I parlamentari d’Italia eletti a Messina: Giuseppe Natoli e le prime elezioni del Regno

Il 18 febbraio, con il voto di fiducia della Camera al nuovo governo guidato da Mario Draghi, si è conclusa definitivamente la crisi di governo, dovuta de facto alle dimissioni delle ministre Bellanova e Bonetti e, dunque, al ritiro del sostegno del partito di cui fanno parte (Italia Viva) al governo Conte II.

Dopo un mese di discussioni aspre, parte della cittadinanza non ha compreso i motivi e l’opportunità di una crisi in un periodo delicato per il nostro Paese. Gli eventi di quest’ultima fase hanno alimentato il processo di disaffezione alla politica, uno dei principali sintomi di una democrazia in crisi.

Mossi da questa premessa abbiamo deciso di intraprendere un percorso lungo la storia dell’Italia unita, per far riemergere il contributo politico dei parlamentari eletti – o comunque legati – a Messina e dimostrare che il mondo della politica – in perenne evoluzione – non è un altrove lontano, ma è parte dalla vita di ciascuno di noi.

Giuseppe Conte (a sinistra) e Mario Draghi (a destra) durante la la cosidetta Cerimonia della Campanella – Fonte: lastampa.it

Il contesto storico e la normativa elettorale

Il nostro viaggio inizia all’alba del 1861, quando nel nostro Paese si svolsero le elezioni della VIII legislatura della Camera dei deputati – unico organo elettivo del Parlamento – del Regno di Sardegna, che, a seguito della proclamazione dello nuovo Stato unificato – meno di due mesi dopo -, possono considerarsi le prime elezioni del Regno d’Italia.

La legge elettorale, naturalmente, era completamente differente da quella tutt’oggi vigente. Il particolare più evidente è legato all’ampiezza dell’elettorato attivo (gli aventi diritto al voto), decisamente ridotta in confronto a quella attuale.

La normativa elettorale prevedeva – in generale – il diritto di voti per i soli uomini, di età superiore ai 25 anni, alfabetizzati e con la possibilità di pagare annualmente almeno 40 lire di tasse.

Inoltre era prevista la suddivisione del territorio in collegi uninominali (è eletto un solo candidato) e su un sistema – di conversione dei voti in seggi – interamente maggioritario (è eletto il candidato che riceve più voti) a doppio turno (con eventuale ballottaggio).

In un contesto del genere, i protagonisti della competizione elettorale erano i singoli candidati, i cosiddetti notabili, personalità di prestigio nel proprio territorio.

Il primo Parlamento del Regno d’Italia, Palazzo Carignano, Torino – Fonte: lagazzettatorinese.it

Le elezioni a Messina

L’intera penisola, ancora priva dei territori del Veneto e di quelli annessi allo Stato Pontificio, era divisa in 443 collegi.

La provincia di Messina, istituita dopo l’annessione della Sicilia, era divisa in 8 collegi: cinque nella zona tirrenica (Mistretta, Naso, Patti, Castroreale e Milazzo), uno nella zona ionica (Francavilla di Sicilia) e due nella città di Messina (Messina 1 e Messina 2).

Le prime elezioni del Regno si svolsero il 27 gennaio 1861, con un’affluenza totale di circa il 57% dell’elettorato. Nella città di Messina gli aventi diritto erano in totale 2057 e l’affluenza media tra i due collegi cittadini fu del 70%.

In entrambi i collegi della città dello Stretto si sfidarono due candidati. Ad avere la meglio furono due personalità di spicco del panorama politico messinese: Giuseppe La Farina (1815-1863) e Giuseppe Natoli Gongora di Scaliti (1815-1867).

Ritratto di Giuseppe Natoli – Fonte: latuanotizia.it

Il primo deputato di Messina: Giuseppe Natoli Gongora

Messinese di nascita, Giuseppe Natoli apparteneva a una famiglia nobile, protagonista da tempo nel governo della città. Dopo aver studiato all’Accademia Carolina di Messina, si laureò presso l’Università di Palermo in diritto. Oltre a dedicarsi all’attività forense, grazie alla sua spiccata capacità oratoria, ottenne la cattedra di codice civile e procedura, presso l’Università di Messina.

Sin da giovane frequentò la vivace rete cittadina di circoli, gruppi massonici e accademie, permeata di ideali liberali.

Nel 1848 fu uno dei protagonisti della costituzione del Regno di Sicilia; nel biennio rivoluzionario divenne deputato alla Camera dei Comuni ed ebbe spesso incarichi diplomatici. In seguito alla controrivoluzione borbonica e alla capitolazione della città di Messina, abbandonò l’Isola e si rifugiò in Piemonte.

Durante gli anni dell’esilio si legò sempre più al concittadino La Farina e si avvicinò a Cavour (1810-1861).

In seguito alla conquista della Sicilia da parte di Garibaldi (1807-1882), Natoli, con l’avallo di Cavour, ricoprì l’incarico di ministro dell’Agricoltura e commerci– con l’interim degli Affari esteri – nel governo dittatoriale, fino alle dimissioni in dissenso con l’espulsione dalla Sicilia di La Farina.

A dicembre divenne governatore di Messina, nel delicato periodo della transizione statale.

Camillo Benso di Cavour (in alto) e Giuseppe Garibaldi (in basso) – Fonte: wikipedia.org

Una volta eletto al Parlamento di Torino, prese parte al primo governo del Regno d’Italia, guidato da Cavour, come ministro dell’Agricoltura, industria e commercio.

Come deputato ha rappresentato le istanze più impellenti della città dello Stretto, ossia la smilitarizzazione dei forti e il porto franco.

 

Le elezioni suppletive

Sia La Farina che Natoli non conclusero il loro mandato alla Camera. La Farina morì nel settembre 1863, mentre Natoli fu nominato senatore del Regno nell’agosto 1861.

