La First Lady a Gesso: intervista a Salvatore Grosso

Il ritorno alle origini della First Lady Jill Tracy Jacobs Biden, nella giornata del 4 dicembre scorso, ha portato un’ondata di freschezza nella piccola Gesso, una frazione di Messina sui peloritani. Qui, Jill ha deciso di ritornare per riscoprire le sue radici.

Gesso non è solo famosa per la visita della First Lady americana, ma è un paese su cui puntare, per la sua valenza storica, culturale e religiosa, che andrebbe valorizzata”.
Così ce l’ha descritta Salvatore Grosso, il giovane geologo ibbisoto, portavoce dell’Associazione Giovani e Volontari, il quale è stato parte attiva nel processo di ricerca e, in seguito, di organizzazione della visita.

L’intervista a Salvatore Grosso

Buongiorno Salvatore, ci racconti com’è stato vivere l’incontro con un personaggio così importante come la First Lady degli Stati Uniti d’America.

È stato un onore ospitare la First Lady, soprattutto perché questa visita ha rappresentato per lei la riscoperta delle proprie origini. Quindi è stato un momento molto bello, entusiasmante, sia per noi abitanti del Paese che per Jill Biden, che ha avuto la possibilità di vedere il luogo da cui i suoi bisnonni nell’Ottocento sono partiti per trovare fortuna in America. Anche se, come sappiamo, essi hanno portato tutte le tradizioni siciliane lì dove si sono stabiliti, come le grandi tavolate, i prodotti culinari locali… Lei stessa ha raccontato che mangiava spesso braciole messinesi.

Tutto nasce nel 2007 quando uno storico, nostro compaesano che vive a Torino, Eugenio Campo, ha scoperto la connessione tra i cognomi di molti cittadini di Hammonton (ndr. nel New Jersey, città natale della First Lady) e i cognomi delle famiglie di Gesso. Molti cittadini di Gesso, nella prima e nella seconda emigrazione americana, vi si erano trasferiti. Egli scoprì che le famiglie Giacoppo (Jacobs) erano molte ad Hammonton.

Da quando Biden diventa vicepresidente degli Stati Uniti si intensificano le ricerche: Eugenio Campo scopre che Jill, dal cognome Jacobs, era proveniente da Hammonton e aveva un legame interessante con i Giacoppo, dunque poteva essere originaria di Gesso.

Nel 2019, pre-covid, io stesso ho iniziato a intensificare le ricerche attraverso documenti storici, anche grazie a dei miei parenti che vivono ad Hammonton. Si è stabilita una connessione con il certificato di nascita trovato nell’archivio della Chiesa di Gesso. E si è scoperto che i bisnonni Gaetano e Concetta alla fine dell’800 si sono trasferiti lì negli Stati Uniti, da dove è nata la famiglia che ha portato alla nascita della First Lady.

Lei ha scritto una lettera di ringraziamento a Jill Biden, in cui ha affermato l’entusiasmo di tutta la comunità a seguito di questa visita. In chi lo ha percepito particolarmente?

Sicuramente l’entusiasmo era presente in tutte le persone che hanno lavorato e hanno contribuito alla ricerca delle origini della First Lady, tutti quelli che in primis ci hanno creduto e hanno sperato che lei potesse venire di persona: Eugenio Campo, Nino Squatrito, io stesso. Anche il Museo ha contribuito attraverso la creazione un volume in cui ha messo insieme tutte le ricerche, trasmettendole alla Casa Bianca. Tutto nasce così: la First Lady legge questo volume, si entusiasma e vuole fare visita prima della fine del proprio mandato per scoprire le proprie origini e rivivere le emozioni di quando era piccola con i nonni della famiglia tradizionale siciliana.

Qual è stato il clima generale in preparazione di un evento di tale portata?

La preparazione si è svolta tutta in poco tempo, nel giro di una settimana, perché la notizia doveva rimanere riservata fino all’ultimo, ma già nei mesi precedenti dall’ambasciata di Roma e dal consolato di Napoli è stata avviata l’organizzazione, visitando il paese per capire come svolgere l’evento.

In settimana c’è stata molta frenesia ed emozione da parte di tutti gli abitanti di Gesso e dei paesi limitrofi, quindi è stato molto emozionante. È anche stato bello perché ha portato persone nuove nel paese, finora abbastanza degradato, abbandonato a sé stesso. Dunque, finalmente si è trovato spazio per lavori di asfaltatura delle strade, scerbatura, pulizia generale del paese, comportando dei benefici che non si erano mai visti.

Rispetto a chi afferma che “tutto a Gesso è ritornato alla normalità” dopo la visita della First Lady, lei che ne pensa? Vede, invece, aria di cambiamento? È ottimista in questo senso?

Dipende dalla volontà dell’amministrazione nell’approfittare dall’ondata di questo grande evento. Ma Gesso non è solo famosa per questo, per esempio ha dato i natali ad Ettore Castronuovo. Ha una sua storia che dovrebbe essere molto più valorizzata.

Ad oggi non c’è stata una reale programmazione ufficiale per realizzare qualcosa di importante che metta al centro i valori del paese. Speriamo che nel futuro prossimo ci si riesca a convincere che Gesso è un paese su cui puntare perché ha una valenza storica, culturale, religiosa che bisogna valorizzare. Anche perché, a Messina è rimasto poco a livello storico dopo il terremoto del 1908, facendo dei paesi come Gesso il vero centro storico della Città.

Alcuni hanno fatto riferimento alla chiusura della scuola primaria Ettore Castronuovo in un’ottica di critica. Che cosa ha comportato? Quali sono le prospettive future rispetto a questo?

La scuola è chiusa ormai da una decina d’anni. È un trend tipico di tutti i villaggi, a livello nazionale, dove ci sono meno bambini e le scuole vanno a chiudere.

Ora la scuola è di utilizzo di una base scout. Si tratta di uno spazio importante, e io ero promotore di utilizzarla come un presidio sanitario, essendo che Gesso è scoperta da un Pronto Soccorso, oppure come presidio della Protezione Civile per evitare gli incendi boschivi, per creare una struttura importante per la comunità stessa.

Noemi Munafó

La morte dell’afroamericano Tyre Nichols, colpevoli 5 agenti di polizia

Il ventinovenne Tyre Nichols è l’ennesimo membro della comunità afroamericana a pagare con la propria vita gli effetti di una sconcertante cultura di disumanizzazione delle persone di colore che continua ad imperversare tra le forze dell’ordine in negli Stati Uniti. Dopo le innumerevoli battaglie civili sostenute, e a quasi 3 anni dall’omicidio di George Floyd, si apre così un nuovo capitolo nel dibattito su polizia e razzismo.
La triste novità è data dal fatto che il giovane padre afroamericano è stato picchiato a morte da una pattuglia composta da cinque agenti di polizia tutti di colore, accusati di omicidio di secondo grado dopo che la città ha rilasciato i filmati incriminanti del tragico episodio.

I membri della famiglia e diversi attivisti hanno tenuto una manifestazione per Tyre Nichols la scorsa settimana al National Civil Rights Museum di Memphis. Fonte: Nytimes.com

I video brutali dei 5 agenti

Tyre Nichols era stato fermato dai poliziotti per un controllo serale dopo avere commesso una violazione del codice stradale, morendo tre giorni dopo in ospedale, a causa degli “abusi fisici” che il capo della polizia di Memphis – una donna afroamericana – ha definito “atroci, sconsiderati e disumani”.

