Dagli studenti per gli studenti: quali sono i meccanismi di trasmissione nei batteri?

I batteri sono microrganismi unicellulari, aploidi, in grado di riprodursi autonomamente nell’ambiente e anche in vari tessuti del corpo umano; vengono utilizzati per questo nei laboratori.

Indice dei contenuti

  1. Cosa sono i batteri?
  2. Meccanismi di trasmissione?
  3. La riproduzione dei batteriofagi
  4. Come si replicano i batteriofagi nei batteri?
  5. I fagi si replicano: tramite un ciclo litico e un ciclo lisogenico

Cosa sono i batteri?

Sono organismi aploidi, unicellulari e si riproducono asessualmente. Vengono utilizzati in laboratorio tramite delle soluzioni solide o liquide, definite terreni di coltura contenenti sostanze nutritive su cui è possibile crescere cellule eucariote e procariote.
I terreni di coltura liquidi sono composti da un recipiente contenente una quantità di soluzione acquosa, in cui sono disciolti i nutrienti e altre sostanze necessarie. Nel liquido viene inoculato lo starter e, se tutto il procedimento viene fatto in maniera corretta, si osserverà lo sviluppo della coltura. I terreni di coltura solidi invece, sono substrati duri, costituiti da una base di acqua a cui sono aggiunti nutrienti e altri composti per la solidificazione.

Batterio nelle sue sezioni. Fonte

Meccanismi di trasmissione

I batteri vengono infettati da un fago virulento, cioè che contiene nel suo organismo un virus. Il virus è un complesso parassita intracellulare obbligato, capace di vivere e riprodursi solo all’interno di cellule viventi. Contengono solo parte dell’informazione genetica necessaria per la loro moltiplicazione. Il loro acido nucleico, DNA o RNA virale, codifica solo le proteine strutturali e alcuni enzimi necessari per la replicazione del materiale genetico.
I batteri vengono infettati da virus specializzati definiti batteriofagi, questi presentano una testa proteica, definita capside, che custodisce e protegge il materiale genetico; una coda di lunghezza variabile, costituita da un tubo cavo in cui passa il materiale genetico e da delle fibre terminali associate alla coda, che circondano delle zampe e che servono per riconoscere e ancorarsi alla superficie batterica. La coda e le fibre formano un iniettosoma, cioè l’apparato che dapprima trivella la superficie batterica, per poi iniettare all’interno del batterio il materiale genetico come una siringa.

Virus batteriofago nelle sue parti. Fonte

La riproduzione dei batteriofagi

Come si replicano i batteriofagi all’interno dei batteri? Possono infettare solo un tipo o una famiglia di batteri, questo perché i batteriofagi riconoscono solamente le strutture uniche del suo target batterico tramite, di solito, la punta della coda. Quando questa interazione è produttiva e corretta si innescano una serie di eventi che culminano nell’iniezione del genoma fagico all’interno del batterio predato.

I fagi si replicano tramite: un ciclo litico e un ciclo lisogenico

Quando parliamo di ciclo litico intendiamo che la riproduzione del fago avviene immediatamente; il virus va a legarsi ad un batterio e va ad iniettare il proprio acido nucleico, prendendo il controllo dell’attività metabolica della cellula ospite; successivamente le cellule ospiti del virus vanno incontro a lisi liberando i fagi di nuova generazione.
Invece, per quanto riguarda il ciclo lisogenico, posticipa la riproduzione inserendo il proprio codice genetico nel genoma della cellula ospite, così che il batterio infettato non vada incontro a lisi e ospiti nel proprio genoma l’acido nucleico virale.
Nel caso in cui non siano, più presenti, le condizioni ottimali per la riproduzione virale, il virus svolgerà il ciclo litico.

