India: boom di contagi. Usa e Ue istituiscono un piano di aiuti. Speranza firma l’ordinanza sullo stop agli arrivi dall’India

Acuta drammaticità nel continente asiatico. L’India diventa l’epicentro della pandemia, spaventano i numeri dei contagi e delle morti. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea inviano dispositivi salva vita.

Variante indiana –Fonte:bresciatoday.it

Durante le ultime settimane l’India è stata investita da un’incisiva aggressione di una nuova variante del coronavirus, che sembra più trasmissibile e pericolosa rispetto a quelle già note in circolazione. A rendere la situazione più critica risulta essere la totale perdita di controllo del contenimento della stessa, che ha portato le autorità locali a dover provvedere all’eliminazione dei corpi degli infetti lasciati per strada attraverso l’incenerimento dei cadaveri. Il Paese asiatico raggiunge così il quarto amaro record consecutivo per contagi giornalieri.

La variante indiana

Variante indiana con doppia mutazione –Fonte:agi.it

Già nota da diversi mesi, la variante indiana consiste in una tripla mutazione, ossia la fusione di tre diversi ceppi del Covid-19, che unendosi hanno dato vita ad un “doppio mutante” noto come B.1.617, la cui diffusione si ritiene essere partita dagli Stati come il Maharashtra, Delhi e il Bengala occidentale.

Inizialmente questa non ha destato particolari preoccupazioni degli esperti, ma a far capovolgere la situazione è stato il grave allarme dell’improvviso boom epidemiologico nel Paese subcontinentale. Si è registrato così il più elevato numero di morti giornalieri mai raggiunto pari a 2.767. Sebbene si tema che le cifre reali dei defunti siano ben più alte, la media statistica del Paese stima che nella capitale New Delhi avvenga un decesso ogni 4 minuti.

Covid-19, inviati respiratori in India –Fonte:bluewin.ch

Per quanto gli scienziati non abbiano ancora dati certi riguardo la contagiosità della nuova variante e della sua abilità di causare sintomi più o meno gravi, risulta accorato l’appello di massima allerta.

Il collasso della sanità

New Delhi diventa così teatro di ospedali i cui corridoi sono occupati da letti e barelle, le famiglie implorano la richiesta di assistenza ai loro cari e molti cittadini periscono sulla soglia della struttura sanitaria.

La variante indiana del Covid –Fonte:panorama.it

L’ambasciatore italiano nella capitale, Vincenzo De Luca sostiene che

“Il Paese sta vivendo un’impennata rapidissima. Le curve dei contagi sono schizzate all’insù prima nelle aree urbane e ora stanno crescendo anche in quelle rurali, mentre il sistema sanitario fatica a far fronte alla sfida della domanda di ricoveri e farmaci: l’India sta affrontando una fase di massima allerta e ha bisogno di una risposta e di una cooperazione globale”

Ciò ha contribuito a prorogare di una settimana il lookdown nella capitale, mentre si attendono gli aiuti promessi dalle Nazioni del globo. Risulta altresì chiaro come l’accorato invito abbia destato molta preoccupazione, dando il via ad una corsa di aiuti nel Paese, affinché la situazione fuori controllo possa rimarginarsi.

Aiuti internazionali: USA e UE

La mobilitazione degli Stati Uniti è avvenuta a seguito di un colloquio telefonico tra il Consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Jack Sullivan, con la controparte di New Delhi.

“Gli Stati Uniti sono profondamente preoccupati per la grave epidemia di Covid in India. Stiamo lavorando 24 ore su 24 per distribuire più rifornimenti e supporto ai nostri amici e partner in India mentre combattono coraggiosamente questa pandemia.”

L’America è pronta a spedire in India alcune materie prime necessarie per la produzione del Covishield, la versione indiana del vaccino AstraZeneca. L’esportazione di tali sostanze, secondo quanto riportato dal New York Times, riflette la decisione presa dall’amministrazione Biden che avrebbe abrogato il divieto di trasferimento di quegli elementi necessari per la creazione del farmaco. Altresì il Paese a stelle e strisce spedirà gli strumenti essenziali di prevenzione per gli operatori sanitari, come tute protettive e invierà le forniture di ossigeno fondamentali da adoperare nella terapia dei pazienti più gravi.

In India parte l’Oxygen Express –Fonte: it.finance.yahoo.com

Alla stregua delle decisione prese, la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, secondo quanto espresso dall’Agence France-Presse (AFP), ha riferito che l’Unione Europea sta rassembrando tutte le risorse per rispondere prontamente alla richiesta di assistenza, attraverso un innovativo sistema di protezione civile dell’Ue. Si crea così un meccanismo che permette ai 27 Paesi membri dell’Unione di sincronizzarsi per intervenire in caso di emergenza. Secondo quanto riportato dal Commissario Ue per gli Aiuti umanitari Janez Lenarcic, tale coordinazione è già stata avviata dalle Nazioni coinvolte nell’accordo, per contributi di ossigeno e farmaci.

La risposta italiana alla variante

L’arrivo nella scorsa serata all’aeroporto di Fiumicino di un volo proveniente da Nuova Delhi, desta preoccupazione. I 214 passeggeri sono stati destinati a test e quarantena presso le strutture predisposte dalla cittadella militare della Cecchignola e nel Covid hotel di Roma.

Covid: arrivo volo dall’India –Fonte:ansa.it

L’appello promosso dal Presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, è volto a sollecitare l’attivazione di misure che fermino le partenze dal subcontinente indiano, invitando gli Stati membri alla realizzazione di iniziative che coordinino gli arrivi su tutto il territorio europeo. Il ministro della Salute Roberto Speranza, a seguito dell’impennata dei contagi prodotta dalla divulgazione della variante indiana, ha firmato una nuova ordinanza che indice il divieto di ingresso in Italia per coloro che hanno soggiornato nel Paese subcontinentale e nel Bangladesh negli ultimi 14 giorni.

Variante indiana, Speranza blocca l’ingresso in Italia –Fonte:corriere.it

Il documento prevede che i residenti in Italia potranno rientrare con tampone in partenza e all’arrivo e con obbligo di quarantena. Chiunque sia stato in India nelle ultime due settimane e si trovi già nel nostro Paese è tenuto a sottoporsi a tampone contattando i dipartimenti di prevenzione.

Tali restrizioni rimarranno attive fino al 12 maggio e sono volte ad irrigidire le misure di controllo, impedendo che il record negativo registrato in India possa ripetersi anche in Italia. Nonostante gli scienziati stiano lavorando ininterrottamente per studiare la “neonata variante”, Speranza ribadisce altresì la necessità di tenere alta la guardia fin quando non si avranno risposte più certe.

Giovanna Sgarlata

Navalny rischia di morire in prigione. Ecco cosa sta succedendo all’oppositore numero uno di Putin

“Alexei Navalny sta morendo. Nelle sue condizioni, è questione di giorni”. Questo è ciò che ha scritto, sabato, su Facebook, la portavoce di Navalny, l’oppositore numero uno del presidente russo Vladimir Putin. Navalny è rinchiuso in una prigione di Prokov, 100 chilomentri ad est di Mosca, per scontare una pena di due anni e mezzo, con l’accusa di appropriazione indebita. Già il motivo e il modo in cui è avvenuta la carcerazione ha suscitato grossi sconvolgimenti in tutta la Russia, ne abbiamo parlato qui.

Navalny, in prigione dal 17 gennaio dopo esser sopravvissuto a un avvelenamento (fonte: ANSA)

In cella dal 17 gennaio, dal 31 marzo aveva iniziato lo sciopero della fame. Era ritornato dalla Germania, dopo esser stato messo in salvo dall’avvelenamento di cui è stato vittima. Mosca si è sempre dichiarata estranea ai fatti, nonostante le numerose accuse.

La figlia di Navalny, Daria, ha lanciato un accorato appello su Twitter: “Consentite a un medico di visitare mio padre”. La ventenne studia all’università di Stanford in California ed è seriamente preoccupata per le condizioni del padre su cui non vi sono chiare notizie.

Infatti, un gruppo di quattro medici – fra cui quello personale di Navalny, Anastasia Vasilyeva, e un cardiologo – hanno reso noto che il 44enne rischia un arresto cardiaco in qualunque momento e, perciò, chiedono di potergli far visita in carcere. Si tratterrebbe di un’insufficienza renale.

Secondo alcune testimonianze, Navalny, avrebbe rifiutato l’intervento dei medici messi a disposizione dal centro detentivo – i quali potrebbero anche decidere di ricorrere all’alimentazione forzata – perché intenzionato ad esser visitato solo da medici di sua fiducia. Ciò sarebbe consentito dalla legge (la 323 del 2011, articolo 26) che consente di chiedere il consulto di specialisti del servizio medico nazionale, ma solo nel caso in cui non sia disponibile un clinico qualificato nel penitenziario oppure che la situazione renda un particolare intervento urgente. Per Navalny è necessario che a visitarlo siano solo medici ritenuti “neutrali”.

