L’antitrust francese sanziona Google con una multa da 200 milioni di euro: i motivi e i nuovi impegni del colosso statunitense

Fonte: Startmag

Dopo il caso Facebook nel Regno Unito e in UE, i garanti della concorrenza si abbattono ancora una volta sulle Big Tech: Lunedì 7 giugno, l’autorità di vigilanza sulla concorrenza francese – informalmente chiamata “Antitrust“- ha inflitto una multa di 200 milioni di euro al colosso Google, per aver abusato del suo potere di mercato nel settore della pubblicità online.

Si tratterebbe, a livello globale, di uno dei primi casi antitrust nel settore del cosiddetto digital advertising. L’azienda statunitense ha comunque accettato di pagare la multa, promettendo inoltre di impegnarsi affinché simili abusi non si ripetano più.

L’inchiesta Google per abuso di posizione dominante

L’inchiesta avviata dalla Autorité de la Concurrence (Antitrust francese) ha rilevato la riservazione di un trattamento preferenziale da parte di Google ad uno dei principali sistemi di vendita della pubblicità, DoubleClick for Publishers, da esso posseduto, il quale consente di vendere i propri spazi pubblicitari a editori di siti e applicazioni. Il colosso USA avrebbe poi garantito vantaggi anche alla sua piattaforma di venditaAdX“, che invece gestisce le aste utilizzate dagli editori per vendere agli inserzionisti impressions o inventari pubblicitari.

Tale favoreggiamento dei propri servizi, insieme con l’incoraggiamento agli inserzionisti di comprare pubblicità direttamente da Google, avrebbe dunque finito col danneggiare i servizi rivali, motivo per cui erano già partite delle denunce da parte di alcuni grossi editori, tra cui Newscorp e l’editore del Figaro.

Isabelle de Silva. Fonte: Le Revenu

‘’La sanzione di Google ha un significato molto speciale perché è la prima decisione al mondo che esamina i complessi processi delle aste algoritmiche attraverso i quali funziona la pubblicità online. L’indagine particolarmente rapida ha rivelato processi attraverso i quali Google, basandosi sul suo notevole dominio negli ad server per siti e applicazioni, ha superato i suoi concorrenti sia su ad server che su piattaforme SSP. Queste pratiche molto gravi hanno penalizzato la concorrenza nel mercato emergente della pubblicità online e hanno permesso a Google non solo di mantenere ma anche di aumentare la sua posizione dominante. Questa sanzione e questi impegni consentiranno di ristabilire condizioni di parità per tutti gli attori e la possibilità per gli editori di sfruttare al meglio i propri spazi pubblicitari.’’, ha dichiarato Isabelle de Silva, presidente dell’Autorità della concorrenza francese.

Gli accordi con l’authority francese

Google ha accettato le sanzioni dell’autorità Antitrust senza alcuna contestazione, dopo che quest’ultima aveva verificato la pratica concorrenziale del motore di ricerca, chiedendo il rispetto di determinate condizioni.

L’azienda di Mountain View ha quindi annunciato miglioramenti dell’interoperabilità tra i servizi Ad Manager con Ad server e piattaforme di terze parti, spiegando come non verranno più riservate corsie preferenziali per l’acquisto degli spazi pubblicitari dagli editori nel momento in cui tutti i compratori riceveranno accesso agli stessi dati delle aste. Oltre a ciò, i publisher saranno liberi di negoziare termini o prezzi specifici direttamente con altre piattaforme lato vendita (SSP), senza alcun impedimento.

Tali impegni, secondo quanto dichiarato dall’Antitrust, hanno permesso la riduzione dell’entità della multa.
Nonostante vincolanti solo in Francia (per tre anni), i provvedimenti presi da Google potrebbero diventare un modello per consentire all’azienda di risolvere dispute simili anche altrove.

L’indagine europea del 2019

Google aveva già attirato l’attenzione dell’Antitrust francese nel 2019, sempre nel settore della pubblicità online: allora il motore di ricerca era stato sanzionato per concorrenza sleale con una multa da ben 150 milioni di euro.