Raffigurazione del ciclo litico e lisogenico. Fonte

 

Sofia Musca

Bibliografia
https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/v/virus-e-batteri#:~:text=I%20batteri%20sono%20dei%20microrganismi,vari%20tessuti%20del%20corpo%20umano.

https://www.my-personaltrainer.it/salute/batteri-genetica.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Terreno_di_coltura

https://www.chimica-online.it/biologia/terreni-di-coltura.htm

https://www.my-personaltrainer.it/salute/virus.html#167791

Batteriofagi: introduzione ai virus che infettano i batteri

Emozioni di pancia: il collegamento fra l’intestino e la nostra mente

Vi è mai capitato di sentirvi meglio dopo aver mangiato una buona lasagna?
Potrebbe sembrare banale ma per la scienza non lo è. Recenti studi stanno facendo sempre più chiarezza sulla relazione che intercorre tra la flora batterica intestinale, chiamata anche microbiota”,  il benessere del nostro corpo e dei nostri stati d’animo.

Indice dei contenuti

  1. Cos’è il microbiota intestinale e che funzioni svolge
  2. Collegamento fra la pancia e la mente
  3. Quali sono i fili che li collegano?
  4. I “computer”
  5. La “tastiera”
  6. La nuova frontiera

Cos’è il microbiota intestinale e che funzioni svolge

Il nostro corpo è la casa di una miriade di microorganismi indispensabili per la vita e, una grandissima parte di essi, è situata nel nostro intestino.
Nell’apparato digerente, infatti, sono presenti numerosissimi batteri che fanno parte di un sistema complesso e organizzato: la flora batterica, di cui abbiamo parlato in un altro articolo.
La costituzione del microbiota intestinale è vastissima e conta circa 400 specie di batteri, ad esempio i lattobacilli.
Uno studio di Hao Wang e colleghi pubblicato nel 2018, mette in evidenza come il microbiota sia importantissimo per il benessere della mucosa intestinale: mantiene integro lo strato di cellule che la compone, protegge dagli attacchi di eventuali batteri patogeni grazie alla secrezione di sostanze antimicrobiche e adempie a funzioni metaboliche di sostanze che altrimenti sarebbero difficili (se non impossibili) da assimilare da parte del nostro corpo.
Da queste premesse ne consegue che la nostra salute passa prima da quella dei nostri graditi ospiti.

 

Sistema digerente, nel baloon flora intestinale. Fonte

Collegamento fra la pancia e la mente

Il microbiota ha suscitato notevole interesse nella comunità scientifica. La perturbazione della flora batterica (spesso dovuta anche all’abuso degli antibiotici) è causa di molte condizioni patologiche che variano dall’acuto al cronico, persino gravi conseguenze psicologiche che si riflettono nello spettro della depressione e dei disturbi d’ansia, come spiegato in uno studio del 2020 pubblicato da Klaus e Katharina Lange e colleghi del Department of Experimental Psychology dell’Università di Regensburg in Germania. In questo studio, i ricercatori, hanno evidenziato una differenza nella psiche tra topi normali e topi germ-free (privati di batteri). Questi ultimi soffrivano di ansia e depressione, manifestata come disinteresse nelle attività.

Quali sono i fili che collegano stato mentale e intestinale?

Ma come è possibile che vi sia una così forte connessione tra un gruppo di batteri e le emozioni?
Anche il nostro stato d’animo è completamente controllato dalla biologia e sembrerebbe che il microbiota intestinale abbia un ruolo in prima fila.
Lo stomaco e l’intestino tenue sono due degli organi che costituiscono l’apparato digerente. Per funzionare devono essere sia vascolarizzati che innervati. Il nervo che permette i movimenti muscolari intestinali (come la peristalsi) è il nervo Vago, il 10° nervo cranico a stretto contatto con le reti nervose del Sistema Nervoso Intestinale (SNI), che sembra essere un importante modulatore della struttura di elaborazione delle nostre emozioni: l’Amigdala.