(fonte: ilfattoquotidiano.it)

 

Navalny non sarebbe malato?

Il diplomatico Andrej Kelin, il quale si trova a Londra, ha rilasciato un’intervista alla Bbc, nella quale ha affermato che Navalny “si comporta come un hooligan: oggi gli fa male una gamba, domani un braccio. Tenta di violare tutte le regole per farsi pubblicità”. Per il diplomatico russo si tratterebbe di una farsa, poiché il detenuto sarebbe stato anche visitato in ospedale. “Non morirà in prigione” ha aggiunto, nonostante ciò che è stato riferito da i suoi medici.

Putin (fonte: ilfattoquotidiano.it)

Poi, vi è anche la controversa esistenza di due video, messi in rete in questi giorni “Izvestia” e “Ren tv”. In uno si può vedere un detenuto, che, secondo i giornalisti, dovrebbe esser proprio Navalny, nella grande camerata dove si trova normalmente. Quest’ultimo viene ripreso dall’agente di sorveglianza con una camera ad infrarossi, mentre dorme tranquillamente. Tutto ciò sarebbe utile per negare che Navalny venga svegliato ripetutamente durante la notte mentre viene effettuato il giro d’ispezione. Nel secondo filmato, un uomo – che non si riesce a vedere in faccia – viene mostrato in una camera di quello che sarebbe il centro medico, mentre esegue senza sforzo delle flessioni. Con questo video, dunque, si vorrebbe smentire che il detenuto stia soffrendo per aggravate condizioni di salute.

In ogni caso è doveroso ricordare e sottolineare che Izvestia e Ren tv sono due media certamente non ostili a Putin. Perciò il contenuto dei due video potrebbe esser di dubbia veridicità.

 

L’intervento di Usa e Ue

“Abbiamo comunicato al governo russo che quello che succede a Navalny mentre le autorità russe lo hanno in custodia è loro responsabilità, e verranno considerate responsabili dalla comunità internazionale.” ha detto ieri Andrew Sullivan, il consigliere per la Sicurezza Nazionale di Biden.

Il presidente americano avrebbe fatto riferire a Mosca che, qualora Navalny morisse, ci sarebbero delle conseguenze per la Russia di cui ancora niente è stato rivelato.

Biden si era già espresso pubblicamente all’inizio della vicenda, proclamando l’adozione di provvedimenti contro sette dirigenti russi molto vicini al presidente Putin, congelando i loro beni negli Stati Uniti e vietando ai cittadini americani di fare affari con loro.

“È totalmente ingiusto. Totalmente inappropriato” – ha detto Biden alla stampa – “sulla base del fatto che è stato avvelenato e poi ha fatto lo sciopero della fame”.

Insomma, la questione di Navalny ha riacceso le tensioni, che affondano le radici in un passato lontano, tra Usa e Russia.

L’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, prima della videoconferenza informale dei ministri degli Esteri, ha rivelato di aver ricevuto una lettera dallo staff di Navalny e di essere molto preoccupato. Una preoccupazione che accomuna tutta l’Unione Europea. Borrell aveva richiesto, a nome dell’Ue, di concedere le cure necessarie al detenuto, senza poi venir ascoltato dalle autorità russe, che verranno ritenute responsabile anche dall’Europa in caso di ulteriori peggioramenti della situazione. Ora, l’Ue chiede l’immediata liberazione dell’oppositore russo.

L’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell (fonte: ilpost.it)

Ieri, dalla struttura penitenziaria era arrivata la comunicazione del trasferimento di Navalny presso il reparto ospedaliero della colonia penale IK-3 del Servizio Penitenziario Federale russo (FSIN), nella regione di Vladimir, specializzato nell’osservazione medica dei detenuti. Qui i medici hanno rassicurato sull’inizio di una terapia a base di vitamine e su un costante controllo delle condizioni del paziente.

Su Twitter, Ivan Zhdanov, direttore del Fondo Anti-Corruzione, ha scritto che questa del trasferimento presso la struttura ospedaliera è solo una falsa buona notizia, ricordando che presso questa struttura vengono mandati solo pazienti molto gravi. Perciò, la smentita sull’aggravarsi delle condizioni di Navalny sarebbe un tentativo di sedare la tensione.

 

Riprenderanno le proteste

Intanto, per il 21 aprile, i sostenitori di Navalny stanno organizzando delle proteste in tutta la Russia. Inoltre, un gruppo di circa 70 artisti, scrittori e attori, fra cui i premi Nobel per la Letteratura Svetlana Alexievitch e Salman Rushdie, hanno fatto pubblicare un appello a Putin, affinché vengano concesse tutte le cure necessarie a Navalny.

Tra i firmatari persino la famosissima scrittrice di Harry Potter, J. K. Rowling e l’attore Jude Law, tutti pronti a sfruttare la propria popolarità per far chiarezza sulla vicenda, chiarezza che sin dagli inizi è venuta meno. Ciò ha fatto crescere sempre più il sospetto e la preoccupazione che, in uno dei più potenti Paesi del mondo, si stia consumando un’enorme ingiustizia ai danni della democrazia.

 

Rita Bonaccurso

Gli Usa dell’era Biden bombardano le milizie filoiraniane in Siria: i motivi delle tensioni tra i due Paesi

Attacco Usa in Siria. Fonte: Il Riformista

Giovedì 25 febbraio gli USA hanno compiuto un attacco aereo – il primo dall’insediamento del presidente Joe Biden – contro alcune milizie appoggiate dall’Iran nella zona orientale della Siria, al confine con l’Iraq. Si è trattato di una risposta all’attacco del 15 febbraio scorso contro la base statunitense di Erbil, nel Kurdistan Iracheno. Di qualche giorno fa, invece, la notizia del rifiuto dell’Iran di partecipare a un colloquio informale per la negoziazione di un accordo sul nucleare con gli Stati Uniti.

Il Pentagono statunitense risponde alle provocazioni iraniane

La prima azione militare dell’amministrazione Biden è stata ordinata come avvertimento a Teheran (capitale dell’Iran): dopo le consultazioni del presidente col capo del Pentagono Austin e con gli alleati, sono state sganciate ben sette bombe da 500 pound di esplosivo – cioè circa 227 chili – nella zona di confine tra Al Qaem e Abu Kamal. Un chiaro segnale di non tolleranza di ulteriori provocazioni iraniane, dopo quelle dello scorso 15 febbraio, delle quali sono stati responsabili i militanti legati alla Repubblica islamica.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Fonte: The New York Times

Con questa azione il capo della Casa Bianca ha voluto inoltre dimostrare di non essere debole nei confronti dell’Iran e né tanto meno pronto a fare qualsiasi concessione pur di ripristinare l’accordo nucleare, come sostenuto dagli oppositori interni repubblicani. In ogni caso, il Pentagono ha risposto con forza solo dove gli faceva più comodo, ovvero in territorio siriano, proprio per non mettere in difficoltà il governo iracheno con cui spera in una collaborazione per il contenimento delle infiltrazioni iraniane.

“La decisione di colpire in Siria invece che in Iraq avrebbe probabilmente evitato di causare problemi al governo iracheno, un partner chiave nei continui sforzi contro l’ISIS”, ha detto un alto funzionario del Pentagono di nome Michael P. Mulroy in una e-mail. “È stato astuto colpire in Siria ed evitare il contraccolpo in Iraq”.

Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha detto che nell’attacco statunitense sono stati bombardati alcuni edifici appartenenti alle milizie filoiraniane, tra cui Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al-Shuhada, che venivano usate per far arrivare le armi da un Paese all’altro (Siria e Iraq). Senza specificarne il numero, è stato aggiunto poi che durante l’attacco sono stati uccisi diversi miliziani: l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che da anni monitora la guerra in Siria, ha parlato di 17 miliziani morti.

L’attacco iraniano del 15 febbraio

La mappa dell’attacco iraniano alle basi in Iraq. Fonte: la Repubblica

La risposta militare statunitense è arrivata in seguito agli attacchi missilistici in Iraq verso una base aerea ospitante alcune truppe statunitensi vicino all’aeroporto di Erbil, il lunedì sera del 15 febbraio 2021. Durante l’attacco è stato ucciso un contractor, vale a dire un soldato professionista chiamato a lavorare a pagamento in zone di guerra, e sono state ferite altre 9 persone.

L’offensiva è stata rivendicata dal gruppo Awlya al Dam (che significa ‘’i guardiani del sangue’’), una milizia emersa di recente che, a detta di molti, sarebbe appoggiata dai principali gruppi sostenuti a loro volta dall’Iran e ostili agli USA, tra cui Kataib Hezbollah.

