Attacco notturno degli Stati Uniti, morto il leader dell’Isis

L’intelligence statunitense progettava un attacco ai danni dell’Isis da mesi. Il bersaglio era chiaro: il capo, Ibrahim al Hashimi al Qurayshi. L’obiettivo è stato raggiunto nella notte di Giovedì. Dopo un raid nel nord della Siria durato circa due ore, il leader dell’organizzazione terroristica si è ucciso facendosi esplodere, approfittando di una bomba che aveva con sé.

al-Qurayshi, Fonte: timeofisrael.com

Oltre ad essere stato lungo, l’attacco è stato abbastanza “distruttivo“: al Qurayshi infatti ha deciso di innescare l’ordigno con il quale si è tolto la vita all’interno di un edificio, causandone il parziale crollo e causando, inoltre, la morte di alcuni civili. Tra le 13 persone morte durante l’attacco (non è chiaro quante di queste siano morte a cause della bomba e quante invece per i colpi di arma da fuoco scagliati contro l’edificio dalle truppe americane), secondo le ricostruzioni, vi erano 6 bambini e 4 donne. Queste le dichiarazioni del presidente Biden in merito alla vicenda:

“Un disperato atto di codardia da parte del leader Isis”

Ha dichiarato, inoltre, di aver scelto la via del “raid via terra” al posto dei più convenzionali attacchi tramite droni al fine di salvare il numero più alto possibile di civili. Ma la scelta del suicidio tramite bomba da parte di al Qurayshi ha vanificato ogni speranza da parte degli U.S.A. di “minimizzare i danni”. Il presidente Joe Biden è apparso molto soddisfatto e, all’interno del discorso tenuto alla Casa Bianca in cui “rivendica” l’attacco ha lanciato un segnale ad eventuali altri terroristi dicendo:

“Vi verremo a prendere ovunque”

Biden. Fonte: corriere.it

Chi era al Qurayshi, il leader silenzioso

Dopo la morte, nel 2019, dell’ex califfo Abu Bakr al-Baghdadi ci furono delle lotte intestine all’interno dell’ autoproclamato Stato Islamico (Isis) per la successione. A spuntarla fu, appunto, al Qurayshi, il quale decise sin da subito di adottare una politica di comando nettamente difforme dal suo predecessore. La differenza principale stava nell’esposizione mediatica delle due figure: se da un lato al-Baghdadi rivendicava la maggior parte dei suoi attacchi, apparendo molto spesso in video, al-Qurayshi cercava di mantenere un profilo basso, quasi a voler rimanere nell’anonimato. Il che non sorprende. Difatti, non è raro all’interno di un’organizzazione criminale – sia essa terroristica o no – che il successore al comando tenda a distaccarsi da chi lo ha preceduto, ed Al-Qurayshi probabilmente vedeva nella risonanza a livello globale che aveva il movimento sotto la guida del suo predecessore il suo principale “tallone d’Achille“. Nell’ultimo periodo prima del raid, il leader spendeva la maggior parte della sua vita all’interno della sua residenza.

al-Baghdadi. Fonte: agi.it

L’attacco che sancisce la fine del terrorismo?

Ad un occhio poco attento potrebbe sembrare che questo genere di “conquista” porti inevitabilmente all’annientamento del movimento terroristico. In realtà la storia ci insegna come l’uccisione del leader non porti quasi mai ad uno smantellamento dell’organizzazione. Si ha un esempio chiaro anche all’interno dello Stato Islamico stesso che, dopo la morte di al-Baghdadi, non ha cessato di esistere sebbene abbia in parte cambiato forma. Vi è inoltre una precisazione da fare: un movimento come l’Isis si è generato dall’unione di più movimenti terroristici di dimensioni ridotte. Di conseguenza, nell’ipotesi in cui non riescano a trovare un nuovo leader che succeda ad al-Qurayshi è più probabile una scissione: un ritorno a piccole identità terroristiche distaccate tra loro. Quindi, più che ad una eliminazione totale del movimento si assisterebbe ad una “dispersione” delle sue componenti.

In uno scenario in cui, seppur non totalmente sconfitta, l’Isis risulta sofferente e rimaneggiata a livello organizzativo è facile pensare che l’altra organizzazione jihadista principale, Al Qaeda, voglia approfittare della situazione e accrescere il suo controllo sul territorio.

Esercito Al Qaeda. Fonte: agi.it

Non risulta possibile, quindi, affermare che il raid statunitense di giovedì abbia contribuito ad indebolire il terrorismo. Se subentrerà un nuovo leader è probabile che gli Stati Uniti elaboreranno altri piani per catturarlo. Ciò che fa riflettere però è che, molto spesso, in queste operazioni vengono stroncate le vite di civili aventi l’unica “colpa” di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Francesco Pullella

 

Ucraina: NATO e USA stringono ancora, ma i negoziati continuano. La Russia accusa l’Occidente

Lunedì la NATO ha dichiarato di aver stanziato nuove truppe, navi e caccia da combattimento sui territori dell’Europa dell’Est per intensificarne la difesa, mentre gli Stati Uniti – lo afferma il portavoce del Pentagono, John Kirby – hanno messo in stato d’allerta 8,500 soldati in vista di un eventuale attacco russo.

Giorni prima, il Presidente Biden aveva disposto il ritiro del personale diplomatico non essenziale dall’ambasciata americana in Ucraina, seguito a ruota da una medesima decisione proveniente dal Regno Unito. La Gran Bretagna sostiene convintamente che la Russia voglia instaurare in Ucraina un presidente filo-russo, nonostante non siano state addotte prove a sostegno dell’accusa.

Tuttavia, anche l’Ucraina ed i rappresentanti UE hanno ritenuto il ritiro del personale diplomatico di USA e UK una mossa avventata e prematura, affermando tra l’altro che «non c’è motivo di drammatizzare la situazione mentre i colloqui con la Russia sono ancora in corso».

Il Cremlino non ha tardato a ribattere, bollando questa ulteriore stretta degli Alleati come «un’isteria dell’Occidente ed una diffusione di bugie». Infatti, Mosca ha più volte smentito di avere intenzioni belligeranti, nonostante la tensione ad Est si sia intensificata a seguito del dispiegamento di 100,000 soldati russi sui confini dell’Ucraina alcuni mesi fa.

Quali sono le reali intenzioni della Russia?

Si tratta della domanda a cui gli analisti provano a rispondere ormai da tempo, ma il comportamento imprevedibile di Mosca rende la questione molto complicata. E tuttavia, atteggiamenti del genere presentano alcuni fondamentali precedenti localizzabili nella regione del Donbass, ove nel 2014 alcuni manifestanti armati si sono impadroniti di alcuni palazzi governativi e definiti dal governo Ucraino come terroristi finanziati da Mosca. Non è nuovo che la Russia intervenga sempre nei disordini sociali dell’Europa orientale e, quasi sempre, a favore delle forze separatiste (come nel caso della Crimea, risalente allo stesso periodo).