Fonte: Wired

La multa si riferiva a Google Ads, vale a dire il servizio che consente di inserire degli spazi pubblicitari all’interno delle pagine di ricerca Google. Questo perché secondo l’autorità francese, la società statunitense aveva agito in maniera poco chiara nei confronti degli inserzionisti, accusata, in particolare, di aver sospeso o bloccato ingiustificatamente alcuni di loro, e di avergli oltretutto imposto condizioni particolarmente svantaggiose.

«Google ha potere di vita o di morte per molte società che vivono di pubblicità», ha detto durante una conferenza stampa Isabelle de Silva, a capo dell’autorità. «Noi non contestiamo a Google il suo diritto di imporre regole. Ma le regole devono essere chiare e uguali per tutti gli inserzionisti».

A quel punto Google spiegò che il caso aveva riguardato Gibmedia, un’azienda che usufruiva della piattaforma con inserzioni pubblicitarie discutibili e a volte ingannevoli. L’account di quest’ultima era stata sospeso proprio per tali ultime ragioni.

Il caso Facebook

Qualche giorno fa, la Commissione europea ha aperto un’indagine antitrust formale – simile a quella più recente di Google – su Facebook, per valutare se il social network avesse violato le regole di concorrenza dell’Ue mediante l’utilizzo di dati pubblicitari raccolti specialmente dagli inserzionisti, per competere con loro nei mercati dove Facebook è attivo, come ad esempio gli annunci economici.

Fonte: Everyeye Tech

Facebook potrebbe, ad esempio, ricevere specifiche informazioni sulle preferenze dei suoi utenti dalle attività degli annunci dei suoi concorrenti, per poi usare quei dati per adattare al meglio il suo servizio di annunci Marketplace.

‘’Nell’economia digitale di oggi, i dati non dovrebbero essere utilizzati in modi che distorcono la concorrenza”, ha detto Margrethe Vestager, vicepresidente della Commissione Ue e responsabile della concorrenza.

Un portavoce di Facebook commenta così l’indagine antitrust aperta dalla Commissione Ue:

“Continueremo a collaborare pienamente alle indagini per dimostrare che non hanno fondamento. Lavoriamo per sviluppare costantemente servizi nuovi e migliori che possano soddisfare le esigenze in evoluzione delle persone che usano Facebook. Marketplace e Dating offrono alle persone più scelta ed entrambi i prodotti operano in un contesto altamente competitivo, che presenta altri grandi player”.

Gaia Cautela

Global Minimum Tax, la nuova tassa per colpire le Big Tech e i paradisi fiscali

Sabato i Ministri delle Finanze degli Stati appartenenti al G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti) riuniti a Londra hanno raggiunto un primo accordo – ma la strada rimane lunga e impervia – sulla Global Minimum Tax (Aliquota Minima Globale). Ma di cosa si tratta?

La Global Minimum Tax, fortemente voluta dall’amministrazione Biden e dalla Segretaria del Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen, è una proposta che prevede un’imposta minima sulle società multinazionali del 15% a livello globale. La tassazione agirebbe in base a due principi, un tempo fortemente sfruttati a proprio favore dalle grandi aziende, specialmente dalle Big Tech (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft):

  • Pay your fair share of taxes, “Pagare il giusto contributo”;
  • Level Playing Field, “Parità di condizioni”.

Una particolarità di questa tassa consisterebbe in un’azione individuata in base a dove la vendita viene realizzata e, quindi, nel paese in cui vengono effettivamente realizzati i profitti. Lo scopo è palese: come ha sottolineato la Segretaria del Tesoro Yellen, mirerebbe a porre fine ad «un’esperienza lunga 30 anni di corsa al ribasso nella tassazione d’impresa», ovverosia il fenomeno che induce i governi a ridimensionare drasticamente le imposte societarie nel tentativo di attrarre investimenti da parte delle grandi multinazionali. Uno degli obiettivi sarebbe, dunque, colpire i paradisi fiscali.