La BBC ha escluso che il contractor ucciso fosse di nazionalità americana, scansando così il rischio di ripetere quanto accaduto poco più di un anno fa: allora il governo statunitense aveva risposto al lancio di alcuni razzi, provocanti l’uccisione di un contractor americano, bombardando cinque siti in Iraq e in Siria controllati dalla milizia irachena Kataib Hezbollah e uccidendo più di 20 persone.

L’Iran si rifiuta di negoziare

La scorsa domenica, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh ha fatto sapere che l’Iran non ha alcuna intenzione di riprendere i negoziati con gli Stati Uniti sul dossier nucleare. L’incontro – organizzato alcuni giorni fa dall’Unione Europea – è stato a sua detta rifiutato per gli stessi motivi per cui non c’era stato un meeting con l’ex presidente Donald Trump, ossia per via delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti sull’economia iraniana. Anche se il recente attacco aereo statunitense ha cambiato le carte in tavola, il rifiuto dell’Iran non è stato affatto scontato, dal momento che negli ultimi giorni sembrava esserci la possibilità di ripresa delle trattative.

Cos’è l’accordo sul nucleare?

L’accordo sul nucleare iraniano venne firmato a Vienna il 14 luglio 2015, dopo lunghi negoziati tra l’Iran e i membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU con il potere di veto (Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania, vale a dire i paesi del cosiddetto “5+1”.

I ministri degli Esteri dell’Iran e del P5+1, annunciano l’accordo a Vienna, 14 luglio 2015. Fonte: Wikipedia

L’obiettivo era quello di sorvegliare le attività della Repubblica islamica dell’Iran in campo atomico, coinvolgendo nel patto le grandi potenze mondiali. Ciononostante, nel maggio 2018, l’allora presidente americano Donald Trump annunciò l’uscita degli Stati Uniti dal patto: fu in quell’occasione che vennero reintrodotte pesanti sanzioni economiche nei confronti di Teheran. L’Iran, in risposta a tale decisione, cominciò a ridurre gradualmente i suoi obblighi previsti dall’accordo, arrivando infine ad annunciare l’intenzione di un arricchimento di uranio che segnò la fine del patto. La decisione arrivò dopo la crisi scatenata dalla morte del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso il 3 gennaio 2020 in un raid aereo statunitense all’aeroporto di Baghdad.

Negli ultimi anni i paesi europei coinvolti nel patto tentarono in tutti i modi di salvare l’intesa, per esempio mediante l’introduzione di meccanismi per aggirare gli effetti delle sanzioni americane sulle aziende europee. I risultati però non furono quelli sperati ed è per questo motivo che, dopo anni di chiusure e tensioni, sarebbe stato importante che le due parti fossero ritornate a negoziare.

Gaia Cautela

Gli USA rientrano nell’Accordo di Parigi. Cos’è e perchè pochi Paesi lo stanno rispettando

(fonte: teleambiente.it)

Da venerdì gli Stati Uniti fanno nuovamente parte dell’Accordo di Parigi, un trattato internazionale nato nel 2015 a salvaguardia dell’ambiente e con l’intento di contrastare i cambiamenti climatici.

“Un appello per la sopravvivenza giunge dal nostro stesso pianeta, un appello che non potrebbe essere più disperato e più chiaro di adesso.”

Ha affermato l’attuale presidente durante il proprio discorso d’insediamento.

La notizia, anche se ufficializzata solo alcuni giorni fa, è stata annunciata da tempo in quanto rappresenta uno degli obiettivi primari del presidente neo-eletto Joe Biden. Anche tale provvedimento, tra gli altri, appartiene ad una linea di discontinuità rispetto all’amministrazione Trump, che dall’Accordo di Parigi aveva deciso di ritirarsi nel 2017.

Accordo di Parigi, ecco cosa prevede

Firmato da 195 paesi in tutto il mondo e sottoscritto da 190 (compresa l’UE), l’Accordo di Parigi nasce nel 2015 per limitare le emissioni di gas serra e l’aumento della temperatura terrestre entro i +1.5 gradi. A ciò si aggiunga anche l’obiettivo, per ciascun membro, di versare un contributo in denaro all’anno per aiutare i paesi più poveri a sviluppare fonti di energia meno inquinanti.

Limitare l’aumento di temperatura rappresenta un primo passo verso la neutralità climatica, ossia verso un impatto climatico di ciascun paese pari a zero. Particolare attenzione è riservata alle emissioni di carbonio: al momento, USA e Cina sono i due stati che detengono i record di emissioni e per tale ragione sarebbe fondamentale la loro attiva partecipazione all’Accordo.

L’obiettivo più vicino è quello di arrivare a produrre, nel 2030, 56 miliardi di tonnellate di anidride carbonica anziché gli attuali 69 miliardi. Una meta che, si nota bene, può essere raggiunta solo tramite il rispetto degli accordi internazionali.

(fonte: limesonline.com)

L’abbandono degli USA e le sue conseguenze

Eppure, nel 2017, il presidente Donald Trump ha deciso di abbandonare l’Accordo. Non essendo vincolante, ciò non crea particolari problemi, però si tratta di un risultato raggiungibile circa in 4 anni. Ecco perché l’uscita dal trattato è stata ufficializzata solo a novembre 2020, al termine dell’amministrazione precedente.

Le reazioni alla notizia sono state negative, poichè furono proprio gli USA, durante l’amministrazione Obama, a rendere possibile la realizzazione dell’Accordo. Dalla decisione dell’ex presidente Trump, invece, è derivata la possibilità di gestire le proprie emissioni indipendentemente dal trattato.

L’effetto più importante era quello di dare più spazio alle emissioni statunitensi, con un conseguente ribasso del prezzo del proprio carbonio ed un rialzo di quello degli altri paesi. Il simbolico rientro nel trattato si accompagna adesso alla pretesa degli altri membri di un’azione seria e mirata da parte degli USA, che miri a riparare ai tanti anni d’inerzia.

Quali paesi rispettano davvero l’Accordo?

Sebbene il caso degli Stati Uniti abbia fatto, ai tempi, scalpore, bisogna ricordare tuttavia che molti dei paesi aderenti al trattato non lo stanno rispettando. Recente è la constatazione che la Cina, paese col primato di emissioni, non rispetta il trattato invocando la clausola – per molti inappropriata al suo caso – del paese in via di sviluppo. Quest’ultima contempla delle imposizioni più lievi rispetto agli altri paesi. Nel 2019, la Cina ha infatti emesso circa il 29,3% di tonnellate di CO2 al mondo.

Un caso altrettanto recente è quello della Francia, multata per il simbolico valore di 1 euro dopo aver perso un processo intentato dalle ONG ambientaliste contro lo stesso Stato francese. Secondo l’accusa, il progetto di legge sul clima non permetterebbe di raggiungere l’obiettivo di una riduzione di almeno il 40% delle emissioni nel 2030 in rapporto al 1990.

(fonte: valuechina.net)

Il movimento ambientalista Fridays For Future ha denunciato che, di tutti i paesi appartenenti al G20 (Italia compresa), nessuno stia effettivamente rispettando l’Accordo di Parigi. Un rapporto delle Nazioni Unite del 2018 ha evidenziato i problemi della linea seguita dal G20, la quale non permetterà di rispettare le promesse del trattato previste entro il 2030. Dai tempi di Parigi, le emissioni dei paesi del G20 non avevano fatto altro che rimanere in stallo per poi aumentare nel 2017.

Bene, invece, Marocco e Gambia che mirano rispettivamente a convertire il 52% della produzione di energia entro il 2030 ed a ridurre le emissioni del 55% entro il 2025.

Valeria Bonaccorso

Trump assolto dal secondo impeachment. Scoppia la polemica e la frattura repubblicana

Trump dopo la sua assoluzione con la copia di un giornale americano e il titolo “assolto” (fonte: ansa.it)

 

Accusato e assolto, di nuovo. Donald Trump entra nella storia, anche se per una triste motivazione: è stato l’unico, nella storia degli Stati Uniti, ad esser accusato due volte per impeachment e, soprattutto, ad esser stato processato in qualità di presidente non più in carica.

Il processo lampo, durato solo 5 giorni, si è concluso il 13 febbraio.

Nel febbraio del 2020, invece, durante il primo dei due processi, era stato assolto dopo l’accusa di aver ricattato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nel tentativo di ottenere materiale imbarazzante sull’attuale presidente, Joe Biden.

Una dei manifestanti a favore di Trump, durante l’assalto al Congresso (ansa.it)

Le concitate fasi del processo durato solo pochi giorni

Il Senato ha assolto l’ex presidente, nel secondo processo d’impeachment. Per Trump “è finita la caccia alle streghe”. Ma ovviamente non tutti la pensano così.