In effetti venerdì scorso, la città di Memphis ha pubblicato un video che mostra gli agenti prendere a pugni, calci e usare un manganello per picchiare il signor Nichols mentre questi li implora di fermarsi. Quasi un’ora di filmato che, compilato dalla polizia e dalle telecamere di strada, mostra parte di un ingorgo stradale, Nichols che fugge, l’inseguimento e infine gli agenti che lo picchiano. La polizia di Memphis ha detto in una sua dichiarazione iniziale che c’è stato uno “scontro” quando gli agenti di polizia hanno fermato l’auto in fuga di Nichols, e “un altro scontro” successivamente, quando lo hanno arrestato. Scontri che, secondo i risultati preliminari (rilasciati dagli avvocati della famiglia di Nichols) di un’autopsia indipendente, hanno provocato alla vittima “un’emorragia estesa causata da un duro pestaggio”.

Fonte: Gazzetta del Sud

L’assalto da parte di afroamericani – e non di agenti bianchi – contro un membro della loro stessa comunità è la “prova che questa violenza è qualcosa di più profondo e difficile da estirpare nella cultura della polizia”, hanno commentato i pastori di diverse chiese evangeliche afroamericane. E non può esistere alcun tipo di parentela immaginaria che possa restituire una benché minima umanità a dei carnefici addestrati a vedere le vite dei neri come completamente prive di valore.

Anche il presidente degli Stati Uniti Biden si è detto “indignato e profondamente addolorato nel vedere l’orribile video del pestaggio” e ha invitato il Congresso a votare la legge George Floyd sulla responsabilità delle forze di polizia, bloccata da mesi dai senatori repubblicani.

Il George Floyd Justice in Policing Act

La legge di riforma della polizia americana, ancora in esame al Congresso, prende il nome da George Floyd, l’uomo afroamericano ucciso da un agente di polizia il 25 maggio 2020. Questa legge cambierebbe in modo significativo l’attuale modello di polizia statunitense e si aprirebbe maggiormente verso le comunità etniche e il riconoscimento dei diritti civili: un progetto articolato di misure che si propone di contrastare quello che lo stesso presidente Biden ha condannato come “razzismo sistemico”, difficile da sradicare nella società americana, dove ancora prevalgono logiche di esclusione nei confronti delle comunità afroamericane, asiatiche, ispaniche e indo americane.

La seguente riforma è accompagnata da dibattiti di lunga data che coinvolgono profili di diritto penale e sociologia della sicurezza, per lo più incentrati sulla modifica della dottrina dell’immunità qualificata. Le norme sono quindi destinate a disciplinare specifiche rilevazioni sugli standard operativi dei controlli di polizia e a prevedere attività di inchiesta sistematiche condotte dai Prosecutor e dalla Divisione per i diritti civili del Dipartimento di Giustizia. Sono state inoltre predisposte linee guida sulle attività formative con meccanismi di consultazione con i rappresentanti dei movimenti dei diritti civili molto attivi e presenti nella società americana.

Sciolta l’unità speciale

I cinque agenti accusati facevano tutti parte dell’unità specializzata “Scorpion“, che il dipartimento di polizia di Memphis ha dichiarato di aver sciolto sabato, in seguito alle continue sollecitazioni della famiglia di Nichols e degli attivisti cittadini.

I cinque agenti coinvolti nel pestaggio. Fonte: Nytimes,com

L’unità, il cui nome intero è “Operazione sui crimini di strada per ripristinare la pace nei nostri quartieri”, era stata creata poco più di un anno fa per contrastare un’ondata di violenza in città (il tasso di omicidi era in aumento), ed era già molto disprezzata tra le comunità marginalizzate di Memphis anche prima della morte di Nichols.

In una dichiarazione di sabato il dipartimento di polizia ha detto: “mentre le azioni atroci di pochi gettano una nuvola di disonore sull’unità, è imperativo che noi, il dipartimento di polizia di Memphis, adottiamo misure proattive nel processo di guarigione per tutte le persone colpite”.

Diffondere video non basta

Quello che è successo a Nichols viene in questi giorni mostrato al mondo intero in un video destinato ad alimentare il dibattito sulla brutalità della polizia, scatenando polemiche e indignazione sull’ennesimo episodio di furia insensata. Ci si chiede se è davvero questo il modo di porre fine alla violenza razziale, attribuendo un ulteriore fardello di prove video alla comunità discriminata, condannata a subire l’umiliazione di vedere i propri momenti di morte trasmessi ad una società che, talmente abituata a vedere immagini violente, gli è quasi del tutto indifferente.

Dal 1980 ad oggi sono oltre 17.000 le morti causate “accidentalmente” dalla polizia: tra i numeri figurerà adesso anche quella di Tyre Nichols, il cui nome si affianca pure nelle pagine di storia della città di Memphis a quello di Larry Payne, un sedicenne ucciso per aver partecipato ad uno sciopero nel marzo del 1968, e di Martin Luther King, il più visibile leader del movimento per i diritti degli afroamericani e assassinato da un colpo di fucile di un criminale il 4 aprile dello stesso anno.

Perché riportare il semplice fatto di questi incidenti continua a non essere sufficiente per porre fine alle violenze? Perché tutti gli anni trascorsi a guardare tali filmati si sono dimostrati insufficienti a spingere i legislatori verso un’azione reale? È evidente che sono necessari cambiamenti nelle politiche e nelle procedure delle forze dell’ordine in modo che nessun altro debba sperimentare ciò che sta attraversando la famiglia di Nichols oggi.

Gaia Cautela

Presunti incontri segreti tra vertici Ue, Usa e Uk per giungere alla soluzione del conflitto in Ucraina

Sul conflitto Russia-Ucraina alleggia lo spettro delle ultime stime, secondo le quali esso potrebbe protrarsi ancora dai due ai sei mesi. Secondo quanto rivelato dall’emittente televisiva americana Cnn, nelle ultime settimane, si sarebbero svolti diversi incontri segretissimi tra vertici Ue, Usa e Uk, per trovare il modo di mettere la parola fine alla guerra che sta sconvolgendo l’Ucraina e, indirettamente, il resto del mondo.

Il conflitto tra Russia e Ucraina potrebbe protrarsi per altri 2-6 mesi (fonte: ANSA)

Non si sa molto, non sono neanche chiare le modalità a cui si starebbe pensando per arrivare al cessate il fuoco, per portare l’Ucraina a trattare con la Russia. Kiev, però, non sarebbe stata direttamente coinvolta nelle presunte riunioni, nonostante gli Stati Uniti avessero promesso di “non decidere nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina”.

Tra le questioni discusse, sarebbe finito sul tavolo anche il piano in quattro punti proposto dall’Italia il mese scorso. Il contenuto di questo documento era stato reso noto dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.

 

Il contenuto del documento italiano

Il suddetto documento è stato redatto dalla Farnesina e propone un percorso verso il cessate il fuoco, tramite quattro tappe. Di Maio lo aveva fatto avere al segretario dell’Onu, il 18 maggio, a New York, inoltre, anche ai diplomatici dei ministeri degli Esteri del G7 e del Quint (Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia).