(fonte: globalriskinsights.com)

Il perché è variabile: da un lato, garantire un margine di influenza sui paesi ex-sovietici; dall’altro, impedire l’espansione della NATO ad Est. Secondo un articolo di Valigia Blu, la Russia proverebbe un senso di tradimento nei confronti degli Stati Uniti a seguito del mancato rispetto della promessa – risalente alla fine della Guerra Fredda – di non espandere l’influenza della NATO ad Est. I fatti hanno rivelato il contrario: nel ’97 arriva il Vertice di Madrid, ove l’allora presidente Clinton ha invitato vari paesi ex sovietici (tra cui l’Ucraina) ad annettersi al Patto Atlantico.

L’articolo continua nel sostenere la tesi che il Cremlino stia mettendo in atto un esempio di “diplomazia coercitiva“, servendosi della pressione militare per costringere gli Stati Uniti al dialogo. Finora, i tentativi diplomatici tenuti a Ginevra non avrebbero dato risultati concreti per via della difficoltà di incontrare i requisiti minimi proposti da entrambe le fazioni.

  • La Russia spinge per il ritiro della NATO dagli Stati che vi hanno aderito post-’97 (tutti Stati ex sovietici) ed, in generale, dal panorama dell’Europa orientale;
  • la NATO chiede che la Russia ritiri le truppe stanziate dal dicembre scorso al confine con l’Ucraina.

Dai recenti incontri non è emerso che alcuno degli schieramenti intenda accettare le condizioni dell’altro.

La polveriera ucraina

Intanto, i consiglieri politici di Russia, Ucraina, Francia e Germania si incontreranno mercoledì a Parigi per parlare del conflitto in Ucraina orientale che, dal 2014, ha mietuto almeno 15,000 vittime. I negoziati di pace sul Donbass hanno ricevuto ormai da tempo una battuta di arresto, laddove nelle elezioni del 2019 erano state uno dei punti programmatici primari del presidente Zelensky. Lo stesso candidato aveva ricevuto un riscontro positivo da Mosca – prima di cambiare totalmente i piani in seguito ad un calo di consensi e porsi in contrasto con la Russia di Putin, invocando l’entrata dell’Ucraina nel Patto Atlantico.

Nonostante sia ben possibile (ma per niente scontato) che tra le intenzioni russe non ci sia quella di invadere l’Ucraina, rimane di fatto una continua escalation di tensioni tra blocchi (ormai è lecito affermarlo) che potrebbero, in concreto, condurre allo scoppio di un conflitto.

(fonte: ispionline.it)

Se ciò avvenisse, si tratterebbe di uno scenario altamente frammentario, ove è divenuta ormai palese l’esistenza di contrasti interni alla stessa NATO (a seguito delle discusse affermazioni di Biden e Macron) – così come di una divisione interna all’Unione Europea, con la Francia che spinge per un sistema di sicurezza comune, Borrell e Germania che non intendono sporcarsi le mani (principalmente perché la Russia è il primo fornitore energetico del nostro continente) e la presidente Von Der Leyen che ha appena approvato un nuovo pacchetto di aiuti finanziari all’Ucraina da 1,2 miliardi di euro.

Senza dimenticare, poi, il ritardo e l’inefficacia degli interventi sanzionatori della NATO e dell’UE già all’alba dell’annessione russa della Crimea.

Valeria Bonaccorso

 

Vertice tra Blinken e Lavrov. Diplomazia a lavoro per scongiurare nuova invasione in Ucraina.

Il vertice tra il Segretario degli Stati Uniti Antony Blinken e il Ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov ha aperto la stagione del dialogo volta a far fronte alle criticità attorno al possibile attacco di Mosca in Ucraina.

Mappa degli spostamenti delle truppe russe -Fonte:limesonline.com

L’incontro tenutosi a Ginevra venerdì 21 gennaio, ha provato a disinnescare la minaccia di un nuovo conflitto in Ucraina. La discussione è stata “franca e corposa”, con il Paese a stelle e strisce che ha più volte richiesto le prove che scongiurerebbero un devastante conflitto in Europa.

La possibile invasione della Russia

L’ipotesi di una possibile invasione russa si è fatta da diverse settimane sempre più concreta. Ciò a causa del posizionamento di migliaia di soldati russi al confine con l’Ucraina Orientale. L’ammassamento, iniziato lo scorso novembre, è stato definito a più riprese una seria minaccia alla realizzazione del cosiddetto allargamento a est” della NATO, un piano formulato nel luglio ’97 durante il vertice di Madrid.

Il possibile attacco della Russia -Fonte:blogsicilia.it

L’allora Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, e i rappresentanti dei governi dei sedici membri decisero all’unanimità di invitare ad aderire alla NATO tre Paesi ex satelliti della vecchia Unione Sovietica e tra questi anche l’Ucraina. La decisione nacque per:

  • prevenire eventuali conflitti in Europa, limitando tensioni e focolai;
  • aumentare le truppe NATO di circa 200 mila unità, dando avvio ad un’alleanza più forte che costituirebbe un deterrente in più nei confronti di eventuali volontà di aggressioni armate ai Paesi membri;
  • garantire maggiore democrazia nei nuovi Stati aderenti. L’ingresso alla NATO impedirebbe dunque il ritorno a regimi autoritari e il tramonto del mondo diviso in due blocchi.

L’obiettivo di costruire equilibri nuovi e più duraturi ha destato preoccupazioni per una possibile operazione militare russa volta ad ostacolarlo.

Gli attacchi della Russia contro l’Ucraina

Attacco a Donbass -Fonte:contropiano.org

Gli attacchi da parte di Putin all’Ucraina non sono inaspettati, anzi negli ultimi 15 anni Mosca ha mostrato in diverse occasioni di essere pronta ad usare la forza per garantire la propria influenza sui Paesi vicini. Tra gli avvenimenti più eclatanti:

  • l’intervento della Russia nel 2008 volto a ricacciare le truppe georgiane che invasero l’Ossezia del Sud, regione autonoma del suo territorio che confina a nord con la Russia e che da tempo rivendicava il riconoscimento della sua indipendenza. L’esercito della Federazione Russa rispose con un intervento militare rapidissimo e in una settimana sconfisse le truppe georgiane respingendole fino quasi alle porte della capitale Tbilisi. Gli accordi firmati dopo la fine della battaglia il 15 agosto 2008, impegnavano la Georgia a rinunciare all’uso della forza contro l’Ossezia e l’Abcasia e la Russia a ritirarsi dal territorio georgiano. Subito dopo la firma, questa proclamò unilateralmente una zona cuscinetto attorno alle due repubbliche e il ritiro delle sue truppe non fu mai completato, facendo rimanere i rapporti tra i due Paesi particolarmente tesi;
  • la guerra dell’Ucraina orientale guerra del Donbass, inizialmente indicata come rivolta dell’Ucraina orientale. Conflitto iniziato il 6 aprile 2014 quando alcuni manifestanti armati si sono impadroniti di alcuni palazzi governativi e definiti dal governo Ucraino come terroristi finanziati da Mosca.

L’incontro delle potenze a Ginevra

Nonostante il punto di svolta non sia ancora trovato il filo del dialogo è rimasto aperto. Gli Stati Uniti stanno cercando una soluzione diplomatica sull’Ucraina, affermando una “risposta rapida e forte” nel caso di invasione Russa.