L’accusa sosteneva l’influenza di Trump per l’assalto al Congresso del 6 gennaio. Nelle ore immediatamente prima del voto, i Democratici hanno cercato di reclutare testimoni per sostenere la tesi, tra cui la deputata repubblicana Jaime Herrera Butler.

Questa aveva dichiarato di aver parlato con il leader repubblicano della Camera, Kevin McCarty, il quale avrebbe sentito l’ex presidente al telefono durante l’assalto a Capitol Hill, il quale non avrebbe condannato i responsabili.

In risposta, gli avvocati di Trump hanno fatto una forte resistenza e hanno minacciato di aggiungere centinaia di testimoni, tra cui la speaker della Camera Nancy Pelosi, causando l’allungamento di diverse settimane del processo, ipotesi che ha sempre preoccupato Joe Biden.

Nancy Pelosi, speaker della Camera (fonte: usnews.com)

Così democratici hanno fatto un passo indietro, chiedendo che venisse accettata solo la dichiarazione scritta della deputata Herrera.

I sette sì repubblicani per la condanna

Necessari 67 voti per la condanna, corrispondenti ai 2/3 dei 100 senatori giudicanti. Alla fine i “soli” 57 sì, di cui 50 democratici e 7 repubblicani, non sono bastati. Quest’ultimi appartengono all’ala moderata del partito: Mitt Romney, Susan Collins, Lisa Murkowski, Ben Sasse, Patrick Toomey, Bill Cassidy e Richard Burr.

Solo sette, dunque, i membri del partito del tycoon che hanno accolto l’appello dell’accusa: “Ci sono momenti che trascendono l’appartenenza politica e che chiedono di mettere da parte i partiti” aveva detto uno dei manager dell’accusa, Joe Neguse.

43, invece, gli altri repubblicani a favore dell’assoluzione, che hanno impedito, dunque, il raggiungimento del quorum. Fino all’ultimo, non era sicuro quanti di loro avrebbero votato a favore della condanna, unendosi ai dem.

La polemica

Il leader dei senatori repubblicani, Mitch McConnell, dopo aver votato a favore dell’assoluzione, ha comunque continuato a definire Trump “praticamente, moralmente responsabile” per l’attacco a Capitol Hill.

Questo ha spiegato le sue azioni – viste le critiche per il suo iniziale sostegno all’accusa, prima del processo – sostenendo che il Senato non può essere considerato “un tribunale morale”, in potere di condannare l’ex presidente per le sue responsabilità nelle vicende del 6 gennaio, che dovrebbero essere altre le sedi giudicanti, magari in ambito penale.

“Il presidente Trump – ha detto – è ancora responsabile per tutto ciò che fece mentre si trovava in carica. Non si è lasciato dietro nulla.”.

McConnell (fonte: pbs.org)

Ha sostenuto l’incostituzionalità dell’impeachment contro un presidente già decaduto, ritenendo questo solo “principalmente uno strumento per la sua rimozione” e che, dunque, il Senato non avrebbe giurisdizione. Ha sottolineato che “la Costituzione stabilisce chiaramente che i delitti di un presidente commessi nel corso del suo mandato possono essere perseguiti dopo che lascia la Casa Bianca”, intendendo quindi esservi possibilità che le inchieste in corso possano proseguire in altre sedi.

Per i democratici, invece, questo equivarrebbe a dire che Trump sia libero dall’essere per le azioni durante le ultime settimane del suo mandato.

Sembra che condannare Trump, dunque, ai repubblicanii quali hanno abbracciato tutti la linea di McConnellabbia fatto paura. Avrebbe significato mettersi contro suoi potenti sostenitori, oltre che esporsi a “vendette” pericolose per l’esito delle prossime elezioni del Midterm, previste per il prossimo anno. Hanno scelto la via della prudenza, per aspettare che la figura dell’ex presidente diventi in modo naturale sempre meno capace di muovere le fila del partito e per evitare ripercussioni in un momento delicato per la preparazione agli impegni del 2022.

In effetti, sono già iniziate delle vere e proprie purghe nel Grand Old Party, contro, innanzitutto, i repubblicani unitisi ai dem nel processo. Cassidy – uno dei sette – il quale aveva twittato di aver votato per la condanna “perché la nostra Costituzione e il nostro Paese sono più importanti di qualsiasi persona”, è stato oggetto di una mozione di censura da parte della commissione esecutiva del partito repubblicano della Louisiana: “Condanniamo nei termini più duri il suo voto. Fortunatamente menti più lucide hanno prevalso e Trump è stato assolto”, ha reso noto la commissione.

 

Il futuro, le prime dichiarazioni di Trump e i commenti di Biden

Trump potrebbe riprendere il controllo dei repubblicani nel 2024, qualora non vi fossero novità in campo giudiziario. Il partito, invece, rischia un crollo interno.

Una frattura è stata già, in realtà, aperta da una piccola fronda parlamentare e personalità di spicco come l’ex ambasciatrice dell’Onu nominata da Trump, Nikki Haley, che ha già voltato le spalle a quest’ultimo.

Trump, intanto, dopo l’assoluzione, ha diffuso un comunicato stampa in cui ha attaccato i Dem per avere portato avanti quello che, a suo dire, è stato un processo politico. Ha poi concluso dichiarando di esser pronto a tornare in campo:

“Il nostro storico, patriottico e meraviglioso movimento Make America Great Again (rendere l’America di nuovo grande, ndr) è solo all’inizio.”.

“La democrazia è fragile” ha detto, invece, il presidente eletto Biden, ricordando gli avvenimenti dell’assalto al Palazzo del Congresso e commentando il voto al Senato.

“Anche se il voto finale non ha portato a una condanna la sostanza dell’accusa non è in discussione” ha aggiunto. “Questo triste capitolo della nostra storia ci ha ricordato che la democrazia è fragile. Che deve essere sempre difesa. Che dobbiamo essere sempre vigili.”.

 

 

Rita Bonaccurso

Cosa c’è da sapere sull’attacco a Washington e sui motivi dell’assalto al Congresso dei sostenitori di Trump

(fonte: rollingstone.com, inquirer.net)

Tra la sera del 6 e la notte del 7 gennaio (orario italiano), mentre l’Italia si preparava a terminare il periodo di vacanze natalizie, dall’altra parte del mondo – e precisamente negli Stati Uniti – migliaia di persone hanno fatto irruzione a Capitol Hill, sede del Congresso, per interrompere la seduta del Senato che dovrebbe confermare l’elezione di Joe Biden.

Si tratta di un evento che ha scosso gli animi di tutto il mondo, tenendo milioni di persone attaccate ai giornali di cronaca: un vero tentativo di colpo di stato mosso dai sostenitori di destra, repubblicani, che non hanno ancora accettato la sconfitta del presidente uscente Donald Trump.

Diversi sono gli esponenti mediatici – compreso il New York Times – che accusano quest’ultimo di aver infiammato, per lunghi mesi, l’animo degli assaltatori.

Ma cosa è successo? E soprattutto, perché?

Un passo indietro

Novembre 2020. Arrivano i primi risultati delle elezioni presidenziali che vedono un ribaltamento della situazione, con Trump che passa in svantaggio rispetto a Biden in vari stati. Col senno di poi arrivano i primi tweet allarmanti del Presidente: essi accusano i democratici di frode elettorale e vengono prontamente censurati dal creatore di Twitter.

Dopo giorni di estenuante attesa, si ottiene un vincitore. È Joe Biden, il quale passa da un margine sottile di distacco ad una vittoria schiacciante. Ma tale realtà non verrà mai accettata dal presidente uscente, che dichiarerà in più occasioni di non voler concedere al neo-eletto la vittoria. I nervi sembrano tendersi incredibilmente all’interno degli States, con divisioni che appaiono inconciliabili.

Al 6 gennaio è fissata la votazione del Senato che necessita di confermare i 270 elettori di Biden per concedergli la Casa Bianca. S’inizia a nutrire il sospetto che le elezioni possano venire sabotate, ma nessuno sembra apprestare ulteriori misure di sicurezza.

Nel frattempo, le elezioni senatoriali in Georgia consegnano ai dem altri due seggi: si tratta di Jon Ossoff e Raphael Warnock. Così, il bilancio dei senatori raggiunge un perfetto 50-50 tra democratici e repubblicani. In tali condizioni, la legge americana prevede che voti anche il vicepresidente degli Stati Uniti (in tal caso, la neo-eletta Kamala Harris).

Si verifica la conquista da parte dei democratici dei tre punti politici essenziali: Casa Bianca, Senato, Camera (con elezioni che si sono verificate contestualmente a quelle presidenziali).

La simpatia per i suprematisti bianchi

Tutto questo cumulo di eventi ha condotto a quello che molti stanno definendo come “la naturale evoluzione della supremazia bianca“.