Il ministro Di Maio e il segretario Onu (fonte: ANSA)

Ad ideare la proposta è stata la Farnesina, in collaborazione e con la supervisione di Palazzo Chigi, in seguito all’incontro tra il premier Mario Draghi e il presidente statunitense Joe Biden. Il presidente del consiglio italiano aveva, in quell’occasione, ribadito che l’Italia vorrebbe formare un tavolo euroatlantico per discutere delle eventuali opzioni per la guerra.

Il secondo fine sarebbe quello di portarvi, poi, l’Ucraina, lasciandole il ruolo principale nelle trattative. Dunque, ancora una volta, il dialogo tra le nazioni in guerra è ritenuto essere potenzialmente l’unico strumento utile per arrivare davvero alla fine del conflitto.

Il percorso delineato si dovrebbe svolgere sotto la supervisione di un “Gruppo internazionale di Facilitazione”. Le quattro fasi si articolerebbero in: il cessate il fuoco, la neutralità dell’Ucraina, concordare delle decisioni sulle questioni territoriali di Donbass e altre zone come la Crimea, trovare un nuovo accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza nel continente Europeo.

Alla prima tappa si potrebbe arrivare tramite dei meccanismi di supervisione e con la smilitarizzazione della linea del fronte. Successivamente – per la realizzazione della seconda tappal’Ucraina dovrebbe dichiarare la sua neutralità a livello internazionale e, modificando il suo status, potrebbe, inoltre, conquistare una condizione che le permetterebbe di poter divenire un membro dell’Unione Europea.

La terza tappa comporterebbe ancor più difficoltà: arrivare a una soluzione che pongano fine alle controversie sui confini tra i due Stati, che vengano poi riconosciuti a livello internazionale, prevedrebbe un grande sforzo e decisioni su vari aspetti, tra cui quella su quale tipo di sovranità instaurare in queste aree. Qualora si arrivasse a tal punto, bisognerebbe anche capire cosa fare in ambito culturale, come regolare i diritti in materia di conservazione del patrimonio storico-culturale.

Il quarto e ultimo punto consisterebbe nel riorganizzare gli equilibri internazionali, elaborando un nuovo accordo multilaterale sulla pace. nel dopoguerra, si dovrebbe arrivare al ritiro delle truppe russe dai territori occupati durante il conflitto, per poi pensare di ritirare le sanzioni adottate contro la Russia.

La pace dovrebbe poi essere costruita su solide basi, prendendo misure come il disarmo e il controllo degli armamenti, per prevenire qualsiasi possibilità di conflitto.

Due esponenti statunitensi avrebbero, però, dichiarato alla stessa Cnn che gli Stati Uniti non sarebbero d’accordo con il piano proposto dall’Italia, nonostante negli scorsi giorni l’ambasciatrice americana, Linda Thomas Greenfield, aveva detto all’Onu che la proposta italiana potrebbe essere davvero una delle pochissime strade percorribili per porre fine alla guerra.

 

La questione del grano e della sicurezza alimentare

A New York, il ministro Di Maio aveva anche riportato l’attenzione sulla problematica del grano. Il tema della sicurezza alimentare era stato affrontato pure dai Paesi del G7, considerando l’iniziativa della Banca Mondiale di stanziare altri 12 miliardi di dollari per prevenire ulteriori disastri. Di Maio ha sottolineato la necessità di “costruire insieme un corridoio sicuro per provare a portare via il grano dal Paese e permettere quindi ai produttori ucraini di esportarlo e riportarlo sul mercato”.

I prezzi del grano hanno subito un rialzo a causa del conflitto, che potrebbe raggiungere picchi più alti di un ulteriore 20%, entro la fine dell’anno. Così, si verificherebbe una perdita d’acquisto sostanziale che colpirebbe anche gli italiani.

«L’Ue con i suoi progetti di cooperazione allo sviluppo ha una grande responsabilità anche perché saremo i Paesi che direttamente subiranno gli effetti di questa insicurezza alimentare».

 

L’intervista di Putin a un’emittente tv russa

Intanto, Putin ha parlato ai microfoni dell’emittente tv pubblica Rossiya 24, affrontando anche il tema delle esportazioni di grano dall’Ucraina. Il presidente russo si è detto pronto a garantire il passaggio tramite anche i porti occupati dalle sue truppe.

«I porti del Mar d’Azov, Berdyansk, Mariupol, sono sotto il nostro controllo. Siamo pronti a garantire un’esportazione senza problemi, anche del grano ucraino, attraverso questi porti – ha dichiarato il leader russo – Stiamo finendo i lavori di sminamento”, ha aggiunto, “il lavoro è in fase di completamento, creeremo la logistica necessaria, lo faremo».

Putin ha assicurato di non voler impedire l’export di grano ucraino, aggiungendo che la crisi alimentare non sia direttamente imputabile alla Russia, accusando anche per questo l’Occidente. Per il presidente, le notizie di un blocco all’esportazioni di grano dall’Ucraina, sarebbe un’invenzione dell’Occidente per coprire gli sbagli fatti proprio dai Paesi occidentali.

Inoltre, ha detto di aver invitato Kiev a rimuovere le mine poste nel territorio ora sotto il controllo russo, per rendere sicure le esportazioni del grano, aggiungendo che di tale situazione la Russia non ne approfitterebbe per sferrare attacchi dal mare.

In ogni caso, al di là delle dichiarazioni fatte dalla Russia e della questione della veridicità degli incontri tra vertici europei, statunitensi e britannici, ciò che più conta è che i protagonisti politici siano d’accordo nel tentare di trovare la via per la pace più corta.

 

 

Rita Bonaccurso

 

Negli USA si continua a morire di armi. Sale il numero delle stragi, uccisi 19 bambini in Texas

Nell’arco di dieci giorni, più di trenta persone hanno perso la vita a causa di tre diverse stragi verificatesi tra lo Stato di New York, il Texas e la California. La prima, il 14 maggio, consumatasi a Buffalo per ragioni razziali; la seconda, in una Chiesa presbiteriana di Irvine nei confronti di alcuni fedeli di origini taiwanesi.

Alcune ore fa, nella città di Uvalde, Texas, un 18enne armato ha fatto irruzione nella Robb Elementary School, uccidendo diciannove bambini e due adulti. L’istituto ospita circa 750 bambini, di cui il 90% di origine ispanica. Mancavano appena due giorni alle vacanze estive. L’uomo, identificato come Salvador Ramos, è stato in seguito ucciso dalla polizia, ma prima di procedere alla carneficina aveva sparato a sua nonna, che è sopravvissuta. Nonostante le prime ricostruzioni, rimane ancora oscuro il movente dell’attentato.

Un Presidente Biden visibilmente scosso ha commentato l’accaduto chiedendo una stretta sulla lobby delle armi, su cui ricadrebbe la colpa di aver bloccato gli iter legislativi delle leggi di sicurezza più severe in fatto di armi, come la cosiddetta H.R.8.

La proposta di legge che giace al Congresso

La H.R.8 (Bipartisan Background Checks of 2021) è un disegno di legge, già passato alla Camera ed in attesa che si esprimi il Senato, che stabilisce nuovi requisiti per il controllo dei precedenti per i trasferimenti di armi da fuoco tra privati (cioè individui privi di licenza). In particolare, vieta il trasferimento di armi da fuoco tra privati a meno che un commerciante di armi, un produttore o un importatore autorizzato non prenda prima possesso dell’arma da fuoco per condurre un controllo dei precedenti.