Le posizioni prese dai due governi sono molto distanti e le reciproche proposte risultano irricevibili da ambe due le parti. Se la Russia richiede che la NATO ritiri le proprie truppe da Bulgaria, Romania e dalle altre repubbliche ex sovietiche, gli Stati Uniti chiedono il ritiro delle decine di migliaia di militari russi ammassati al confine orientale ucraino.

L’incontro tra Blinken e Lavrov – Fonte:ilfoglio.it

L’invio di nuovi armamenti in Bielorussia (alleata della Russia) ha visto subito una controffensiva degli Stati Uniti che hanno già autorizzato Paesi come Estonia, Lettonia e Lituania a trasferire i missili anti-aerei Stinger alle forze ucraine. Ciò ha innescato inevitabilmente non solo la consegna di missili anti-carro Javelin dal Regno Unito alla Nazione come deterrente nei confronti della Russia, ma ha richiamato l’attenzione del Presidente francese Emmanuel Macron, il quale ha dichiarato di essere pronto a mandare i suoi soldati in Romania, se la NATO decidesse di rafforzare la sua presenza nel Paese.

Sebbene gli analisti stiano provando a comprendere le possibili future mosse del Cremlino, l’unica certezza consolidata è il terrore della Russia di perdere la propria sicurezza nazionale attraverso l’allargamento ad est della NATO. È quindi sulla fondamentale importanza data all’Ucraina che si imperna l’obiettivo russo. Lo si legge nell’analisi di un articolo pubblicato lo scorso luglio, che rivela proprio la volontà del presidente Putin di ostacolare l’espansione dell’organizzazione per ricreare un’unità tra russi e ucraini.

Le dichiarazioni di Joe Biden e l’intervento di Emmanuel Macron

Durante la conferenza stampa tenutasi mercoledì 20 gennaio alla Casa Bianca, il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden ha candidamente esposto che le posizioni su come agire ad un presunto attacco russo non sono affatto comuni all’interno dell’organizzazione.

La cupa constatazione ha destato dunque preoccupazioni, ponendo l’accento sulle divisioni interne alla NATO e sull’estensione e gravità che potrebbe avere l’intervento militare russo in Ucraina.

Bisognerebbe dunque valutare, nel caso di un attacco limitato, come dover agire senza destare ulteriori scontri interni su “cosa fare e non fare”. A seguito di tali dichiarazioni molti hanno letto tra le righe un “via libera” dato dal Presidente degli Stati Uniti all’aggressione russa.

Ucraina, Biden -Fonte:lastampa.it

A porre rimedio alla pessima uscita di Joe Biden è stato con un discorso di fronte al Parlamento Europeo Emmanuel Macron. Questi sostiene la necessità per l’Europa di costruire un sistema di sicurezza proprio, da condividere successivamente con gli alleati, in modo da garantire una risposta ferma e immediata all’aggressività di Mosca. Una risposta di questo tipo è innegabile che non vi sia mai stata finora e troppo spesso il Cremlino ha agito conscio dell’assenza del rischio di possibili ritorsioni.

 

Giovanna Sgarlata

Il Nicaragua cessa i rapporti con Taiwan e si avvicina sempre di più alla Cina

Giovedì il ministro degli Esteri del Nicaragua, Denis Moncada Colindres, ha annunciato l’interruzione dei rapporti diplomatici con Taiwan e l’avvio di relazioni ufficiali con la Cina. Tre ore dopo, il Consiglio di Stato cinese ha dichiarato che i due Paesi hanno firmato a Tientsin un comunicato univoco sulla ripresa dei loro rapporti diplomatici.

Il Paese centramericano ha rilasciato un breve comunicato in cui ha citato la politica di Pechino conosciuta come “Una Cina, due sistemi“:

Il governo della Repubblica di Nicaragua oggi romperà le proprie relazioni internazionali con Taiwan e cesserà ogni contatto o relazione ufficiale. Il governo della Repubblica Popolare Cinese è l’unico governo legittimo che rappresenta l’intera Cina e Taiwan è parte inalienabile del territorio cinese.

Taiwan, isola indipendente ma rivendicata dalla Cina come parte integrante del suo territorio, si è espressa con «dolore e rammarico» nei confronti della decisione, affermando che Ortega ha tradito l’amicizia tra le popolazioni di Taiwan e Nicaragua. I due paesi, infatti, durante la Guerra Fredda, erano uniti dalle convinzioni anti-comuniste dei loro Stati autoritari monopartitici, guidati rispettivamente da Chiang Kai-shek e dalla famiglia Somoza.

L’ambasciatore cinese per le Nazioni Unite, Zhang Jun, ha affermato in un tweet che «il principio “Una Cina, due sistemi” è stato ampiamente accettato dalla comunità internazionale e non può essere messo in discussione».

Foto dell’incontro tra l’ambasciatore cinese e nicaraguense, fonte: aljazeera.com

Taiwan e il difficile percorso verso l’indipendenza

I rapporti estremamente tesi tra la Cina e Taiwan risalgono al 1949, quando a Taiwan si rifugiò il governo nazionalista cinese sconfitto dall’insurrezione comunista guidata da Mao Zedong dopo una lunga guerra civile. Da allora e fino al 1987 Taiwan si era trovata sotto legge marziale ed era stata guidata dal Kuomintang, partito formato da esuli cinesi. La Cina rimase dunque per lungo tempo divisa in due: un governo alleato e riconosciuto dall’Occidente relegato sull’isola di Taiwan, e il governo del Partito comunista a guidare tutto il resto del paese.

Le cose cambiarono a partire dagli anni Settanta quando il governo comunista di Pechino iniziò ad essere riconosciuto da più Stati. Ciò comportò un sempre minore riconoscimento a Taiwan con l’espulsione da organizzazioni internazionali. Tra queste anche l’ONU, di cui non fa più parte dal 1971. Ogni richiesta avanzata finora dal governo taiwanese di essere riammesso nell’organizzazione è stata bloccata dall’opposizione della Cina che, in sede di Consiglio di Sicurezza, detiene il potere di veto in quanto membro permanente del Consiglio.

Dopo un breve periodo come membro dell’Assemblea Mondiale della Sanità (AMS), organo legislativo dell’OMS, durante il quale al governo di Taiwan era salito un governo meno ostile alla Cina, Taiwan è stata completamente tagliata fuori dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Con l’esplosione della crisi pandemica da coronavirus, molte richieste da vari Stati (come Giappone, Canada, Nuova Zelanda) sono state avanzate per permettere al Paese di far parte quanto meno dell’AMS, incontrando sempre e comunque il rifiuto della Cina, che ha definito i tentativi di Taiwan di parteciparvi un «complotto politico».

Le recenti mosse di Xi Jinping

Alcuni mesi fa, il presidente cinese Xi Jinping è tornato a parlare di «riunificazione» con Taiwan nonostante qualche tempo prima avesse detto di voler «distruggere completamente» ogni tentativo di indipendenza dell’isola. Inoltre, le azioni bellicose della Cina nei confronti di Taiwan si sono fatte più intense e provocatorie, a tal punto che pare che da circa un anno gli Stati Uniti stiano addestrando l’esercito di Taiwan per resistere a un eventuale attacco. Un’eventualità che secondo il ministro della Difesa taiwanese potrebbe verificarsi entro il 2025.