Il binomio Trump-Supremazia bianca ha sempre avuto senso dal punto di vista degli oppositori, ma a partire dagli eventi di giugno che hanno visto la sanguinolenta repressione del movimento Black Lives Matter molte più persone si sono convinte della correlazione esistente tra i due soggetti. Specie dopo l’esplicito appoggio di Trump ai Proud Boys, gruppo dichiaratamente suprematista.

(fonte: euractiv.com)

 

Uno sguardo su Capitol Hill

I rivoltosi che questa notte hanno fatto irruzione al Congresso sono riusciti a travolgere le esigue forze di polizia stanziate, costringendo chiunque si trovasse all’interno a barricarsi nei locali per sfuggire alla furia repubblicana. Una donna ha perso la vita durante uno scontro con le forze armate per via di una grave ferita da arma da fuoco.

Dopo essere riusciti a penetrare nella sede, il vicepresidente Mike Pence ha da solo disposto che intervenisse la Guardia Nazionale (la stessa che contribuì a sedare gli eventi di giugno) dopo un iniziale rifiuto di dispiegare tale forza.

La situazione si è attenuata attorno alle due di notte (ora italiana) con l’evacuazione dei civili e la ripresa della seduta di conferma elettorale. Al momento, sono stati certificati 306 voti al collegio elettorale di Joe Biden e la sua vittoria alle elezioni presidenziali. L’insediamento avverrà il 20 gennaio 2021.

(le guardie difendono l’entrata barricata dell’aula del Congresso, fonte: mercurynews.com)

La reazione del web e le critiche alle forze armate

Hanno commentato la vicenda in diretta milioni di utenti che hanno espresso il proprio ripudio nei confronti di un tale gesto, da Joe Biden allo stesso Mike Pence.

La violenza e la distruzione che stanno avendo luogo al Congresso Devono Fermarsi e devono fermarsi Ora. Chiunque sia coinvolto deve rispettare le forze dell’ordine ed abbandonare il palazzo immediatamente.

Una delle critiche più aspre mosse nei confronti delle forze di polizia consisterebbe nel trattamento di favore ricevuto dai rivoltosi di gennaio rispetto a quelli di giugno, poiché non neri o comunque non a favore del movimento Black Lives Matter. La docilità delle forze armate nei confronti di tali soggetti ha insospettito gran parte dei seguaci della vicenda.

A ciò si aggiunga un video incriminante di due individui intenti a riprodurre, sulle scale del Congresso, l’orribile scena dell’omicidio di George Floyd avvenuta a giugno.

La reazione di Trump, benché non espressamente di approvazione, sarebbe stata invece molto più di supporto:

Si tratta di un livello di comprensione insolito per il presidente uscente, il quale a giugno non perse attimo per denunciare i manifestanti a favore del BLM come dei vandali e terroristi. Il social ha prontamente censurato i successivi messaggi ed ha anche espressamente disposto la sospensione dell’account del presidente uscente nel caso in cui non li cancelli tempestivamente.

Ma le rogne di Trump non terminano qui: nei giorni scorsi è stato infatti emesso un altro mandato di arresto da parte dell’Iran, ancora profondamente scosso per l’uccisione del generale Soleimani.

Infine, tra le tendenze mondiali spicca l’hashtag #25thAmendmentNow, un invito ad applicare il venticinquesimo emendamento della Costituzione statunitense che prevede la procedura d’impeachment.

Una prospettiva europea

A condannare un evento del genere si sono devoluti pure esponenti politici europei come il presidente Pedro Sánchez. Anche l’Italia ha reagito a tale evento, rinvenendo immediatamente una somiglianza di tali gesti con la Marcia su Roma compiuta dai fascisti il secolo scorso.

Intanto, le parole dei nostri politici non si sono fatte attendere. Tra i molti che sono intervenuti ricordiamo Nicola Zingaretti, Matteo Renzi ed il premier Giuseppe Conte.

 

Valeria Bonaccorso

USA: Trump si prepara ad uscire dalla Casa Bianca. Al via la transizione all’amministrazione Biden

No, Trump non ha accettato la sconfitta, semplicemente la sua amministrazione non può bloccare un passaggio obbligatorio. Il presidente uscente ci tiene a sottolineare, via Twitter, che l’avvio di questa fase non significa riconoscere la vittoria di Biden:

Cosa ha a che vedere il via libera del GSA (N.d.A. la sua amministrazione) a lavorare in modo preliminare con i Dem (N.d.A. i Democratici) con l’andare avanti con le nostre varie cause per quella che si rivelerà l’elezione più corrotta della storia americana? Andiamo avanti a tutta velocità. Non concederemo mai a schede false e a ‘Dominion’.

Come procede la verifica richiesta da Trump

Emily Murphy, il capo del General Service Administration (GSA, un’agenzia indipendente del governo degli Stati Uniti che aiuta a gestire e supportare il funzionamento di base delle agenzie federali), ha dato il via al processo di transizione dopo che lo stato del Michigan ha certificato che non ci sono stati brogli durante le elezioni e ha confermato l’esito elettorale, che vede Biden vincitore.

Non solo nello stato del Michigan, ma anche in Pennsylvania e in Georgia Trump ha chiesto la verifica dei voti e, anche in questi stati, è stata certificata la sua sconfitta. Tutti gli stati statunitensi, sia quelli oggetto di ricorso di Trump sia quelli che non lo sono, devono aver certificato il voto popolare prima che il Collegio elettorale nazionale si riunisca il 14 dicembre.

La squadra di Biden

Il periodo di transizione solitamente avviene in modo semplice ma quest’anno pare essere un’eccezione. Quattro anni fa, il 10 novembre 2016, Donald Trump e il suo vice Mike Pence erano già alla Casa Bianca, ricevuti da Barack Obama e dall’allora vicepresidente Joe Biden. Quest’anno invece Trump si rifiuta addirittura di aggiornare il neo presidente dato che, secondo quanto riportato dal New York Times, non riceve nemmeno i briefing quotidiani dell’intelligence americana. Nonostante ciò, Biden ha già pronta la sua squadra:

  • Antony Blinken sarà il nuovo segretario di Stato. Cresciuto in Francia, faceva parte dell’amministrazione di Bill Clinton e il suo compito sarà quello di ricucire i rapporti internazionali degli Stati Uniti;
  • Jake Sullivan è stato nominato consigliere per la sicurezza nazionale. Famoso per i suoi dibattiti, ha lavorato nell’amministrazione Obama come assistente del vicepresidente;
  • Linda Thomas-Greenfield sarà ambasciatrice ONU. Afroamericana, è già stata ambasciatrice degli USA in Liberia;
  • Janet Yellen sarà la nuova segretaria del Tesoro. È stata la prima donna a guidare la Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti, e ora è la prima donna a essere segretaria del Tesoro statunitense;
  • John Kerry sarà inviato speciale per il clima. Si tratta di una carica nuova nel consiglio per la Sicurezza nazionale e si occuperà del cambiamento climatico;
  • Avril Haines ricoprirà il ruolo di Direttrice dell’intelligence americana. Già presente durante l’amministrazione Obama, è la prima donna a ricoprire questo ruolo;
  • Alejandro Mayorkas alla Sicurezza interna. Si tratta del primo latinoamericano e immigrato scelto per dirigere il Dipartimento della Sicurezza nazionale.

Sarah Tandurella

Elezioni USA: new e old media si schierano. Ecco come i social stanno combattendo contro Trump

Donald J. Trump non sembra voler rinunciare al titolo di Presidente degli Stati Uniti e continua a dichiarare “illegittimo” l’esito delle elezioni tenutesi lo scorso 3 novembre, da cui è uscito vincitore Joe Biden. Fino a ieri, l’attuale presidente degli Stati Uniti ha ribadito per l’ennesima volta di aver vinto le elezioni ma i social network e i media americani non la pensano come lui e hanno scelto di inserire degli avvisi nei contenuti rilasciati del presidente uscente.

Twitter

Ogni cinguettio pubblicato dal presidente uscente riceve la stessa sorte: l’oscuramento e/o l’avviso di essere un contenuto “controverso”. Nel suo ultimo tweet, Trump cinguetta un semplice: “Ho vinto le elezioni“; tuttavia Twitter avvisa i suoi utenti che: “Le fonti ufficiali danno un esito diverso delle elezioni“.

Secondo la politica del social network, questi tweet dovrebbero essere rimossi dalla piattaforma ma Trump è un presidente americano, quindi ci sono delle regole “speciali” per chi ricopre questo incarico: i politici con più di 250.000 seguaci sono personaggi di un certo rilievo e non subiscono la censura ma vengono semplicemente oscurati. Questa regola non vale per tutti i politici, ma solo per quelli che ricoprono una carica. Twitter stesso ha confermato ciò a Bloomberg, sottolineando che le regole meno rigide valgono solo per i leader mondiali in carica.