L’allenatore dei Golden State Warriors Steve Kerr si è espresso a favore dell’approvazione della legge, commentando quanto accaduto negli ultimi giorni: «Sono stanco di venire qui a fare le condoglianze alle famiglie devastate, ne ho abbastanza. Quando faremo qualcosa?»

Quello dell’ostruzionismo della lobby delle armi è un problema molto conosciuto in America, la cui economia si basa in parte anche sul commercio e sul trasferimento delle stesse. La scrittrice e giornalista del The New Yorker Bess Kalb in diversi tweet ha citato alcune delle voci della politica statunitense che hanno espresso cordoglio per le vittime, con… L’ammontare dei finanziamenti da ciascuno ottenuti da parte dell’NRA, la National Rifle Association.

Il problema delle leggi più permissive nel Texas

Quella di martedì è la strage più grave verificatasi sin dal 2012, anno dell’attentato alla scuola elementare Sandy Hook, nel Connecticut, dove persero la vita venti bambini sei adulti. Tipicamente, l’esplodere di queste tragedie come eventi di cronaca riporta l’attenzione del pubblico al dibattito sulle armi, di cui la maggioranza degli americani contrari ne chiede il contenimento, più che l’abolizione. Un dibattito sempre e comunque limitato dalle forze Repubblicane, che hanno sempre promosso il possesso d’armi come strumento di difesa personale e di combattimento al tasso di criminalità.

Lo scorso anno, il governatore texano Greg Abbot ha firmato sette disegni di legge sulla diminuzione delle restrizioni al possesso di armi da parte dei cittadini texani, tra cui il rinomato “trasporto costituzionale”, la H.B 1927 che, a partire da settembre, consente ai texani dai 21 anni in su di portare armi anche senza il rilascio di una licenza statale, a condizione che non siano esclusi dal possesso di un’arma da fuoco da un’altra legge federale o statale. In precedenza, la licenza statale richiedeva, ai fini del rilascio, una formazione, un esame di competenza e un controllo sui precedenti.

(Il governatore Greg Abbot / fonte: flickr.com – Gage Skidmore)

I sostenitori della legge sostengono che «la H.B. 1927 mira a ridurre le barriere al libero esercizio del diritto costituzionale dei texani di portare armi e difendere la propria vita e proprietà».

Gli oppositori (circa il 60% nei sondaggi), tra cui vari sindacati di polizia ed istruttori di armi, affermano che la legge aumenterebbe la violenza armata e i conflitti nei luoghi pubblici ed, inoltre, renderebbe più difficile per la polizia identificare i sospetti dai passanti durante una scena del crimine attiva.

Valeria Bonaccorso

Incontro a Washington tra Joe Biden e Mario Draghi: Italia e USA più vicine di fronte alle nuove sfide

Un dialogo durato circa un’ora e quaranta minuti quello tra Mario Draghi e Joe Biden in cui viene ribadita la vicinanza tra Italia e USA soprattutto riguardo gli argomenti più caldi di questo periodo storico. Nella conferenza stampa che si è svolta a Washington, in occasione della prima visita ufficiale del Presidente del consiglio italiano alla Casa Bianca, i due leader hanno comunicato la volontà di continuare ad aiutare l’Ucraina al fine di raggiungere la tanto desiderata pace.

“Non c’è più un golia” Draghi propone il percorso per arrivare alla pace

«La guerra ha cambiato fisionomia: inizialmente si pensava ci fosse un Golia e un Davide, era un’impresa disperata che sembrava non riuscire. Oggi il panorama si è completamente capovolto. Non c’è più un Golia. La parte che sembrava invincibile non lo è più.»

Queste le parole di Mario Draghi nella conferenza di Washington. A distanza ormai di mesi dall’inizio del conflitto secondo il presidente del Consiglio lo scenario è totalmente diverso. Riferimento alla grande tenacia che l’Ucraina ha dimostrato nel difendere il proprio territorio, anche grazie alle armi inviate dall’occidente. l’Ucraina a questo punto sembra aver guadagnato una posizione negoziale sufficiente – secondo Mario Draghi – per arrivare alla pace seguendo la via diplomatica. Risolvere il conflitto però non è semplice ed è necessario uno sforzo:

«Tutte la parti, e in particolare Russia e Stati Uniti, devono fare lo sforzo di sedersi a un tavolo

La possibile risoluzione delle ostilità dipende anche dalla volontà delle due superpotenze. Tuttavia sia Draghi sia successivamente Biden hanno ribadito:

«Deve essere una pace che vuole l’Ucraina, non una pace imposta da altri né tantomeno dagli alleati. Kiev deve essere l’attore principale, altrimenti sarà un disastro.»

Quindi per quanto gli Stati Uniti e le altre nazioni alleate possano svolgere un ruolo rilevante la pace deve essere ottenuta principalmente dall’Ucraina.

Incontro Draghi-Biden. Fonte: tg24.sky.it

“Evitare una crisi alimentare” il primo passo per il riavvicinamento delle parti in conflitto

«Come possiamo mettere fine a queste atrocità? Come possiamo arrivare a un cessate il fuoco? Come possiamo promuovere dei negoziati credibili per costruire una pace duratura? Al momento è difficile avere risposte, ma dobbiamo interrogarci seriamente su queste domande.»

Per Mario Draghi la diplomazia è la via prediletta per il raggiungimento della pace ma egli riconosce anche che è una via ancora difficilmente percorribile. Una delle soluzioni potrebbe essere spingere le parti in conflitto ad avvicinarsi, a piccoli passi. Raggiungere degli accordi su alcuni temi di uno spessore molto ampio, come ad esempio il permettere l’esportazione di grano dall’Ucraina ai paesi più poveri del mondo. Queste le dichiarazioni del presidente del Consiglio:

«Lo sblocco dei porti dell’Ucraina da parte delle forze russe per lasciar partire le navi cariche di grano verso i Paesi più poveri del mondo, scongiurando così una crisi umanitaria causata dalla scarsità alimentare può essere un primo esempio di dialogo che si costruisce tra le due parti in conflitto per salvare decine di milioni di persone.»

La questione energetica, possibile tetto al prezzo del petrolio e del gas

Tra i temi più importanti del dialogo tra Biden e Draghi c’è sicuramente la questione energetica.

«Il tetto al prezzo del gas ridurrebbe in parte i finanziamenti che l’Europa dà a Putin per la guerra. Stesso discorso per il petrolio a livello mondiale, si potrebbe creare un cartello dei compratori. Oppure, più preferibile per il petrolio, persuadere l’Opec e i grandi produttori ad aumentare la produzione, su entrambe le strade bisogna lavorare molto.»

Stando alle parole del presidente del Consiglio in conferenza stampa il presidente degli Stati Uniti avrebbe “accolto con favore” l’ipotesi di un tetto al prezzo del gas. Anche se gli USA sembrerebbero indirizzati più verso il tetto al prezzo del petrolio.

Per Draghi inoltre il problema energetico esiste indipendentemente dalla guerra in corso. In particolare la questione

«si è venuta ad aggravare un anno e mezzo prima della guerra. L’attuale funzionamento dei mercati non va, perché i prezzi non hanno alcuna relazione con la domanda e l’offerta. E’ una situazione che va affrontata insieme, l’Italia è molto attiva nel diminuire la dipendenza da gas.»