(fonte: globalist.it)

I paradisi fiscali ed il divario sociale

Un report del 2016 dell’OXFAM International (Confederazione Internazionale di organizzazioni non-profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale) ha evidenziato come il divario tra classi sociali, all’interno di paesi a bassa tassazione, sia accentuato da questo fenomeno.

I governi che riducono il carico fiscale per le grandi imprese, hanno di fronte a sé due alternative: tagliare le spese per i servizi pubblici indispensabili per ridurre la disuguaglianza e la povertà, oppure ovviare alla riduzione delle entrate aumentando le imposte sulle fasce sociali meno abbienti, per esempio l’imposta sul valore aggiunto (IVA). Nell’Africa sub-sahariana le imposte indirette come l’IVA, che gravano in misura sproporzionata sui più poveri, costituiscono in media il 67% del gettito fiscale e colpiscono maggiormente le donne. I maggiori profitti delle imprese derivanti da una minore imposizione fiscale vanno invece a beneficio degli azionisti e dei proprietari delle corporation, persone prevalentemente già abbienti, accentuando così ulteriormente il divario tra ricchi e poveri.

La ratio della scelta dei paradisi fiscali (tra i quali spiccano diversi paesi europei o del continente europeo come Svizzera, Paesi Bassi, Irlanda, Cipro e Lussemburgo) sarebbe, come già accennato, di attrarre gli investimenti delle multinazionali. Eppure il report intende smentire quest’utilità, affermando che il criterio della bassa tassazione non rientra tra i “12 criteri” principali con cui le società, in base al Global Competitiveness Report (GCR), decidono dove investire. Il Rapporto generato dal Forum Economico Mondiale individua i paesi che più abilmente riescono a provvedere al benessere dei propri cittadini.

(fonte: europa.today.it)

La posizione europea tra i sì, i no e i forse

Alcuni paesi europei come Francia e Italia – che sono, tra l’altro, già muniti di una propria Digital Tax – hanno accolto la proposta positivamente, pur essendo determinati a mantenere i propri criteri di tassazione finché la Global Tax non si realizzerà. Tuttavia, altri paesi come Cipro e Irlanda (che annoveriamo tra i principali paradisi fiscali societari) si sono espressi in contrario alla proposta, con Cipro che minaccia di apporre il veto in Consiglio UE (per cui è necessaria l’unanimità dei consensi in materia fiscale).

D’altro canto, l’Osservatorio Europeo sulla Tassazione – ha rivelato Il Fatto Quotidiano in un articolo – ritiene che un’aliquota del 15% sia inadeguata. Difatti, con una tassazione del genere sulle multinazionali appartenenti a ciascun paese UE, l’Osservatorio ha calcolato un gettito aggiuntivo complessivo che ammonterebbe a 50 miliardi (di cui 2,7 all’Italia), contro i 170 miliardi (di cui 11,1 all’Italia) che si realizzerebbero se l’aliquota sulle società ammontasse all’originario 25% ipotizzato per la global tax

La proposta finora discussa rappresenta senza dubbio, per la maggior parte degli interlocutori, un possibile risultato storico, ma dal punto di vista italiano la percentuale andrebbe di gran lunga sotto l’attuale 24% imposto dall’IRES (Imposta sul reddito delle società). 

Il futuro della proposta

È previsto entro il prossimo mese un incontro del G20 a Venezia per discutere sull’approvazione della proposta da parte dei più grandi paesi in via di sviluppo. Intanto, rimane aperta la questione riguardante la tassazione sui servizi digitali delle grandi aziende tecnologiche (come le Big Tech) nelle varie giurisdizioni. Gli USA mirerebbero ad eliminare tali giurisdizioni, minacciando anche d’imporre dazi e sanzioni e, in generale, di condurre alcune piccole guerre commerciali ai paesi che non intendano rinunciarvi.

Per gli USA è dunque necessario un « adeguato coordinamento tra l’applicazione delle nuove regole fiscali internazionali e la rimozione di tutte le tasse sui servizi digitali».

 

Valeria Bonaccorso