Questo significa che Trump può continuare a pubblicare ciò che vuole sulle elezioni fino al 20 gennaio 2021, quando ci sarà il cambio del presidente e Biden potrà incominciare il suo mandato. Da quel giorno, inoltre, tutti questi tweet “controversi” verranno cancellati poiché permettono il diffondersi delle fake news.

Tuttavia, la libertà di Trump di pubblicare ciò che vuole non limita la libertà del social network di apporre avvisi alla sua utenza. In questi giorni, ha twittato:

Lui (N.d.A. Biden) ha vinto solo per i NEWS MEDIA FALSI. Io non concedo NULLA! Abbiamo molta strada da fare. Queste sono state ELEZIONI TRUCCATE.

Il social dell’uccellino ha immediatamente apposto un’avvertenza sotto: “Questa affermazione riguardo la frode elettorale è controversa“.

Lo stesso avviso è apparso in molti dei recenti tweet pubblicati dal (quasi ex) presidente: in un altro cinguettio, egli aggiunge che ai seggi «non erano ammessi osservatori e il voto è stato “tabulato” da una società privata della Sinistra Radicale, Dominion, che ha una cattiva reputazione e attrezzature inadeguate che non sarebbero neppure ritenute sufficienti in Texas (dove ho vinto di gran lunga)». Ha successivamente ribadito che la notte elettorale sono stati “rubati dei voti” ed ha definito i voti postali “uno scherzo malato“.

Facebook

Trump è solito pubblicare gli stessi contenuti sia su Facebook che su Twitter. Anche sul social network di Zuckerberg le stesse frasi subiscono l’oscuramento e spunta anche qui un avviso all’utenza. Questo recita: “Gli Stati Uniti hanno leggi, procedure e istituzioni che garantiscono l’integrità delle elezioni“.

https://it-it.facebook.com/DonaldTrump/posts/10165823531240725?__xts__%5B0%5D=68.ARAyqEELnSt7qDz9BtjCUe-QlJAIguVJQmWcS5gnrrsx5SLl2SvaPUQg_4_amno9g666EVPg6BG7wvJmgp7uMiuoFQuftgCg-C07nPGUINFxP7fof7-vg4PfVBi1nDgvZ7BPrgYrUdtWfl4nQTCLWC87E2B_WGEv3-k_STrMXAQT34VzJpzuxxVezAB0-mPZHBX9WLWlsOGG52DLQ8qCW0mQUPh9ADNbyQ3dPzMIMVmascnOHAzBdHsXbNidkiAa0C9cXTmzDfBpI4sN37rmahojj98mqIg9YYledQGpMB59CXF4KVYI9Y0mFCZtJJ7gCL455QaY2E_Z6Htl&__tn__=-R

Questo non è l’unico strumento usato da Facebook per combattere la disinformazione trumpiana: sono stati chiusi importanti e numerosi gruppi e pagine pro-Trump che diffondevano teorie e prove fasulle riguardo la vittoria elettorale di Biden. Il più importanti tra questi gruppi era Stop the steal (trad. Fermate il furto) e, una volta chiuso, Facebook ha dichiarato:

In linea con le misure eccezionali che stiamo intraprendendo in questo periodo di rafforzata tensione, abbiamo rimosso il gruppo ‘Stop the steal’, che stava creando eventi nel mondo reale. Il gruppo era organizzato attorno alla delegittimazione del processo elettorale e abbiamo assistito a preoccupanti chiamate alla violenza da alcuni suoi membri.

Facebook non è nuovo nella lotta alle fake news. Nel 2018 ha firmato il “Codice di buone pratiche sulla disinformazione” promosso dalla Commissione europea e ha assunto oltre 35.000 persone che si occupano di sicurezza della piattaforma. L’obiettivo di questo Codice è di contribuire ad aumentare la consapevolezza degli utenti oltre a quello di combattere la disinformazione.

L’oscuramento riguarda anche i media tradizionali

Le sue idee riguardo le elezioni sono state inserite anche nei discorsi trasmessi in diretta TV, ma il tutto si è svolto in maniera insolita e ha dell’incredibile. Canali TV come ABC, CBS e NBC hanno interrotto il collegamento mentre il presidente in carica degli Stati Uniti stava parlando. NBC ha tagliato il collegamento affermando: “Interrompiamo il discorso del presidente perché ciò che sta dicendo, in larga parte, è assolutamente falso. E non possiamo consentire che vada avanti“. Fox News ha trasmesso solo parte del discorso di Trump. La CNN non ha censurato nulla, ma ha definito il discorso “il più disonesto della sua presidenza” e ha aggiunto in sovraimpressione che “senza prove, Trump sostiene di essere vittima di una frode“.

News networks face backlash for cutting away from Trump speech | Daily Mail Online
Gli anchorman di vari canali TV americani che hanno interrotto la diretta di Donald Trump. Fonte: Daily Mail

È la prima volta nella storia degli Stati Uniti che un suo presidente viene censurato in diretta televisiva.

Parler, Free Speech Social Network

Tutto questo oscuramento social non piace però ai fan di Trump che potrebbero aver trovato una via di fuga. Negli Stati Uniti infatti sta spopolando un nuovo social network, “Parler“. È sostanzialmente la copia in rosso di Twitter, senza cuori o like ma con frecce che puntavo verso l’altro. L’obiettivo della piattaforma è quello di rispettare il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (quello che tutela la libertà di espressione) e di creare quindi una piattaforma in cui poter pubblicare tutto ciò che si vuole senza subire censure. I repubblicani che sostengono Trump hanno bisogno di uno spazio del genere e, per questo motivo, stanno abbandonando i grandi social per spostarsi su Parler e analizzare e diffondere le loro idee infondate sui brogli elettorali.

5 things to know about Parler, the right-wing-friendly social network - HoustonChronicle.com
Esempio di schermata di Parler, un nuovo social che sta spopolando in America. Fonte: Houston Chronicle.

Piccolo fun fact su questo nuovo social: pare esista un profilo chiamato @mattysalviny con la foto di Matteo Salvini, il leader della Lega. La bio dell’account però esclude il fatto che si tratti del vero Salvini.

Im a girl, pro lgbtq+ rights, blm, kinda acab, fuck ice, pro choice, anti trump and luckily non american. Conservatives are trash

Sono una ragazza, a favore dei diritti lgbtq+, sostenitrice del movimento Black Lives Matter, contro la polizia violenta, contro la violazione dei diritti umani, anti Trump e fortunatamente non americana. I conservatori fanno schifo

 

Sarah Tandurella

Joe Biden vince le elezioni Usa. Una vita tra drammi e successi. Ecco chi è il neopresidente americano

Dopo una settimana dove il mondo è stato con il fiato sospeso, finalmente possiamo dirlo: Joe Biden ha vinto le elezioni presidenziali americane 2020 e si candida a diventare il 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America.

Fonte: Ottopagine.it

Si tratta solo di un primo step, ma decisivo, perchè – lo ricordiamo – gli americani non eleggono il Presidente ma eleggono i Grandi elettori che andranno a votare il Presidente. 

Quest’anno si è trattata di un’elezione tutt’altro che scontata, dove solo in ultimo Joe Biden è riuscito a colmare il distacco che aveva nei confronti di Donald Trump in Georgia, Michigan, Winsconsin e anche in Pennsylvania, Stato quest’ultimo che gli ha consegnato ufficialmente la vittoria.

Lo spoglio dei voti postali ha ritardato i risultati ma è stato decisivo nella vittoria dei democratici: il futuro presidente, infatti, aveva suggerito ai suoi sostenitori di non recarsi alle urne ma di sfruttare il voto per corrispondenza, onde evitare il rischio di contagio in un momento in cui gli Stati Uniti d’America contano quasi 10 milioni di contagi da Covid19. Al contrario dell’uscente Trump, il quale aveva esortato i suoi elettori a recarsi alle urne poichè, a suo avviso, il sistema postale sarebbe potuto essere manomesso.

Era dai tempi di George H.W. Bush che il presidente uscente non veniva riconfermato per un secondo mandato. E adesso che la sconfitta del tycoon è praticamente acclarata, quest’ultimo dichiara ancora di rivolgersi alla Corte Suprema per dimostrare la frode elettorale.

Ieri sera, poi, il presidente uscente – che ha saputo del risultato delle elezioni mentre giocava a golf – non ha neanche fatto la consueta chiamata privata di congratulazioni al candidato in vantaggio e non ci sorprenderemmo troppo se si rifiutasse anche di fare il tradizionalissimo “Concession Speech”.