Xi ha detto di puntare a instaurare a Taiwan il principio “una Cina, due sistemi”, su cui si basa anche il complicato rapporto tra Cina e Hong Kong.

Il presidente nicaraguense Daniel Ortega, fonte: reuters.com

Il gesto del Nicaragua come provocazione agli USA

Fonti attendibili taiwanesi hanno comunicato a Reuters che la tempistica dell’interruzione delle relazioni diplomatiche sarebbe stata provocatoria, in quanto giunta durante la partecipazione della stessa Taiwan al Summit per la Democrazia dell’amministrazione Biden. Interpellati sul caso, gli Stati Uniti hanno affermato che «la decisione non riflette le vere intenzioni del popolo del Nicaragua per via della “farsa” messa in atto alle elezioni del 7 novembre, tenutesi  in seguito alla pesante repressione di ogni realistica concorrenza ed incarcerazione degli opponenti politici».

Il Nicaragua si trova infatti da 14 anni sotto il regime autoritario del Presidente Daniel Ortega e del suo vice Rosario Murillo. I due sono stati protagonisti di una lunga e sanguinosa storia politica e non sono poche le accuse di voler trasformare il Paese in uno Stato di polizia con lo scopo di imporvi un controllo dinastico.

Fino ad alcuni anni fa, i paesi che riconoscevano Taiwan come stato indipendente e legittimo erano 21 ma con la recente presa di posizione nicaraguense il numero è, ad oggi, calato a 14 (13 più il Vaticano).

Valeria Bonaccorso

G20 a Roma: ecco gli incontri tra i leader mondiali e di cosa si parlerà

A poche settimane dall’ultimo – straordinario – incontro dei leader del G20 (per discutere della situazione afghana dopo la presa talebana di Kabul), tra oggi e domani, 30 e il 31 ottobre, si svolgerà a Roma il summit del G20. Si tratta dell’incontro più importante che segna la fine di un anno dedito alle Tre P: Persone, Pianeta, Prosperità. Se non altro, perché l’Italia, nella sua presidenza, ha deciso di vertere fortemente su queste priorità.

Tra le mura di una Roma blindata e sotto l’imperante Nuvola (Roma Convention Center) del quartiere dell’Eur, cambiamento climatico e Global Minimum Tax torneranno al centro del dibattito. Non mancheranno, poi, accenni sui vaccini ed anche sul progetto per la Difesa Europea. Altri importanti temi saranno quelli della lotta alla crisi economica causata dalla pandemia e la situazione afghana. Peraltro, di fondamentale importanza rimane trovare un punto d’incontro sulle strategie di tutela ambientale in vista della COP26, annuale conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite.

(fonte: agi.it)

I leader mondiali oggi a Roma

Ad accompagnare il Presidente del Consiglio Mario Draghi in qualità di rappresentante dell’Italia, moltissime figure di spicco: il re Salaman per l’Arabia Saudita, Alberto Fernández per l’Argentina, Scott Morrison per l’Australia, Jair Bolsonaro per il Brasile, Justin Trudeau per il Canada, Xi Jinping da remoto per la Cina, Moon Jae-In per la Corea del Sud, Emmanuel Macron per la Francia, Angela Merkel (accompagnata dal suo vice Olaf Scholz nell’ultimo G20 della Cancelliera), Fumio Kishida in collegamento dal Giappone, Narendra Modi per l’India, Joko Widodo per l’Indonesia, il ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard che farà le veci del Presidente; Boris Johnson per il Regno Unito, Recep Tayyip Erdoğan per la Turchia, Joe Biden per gli Stati Uniti, Vladimir Putin in collegamento dalla Russia, Cyril Ramaphosa per il Sud Africa, Pedro Sánchez per la Spagna e, da ultimi – ma non meno importanti – la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel a rappresentare l’Unione Europea.

Diversi leader hanno approfittato della permanenza per incontrare le più alte cariche dello Stato, primo tra tutti il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fotografato ieri in compagnia di Biden. Lo stesso ha intrattenuto un colloquio con Papa Francesco, che Biden ha definito come «Il più grande combattente per la pace che abbia mai conosciuto». I temi del colloquio sono stati quello del clima, della pandemia, ma anche della libertà religiosa e di coscienza.

(ilmessaggero.it)

Per Biden si prepara un altro incontro, questa volta col leader turco Erdoğan: verranno trattate le situazioni in Siria ed Afghanistan, ma anche la questione del supporto di Washington all’YPG in Siria nell’ottica della lotta allo Stato Islamico. La Turchia considera l’YPG (Unità di Protezione Popolare siriana) alleata del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan, un’organizzazione ritenuta terroristica tanto in Turchia quando negli USA e nell’UE).

L’occasione per la ricostruzione del blocco occidentale

In molti hanno fatto notare la similitudine tra le agende del Presidente Biden e Draghi: in particolare, il primo potrebbe trovare un importante supporto nel secondo. Ma anche oltre l’apertura atlantista di Draghi, l’occidente troverebbe un importante alleato democratico nell’India di Modi. Lotta ai cambiamenti climatici, uscita dalla crisi pandemica ed economica, corsa allo spazio sarebbero tutti temi parte dell’agenda di ricostruzione del blocco occidentale in opposizione alle pressioni di Cina Russia.

Valeria Bonaccorso

Processo Floyd: condannato a 22 anni e mezzo di carcere l’ex agente Chauvin. Biden: «Sentenza appropriata»

Condannato a 22 anni e mezzo di carcere Derek Chauvin, l’ex agente di polizia 45enne ritenuto responsabile dell’uccisione dell’afroamericano George Floyd, durante l’arresto, il 25 maggio del 2020 , a Minneapolis, in Minnesota. L’avvenimento provocò l’esplosione su scala globale del movimento antirazzista “Black Lives Matter’’.

Fonte: Huffington Post

La decisione è arrivata dopo che lo scorso 20 aprile, Chauvin era stato ritenuto colpevole dalla giuria popolare per tutti e tre i capi di accusa: «omicidio di 2° grado», cioè colposo, ma con il presupposto di un’aggressione o un assalto contro la persona; «omicidio di 3° grado», per condotta pericolosa e negligente; «omicidio preterintenzionale». Il giudice aveva allora annunciato 8 settimane di attesa per stabilire la pena.

La sentenza del giudice

«Sono solidale con il dolore della famiglia Floyd, ma la mia decisione non si basa sulle emozioni e non intende mandare un messaggio di tipo politico»,

precisa il giudice Peter Cahill in un’insolita premessa alla lettura della sentenza e spiegando inoltre che alla decisione è allegato un memorandum di 22 pagine con le motivazioni.

L’ex agente Derek Chavin. Fonte: Il Fatto Quotidiano

Cahill ha richiamato le linee guida del codice penale del Minnesota, per le quali sono previsti tra i 12 e i 15 anni di reclusione per l’omicidio di secondo grado, il reato più grave (le pene non sono cumulabili). Il magistrato ha poi aggiunto il carico di quattro aggravanti, tra le quali l’«abuso dell’autorità», arrivando al risultato finale di 22 anni e 6 mesi.