In entrambi i collegi cittadini – in momenti diversi-  si tennero, dunque, le elezioni suppletive. In particolare, nel collegio di Messina 2 fu eletto un deputato destinato a ricoprire la carica di parlamentare per altre cinque legislature. Stiamo parlando di Giorgio Tamajo (1917-1897), più volte prefetto in diverse città e celebre esponente della massoneria.

Giorgio Tamajo – Fonte: agrigentoierieoggi.it

 

Mario Antonio Spiritosanto

 

Fonti:

treccani.it/natoli

storia.camera.it/deputato/giorgio-tamajo

http://dati.camera.it/apps/elezioni/

storia.camera.it/legislature/sistema-maggioritario-uninominale-doppio-turno

 

Immagine in evidenza:

Il primo Parlamento del Regno d’Italia – Fonte: piemontetopnews.it

La questione dei lavoratori fantasma: Bellanova propone la regolarizzazione del lavoro nei campi durante l’emergenza Covid-19

Negli ultimi giorni l’attenzione da parte dei media è puntata su Teresa Bellanova, Ministra delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. La politica e sindacalista, membro di Italia Viva di cui è anche coordinatrice nazionale, ha di recente riportato al centro del dibattito pubblico il problema della carenza dei braccianti agricoli, discorso sul quale, si pensa, possa prospettarsi un suo abbandono dell’esecutivo e giocarsi di conseguenza la stabilità del governo stesso.

In un periodo di forte crisi del lavoro, dovuto alle misure di lockdown imposte dalla pandemia da Covid-19, le difficoltà, o addirittura l’impossibilità, per le migliaia di lavoratori stranieri regolari, dotati dunque di regolare permesso di soggiorno, di arrivare in Italia dai loro Paesi di provenienza, possono costituire un grave danno per la già provata produzione italiana.

La questione non è nuova e già un mese fa, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, la Coldiretti, la maggiore associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana, e l’Istituto Bruno Leoni, uno dei più importanti centri di ricerca economici, oltre che numerosi esponenti del mondo sindacale, uno fra tutti Aboubakar Soumahoro, avevano a più riprese invitato il governo a regolarizzare la posizione delle centinaia di migliaia di immigrati irregolari che, ogni anno, lavorano nei campi italiani.

La problematica però non riguarda solamente il settore dell’agricoltura: settori della nostra economia come quello dell’edilizia o dell’assistenza domestica sono svolti per la maggior parte da individui di nazionalità straniera.

In Italia ci sono più di seicentomila lavoratori “fantasma”, intendendosi come tali tutti quegli individui che prestano la propria attività lavorativa senza però essere di fatto riconosciuti non solo come attivi, ma addirittura come effettivamente esistenti sul nostro territorio. Si tratta dunque di esseri umani impossibilitati ad accedere alle cure sanitarie, non avendone diritto in quanto irregolari, e riceventi retribuzioni ben al di sotto del minimo sindacale. Soggetti abbandonati dallo Stato al giogo di un mercato sommerso al cui interno si muovono interessi e cifre sproporzionate. Fenomeni come quello del caporalato, dello sfruttamento della manodopera a basso prezzo e, letteralmente, la gestione della vita di migliaia di indigenti sono sotto il monopolio delle associazioni mafiose e, in generale, criminali.

Quella dei lavoratori invisibili è una discussione che, all’interno del mercato del lavoro, si ripropone ciclicamente e che è stata in passato già oggetto di più di sette sanatorie che hanno riconosciuto, per motivi di lavoro, il permesso di soggiorno a milioni di individui (basti pensare alla Bossi-Fini del 2002 che interessò mezzo milione di persone).

Le soluzioni prospettate per risolvere la questione sono varie e non tutte però prevedono la regolarizzazione dei lavoratori fantasma. Una delle idee più interessanti è quella portata avanti da alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle che hanno ipotizzato la possibilità di destinare alla raccolta di frutta e verdura nei campi, e in generale impiegare in quei settori lavorativi in cui si soffre la mancanza di manodopera, i beneficiari del reddito di cittadinanza. Ad oggi i percettori di questa misura assistenzialistica sono circa due milioni di persone di cui però solo un terzo in età da lavoro, quindi circa settecento mila. La misura del Reddito di Cittadinanza, pensata inizialmente come un’assistenza temporanea ai cittadini in attesa del reinserimento nel mondo del lavoro ha trovato esito positivo, a fine 2019, solo per il 2% degli aventi diritto.

È inopinabile che tale possibilità potrebbe risolvere con un’unica soluzione due questioni estremamente impellenti per un governo di centro-sinistra: la regolarizzazione dei lavoratori nei campi e il reinserimento nel mondo del lavoro dei beneficiari del reddito di cittadinanza, dovendo però necessariamente sorvolare su ulteriori problematiche relative alla libertà di scelta o di aspirazione dei diretti interessati.

Rimane in sospeso però una domanda quasi inevitabile: e gli irregolari? Quale destino spetterebbe a delle persone che già si trovano sul nostro territorio, ma sprovviste di un documento, invisibili alle istituzioni ed esistenti solo per i loro sfruttatori?

Sebbene sia difficile non riconoscere che per un corpo politico, che fonda la sua legittimazione sul consenso popolare, questo sia un periodo storico non congeniale per imbastire o anche solo ipotizzare una discussione costruttiva volta a un progetto di riforma dell’immigrazione o della cittadinanza, il problema non è assolutamente da sottovalutare.

Le vite, i diritti e la dignità delle persone, indipendentemente dalla loro storia o nazionalità, non possono certo essere lasciate nell’oblio, con la speranza che in futuro le emergenze facciano venire i nodi al pettine.

Filippo Giletto