Italia e Stati Uniti, una vicinanza solida e necessaria

Riguardo l’incontro con il presidente USA, Draghi ha dichiarato:

«L’incontro è andato molto bene. Biden ha ringraziato l’Italia come partner forte, alleato affidabile, interlocutore, credibile e io l’ho ringraziato per il ruolo di leadership in questa crisi e la grande collaborazione che c’è stata con tutti gli alleati.»

Le parole, i gesti, gli atteggiamenti da parte dei due leader fanno emergere un’importante realtà: l’alleanza tra Italia e Stati Uniti è salda come mai lo è stata negli ultimi anni. Alcuni però tendono a criticare questo atteggiamento da parte del governo, accusandolo di essere troppo omologato, soprattutto per le scelte riguardo la guerra, agli USA. Non vi è però alcun dubbio che riguardi l’importanza di incontri come quello appena accaduto. Il dialogo, soprattutto se svolto in termini pacifici e non conflittuali, porta ad un confronto di idee e di conseguenza ad una crescita.

Francesco Pullella

Stati Uniti, la Corte Suprema potrebbe non garantire più il diritto all’aborto

Negli scorsi giorni è trapelata la bozza di una decisione della Corte Suprema, la più alta corte federale degli Stati Uniti, contenente il parere favorevole circa il disconoscimento dell’interruzione della gravidanza come diritto riconosciuto, ai sensi della Costituzione americana, in tutti gli Stati della confederazione. Trattandosi di una bozza non ha in alcun modo il valore che avrebbe una sentenza della stessa Corte e, ad oggi, la situazione di fatto non è mutata. Ma resta da capire quali potrebbero essere gli scenari nel prossimo futuro dato che tra un paio di mesi i giudici della suddetta corte dovranno esprimersi relativamente al caso su cui la bozza di decisione è stata redatta.

Corte Suprema degli Stati Uniti, fonte: roma.it

Non sono in pochi a temere l’ennesimo smacco nei confronti di un diritto che nel corso degli ultimi anni è stato più volte preso di mira dalle politiche sempre più conservatrici della destra americana. L’aborto negli Stati Uniti è stato legalizzato solamente nel 1973 grazie alla storica sentenza Roe vs Wade, e ribadito unicamente da una seconda sentenza del 1992, la Planned Parenthood vs Casey. Le due sentenze hanno imposto una soglia di tutela minima a favore delle donne in tutti gli stati della federazione americana divenendo ben presto un simbolo della lotta per i diritti civili.

Lo Stato del Mississippi e la legge anti aborto del 2018

La bozza di decisione, trapelata dalla stessa corte e diffusa dal quotidiano americano Politico, riguarda il caso Dobbs vs Jackson’s Woman Health Organization. Nel 2018 lo Stato del Mississippi ha approvato una legge che dichiara illegale l’aborto dopo le quindici settimane, un momento oltre il quale il feto è ritenuto essere troppo sviluppato per potere interrompere la gravidanza. Una statuizione che non ha mai trovato il parere favorevole degli esperti che invece, in materia di interruzione della gravidanza, ritengono più corretto assumere il limite delle ventiquattro settimane, momento oltre il quale il feto ha concrete chance di sopravvivere se partorito prematuramente.

La legge in questione non è mai entrata in vigore poiché una clinica del Mississippi, l’unica in tutto lo Stato che pratica l’interruzione di gravidanza, si è subito rivolta alla Corte federale d’appello. Quest’ultima, non avendo lo Stato fornito sufficienti prove scientifiche sulla teoria delle quindici settimane, aveva concluso bloccando la legge.

Lo Stato del Mississippi ha però successivamente impugnato la suddetta sentenza di fronte alla Corte Suprema, la quale, sorprendentemente, ha accettato, nel maggio 2021, di affrontarla: una decisione che ha fornito un primo campanello di allarme per tutti i sostenitori del diritto all’aborto negli Stati Uniti. Aldilà del caso in sè, infatti, se la Corte dovesse dare ragione allo stato del Mississippi verrebbe meno l’obbligo per tutti gli stati americani di garantire quegli standard stabiliti dalla sentenza Roe vs Wade, lasciando di fatto che ogni stato decida con le proprie leggi e secondo le proprie costituzioni se garantire o no il diritto in questione. Uno scenario in cui certamente gli stati più conservatori (secondo le stime quasi metà dei cinquanta facenti parte della confederazione) ne approfitterebbero per rendere tale pratica illegale.

Il contenuto della bozza

La bozza di novantotto pagine è stata scritta da Samuel A. Alito Jr, uno dei giudici della Corte Suprema nonché, tra i sei membri conservatori, uno dei più estremisti. Nel testo viene più volte ribadita la necessità di ribaltare il contenuto delle due sentenze di cui sopra (quelle del 1973 e del 1992) perché considerate un appiglio troppo debole per la garanzia di un diritto che, oltretutto, non è nemmeno riconosciuto all’interno dello stesso testo costituzionale. La costituzione federale infatti non fa in alcun caso riferimento alla pratica abortiva, cosa che renderebbe il diritto in questione una mera creazione giurisprudenziale e “non rientrante nella storia e nella tradizione americana” (non a caso fino al 1973 l’aborto era illegale e perseguibile penalmente).

Il giudice Samuel Alito Jr, fonte: Los Angeles Time

Le proteste dei movimenti per i diritti civili e le rassicurazioni di Biden

In seguito alla diffusione della bozza le reazioni non hanno tardato ad arrivare e già dopo poche ore centinaia di attivisti e membri di associazioni per i diritti civili si sono presentati di fronte alla Corte suprema per manifestare ed esprimere la loro preoccupazione. Lo stesso presidente Joe Biden, più volte schieratosi a sostegno del diritto delle donne di interrompere la gravidanza, si è espresso sulla questione cercando di placare gli animi e fornendo garanzie circa l’intangibilità del suddetto diritto. Il presidente ha ricordato che “si tratta unicamente di una bozza relativa ad una decisione che potrebbe comunque concludersi con un esito differente”. Ed anche in caso di esito negativo ha rassicurato i cittadini che la Casa Bianca sarebbe pronta a reagire qualora vi dovesse essere un reale rovesciamento delle sentenze (senza specificare come). Infine ha auspicato in futuro l’elezione di parlamentari che sostengano questo e altri diritti meritevoli di una tutela legislativa e non unicamente giudiziaria.

Filippo Giletto

50 giorni dall’invasione in Ucraina: le parole di Zelensky. Si stringe la morsa russa su Mariupol

Il 14 aprile ha segnato il cinquantesimo giorno di conflitto dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, lo scorso 20 febbraio. Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha commentato la ricorrenza affermando che nessuno pensava che il popolo ucraino avrebbe resistito così a lungo, «ma non sapevano quanto sono coraggiosi gli ucraini, quanto amano la libertà». Zelensky si è poi soffermato sull’eroismo del suo popolo:

«Siete diventati tutti eroi. Tutti, uomini e donne ucraini che hanno resistito e non si arrendono. E che vinceranno, che riporteranno la pace in Ucraina. Ne sono sicuro».

Intanto, il conflitto continua tra tentativi di de-escalation dell’Unione Europea, che pensa anche ad un embargo graduale sul petrolio russo (da discutere, però, al termine delle Presidenziali francesi), e tra una Finlandia che preme sempre più per l’adesione alla NATO. Il ministro finlandese per gli Affari europei Tytti Tuppurainen ha affermato, infatti, che il rapporto con la Russia sarebbe cambiato in seguito alle ultime azioni della Federazione, che – continua – sarebbero un «campanello d’allarme per tutti noi».