I “computer”

Lo sviluppo delle emozioni (così come di ogni altro stimolo) è deputato al cervello e alle sue strutture che, come computer, elaborano le informazioni provenienti dalla periferia. Nel caso delle emozioni i “computer” sono principalmente l’amigdala, il talamo e la neocorteccia (che costituiscono insieme ad altre strutture il sistema limbico).
Gli organi di senso inviano lo stimolo al talamo che, a sua volta, lo trasferisce all’amigdala dove esso viene sviluppato.
L’amigdala è una struttura a forma di mandorla (da qui il nome) ed è coinvolta nella messa a punto della risposta emotiva. Essa, infatti, permette la traduzione dello stimolo precedentemente incamerato in una risposta che noi percepiamo come paura, stress, ansia, gioia, felicità etc.

 

La “tastiera”

Il microbiota intestinale è in grado di secernere delle sostanze, anche di scarto, che fungono da veri e propri neurotrasmettitori (le molecole che interagiscono con le cellule nervose). Questi, come una tastiera, dicono ai nostri neuroni cosa devono scrivere e come lo devono scrivere per proiettare i segnali ai nostri “computer” che li metteranno insieme.
Queste molecole entrano in contatto con il SNI il quale propaga al Vago influendo sull’amigdala e sulle strutture deputate alla risposta emotiva. L’effetto è anche legato alle molte sostanze prodotte dal microbiota che tengono sotto controllo l’operato di alcune molecole modulatorie nel nostro cervello (i microRNA o miRNA) come messo in luce da un lavoro del 2017 di Alan Hoban e Gerard Clarke. Eventuali alterazioni a carico dell’integrità del microbiota causerebbero, di riflesso, deviazioni del normale flusso di controllo degli stati d’animo, facendoci sentire più tristi, svogliati, meno produttivi e appagati. Dopo le evidenze sperimentali e i lavori sull’argomento, la relazione tra pancia e mente sembra essere sempre più chiara e con sempre più tasselli che si aggiungono al puzzle.

Descrizione anatomica del sistema limbico. Fonte

La nuova frontiera

I batteri intestinali, nostri amici, hanno fondamentale importanza nel mantenimento della salute generale dell’organismo. La ricerca sul microbiota sta prendendo sempre più piede offrendo come fine ultimo una terapia efficiente per contrastare gli effetti di un eventuale deficit di funzionalità della flora batterica, aprendo la via ad una nuova branca: la psicobiotica.
Tuttavia, la terapia più efficace è sempre la prevenzione al fine di  mantenere in salute il nostro micro-mondo senza il quale smetteremmo di esistere. Quindi, come prima cosa, bisognerebbe ridurre l’abuso degli antibiotici, mantenere una vita sana e una dieta equilibrata.

                                          Giovanni Bruno

 

Bibliografia:

Han, Sang-Kap, and Dong Hyun Kim. “Lactobacillus mucosae and bifidobacterium longum synergistically alleviate immobilization stress-induced anxiety/depression in mice by suppressing gut dysbiosis.” (2019): 1369-1374. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/31564078/

Hoban, A.E., Stilling, R.M., M. Moloney, G. et al. Microbial regulation of microRNA expression in the amygdala and prefrontal cortex. Microbiome 5, 102 (2017). https://doi.org/10.1186/s40168-017-0321-3

Hoban, A., Stilling, R., Moloney, G. et al. The microbiome regulates amygdala-dependent fear recall. Mol Psychiatry 23, 1134–1144 (2018). https://doi.org/10.1038/mp.2017.100

Hao Wang, Chuan-Xian Wei, Lu Min & Ling-Yun Zhu (2018) Good or bad: gut bacteria in human health and diseases, Biotechnology & Biotechnological Equipment, 32:5, 1075-1080, DOI: 10.1080/13102818.2018.1481350 https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/13102818.2018.1481350

Smith, Kristen S., et al. “Psychobiotics as treatment for anxiety, depression, and related symptoms: a systematic review.” Nutritional neuroscience 24.12 (2021): 963-977. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/31858898/

Lange, K. W., Lange, K. M., Nakamura, Y., & Kanaya, S. (2020). Is there a role of gut microbiota in mental health?. