Ma Rainey’s Black Bottom, una storia raccontata dal blues

Una produzione Netflix tutta da vedere: sarà rivelazione agli Oscar?- Voto UVM: 4/5

Prima ancora di Billie Holiday, Nina Simone ed Etta James c’era una sola diva del blues: Gertrude detta “Ma Rainey”, cantante afroamericana dei ruggenti anni ’20. Detta la “madre del blues”,  di fatto battezzò il genere; il suo è un grande nome ormai destinato a cadere nell’oblio se non fosse per la recente pellicola di Netflix, Ma Rainey’s Black Bottom. Prodotto da Denzel Washington, diretto da George C. Wolfe e in concorso agli Oscar per ben cinque statuette (miglior attore protagonista, migliore attrice protagonista, trucco, costumi e scenografia) il film merita di essere visto per tanti motivi.

Dramma, pathos e “talking blues”

Se esistesse la categoria “miglior soggetto” agli Oscar, state certi che il film di Wolfe sarebbe in concorso anche per quella, proprio per la sua storia originale e sui generis. Quando si tratta di star della musica, infatti, portarle al cinema spesso significa dimenticarsi dell’arte e concentrarsi su gossip e vicende private, riducendo tutto alla famigerata triade “sesso, droga e rock’n’ roll”(anche per gli artisti che non sono “rock”). Ma Rainey’s Black Bottom non è niente di tutto ciò! E non perché sia una smielata favola su una grande artista afroamericana di successo in un’America tutt’altro che propensa a dare ai neri successo. Non perché sia un film con tanto di happy ending, privo di drammi, rabbia e violenza, anzi.

La diva Ma Rainey (Viola Davis) assieme ai membri della band in sala incisione. Fonte: blog.ilgiornale.it

Il film di Wolfe, più che della diva Ma Rainey e della sua vita, parla della storia di una canzone, appunto Black Bottom. Parla di blues, che non è solo un genere musicale: è un grido di dolore, è vita vera che scorre nelle vene degli afroamericani e nelle loro storie di subita sopraffazione che vengono fuori dalle parole dei personaggi, dai loro monologhi profondi e densi di pathos, fluidi come canzoni, accompagnati in sottofondo dalle note degli strumenti, che siano piano, tromba o contrabasso. Un blues che parla (si potrebbe azzardare “talking blues”) è quello dei dialoghi del film, tratti dall’omonimo dramma teatrale di August Wilson.

Proprio come le grandi tragedie antiche, infatti, la  maggior parte della vicenda è concentrata in una sola giornata e in un unico luogo: lo studio discografico in cui viene incisa la famosa canzone. Storcono il naso gli amanti dell’azione: in Ma Rainey non succede – quasi – nulla o meglio, la maggior parte di ciò che accade è solo ricordato nei racconti dei quattro membri della band, talmente vividi da permetterci quasi di vederli raffigurati sullo schermo. Leeve (Chadwick Boseman), Toledo (Glynn Turman), Cutler (Colman Domingo) e Slow Drag (Michael Potts) si riuniscono in sala prove, suonano e risuonano i brani tra scherzi e diverbi finché non arriva Ma (Viola Davis) che dà il via alle danze e si parte con l’incisione.

Da sinistra a destra: Toledo (Glynn Turman), Levee (Chadwick Boseman) e Slow Drag (Michael Potts) provano i pezzi. Fonte: nonsolocinema.com

Grandi interpreti in spazi ristretti

Nonostante il film possa apparire limitato nello spazio (e anche nel tempo, con soli 93 min di durata) è proprio attraverso una storia all’apparenza statica che emerge la bravura degli attori in scena: Viola Davis sprigiona tutta la rabbia di una cantante afroamericana che si sente sfruttata dal suo agente, “addolcita” dallo stesso solo al fine di trarne profitto.

Da lei ci aspettavamo una performance esattamente di questo tipo: anche quando il trucco viene rovinato dal calore insopportabile della Chicago anni ’20, Ma è una donna forte, che ama realmente la sua musica e che non ha paura di puntare i piedi per farsi rispettare, sia dagli altri membri della band che da agente e produttore. Le movenze e la mimica facciale dell’attrice rispecchiano in pieno il carattere forte della protagonista, fruttandole una meritata nomination come migliore attrice protagonista.

Viola Davis e Chadwick Boseman sul set – My Red Carpet

Ancor più sorprendente è la prova attoriale del compianto Chadwick Boseman, nei panni dell’alternativo trombettista Levee, che già gli è valso un Golden Globe postumo. Nella narrazione possiamo considerare questo personaggio come l’opposto di Ma: innovatore e fuori dagli schemi, vuole rompere con le sue melodie il “classicismo” della cantante, arroccata sulle sue posizioni storiche e tradizionali.

Ma non sono le scene che rappresentano questo dualismo le più significative dell’attore: la voglia di rivalsa e indipendenza, con il sogno di fondare una sua band, fanno da cornice a una storia disperata di violenza, che ha spaccato la sua famiglia quando era solo un bambino, lasciando un segno indelebile e forse mai elaborato dal personaggio. L’attore riesce al meglio a immedesimarsi sia nel lato spensierato e gioviale del trombettista, che in quello triste e tormentato: un mix che meriterebbe l’Oscar.

Simbolismo della pellicola

Due sono i simboli che spiccano sulla scena: il caldo, che diventa quasi un personaggio vero e proprio, invadente e “palpabile” (soprattutto su Ma) in quasi tutte le scene. Sembrano però soffrirne solo i personaggi di colore, che spesso non riescono ad aprire i ventilatori e ad alleviare questo fastidio evidente: sembra quasi simbolo dell’oppressione e delle sofferenze che gli afroamericani hanno dovuto patire, espresse esplicitamente nelle storie raccontate dei personaggi.

Il secondo è una porta chiusa, che Leeve cerca continuamente di aprire senza successo: alla fine riuscirà a vedere cosa c’è dietro, grazie alla sua caparbietà; a voi l’interpretazione su cosa troverà dietro essa, metafora sul cosa gli ha fruttato il suo comportamento.

La vera Ma Rainey con la sua blues band. Fonte. cineavatar.it

C’è una lunga storia dietro una canzone, spesso ignorata dal grande pubblico e lasciata solo alle ricerche di appassionati del settore: il film la riporta alla luce rendendola il perno attorno cui ruotano altre storie; allo stesso tempo resta un lieve rammarico per la breve durata del film, che lascia lo spettatore desideroso di continuarne la visione. Ma Rainey’s Black Bottom parla di musica, sì, ma non trascura i drammi sociali del tempo, dà loro voce attraverso la musica stessa, attraverso quel blues che è “un modo di comprendere la vita”, una filosofia che i bianchi non sembrano capire, ma di cui hanno un disperato bisogno.

Sarebbe un mondo vuoto senza il blues. Già, io cerco di afferrare quel vuoto e poi cerco di riempirlo. Non sono stata la prima a cantare così. Il blues c’è sempre stato.

Angelica Rocca, Emanuele Chiara

Un bagno nel blues: buon compleanno Pino Daniele

Nessuno muore veramente sulla Terra finché vive nel cuore di chi resta. Si dice così, vero? Nonostante siano passati diversi anni da quella drammatica notizia, la presenza di Pino Daniele continua ancora ad accompagnarci dolcemente lungo quei grandi brani che sono passati alla storia come componimenti che raccontano le diverse anime di Napoli e dell’Italia, ma anche del volgo e dei sentimenti più profondi.

A me me piace ‘o blues e tutt’ ‘e juorne aggia cantà.

Pino Daniele. Fonte: libreriamo.it

Al confine tra poesia e musica leggera

Pino Daniele nasce a Napoli il 19 marzo 1955 in una famiglia molto numerosa. Dopo aver frequentato l’Istituto Armando Diaz di Napoli, impara a suonare la chitarra da autodidatta e successivamente migra in diversi complessi che lo aiutano ad acquisire conoscenza ed esperienza nel campo della musica.

Il 1976 segna importanti cambiamenti, tra cui le prime esperienze professionali come musicista e la maturazione artistica. Da quel momento il cantautore inizia a produrre album e canzoni di un certo spessore: alcune passarono alla storia della musica italiana come dei veri e propri capolavori.