Non c’è dubbio che Donald Trump aprirà diversi percorsi legali pur di non ammettere la sconfitta, ma in questo momento è il caso di concentrarci su quello che si candida a diventare il nuovo inquilino della Casa Bianca a partire dal 20 gennaio 2021.

Chi è Joe Biden

All’anagrafe Joseph Robinette Biden Jr., il candidato prossimo presidente USA, ha trascorso più della metà dei suoi anni nel cuore della politica statunitense.

Nato a Scranton in Pennsylvania nel 20 novembre del 1942 e cresciuto in Delaware, Biden infatti è prossimo a compiere ben 78 anni e si accinge ad avere il primato di più anziano Presidente mai eletto dagli Stati Uniti d’America. Quasi paradossale, se si pensa che, come accennavamo poc’anzi, ne aveva appena 30 quando nel 1972 è entrato a far parte del Congresso da senatore democratico rappresentante del Delaware, conquistando in questo caso il “titolo” di il quinto più giovane della Camera Alta nella storia degli USA.

Drammi e tragedie si intrecciano con i successi e gli ostacoli della sua carriera politica.

Sin da adolescente viene bullizzato per la sua balbuzie e soprannominato, per questo, Joe Impedimenta. Superati gli ostacoli di comunicazione,  questa sua caratteristica lo renderà notoriamente empatico ma anche determinato ed ambizioso nel corso della sua carriera.

La vita non gli sarà facile neanche una volta raggiunto quel posto da senatore per un soffio: ad appena un mese dal successo, perde in un incidente stradale la sua prima moglie Neilia – sposata nel ’66 – e la piccola figlia Naomi, di appena un anno. Sopravvivono – seppur riportando gravi ferite- gli altri due figli Beau, 3 anni ed Hunter, due.

Biden nel ’77 si risposa con Jill Jacobs, oggi 67enne e professoressa d’inglese presso un community college. Ed è qui che la storia Americana si avvicina alla Sicilia, o meglio, a Messina.

Come si direbbe in questi casi “Il mondo è piccolo”: la futura First Lady ha infatti origini messinesi. La storia è analoga a quella di milioni di italiani e di tanti siciliani a inizio Novecento: il bisnonno paterno, infatti, andò via dai peloritani con la sua famiglia, più precisamente dal piccolo villaggio di Gesso, per emigrare in America in cerca di fortuna. Il nonno di Jill, Domenico, decise anche di americanizzare persino il suo nome in Dominic Jacobs, per mettere fine alle storpiature.

Fonte: Il Messaggero

In queste settimane, Jill ha ricordato le sue origini con racconti sulla sua infanzia dai nonni:

«per il pranzo tradizionale della domenica si mangiavano spaghetti, polpette, braciole, la casa profumava di origano, basilico, pomodori freschi e aglio».

Dopo la nascita di Ashley dal secondo matrimonio, Biden tenta una prima corsa alla presidenza nel 1988, finita malamente per le accuse di plagio per copiato brani dei discorsi del leader laburista britannico Neil Kinnock. Quello stesso anno ebbe un doppio aneurisma.

Biden riprova le presidenziali nel 2008 ma sulla sua strada trova Obama, un candidato giovane e carismatico che conquista il campo democratico Ciò si rivela comunque una fortuna per Biden: data la sua esperienza a Washington, il giovane Barack lo sceglie come suo vice, per entrambi i suoi mandati.

Nel frattempo nel 2015 un’altra tragedia colpisce la sua famiglia: il figlio Beau, veterano della guerra in Iraq, procuratore generale del Delaware e uomo con una brillante carriera politica davanti, muore per un tumore al cervello. Joe lo cita spessissimo: «Aveva tutto il meglio di me ma senza i difetti e gli errori». Il figlio Hunter, invece, comincia ad intaccare la sua reputazione conducendo una vita a dir poco sregolata, tra alcolismo, droga e affari poco chiari.

Barak Obama
Fonte: @barakobama

Questo evento lo ha portato a non ricandidarsi alle Presidenziali del 2016, sostenendo la candidatura di Hillary Clinton.

Secondo alcuni, sarebbe stato anche Obama a scoraggiarlo, puntando tutto su un possibile presidente donna. Anche nelle ultime elezioni avrebbe rivelato di volere qualcuno di “più progressista” rispetto al conservatore Biden. Nulla togliendo alla stima che Obama nutre nel suo socio:  il rapporto tra il presidente e il suo vice è stato uno tra i più solidi che si siano registrati nella storia statunitense.

Durante un’intervista Biden raccontò che quando fu diagnosticata la malattia al figlio Beau decise di vendere la sua casa nel Delaware per sostenere i costi molto elevati derivanti dalle cure. Venutolo a sapere, Obama chiese immediatamente di incontrarlo e si offrì di pagare interamente le cure, evitando la vendita della casa di famiglia.(Wikipedia)

Nel 2017 Biden viene insignito da Obama della Medaglia presidenziale della libertà con lode, la massima onorificenza del Paese. In quell’occasione Obama disse:

“Sei stato la prima scelta che ho fatto da candidato, e la migliore”

Nel 2019 ufficializza la sua volontà di partecipare alle presidenziali del 2020.

L’8 aprile 2020, con il ritiro dell’unico sfidante rimasto in corsa, il senatore del Vermont Bernie Sanders, diviene ufficialmente il candidato democratico in pectore alle elezioni presidenziali del 3 novembre.

Il programma

Nonostante sia stato definito un conservatore, il programma di Biden è – neanche a dirlo – molto vicino alle visioni dell’ex Presidente democratico di cui è stato numero 2 per ben otto anni. Ne elenchiamo alcuni punti.

Sanità: Tra i punti salienti risulta sicuramente quello di ristabilire l’Obamacare, violentato dall’ex amministrazione Trump, allargandone la platea dei beneficiari e riattualizzandolo alla luce della pandemia in atto, rendendo, ad esempio, i tamponi e i futuri vaccini accessibili a tutti gratuitamente. Non è invece favorevole nell’approvare la riforma sanitaria Medicare for All, un progetto che renderebbe il governo il principale fornitore di assicurazioni sanitarie per i cittadini americani.

Economia: Biden si rivela d’accordo con Trump, invece nell’alzare la paga minima oraria dei lavoratori a 15 dollari. Inoltre ha minacciato di far pagare delle penali molto severe alle aziende che decidano di delocalizzare i propri stabilimenti di produzione nei prossimi mesi. Al contrario di Trump, però, il leader democratico è più aperto al commercio internazionale, come dimostrato dai trattati di libero scambio approvati durante l’amministrazione Obama, tra cui quello con la Cina, che vuole mantenere nella sostanza cambiando solo qualche punto.

Giustizia e diritti civili: Joe Biden vorrebbe eliminare la pena di morte, le carceri private e la libertà su cauzione, la quale accentua la disparità delle diverse classi sociali. Moderatamente favorevole alla protesta dell’organizzazione Black Lives Matter, è nettamente contrario a tagliare i fondi alla polizia. Sui diritti civili è pronto continuare sulla strada tracciata da Obama, garantendo i matrimoni gay e la libertà di scelta sull’aborto, nonostante la sua fede cattolica. Inoltre, è favorevole a ripristinare l’ammissione dei transgender all’interno dell’esercito.

Ambiente: Biden è un sostenitore degli accordi di Parigi e propone di aumentare la spesa a 1,7 trilioni di dollari per far raggiungere agli Stati Uniti la neutralità climatica entro il 2050

Kalama Harris
Fonte: @finacialtimes

Joe Biden, però, non è l’unico protagonista di questa vittoria. Lo è anche la sua vice, Kalama Harris.

Già da tempo il candidato dem alla Casa Bianca aveva palesato la volontà di scegliere una donna di spicco come suo vice, tanto che era circolato addirittura il nome di Michelle Obama.

Poi l’ufficialità della scelta di Kalama Harris, che oggi entra nella storia come la prima donna a ricoprire una carica così alta in politica e la prima persona nera (e asiatica), a diventare vicepresidente degli Stati Uniti.

Ha 55 anni, è figlia di un padre giamaicano e di una madre indiana, avvocato, scrittrice e anche laureata in arti presso l’Università  di Howard. 

Kalama è stata anche la prima donna a ricoprire la carica di procuratore generale dello Stato di San Francisco, Attorney general della California, e poi senatrice per i Democratici.

Con una carriera che, oltre ad essere un agglomerato di primati, è un escalation di cariche sempre più importanti, sicuramente la Harris è il giusto compromesso progressista che accompagnerà il neoeletto Biden. Kamala è stata subito sostenuta anche dall’ex presidente Obama, che l’ha definita la partner giusta per la vittoria di Joe Biden. La donna rappresenta la linea più progressista del partito grazie alle sue idee e alle sue lotte politiche.

È la prima ma non sarà l’ultima, ha twittato Emily’s List, la più grande organizzatrice statunitense dedicata al sostegno delle candidature delle donne democratiche a tutti i livelli.