Mariupol sempre più in difficoltà

Peggiora la situazione a Mariupol, ormai rasa al suolo e accerchiata dalle truppe russe, che hanno preso il controllo della parte centrale della città, dividendo le forze ucraine al porto da quelle che si trovano nel quartiere industriale a est. I combattimenti si stanno concentrando soprattutto intorno all’acciaieria Azovstal, nel porto. Un vice comandante separatista russo avrebbe descritto alla TV di Stato russa l’acciaieria come: «la fortezza dentro la città».

Dentro l’acciaieria si nasconderebbe il cosiddetto Battaglione Azov, che rappresenta uno dei principali obiettivi di Putin.

Inoltre, il consiglio comunale della città di Mariupol afferma che gli occupanti russi hanno iniziato a riesumare i cadaveri sepolti nei cortili dei blocchi residenziali. Lo scrivono i funzionari su Telegram, citati dalla Bbc. A Mariupol ci sarebbero, secondo Kiev, 13 forni crematori mobili e le autorità cittadine sospettano che i russi stiano cercando di coprire i crimini di guerra. (ANSA)

(fonte: dailynews.ansneed.com)

Il caso dell’incrociatore russo affondato

Giovedì sera l’incrociatore russo “Moskva” è affondato mentre veniva rimorchiato, dopo aver perso stabilità a causa dei danni subiti dallo scafo durante un incendio avvenuto a bordo ore prima. Questa la versione ufficiale del Ministero della Difesa russo, che imputerebbe l’incidente, appunto, ad un incendio. Tuttavia, la controparte ucraina afferma di aver affondato l’incrociatore con due missili “Neptune” antinave.

Ad ogni modo, per ora nessuna delle due versioni sembra essere stata verificata. L’incrociatore “Moskva” era una delle navi più importanti di tutta la flotta russa, e l’affondamento è considerato da molti un duro colpo per l’esercito russo, sia dal punto di vista militare che simbolico.

Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha detto che cinque navi da guerra russe che si trovano nel Mar Nero settentrionale si sarebbero spostate verso sud, lontano dalle coste ucraine, poche ore dopo l’affondamento dell’incrociatore. Secondo diversi esperti militari potrebbe essere una conferma della versione ucraina: allontanandosi dalle coste ucraine le navi russe potrebbero voler prevenire un altro possibile attacco.

Tra l’altro, questa mattina a Kyiv sono stati confermati i bombardamenti di una fabbrica di sistemi missilistici antiaerei a lungo e medio raggio e di missili antinave.

(L’incrociatore Moskva. Fonte: analisidifesa.it)

Mosca blocca un giornale indipendente. Nell’ambasciata russa a Washington una lotta tra proiettori

Venerdì l’agenzia russa delle comunicazioni ha bloccato l’accesso nel paese al sito in lingua russa del Moscow Times, giornale online indipendente, per un articolo pubblicato dal sito il 4 aprile in cui si raccontava che alcuni agenti delle forze speciali russe si sarebbero rifiutati di combattere in Ucraina. L’agenzia ha giudicato la notizia falsa, procedendo a bloccare l’accesso al sito.

Intanto, è diventato virale un video pubblicato su Twitter che ritrae la bandiera ucraina proiettata sulle mura dell’ambasciata russa di Washington, opera di un piccolo gruppo di attivisti, a cui sembra che i funzionari dell’ambasciata abbiano provato a “porre rimedio” inseguendola con un altro proiettore. La didascalia del tweet recita: «Il gatto e il topo».

https://twitter.com/benjaminwittes/status/1514422654152982529?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1514422654152982529%7Ctwgr%5E%7Ctwcon%5Es1_c10&ref_url=https%3A%2F%2Fwww.ilpost.it%2Fflashes%2Fambasciata-russa-bandiera-ucraina-washington%2F

Biden contro Mosca: «è un genocidio»

Negli ultimi giorni il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha accusato la Vladimir Putin di essersi macchiato di genocidio nei confronti della popolazione civile ucraina, in seguito all’ennesimo blocco dei corridoi umanitari in varie parti del paese mercoledì scorso. Inoltre, Kyiv ha affermato di star raccogliendo prove per dimostrare l’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito russo.

Il Presidente Biden ha anche affermato – riporta il Daily Mail – di essere pronto per una visita ufficiale a Kyiv. Sembrerebbe che nelle ultime ore si stia decidendo su una visita da parte di un membro dell’Alta amministrazione americana. L’impegno del Presidente nei confronti della situazione ucraina sembra auspicare anche ad una rimonta nei sondaggi, che vedono a favore di Biden solo un 33%.

Valeria Bonaccorso

Russia-Ucraina: la situazione dopo quasi un mese dall’inizio del conflitto

Nella notte tra il 23 ed il 24 Febbraio le forze russe hanno invaso il territorio Ucraino. Un mese di attacchi aerei, bombardamenti e cruenti battaglie che non accennano a placarsi. Continuano ad essere insufficienti gli sforzi da parte di Zelensky (che di recente ha parlato in video-collegamento con Palazzo Chigi) per risolvere per via diplomatica lo scontro. La guerra, inoltre, sta mettendo in dura crisi l’Occidente sia per ciò che concerne l’economia ma anche (e soprattutto) l’equilibrio politico internazionale. L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno sin da subito condannato l’operato di Putin ma, se da una parte, uno dei personaggi politici europei rilevanti come il Presidente francese Macron continua a cercare un punto d’incontro con Mosca attraverso dei colloqui diretti ad evitare ulteriori danni, d’altra parte il Presidente statunitense Joe Biden continua a rilasciare dichiarazioni e critiche molto dure nei confronti del Presidente russo Vladimir Putin.

L’accusa di Biden

«Putin valuta l’uso di armi chimiche e biologiche»

Queste le parole del Presidente degli Stati Uniti dopo aver aggiunto che in questo momento la Russia si troverebbe «con le spalle al muro». Mosca ha subito smentito queste affermazioni e tramite un comunicato del Ministero degli Esteri ha convocato l’ambasciatore statunitense John Sullivan. La tensione tra le due parti sembra crescere. Peraltro, il portavoce del Cremlino Dmitrj Peskov, di recente intervistato alla CNN, alla domanda su un possibile attacco nucleare da parte della Russia ha risposto:

«Solo in caso di minaccia all’esistenza della Russia stessa»

Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino. Fonte: ansa.it

Nel suo lungo intervento – documentato dalla giornalista Christiane Amanpour – si è potuto capire quanto l’attacco russo sia stato organizzato nei minimi dettagli. Queste le parole di Peskov:

«L’operazione procede secondo i piani»

Per quel che riguarda la durata ha aggiunto:

«Nessuno pensava che un’operazione militare speciale in Ucraina avrebbe richiesto un paio di giorni»

Tali dichiarazioni, così chiare e dirette, lasciano trasparire un’inquietante sicurezza da parte del governo di Vladimir Putin.

Il numero dei soldati russi caduti durante la guerra

Apparsi e poi spariti dopo pochi minuti, il dato che chiariva il numero dei soldati russi deceduti sul campo di battaglia era stato pubblicato su un tabloid pro-Putin. 9861 sembrerebbero essere i morti e 16153 i feriti. Il giornale, dopo aver cancellato la notizia, ha parlato di attacco hacker. Ingenti le perdite per Mosca, che secondo alcune fonti sarebbe sull’orlo di una crisi sanitaria, con la maggior parte dei posti letto occupati dai feriti di guerra. In alcuni ospedali sono stati sospesi i servizi medici essenziali per la popolazione.