L’omaggio che oggi intendiamo offrire a questo grande cantautore non sarà quello di raccontare la sua storia come se fosse una semplice biografia, ma di ripercorrere insieme alcuni dei brani più importanti. Un modo per sentirci più attivi e vicini al percorso compiuto dal grande Pino Daniele  e per augurare buon compleanno al cantautore e chitarrista blues più innovativo presente nel panorama italiano .

 

Pino Daniele: illustrazione in bianco e nero. Fonte: studio93.it

Napule è

Napule è, una fantastica traccia che apre il suo album di esordio: Terra mia del 1977.

Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce de’ criature che saglie chianu chianu e tu sai ca’ nun si sulo

Un inno, una poesia d’amore per la propria città, accompagnata  dalla denuncia a un insieme di problematiche quali le difficoltà, le contraddizioni e- sotto alcuni punti di vista- anche la rassegnazione.

Quella che vuole attuare Pino Daniele in questo brano è una rivoluzione, fatta di amare verità e dolci parole che si propongono di raccontare a testa alta e con determinazione le molteplici realtà di un posto così magico, lasciando spazio al sentimento e alla parola del volgo.
Allo stesso tempo, il cantautore non intende descrivere in modo oleografico la città ma vuole riportare alla memoria tutte quelle storie che ricordava o sapeva di aver ascoltato nei bar, nei vicoli, fra le panchine.

Una realtà che si lascia spogliare e raccontare senza mai consumarsi, una fiamma alimentata dall’amore, dalla passione, dall’incontro tra un foglio bianco e sentimenti liberi.

Le strade di Napoli illuminate dalle parole di Pino Daniele. Fonte: tpi.it

Je so’ pazzo

Je so’ pazzo je so’ pazzo, e vogl’essere chi vogl’io ascite fora d’a casa mia, je so’ pazzo je so’ pazzo

Un brano forte e dirompente che risale al 1979: ancora una volta, Pino parla e racconta Napoli, facendo diversi riferimenti testuali, e allo stesso tempo mostra una forte propensione al rock blues.

Il protagonista del testo è un “pazzo” che, in quanto non perseguibile dalla legge, si mostra libero di poter manifestare il proprio dissenso o le proprie idee senza la necessità di essere politicamente corretto. Un brano provocatorio, quasi sfacciato, ribelle.

Pino Daniele in concerto. Fonte: rockit.it

Quando

Tu dimmi quando, quando. Ho bisogno di te, almeno un’ora per dirti che ti odio ancora

Un brano molto conosciuto ed inoltre da inserire nei più grandi successi di Pino Daniele. Spesso viene consideratola canzone simbolo del cantautore. Pubblicato nel 1991, venne pensato come colonna sonora del film di Massimo Troisi, Pensavo fosse amore… invece era un calesse. Le parole di questa bellissima canzone la rendono un classico senza tempo e diversi cantanti si cimentano ancora oggi nella sua esibizione.

Il significato del testo è molto profondo e allo stesso tempo delicato, in quanto descrive l’animo combattuto di un uomo innamorato che si chiede quando vedrà la donna amata per dirle «Ti amo ancora». Nella canzone si chiede «Dove sono i tuoi occhi e la tua bocca»: un chiaro appello all’amore perso. Mentre lei sembra molto lontana, così come cita il brano («forse in Africa che importa»), lui aspetta di rivederla un’ultima volta. Questo è chiaramente l’inno di chi non si arrende ma ama e brama la propria donna, nonostante lei non sia  lì con lui.

 Cover del cofanetto “Quando” (2017). Fonte: musicaintorno.it

Dai balconi alla rete, buon compleanno Pino

A gran voce, dai balconi delle nostre case, dai social alle radio nelle nostre camere, nonostante l’emergenza Coronavirus, siamo tutti abbracciati in un unico pensiero che ci accompagna proprio lì, a stringerci tra le note di Pino Daniele.

Grazie per la tua musica, buon compleanno.

