanto che le loro condizioni peggiorino.

L’Epatite C – ci spiega il Prof. Giovanni Raimondo Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Epatologia Clinica e Biomolecolare presso la A.O.U. Policlinico di Messina è stata molto diffusa in Italia in passato, quindi è ovvio che sia alto il numero dei malati cronici. Ciò che è stato stabilito dall’AIFA (Agenzia italiana del farmaco) è di curare prima i pazienti con la malattia avanzata, per poi passare a pazienti in stadi meno avanzati come quelli in stadio F2. Questi ultimi pazienti dovranno certamente essere curati, ma il grado della loro malattia non impone un trattamento immediato. Benché io – come tutti i miei colleghi – vorrei trattare subito tutti i pazienti, capisco che, dati i costi delle terapie specificamente dirette contro il virus C, sia necessaria una regolamentazione che renda sostenibile la spesa per il nostro Sistema Sanitario Nazionale che tutti noi dobbiamo salvaguardare.” 

Nessuno può fermare la voglia di guarire da una infezione virale e da una malattia cronica progressiva, tant’è che fino ad ora alcuni dei pazienti meno gravi sono ricorsi all’acquisto del farmaco generico in India o in Egitto. Sappiamo che dopo i trattamenti anti-epatite c, sarà la volta dei nuovi portentosi medicinali utilizzabili in campo oncologico, le “bombe intelligenti”. Se questa è la dinamica che dobbiamo aspettarci, avremo farmaci salvavita sempre più cari e sempre più difficili da avere per noi. È quindi una situazione senza via d’uscita?

Nell’attendere una svolta politica concreta nei confronti delle condizioni imposte da certe case farmaceutiche non possiamo che accodarci all’appello al governo di Ivan Gardini, Presidente dell’ EpaC  Onlus: È tempo di passare dal “se curare” al “quando curare”. È tempo che i pazienti possano programmare le loro terapie con i medici curanti , avere un riferimento temporale e scegliere l’ospedale che ha meno liste d’attesa. Ognuno di noi ha il diritto di curarsi e poter programmare la propria vita. Questo abbiamo chiesto alle Autorità e questo continueremo a chiedere finché non lo otterremo.

Alessio Gugliotta