Si aprirà, dunque, una nuova pagina democratica con l’inizio del 2021. Non sappiamo cosa succederà, se il nuovo presidente ed il suo vice saranno all’altezza delle aspettative mondiali. Quello di cui siamo certi è che la potenza America continua e continuerà ad interessare il mondo intero, non tanto per il suo ruolo ormai – se vogliamo  – superato dalle potenze asiatiche quanto per l’appeal che solo una regia statunitense sa dare.

Maria Cotugno

Martina Galletta

Elezioni USA: come (non) funziona il sistema elettorale americano e cos’è la voter suppression

Fonte: www.dailycos.com

Durante le elezioni del 3 novembre verranno scelti i grandi elettori che il 14 dicembre eleggeranno il nuovo Presidente. Queste elezioni rappresentano dunque la partita in cui si gioca la scommessa fondamentale per ogni democrazia: lasciare al popolo la facoltà di scelta, nonché la rappresentanza. Non è difficile prevedere gli esiti di tale scommessa se si guarda ai principi che regolano il diritto di voto e, ancor di più, ai meccanismi che ne presiedono l’applicazione.

Le imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, dunque, reclamano la nostra attenzione, ci tengono in allerta ponendoci di fronte ad una questione fondamentale: il valore della democrazia al giorno d’oggi.

Democrazia è un principio valido soltanto in linea teorica o è realmente radicato nel profondo della società americana? Questo interrogativo sorge spontaneo, se si guarda ad un paese che da una parte emerge dalla storia come baluardo della sovranità popolare e che, dall’altra parte, persiste nel portare avanti pesanti ingiustizie e discriminazioni.

Dire America, per molti aspetti, è dire contraddizione. Guardare ai meccanismi che guidano i processi elettorali significa mettere a nudo le modalità attraverso cui tale contraddizione opera minando il fondamento stesso del governo del popolo: il diritto di voto.

Il diritto di voto nella Costituzione americana

Il diritto di voto è garantito dall’emendamento XV della Costituzione americana che recita in tal modo:

Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi Stato in ragione della razza, del colore o della precedente condizione di schiavitù”.

Tale provvedimento venne approvato nel 1870, ma iniziò ad operare in modo del tutto equo soltanto a partire dal 1965 con il Voter Rights Act, che impediva agli Stati di fare leggi che ostacolavano il diritto di voto degli individui, soprattutto grazie alla sezione 5 dove si vietava di applicare leggi elettorali senza il consenso del governo federale scongiurando la pratica secondo cui, Stati di matrice prettamente razzista, infrangessero il diritto di voto dei neri.

Sicuramente fu uno dei provvedimenti più importanti nella storia degli Stati uniti, un passo decisivo in un paese composito ed eterogeneo, fondato su anni di schiavitù e discriminazioni nei confronti delle minoranze, un paese che cercava di intraprendere la strada dell’uguaglianza e dell’equità.

Ma sradicare una tradizione è difficile e nel 2013, la discriminazione contamina nuovamente la democrazia americana infiltrandosi nelle pratiche elettorali. Attraverso un nuovo emendamento, infatti, è stata data la possibilità agli Stati di approvare nuove leggi per il voto senza il consenso del governo federale.

 Il sistema elettorale americano

Prima di capire come nel concreto sperequazioni e disparità divengano protagoniste delle elezioni, è necessario chiarire quale sia il loro terreno d’applicazione e dunque come sia organizzato il sistema elettorale.

Si tratta di un procedimento indiretto: i cittadini, dopo essersi registrati alle liste elettorali, sono chiamati a scegliere i 538 grandi elettori. Il numero dei grandi elettori di ogni Stato è stabilito in proporzione al numero degli abitanti: gli Stati più popolosi avranno un peso maggiore sull’esito delle elezioni. È un sistema che si fonda su procedure burocratiche, dunque di per sé non facilmente accessibile ad alcune categorie, per esempio ai più anziani o ai meni istruiti, un sistema che favorisce la voter suppression.

Fonte: www.dailykos.com

Il fenomeno della voter suppression

Con questa espressione si indicano tutte quelle pratiche finalizzate all’esclusione di alcune fasce della popolazione dall’elettorato e, proprio in tali pratiche, si manifesta il concetto di contraddizione da cui siamo partiti: uno Stato che si definisce democratico mette in pericolo la condizione d’esistenza necessaria di una democrazia: il diritto di voto.

Il fenomeno della voter suppression non è di nascita recente; si è manifestato, come vedremo, nelle elezioni americane degli ultimi anni, in particolare in alcuni Stati e, se è vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio, se è vero che le tendenze non sono semplici da snaturare, è anche vero che tale fenomeno si ripresenterà nelle elezioni del 2020. Per questa ragione non può essere passato sotto silenzio e, capire quali siano le modalità attraverso le quali opera, può aiutare a riconoscerlo e a smascherarlo.

I meccanismi della voter suppression– Fonte: www.kchronicles.com

I meccanismi della voter suppression

Cittadini sottoposti alla richiesta dei documenti – Fonte: www.sierraclub.org

Uno dei metodi è la richiesta di un documento di identità da esibire al seggio, il che significa ostacolare gli abitanti di quartieri poveri o le minoranze etniche che nella maggior parte dei casi, in un paese in cui possedere i documenti non è obbligatorio, ne sono sprovvisti. Esemplari sono gli avvenimenti in Texas, Missisipi e Alabama, i cui elettori sono stati obbligati a procurarsi un documento che avrebbe dovuto combattere la frode. L’11% degli elettori, comprendente giovani che abitavano quartieri poveri, è stato così escluso dalla possibilità di votare.

Riprovevoli sono poi gli atti intimidatori a cui spesso sono sottoposti gli elettori al seggio.

Lo stesso Trump in un’intervista tenuta nell’Agosto del 2020 da Fox News, riferendosi all’elezioni di Novembre, ha affermato: “We’re going to have everything, we’re going to have sheriffs, we are going to have law enforcement”,  dimostrando la sua intenzione di sottoporre tutti gli elettori a controlli che possano provare il possesso dei requisiti necessari per votare. Questo ha come conseguenza l’esclusione dal voto di tutti coloro che decidono di non presentarsi al seggio per paura.

Vi è poi la pratica dell’epurazione delle liste elettorali, che consiste nel tentativo di eliminare attraverso un espediente i votanti dalle liste. Un votante viene ufficialmente rimosso dalle liste dopo aver subito condanne penali, per infermità mentale o morte, per mancata conferma del cambio di residenza. Tuttavia, ci sono stati dei casi in cui gli elettori non si sono più ritrovati nelle liste senza che nessuna di queste condizioni si fosse presentata. Per esempio, in Georgia, secondo un’inchiesta del giornalista della BBC Greg Palast risalente al 2019, circa 313.243 elettori sono stati rimossi dalle liste elettorali poiché residenti in un altro Stato. In realtà solo 198.352 avevano cambiato indirizzo di residenza e la loro eliminazione sarebbe dovuta ad un presunto sbaglio. Tra l’altro, chi non aveva votato nelle ultime due elezioni federali e non aveva confermato il proprio indirizzo era considerato trasferito in un altro Stato.

Rientra nei meccanismi di voter suppression anche la campagna avviata da Trump, in occasione delle ultime elezioni, contro il voto per corrispondenza che, a suo dire, non sarebbe giustificabile neanche dall’emergenza Covid, in quanto potrebbe facilitare frode e imbrogli. In realtà la ragione di tale campagna vacilla, non regge: il Brennan Center for Justice ha mostrato che la frode elettorale negli Stati Uniti di America si aggira tra lo 0,0003 % e lo 0,0025 %.

Incide sulla possibilità di esercitare il diritto di voto anche la carenza delle risorse, soprattutto nei quartieri più poveri abitati da minoranze etniche, dove il numero dei seggi elettorali messi a disposizione è esiguo. Per questa ragione molti sono coloro che, costretti ad aspettare in fila ore e ore prima di votare, decidono poi di rinunciare. Durante le primarie del 2018 gli elettori neri, in media, proprio perché spesso vivono in quartieri poveri e con meno risorse, hanno aspettato il 45 % più a lungo degli elettori bianchi per votare.

Paesi vittime della voter suppression nel 2012- Fonte: www.americanprogress.org

 

In tale scenario, di per sé già catastrofico, si innesta, in occasione delle elezioni di quest’anno, anche la pandemia, che renderà difficile la gestione dei votanti nei seggi elettorali e che probabilmente ridurrà il numero degli elettori, in larga parte spaventati dalla possibilità del contagio.

Lasciamo adesso la parola al 3 Novembre 2020 e a cosa ci riserverà la “democrazia” americana.

                                                                                                 Chiara Vita