Annina Monteleone

L’avvelenato

“Se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni…” cantava Francesco Guccini in una delle sue canzoni più taglienti, una sorta di rigurgito di insoddisfazioni e delusioni, tanto da meritarsi il titolo di “L’avvelenata”. Non so per quale preciso nesso associativo mi vengono in mente proprio le più violente rime del Francescone nazionale mentre oggi (anzi, ieri), 6 novembre 2017, mi trovo in una piovosa notte autunnale, accoccolato nel mio letto col pc sulle ginocchia a buttar giù, rigorosamente all’ultimo momento, le righe di un editoriale che finora non ho avuto il tempo di scrivere (anzi, diciamocela tutta, che proprio non ho voglia di scrivere) e che tu oggi (anzi, domani, 7 novembre, o quando sarà) stai leggendo. Forse perché ieri sera tornando a casa in macchina era questa una delle canzoni che cantavo a squarciagola, o forse perché anch’io, tutto sommato, mi sento insoddisfatto, e non so bene di cosa.

Forse della giornata uggiosa, del trauma del risveglio mattutino e del rientro alla routine quotidiana e universitaria dopo una piacevolissima ma ahimè troppo breve vacanza. Forse del fatto che mi è toccato di scrivere questo editoriale proprio oggi a ridosso delle elezioni regionali e ci si aspetterebbe che ne parli, mentre invece non ne ho proprio voglia. O forse del dibattito politico stesso, che pur dovendo essere in teoria un momento costruttivo di dialogo e confronto sociale riesce spesso a tirare fuori il lato peggiore delle persone che vi partecipano e di cui ascolto i pareri e leggo i commenti sui social media.

Forse, mi dico tra me e me, sono insoddisfatto perché oggi uno dei collaboratori della nostra unit di Cultura locale, in preda allo sconforto, aveva deciso di non scrivere più di Messina, città sorda e che non merita; e perché, anche se alla fine con gli altri del gruppo di redazione siamo riusciti a farlo ricredere, e pur non condividendo del tutto le sue posizioni, nella sua ferita aperta ho letto per un attimo le mille ferite aperte di chiunque abbia un ideale e lo veda lentamente inabissarsi travolto dalle onde degli eventi.

Forse, a rendermi insoddisfatto è la mia momentanea mancanza di ispirazione; o forse l’incapacità di tollerarla quando in realtà fa parte dei regolari alti e bassi di chiunque si diletti in qualsiasi attività creativa. Forse sono insoddisfatto del taglio troppo intimistico e patetico che sto dando a questo editoriale, se così vogliamo continuare a chiamarlo: proprio io che tendenzialmente odio chi scrivendo si lamenta un po’ di tutto e un po’ di niente, magari alla ricerca di facili immedesimazioni da parte dei lettori per raccattare qualche visualizzazione in più. Forse, addirittura, a insoddisfarmi è la mia stessa insoddisfazione, e il fatto che stia perdendo il mio tempo in lamentele così vacue solo per il vezzo un po’ esibizionistico di mostrarmi nudo di fronte a una (spero non troppo folta) platea di sconosciuti, io che ho una casa, degli amici, qualcuno che mi ama, quando c’è gente che sta molto peggio di me e ha ben più motivo di me di lamentarsi e meno spazio per far leggere le proprie lamentele agli altri.

E mentre scrivo e mi rendo conto che quello che doveva essere un editoriale poco ispirato è diventato un editoriale “avvelenato”, un fiume informe e liquido di dubbi, una sorta di blues autunnale un po’ stantio e un po’ stonato, mi rendo conto che via via che scrivo l’insoddisfazione inizia a diradarsi, come le nuvole dal cielo ormai scuro: e ti ringrazio, vi ringrazio, Lettori (spero non siate troppi però), per aver preso parte vostro malgrado a questo gioco terapeutico, oltre a chiedervi di perdonarmelo, se potete, di dimenticarvelo, insomma di passarmi per buono questo piccolo capriccio del quale, sincerissimamente, un po’ mi vergogno, se penso che, tutto sommato, è solo un modo come un altro di sbarazzarmi di un editoriale che non mi va di scrivere.

Lentamente, la mia mente scorre e arriva all’ ultima strofa della canzone: “se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso…”

Gianpaolo Basile