Immagine dal campo di battaglia. Fonte: lanotiziagiornale.it

Problemi al fronte per i soldati russi

«Tutti abbiamo visto i soldati russi che saccheggiavano i supermercati»

Il portavoce del Pentagono John Kirby descrive così la condizione dei militari russi al fronte. Nelle ultime ore, infatti, si parla di come le «forze di Kiev stiano riguadagnando terreno» e probabilmente ciò è dovuto alle numerose difficoltà logistiche che sta affrontando l’esercito di Mosca, tra cui appunto la reperibilità del cibo.

Mariupol: la distruzione della città

L’elevato numero di combattenti russi deceduti testimonia quanto la voglia di arrendersi da parte dell’Ucraina sia veramente poca, ma soprattutto fa prendere atto di come, in situazioni come questa, sia difficile trovare un vinto o un vincitore ma solamente distruzione e morte su entrambi i fronti. Basti pensare alla città di Mariupol, continuamente presa di mira dall’esercito russo che ha iniziato a bombardarla quasi ininterrottamente. Un comune che – secondo i dati – prima dell’attacco contava ben 480.000 abitanti, adesso – secondo la BBC – vede il numero di persone scendere a circa 300.000. Le condizioni di vita dei cittadini rimasti sono disperate, privati dei beni di prima necessità, costretti a vivere senza acqua corrente né riscaldamento. Mettendo a confronto le immagini risalenti a più di un mese fa – prima dell’inizio del conflitto armato – con quelle attuali si fatica a trovare somiglianze. Il sindaco Vadym Boychenko ha affermato che ormai ben l’80% degli edifici della città sarebbe andato distrutto. In seguito, ha definito la sua città come una «nuova Hiroshima», ennesimo paragone con scenari bellici che credevamo ormai essere di esclusiva pertinenza storica e che invece, purtroppo, non sembrano più lontani nel tempo, bensì quanto mai attuali.

Immagini dal satellite: Mariupol prima e dopo i bombardamenti. Fonte: fanpage.it

Francesco Pullella

 

Crisi Russia-Ucraina: espulso il viceambasciatore americano da Mosca, tensioni fortissime nel Donbass

Le speranze del mondo intero convergono verso una “de-escalationnella crisi Russia-Ucraina. Dei precedenti sviluppi ne abbiamo parlato qui. Ora, passiamo agli ultimi aggiornamenti, i quali sembrano suggerire tutt’altro che passi in avanti, verso una pacifica risoluzione della questione.

Vecchia foto di un incontro tra Biden e Putin, alcuni mesi fa (fonte: startmag.it)

Una mappa con gli obiettivi sensibili in Ucraina

Come gli Stati Uniti continuano a ritenere vicina un’invasione dell’Ucraina, la Russia non crede che gli Usa vogliano aiutare solo a ristabilire l’equilibrio geopolitico. Dopo la smentita della presunta data del 16 febbraio per un attacco, ipotizzata dai primi, l’allarme resta alto per i prossimi giorni.

Dall’Estonia, peraltro, arriva una notizia clamorosa: ci sarebbe una cartina che segnalerebbe i punti sensibili puntati dal presidente russo Vladimir Putin in Ucraina. A dichiararlo il ministero degli Esteri estone, su Twitter: “Sono gli obiettivi individuati dall’intelligence russa che, se neutralizzati, possono interferire con il comando, il recupero e l’approvvigionamento delle forze armate ucraine e l’approvvigionamento energetico dell’Ucraina”.

 

La lettera di Mosca in risposta a Washington e le accuse

Continua, intanto, la corsa della diplomazia: il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha proposto al ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, un ulteriore vertice Usa-Russia.

Mosca, negli ultimi giorni, ha risposto a Washington con una lettera di undici pagine alle pretese degli Usa: il ritiro dei militari statunitensi dall’Europa orientale e dal Baltico e il non avanzamento della Nato a Est, sono per la Russia necessarie per dei passi indietro da parte sua. Quest’ultima si è detta pronta al dialogo con l’Occidente e a una cooperazione con gli Stati Uniti per realizzare “una nuova equazione di sicurezza“. Però, ha anche sottolineato che, dall’altra parte, la Nato stia da tempo ignorando la necessità di mantenere l’area cuscinetto costituita dall’Ucraina, così come gli Stati Uniti, ma anche che l’Ucraina in sette anni non abbia rispettato gli accordi di Minsk.

«È stata ignorata – accusa Mosca – la natura del pacchetto delle proposte russe, da cui sono stati estrapolati deliberatamente argomenti convenienti che, a loro volta, sono stati distorti per creare vantaggi agli Stati Uniti e ai loro alleati.».

 

 

Il ritiro delle truppe russe: gli Usa non ci credono e ricordano a Mosca il rischio di sanzioni

Il 15 febbraio, il presidente russo ha incontrato, presso il Cremlino, il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Quest’ultimo ha dimostrato una grande apertura al dialogo e ha dichiarato che la sicurezza dell’Europa “non può essere costruita contro la Russia ma in cooperazione con la Russia”. Il leader russo si è detto contento di questa apertura, ma ha ribadito che la Russia non crede che l’Ucraina rinuncerà effettivamente al suo ingresso nella Nato.

Finalmente, in seguito all’incontro, Putin ha dichiarato chiaramente di aver autorizzato l’inizio del ritiro delle truppe dal confine, assicurando di non volere la guerra. Eppure, la Nato ha espresso ancora dubbi su una reale de-escalation.

Putin ha voluto dare un segnale di distensione con il ritiro, pur insistendo nelle sue richieste. Anche da parte sua la diffidenza è tanta. Gli Usa non hanno dichiarato chiaramente di non voler entrare a Kiev.

Dalla Casa Bianca sono poi giunte voci di una forte diffidenza al riguardo, secondo le quali la ritirata non sarebbe avvenuta, anzi, che sarebbe stato predisposto lo schieramento di altri 7mila militari russi e la costruzione di un ponte galleggiante in Bielorussia, a 6-7 km dalla frontiera ucraina. Il ponte, successivamente smantellato, non è ancora chiaro se sia stato costruito dalla Russia o dai suoi alleati nella regione.

Immagini satellitari del ponte, poi smantellato, come dimostrano successive acquisizioni (tg24.sky.it)

Il presidente americano Joe Biden continua a dirsi pronto a qualsiasi eventualità, anche ad a ricevere cyber-attacchi. Con tono duro ha avvertito chiaramente la Russia delle sanzioni che verrebbero applicate contro di essa, in caso di invasione dello Stato confinante:

«Se la Russia attacca l’Ucraina, sarà una guerra frutto di scelta. Le sanzioni sono pronte».

 

Espulsione del viceambasciatore americano da Mosca

Nella giornata di ieri, 17 febbraio, la via diplomatica si è fatta più difficilmente percorribile. La Russia ha espulso il viceambasciatore americano a Mosca, Bart Gorman.