La sentenza del giudice della Contea di Hennepin ha incontrato la delusione dei parenti di Floyd e del mondo dell’attivismo per i diritti, in quanto l’accusa aveva chiesto 30 anni di carcere per Derek Chauvin.
Il pubblico ministero Matthew Frank spiega perché:

«Non è stato uno sparo momentaneo, un pugno in faccia. Sono stati 9 minuti di crudeltà verso un uomo che era impotente e stava solo implorando per la sua vita».

Gli interventi della famiglia Floyd e dell’imputato

Durante l’udienza di ieri non è mancato lo spazio agli interventi delle parti, prima che venisse comunicata la sentenza: sono stati ascoltati i cari di Floyd e lo stesso imputato Chauvin, che con voce tremante e palesemente scosso ha espresso le condoglianze alla famiglia Floyd.

Questo il commento rilasciato dalla sorella di George, Bridgett Floyd:

«La sentenza emessa oggi nei confronti dell’ufficiale di polizia di Minneapolis che ha ucciso mio fratello George Floyd mostra che le questioni relative alla brutalità della polizia vengono finalmente prese sul serio. Tuttavia, abbiamo una lunga strada da percorrere e molti cambiamenti da apportare prima che i neri si sentano finalmente trattati in modo equo e umano dalle forze dell’ordine in questo Paese».

Bridgett Floyd. Fonte: Audacy

Non ha avuto «nessun riguardo per la vita umana, per la vita di mia fratello», ha detto, invece, il fratello, Philonise Floyd, chiedendo al giudice di assicurarsi che Chauvin non possa uscire dal carcere prima di aver scontato tutta la sua pena.

Ma il momento più toccante è stato senz’altro quando Gianna, la figlia di 7 anni di George Floyd, è intervenuta tramite collegamento video con l’aula del tribunale: «Gli direi che mi manca e che gli voglio bene». A chi le chiedeva cosa farebbe se potesse vedere di nuovo suo padre ha risposto: «Voglio giocare con lui».

Il commento di Biden

Mentre stava parlando con i giornalisti alla Casa Bianca – in attesa dell’incontro con il presidente dell’Afghanistan – anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha espresso la sua opinione in merito alla condanna dell’ex poliziotto, dichiarando che «la sentenza sembra appropriata», pur comunque aggiungendo di non conoscere tutti i dettagli.

Un mondo unito in protesta

L’ingiustizia razziale è un problema mondiale (e non solo americano) che esiste da tempo, cosicché l’uccisione di Floyd ha rappresentato un solo sintomo di un problema più grande che sottende alle morti di tanti altri neri, dei quali gli ultimi minuti di vita non sono stati però ripresi da un video, a differenza di Floyd: dai 164 neri uccisi dalla polizia statunitense nei primi otto mesi del 2020 all’omicidio dell’infermiera di 26 anni Breonna Taylor, uccisa in casa il 13 marzo 2020 con un colpo d’arma da fuoco.

Fonte: Il Post

Nel Regno Unito le proteste hanno dilagato in tutto il Paese, con manifestazioni che hanno innalzato cartelli con i nomi di Joy Gardner, Sean Rigg o Mark Duggan, tutte vittime di razzismo. In Francia il movimento per la giustizia razziale trova espressione nel volto di Assa Traoré, il cui fratello è morto in circostanze simili a quelle di Floyd.

Vedere riconosciuta l’esistenza del razzismo e la possibilità di esprimere liberamente il proprio sostegno alla protesta – senza preoccuparsi di conseguenze quali la perdita di lavoro o la manipolazione – sono fonte di profondo sollievo per i neri: agli US Open di settembre la tennista nera giapponese Naomi Osaka ha indossato mascherine con stampati i nomi delle vittime della polizia. E come lei, tante altre celebrità si sono unite alle voci della protesta quali l’attore di Star Wars John Boyega e il quarterback di football americano Colin Kaepernick.
Ma la strada per lo smantellamento delle strutture oppressive e per il raggiungimento di una società scevra di ingiustizie e pregiudizi è ancora molto lunga.

Atteso il processo degli altri tre poliziotti coinvolti

La sentenza per Chauvin non chiuderà il caso Floyd, mancando ancora da processare gli altri tre ex agenti – Thomas Lane, J. Alexander Kueng e Tou Thao, incriminati per la morte di Floyd con l’accusa di averne facilitato l’omicidio. Lane e Kueng avevano infatti aiutato Chauvin a tenere Floyd a terra, mentre Thao aveva assistito senza far nulla per fermarli. Il loro processo dovrebbe iniziare ad agosto.

Gaia Cautela

Nuovo colpo di scena sulle origini del Covid: l’indagine di Jesse Bloom

Si aggiunge un nuovo tassello nel mosaico delle origini del Covid-19 grazie allo studio condotto dallo scienziato statunitense Jesse Bloom.

L’indagine di Jesse Bloom

In arancione le particelle del virus SarsCoV2 – Fonte: www.ansa.it

Il virologo Jesse Bloom, del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, ha condotto un’indagine che potrebbe gettare una nuova luce sulle origini della pandemia. Come riportato su Biorxiv (che raccoglie gli articoli non ancora vagliati dalla comunità scientifica), il ricercatore americano ha ritrovato sequenze del virus che risalgono all’inizio della pandemia, che sarebbero state pubblicate da un team di ricercatori cinesi nell’archivio del National Institute of Health (NIH) americano e poi, pochi mesi dopo, rimosse per oscurarne l’esistenza. Bloom, come si legge nel documento, sarebbe riuscito a recuperare i file cancellati da Google Cloud e a ricostruire le sequenze parziali di 13 campioni di virus raccolti da pazienti ricoverati tra gennaio e febbraio 2020 a Wuhan.

Bloom dice di aver contattato i ricercatori cinesi per chiedere perché hanno rimosso i dati senza ricevere alcuna risposta. Dettagli in merito arrivano dal NIH che ha affermato di aver rimosso le sequenze su richiesta del ricercatore che ha presentato i dati e che, quindi, detiene i diritti sugli stessi. Secondo quanto detto dallo scienziato cinese all’istituto americano, le informazioni sulle sequenze, dopo essere state aggiornate, sarebbero state poi pubblicate su un’altra banca dati. Bloom ha invece detto di non aver trovato le sequenze in nessun altro database di virologia che conosce.

C’è ancora molto da sapere sulle origini del Covid

Per alcuni scienziati le affermazioni rafforzano i sospetti che la Cina abbia qualcosa da nascondere sulle origini della pandemia, per altri il lavoro investigativo di Bloom è molto rumore per nulla, perché gli scienziati cinesi hanno poi pubblicato le informazioni virali in una forma diversa, e le sequenze recuperate aggiungono poco a ciò che si sa sulle origini della SARS-CoV-2.

Se da una parte è vero che questa scoperta non cambia il quadro scientifico sulle prime settimane della diffusione del virus, dall’altra parte mette in luce sia la carenza di trasparenza da parte di Pechino, sia che ancora agli scienziati potrebbero mancare molti tasselli per trarre conclusioni accurate sulle origini del covid. “Penso che fornisca ulteriori prove che questo virus era probabilmente in circolazione a Wuhan prima di dicembre, certamente, e che probabilmente, abbiamo un quadro meno che completo delle sequenze dei primi virus”, ha affermato Jesse Bloom.