Questo ha spinto ancor di più Biden verso la convinzione di un attacco imminente e ha aggiunto altre dichiarazioni forti: la Russia starebbe cercando un alibi falso per giustificare l’invasione dell’Ucraina, potrebbe stare architettando persino “un’operazione sotto falsa bandiera” (“false flag“). Blinken sostiene che potrebbe inventare attacchi terroristici, inscenare attacchi con droni contro i civili o attacchi con armi chimiche – ma anche compierli veramente – rivelare false fosse comuni, nonché convocare teatralmente riunioni di emergenza per rispondere a operazioni sotto falsa bandiera e poi cominciare l’attacco contro obiettivi già identificati e mappati.

 

La grave situazione in Donbass potrebbe divenire il casus belli

Cartina del Donbass (fonte: Wikipedia)

A sostegno delle accuse, gli americani avevano fatto circolare anche un documento all’Onu in cui la Russia rievocacrimini di guerra” e un “genocidiocontro la popolazione russofona del Donbass. In questa regione ormai indipendente, sul confine russo-ucraino, ieri, è stato condotto un attacco ad un asilo, da parte dei separatisti filo-russi. Ferite due maestre, ma nessuna vittima e nessun bambino colpito. Poi intorno alle 10.25 di mattina, durante il bombardamento del villaggio di Vrubivka, un colpo è stato sparato nel cortile di un liceo.

L’asilo colpito durante le tensioni con i ribelli filo-russi (fonte: www.cbsnews.com)

Nelle ultime ventiquattro ore, ci sarebbero state sessanta di violazioni al cessate il fuoco da entrambe le parti. Si credeva che quello potesse essere la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. La regione, in passato, fu teatro dello scontro tra russi e nazisti durante la Seconda guerra mondiale, poi zona sempre sotto controllo da parte di Kiev per le tensioni createsi da quando essa si è dichiarata, nel 2014, unilateralmente indipendente dall’Ucraina, e i separatisti costituirono la Repubblica Popolare di Doneck e la Repubblica Popolare di Lugansk.

 

Tutti, compresa l’Italia, lavorano a un incontro tra Putin e Zelensky

Nelle suddette undici pagine, Mosca, oltre a dimostrarsi aperta alla collaborazione, ha rimarcato anche la sua fermezza in un vero e proprio aut aut:

«In assenza della disponibilità da parte americana a concordare garanzie giuridicamente vincolanti della nostra sicurezza, la Russia sarà costretta a rispondere, anche attuando misure di natura tecnico-militare.».

La prossima settimana si svolgerà in Europa un altro vertice. Prenderà parte anche il premier italiano Mario Draghi, che di ritorno dal Belgio, ieri ha dichiarato con preoccupazione: “Per il momento episodi di de escalation sul terreno non si sono visti”.

«L’obiettivo – ha detto il presidente del Consiglio- è ora far sedere al tavolo il presidente russo Vladimir Putin e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L’Italia sta facendo il possibile per sostenere questa direzione».

L’Italia ci tiene al sostegno della diplomazia. Non solo la classe politica, nelle persone di Draghi e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ma anche i cittadini sono molto preoccupati. La Comunità di Sant’Egidio ha persino promosso delle manifestazioni in strada, a Roma, contro la possibilità della guerra, poiché in tal caso, a rimetterci, come sempre durante le guerre, è soprattutto la gente comune.

Corteo manifestazione promossa dalla Comunità di Sant’Egidio. Striscioni “No war” (Fonte: rainews.it)

 

Rita Bonaccurso

Pechino 2022: quando lo sport diventa un fattore politico

Che non si sarebbe trattato di un “normale” evento sportivo lo si intuiva già dalle premesse. Quella che poteva sembrare una solita cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali, infatti, nasconde numerosi retroscena di natura politica.

L’assenza di alcune nazioni

I rappresentanti di alcune nazioni (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda) non si sono presentati alla cerimonia in segno di protesta ordinato dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che poco prima dell’inizio dell’evento aveva dichiarato:

«Stiamo valutando di boicottare le Olimpiadi invernali di Pechino»

Il Presidente americano Biden. Fonte: open.online

Il motivo sarebbe da ricercare nelle presunte violazioni dei diritti umani da parte delle autorità cinesi contro la minoranza di fede musulmana degli Uiguri. Risulta però plausibile pensare che un tale attacco simbolico si possa basare anche sulle tensioni tra Occidente e Cina, a causa della crescente vicinanza di quest’ultima con la Russia di Putin.

Le repliche di Pechino non si sono fatte attendere con il portavoce del Ministero degli Esteri che ha etichettato la protesta come:

«Una violazione della neutralità politica nello sport»

Eileen Gu e Zhu Yi, per la Cina un unicum storico

Le controversie e gli intrecci tra mondo politico e sportivo per la Cina non si fermano alla cerimonia di apertura. Infatti, l’atleta cinese Eileen (Ailing) Gu si è distinta nella disciplina speciale del Big air dello sci freestyle, riuscendo a conquistare la medaglia d’oro. La particolarità? Eileen Gu non è nata in Cina bensì in California, da genitori cinesi. Se si pensa ad un contesto sportivo come quello italiano risulterà usuale, ma per la Cina si tratta della prima volta che atlete nate al di fuori dei confini rappresentino la nazione.

Eileen Gu. Fonte: repubblica.it

La vittoria ha goduto di un clamore mediatico senza pari, soprattutto sui social dove critici, giornalisti e pubblico si sono immediatamente complimentati con Eileen, che con una prestazione degna di nota ha fatto esaltare una nazione intera. Addirittura, gli alti vertici di Pechino si sono congratulati per il risultato ottenuto, descrivendo la sua impresa come:

«Una preziosa medaglia d’oro per lo sport cinese»

La campionessa dello sci freestyle non è un caso unico all’interno di questa edizione dei giochi olimpici. Zhu Yi, come Eileen, nasce in California, a Los Angeles, da padre cinese. Ma, a differenza della sua connazionale, Zhu non si è espressa al meglio nella sua disciplina, il pattinaggio artistico. A causa di una brutta caduta durante l’esibizione ha fatto “scivolare” il suo team da un parziale terzo posizionamento ad un definitivo quinto posto.

Il caso Zhu Yi: quando la cittadinanza dipende da una sconfitta

Il mondo dei social è un mondo controverso. Si è capaci di divinizzare una persona con la stessa rapidità con cui se ne distrugge un’altra. Risulta plausibile che un’atleta professionista come Zhu Yi, nel momento della gara, metta in conto la possibilità di errore; non è strano che dopo un errore arrivino delle critiche, da cui l’atleta potrebbe addirittura trarre forza e usarle come stimolo per migliorare. Tuttavia, se la vittoria di Eileen – grazie alla particolarità della vicenda – ha generato clamore mediatico positivo, la sconfitta di Zhu rischia di diventare un vero e proprio caso politico: gli utenti social, infatti, non si sono limitati a criticare la prestazione, ma hanno continuato ad infierire sulla sfera personale, basandosi appunto sul luogo di nascita e sfociando nella xenofobia. Si va quasi a ricadere in espressioni estreme che, purtroppo, a noi del “Belpaese” non risultano del tutto insolite.

Zhu Yi. Fonte: tag24.it

Dal momento in cui si decide di esprimere un pensiero ci si dovrebbe autoimporre dei confini da non superare assolutamente: il confine tra critica e insulto, tra sfera pubblica e sfera privata. Quest’ultima, qualunque sia l’esposizione mediatica della persona in questione, dovrebbe rimanere isolata da tutto. Il superamento di questi confini spesso finisce per aprire le porte a scenari atroci, come in questo caso.

Francesco Pullella