L’ipotesi della fuga dal laboratorio di 18 scienziati

La scoperta di Bloom rafforza quel clima di sospetti e dubbi alimentato da politici e scienziati. Ne è espressione la lettera di 18 scienziati, pubblicata circa un mese fa su Science, in cui si legge che l’ipotesi secondo cui un coronavirus del pipistrello avrebbe contaminato l’uomo attraverso un animale intermedio non è ancora l’unica da considerare attendibile. “L’obiettivo di questa lettera è fornire un sostegno scientifico alle persone che hanno il potere di lanciare un’inchiesta internazionale Potranno evocarla per dire che scienziati di alto livello, in una serie di campi pertinenti, pensano che sia necessaria un’inchiesta rigorosa sull’ipotesi dell’incidente di laboratorio”, ha detto la biologa molecolare Alina Chan, una delle coautrici dell’articolo.

Laboratorio a Wuhan – Fonte: www.ansa.it

A mettere in discussione le posizioni ufficiali rilasciate dall’autorità cinesi, c’è poi Le Monde. Nel giorno in cui la lettera veniva pubblicata su Science, infatti, sul quotidiano francese è apparso un articolo riguardante uno studio universitario condotto nei laboratori dell’Istituto di virologia di Wuhan sul virus RaTG13. Si tratterebbe di un virus prelevato nel 2013 in una miniera abbandonata a Mojiang, nella provincia dello Yunan, dove vivevano pipistrelli che nella primavera del 2012 hanno contagiato sei operai. Stando allo studio, tre di questi operai sono morti per le conseguenze di una malattia polmonare che presentava sintomi molto simili a quelli da Covid-19. Da questo lavoro universitario sembra emergere il fatto che gli scienziati, non solo fossero a conoscenza, ma anzi avessero avuto modo di studiare questi coronavirus ben più di quanto non abbiano fatto intendere a partire dal momento in cui è scoppiata la pandemia.

La richiesta di nuove indagini di Biden e del G7

Il presidente Joe Biden – Fonte: www.ansa.it

Lo stesso Biden a fine maggio ha chiesto all’intelligence americana un rapporto sulle origini del Covid-19 entro 90 giorni, cioè entro fine agosto. La Casa Bianca non esclude nulla, neppure una diffusione deliberata del Covid-19.

Anche i leader del G7, dopo il vertice di tre giorni in Cornovaglia, hanno chiesto all’Oms una tempestiva e trasparente indagine sulle origini del Covid. “Chiediamo progressi su una fase due di uno studio dell’Oms sulle origini del Covid-19 che sia libero da interferenze”.

Chiara Vita

G7 2021: ecco di cosa si è parlato durante il vertice dei 7 in Cornovaglia

Si è conclusa domenica sera, a Carbis Bay, in Cornovaglia (Regno Unito), la riunione del G7, l’organismo che riunisce ogni anno i leader dei 7 maggiori Stati economicamente avanzati del mondo: Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia e Italia, più una delegazione dell’Unione Europea.

G7 in Cornovaglia. Fonte: Il Post

Il vertice, cominciato venerdì 11 giugno, si è concluso con un comunicato finale nel quale figurano – tra i principali temi trattati – il contrasto all’espansionismo del regime cinese, e qualche generico impegno relativo alla pandemia e al cambiamento climatico.

Parte significativa del dibattito è stata poi monopolizzata dalle discussioni tra il primo ministro britannico Boris Johnson e i leader dei Paesi dell’Unione Europea su Brexit. Ciononostante, i partecipanti all’incontro hanno cercato di trasmettere l’immagine di un’atmosfera cordiale e di un ritorno alla normalità, dopo i conflittuali e turbolenti rapporti che avevano in precedenza caratterizzato la presidenza Trump.

La dura condanna alla Cina

La questione dei rapporti con la Cina è stato sicuramente l’argomento più discusso durante il vertice: i sette big si sono allineati sulle posizioni di condanna al lavoro forzato e al mancato rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali della minoranza etnica degli uiguri nella regione dello Xinjang, oltre alla richiesta di autonomia di Hong Kong e Taiwan.

La sfida a Pechino è stata capeggiata dal presidente americano Biden, il quale è riuscito a convincere gli altri leader della necessità di attuazione di una politica più dura e aggressiva nei confronti del Dragone cinese.

Ancor prima dell’uscita del comunicato finale dell’incontro, gli Stati Uniti hanno pertanto annunciato di aver trovato un piano di ‘’competizione strategica’’ con la Cina, che prevede un ampio programma di investimenti in infrastrutture nei Paesi a basso e medio reddito «dall’America Latina ai Caraibi all’Africa all’Indo-Pacifico» (definizione usata per indicare le nazioni tra Asia meridionale e Oceania, che hanno interessi comuni nel contrastare la Cina).

Il piano alternativo alla Via della Seta

Il piano del G7 rappresenta un’evidente risposta all’influenza della Nuova via della Seta cinese (detta anche Belt and Road Initiative, BRI), un progetto di investimenti infrastrutturali in Asia, Africa ed Europa annunciato dal presidente Xi Jinping nel 2013, con l’obiettivo di guadagnare influenza economica e prestigio politico in moltissimi paesi più poveri.

Fonte: Avvenire

Il piano, denominato Build Back Better World (B3W) in un chiaro rimando al piano infrastrutturale statunitense ‘’Build Back Better’’, prevede di mobilitare centinaia di miliardi di dollari di investimenti pubblici e privati nella costruzione delle infrastrutture in quegli stessi Paesi, al fine di creare partnership strategiche stabili e durature. In particolare, l’iniziativa concentrerà i propri progetti su «cambiamento climatico, salute, tecnologia digitale, uguaglianza di genere».

Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato che l’Italia – l’unico paese occidentale ad aver siglato il patto nel 2019 – «valuterà con attenzione» l’accordo sulla Via della Seta.

Qualche ora dopo la pubblicazione del comunicato finale, l’ambasciata cinese nel Regno Unito ha respinto le accuse sostenendo che il comunicato contenga «bugie, voci non confermate e accuse infondate», e accusando i paesi del G7 di «interferire negli affari interni della Cina».

Gli impegni del G7 in tema di pandemia

Nelle fasi iniziali del G7 si è parlato molto anche di un piano per il contrasto alla pandemia per «fare in modo che la devastazione provocata dal coronavirus non si ripeta mai più».

All’interno del piano i leader hanno annunciato l’impegno ad accelerare le fasi di sviluppo e di produzione di vaccini, di terapie e di test diagnostici in caso di una nuova pandemia. L’obiettivo prefissato sarebbe quello di riuscire ad avere terapie efficaci, un sistema di test diagnostici e vaccini pronti ad essere esportati su scala globale entro 100 giorni dopo la dichiarazione di pandemia da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), motivo per cui il G7 ha parlato di «missione dei 100 giorni».

Fonte: Avvenire

Oltre ad avere richiesto un’inchiesta da parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità sull’origine del Covid in Cina, i potenti della Terra si sono anche impegnati a donare nel complesso un miliardo di dosi vaccinali contro il Covid ai Paesi in via di sviluppo. Si tratta comunque di una piccola parte degli 11 miliardi di dosi che a detta dell’OMS sarebbero necessari per raggiungere una percentuale del 70% della popolazione mondiale vaccinata.

Cambiamento climatico e tasse

Altri due temi di cui i leader hanno parlato durante il vertice sono stati il cambiamento climatico e l’imposizione di una tassa del 15% sui profitti delle multinazionali, che ha rappresentato un compromesso più concreto già raggiunto e annunciato nei giorni scorsi.
Sul tema dell’ambiente la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha anticipato la conclusione dei lavori su Twitter:

“I partner del G7 stanno firmando un importante impegno congiunto per l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050 (come ultimo termine) e per mantenere alla portata l’aumento della temperatura di 1,5 gradi. Faremo tutto il possibile per attenerci all’1,5“.

Nel comunicato finale del G7 si leggerà poi la seguente promessa:

“Ci impegniamo ad accelerare la transizione dalle vendite di auto nuove diesel per promuovere veicoli a zero emissioni”.

L’Irlanda del Nord e la ‘’guerra delle salsicce’’

Una parte consistente della copertura mediatica del G7 è stata occupata dalle discussioni tra Boris Johnson e i leader dei paesi dell’Unione Europea, in uno scontro definito dai media come ‘’guerra delle salsicce’’.

Il principale problema ha riguardato il divieto – a partire dall’1 luglio e sulla base degli accordi Brexit – di esportazione alle aziende della Gran Bretagna di carichi di carne refrigerata verso l’Irlanda del Nord, unica parte del Regno Unito rimasta nel mercato comune europeo.
L’entrata in vigore di tale divieto era già ben nota ai tempi della firma degli accordi su Brexit, ma Johnson minaccia adesso di sospendere la parte degli accordi che riguarda l’Irlanda del Nord, ricevendo così minacce di sanzioni in risposta dagli europei.

La prossima edizione del G7 è prevista per l’estate del 2022 in Germania, e si tratterà molto probabilmente del primo importante impegno internazionale della persona che succederà ad Angela Merkel nell’incarico di cancelliere tedesco.

Gaia Cautela

Global Minimum Tax, la nuova tassa per colpire le Big Tech e i paradisi fiscali

Sabato i Ministri delle Finanze degli Stati appartenenti al G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti) riuniti a Londra hanno raggiunto un primo accordo – ma la strada rimane lunga e impervia – sulla Global Minimum Tax (Aliquota Minima Globale). Ma di cosa si tratta?

La Global Minimum Tax, fortemente voluta dall’amministrazione Biden e dalla Segretaria del Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen, è una proposta che prevede un’imposta minima sulle società multinazionali del 15% a livello globale. La tassazione agirebbe in base a due principi, un tempo fortemente sfruttati a proprio favore dalle grandi aziende, specialmente dalle Big Tech (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft):

  • Pay your fair share of taxes, “Pagare il giusto contributo”;
  • Level Playing Field, “Parità di condizioni”.

Una particolarità di questa tassa consisterebbe in un’azione individuata in base a dove la vendita viene realizzata e, quindi, nel paese in cui vengono effettivamente realizzati i profitti. Lo scopo è palese: come ha sottolineato la Segretaria del Tesoro Yellen, mirerebbe a porre fine ad «un’esperienza lunga 30 anni di corsa al ribasso nella tassazione d’impresa», ovverosia il fenomeno che induce i governi a ridimensionare drasticamente le imposte societarie nel tentativo di attrarre investimenti da parte delle grandi multinazionali. Uno degli obiettivi sarebbe, dunque, colpire i paradisi fiscali.

(fonte: globalist.it)

I paradisi fiscali ed il divario sociale

Un report del 2016 dell’OXFAM International (Confederazione Internazionale di organizzazioni non-profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale) ha evidenziato come il divario tra classi sociali, all’interno di paesi a bassa tassazione, sia accentuato da questo fenomeno.

I governi che riducono il carico fiscale per le grandi imprese, hanno di fronte a sé due alternative: tagliare le spese per i servizi pubblici indispensabili per ridurre la disuguaglianza e la povertà, oppure ovviare alla riduzione delle entrate aumentando le imposte sulle fasce sociali meno abbienti, per esempio l’imposta sul valore aggiunto (IVA). Nell’Africa sub-sahariana le imposte indirette come l’IVA, che gravano in misura sproporzionata sui più poveri, costituiscono in media il 67% del gettito fiscale e colpiscono maggiormente le donne. I maggiori profitti delle imprese derivanti da una minore imposizione fiscale vanno invece a beneficio degli azionisti e dei proprietari delle corporation, persone prevalentemente già abbienti, accentuando così ulteriormente il divario tra ricchi e poveri.

La ratio della scelta dei paradisi fiscali (tra i quali spiccano diversi paesi europei o del continente europeo come Svizzera, Paesi Bassi, Irlanda, Cipro e Lussemburgo) sarebbe, come già accennato, di attrarre gli investimenti delle multinazionali. Eppure il report intende smentire quest’utilità, affermando che il criterio della bassa tassazione non rientra tra i “12 criteri” principali con cui le società, in base al Global Competitiveness Report (GCR), decidono dove investire. Il Rapporto generato dal Forum Economico Mondiale individua i paesi che più abilmente riescono a provvedere al benessere dei propri cittadini.

(fonte: europa.today.it)

La posizione europea tra i sì, i no e i forse

Alcuni paesi europei come Francia e Italia – che sono, tra l’altro, già muniti di una propria Digital Tax – hanno accolto la proposta positivamente, pur essendo determinati a mantenere i propri criteri di tassazione finché la Global Tax non si realizzerà. Tuttavia, altri paesi come Cipro e Irlanda (che annoveriamo tra i principali paradisi fiscali societari) si sono espressi in contrario alla proposta, con Cipro che minaccia di apporre il veto in Consiglio UE (per cui è necessaria l’unanimità dei consensi in materia fiscale).

D’altro canto, l’Osservatorio Europeo sulla Tassazione – ha rivelato Il Fatto Quotidiano in un articolo – ritiene che un’aliquota del 15% sia inadeguata. Difatti, con una tassazione del genere sulle multinazionali appartenenti a ciascun paese UE, l’Osservatorio ha calcolato un gettito aggiuntivo complessivo che ammonterebbe a 50 miliardi (di cui 2,7 all’Italia), contro i 170 miliardi (di cui 11,1 all’Italia) che si realizzerebbero se l’aliquota sulle società ammontasse all’originario 25% ipotizzato per la global tax

La proposta finora discussa rappresenta senza dubbio, per la maggior parte degli interlocutori, un possibile risultato storico, ma dal punto di vista italiano la percentuale andrebbe di gran lunga sotto l’attuale 24% imposto dall’IRES (Imposta sul reddito delle società). 

Il futuro della proposta

È previsto entro il prossimo mese un incontro del G20 a Venezia per discutere sull’approvazione della proposta da parte dei più grandi paesi in via di sviluppo. Intanto, rimane aperta la questione riguardante la tassazione sui servizi digitali delle grandi aziende tecnologiche (come le Big Tech) nelle varie giurisdizioni. Gli USA mirerebbero ad eliminare tali giurisdizioni, minacciando anche d’imporre dazi e sanzioni e, in generale, di condurre alcune piccole guerre commerciali ai paesi che non intendano rinunciarvi.

Per gli USA è dunque necessario un « adeguato coordinamento tra l’applicazione delle nuove regole fiscali internazionali e la rimozione di tutte le tasse sui servizi digitali».

 

Valeria Bonaccorso

Strage a Kabul, più di 68 morti tra giovani studentesse liceali e residenti

Fonte: Il Post

Sabato pomeriggio tre esplosioni ravvicinate in un quartiere occidentale di Kabul, capitale dell’Afghanistan, hanno causato la morte di almeno 60 persone e centinaia di feriti, seppure il bilancio ufficiale delle vittime non sia stato ancora confermato. Si tratterebbe soprattutto di giovani studentesse corse fuori in preda al panico dal liceo Sayed Ul Shuhada che frequentavano. 

Nemmeno la natura delle esplosioni è stata ancora chiarita, anche se l’attacco – il più sanguinoso dell’ultimo anno – sembrerebbe in qualche modo collegato al ritiro delle ultime truppe americane nel Paese, ordinato diversi mesi fa dall’ex presidente statunitense Donald Trump. L’azione non è stata per il momento rivendicata.

Le dinamiche dell’attentato

A detta di Al Jazeera (rete televisiva satellitare con sede in Qatar) l’attacco è avvenuto alle 17:30 ora locale, proprio nel momento in cui le studentesse lasciavano le loro aule della scuola superiore, situata nel distretto di Dasht-e-Barchi. La scuola prevede tre diverse fasce orarie per maschi e femmine e la seconda delle quali, quella in cui è avvenuto l’attacco, era riservata alle ragazze.

L’obiettivo e l’orario non sono stati frutto di una scelta casuale, bensì meditata e finalizzata a massimizzare il numero di vittime. Le giovani ragazze si apprestavano infatti ad uscire da scuola, mentre i residenti erano in strada a fare acquisti per la festa musulmana di Eid al-Fitr, che segnerà la fine del mese di digiuno del Ramadan la settimana prossima. Considerato l’accaduto, il presidente afghano Ashraf Ghani ha parlato di «crimine contro l’umanità e i principi islamici» e ha ordinato alle forze di sicurezza di “rispondere” con forza.

La stima più recente citata dall’agenzia di stampa britannica Reuters attesta che siano morte almeno 68 persone, e che altre 165 siano rimaste ferite a causa delle esplosioni. Tuttavia, bisogna specificare che le cifre sono state fornite informalmente dai funzionari afghani ai giornali internazionali, senza ancora alcuna ufficialità. Il portavoce del ministero degli Interni afghano Tariq Arian ha inoltre avvertito che il tragico numero delle vittime potrebbe aumentare ulteriormente.

Su Twitter, la denuncia dell’attivista afghana Wazhma Frogh: «I nostri bambini non meritano tutto questo. Nessun bambino lo merita, questo è terrorismo internazionale».

https://twitter.com/FroghWazhma/status/1391059454129577987

L’accusa del presidente afghano ai Talebani

Secondo la versione più accreditata dai media locali, a causare le esplosioni sarebbe stata un’autobomba a cui sono seguiti due ordigni rudimentali. Un portavoce dei Talebani (gruppo islamista ramificato in Afghanistan) di nome Zabihullah Mujahid ha negato il coinvolgimento nella strage del gruppo, sostenendo che un simile massacro di civili può essere solamente opera del Daesh:

«i circoli sinistri che, per conto dello Stato Islamico, operano sotto le ali e la copertura dei servizi di intelligence dell’amministrazione di Kabul»,

hanno accusato i Talebani in un comunicato, prendendo le distanze dalla strage.

Autobomba esplosa a Kabul. Fonte: Avvenire

Ma il presidente afghano non si lascia convincere da tali argomentazioni e continua ad accusare – senza fornire però alcuna prova – i Talebani dell’escalation di violenza che sta attraversando il Paese in questo momento:

«hanno dimostrato ancora una volta che non solo non sono disposti a porre fine alla crisi attuale con mezzi pacifici, ma complicano la situazione per sabotare le opportunità di pace», ha detto.

Diversi analisti ritengono plausibile l’accusa, dal momento che la zona in cui sono avvenute le esplosioni è abitata per la maggior parte dagli Hazara, musulmani di minoranza sciita con i quali i Talebani non sono mai stati in buoni rapporti e che, pertanto, sono stati più volte presi di mira dallo stesso gruppo politico-terrorista. L’ultima volta lo scorso ottobre, quando in un’altra scuola ci furono ben 24 morti e 57 feriti. E ancora un anno fa, sempre nello stesso quartiere, fu attaccato un ospedale di maternità: allora morirono 16 persone, tra cui due neonati, neo mamme e ostetriche.

La ripresa degli attacchi dopo gli accordi

Si continua a combattere in Afghanistan, dove da mesi avvengono quotidianamente violenze e azioni collegate agli scontri tra forze governative e il gruppo estremamente radicale dei Talebani.

Gli attacchi sono ripresi dopo che, all’inizio del 2020, gli Stati Uniti avevano finalmente trovato un accordo – dopo faticosi negoziati – con il gruppo di fondamentalisti islamici, che prevedeva che gli americani lasciassero il Paese entro il 2021. Quanto ai Talebani, invece, essi si sarebbero dovuti impegnare a prendere le distanze da Al Qaeda, uno dei più noti gruppi terroristici al mondo e loro alleati, e a condurre trattative di pace col governo centrale afghano.

Gruppo di Talebani in Afghanistan. Fonte: Notizie Geopolitiche

Se inizialmente i Talebani avevano rispettato l’accordo avviando le trattative con il governo, negli ultimi mesi hanno ripreso gli attacchi nei confronti di quest’ultimo. Probabilmente complice il progressivo ritiro delle truppe dell’esercito statunitense stabilito dall’ex presidente americano Donald Trump.

A sostegno di tale ipotesi le parole del New York Times:

«Oggi, in molti – compresi i talebani, secondo i funzionari governativi afghani – ritengono che il frettoloso ritiro americano sia il segnale che gli Stati Uniti se ne andranno a prescindere dalle violenze compiute dagli estremisti».

Un Paese in allerta massima

 I livelli di violenza sono già aumentati considerevolmente – specialmente nell’ultima settimana – per via della scadenza della data concordata lo scorso febbraio a Doha dai Talebani con gli Usa perché le truppe straniere lasciassero l’Afghanistan: dal primo maggio Kabul e tutto l’Afghanistan sono infatti in massima allerta.

La data del ritiro è stata consapevolmente posticipata dall’amministrazione Biden all’11 settembre prossimo, quando saranno trascorsi ben due decenni dagli attacchi jihadisti alle Torri Gemelle, innescati poco dopo l’invasione americana dell’Afghanistan che portò al rovescio del regime talebano.

Fonte: AGI

Solamente nelle ultime 48 ore sono morti almeno 250 Talebani e altri 106 sono rimasti feriti durante i combattimenti con le truppe afghane in nove delle 34 province del Paese. In Afghanistan non si registrava un numero tanto alto di estremisti morti in così poche ore da due anni, a dimostrazione di come – nonostante i vari tentativi di far avanzare i colloqui di pace ormai da tempo in stallo – è in corso una diffusa intensificazione del conflitto nel Paese.

Gaia Cautela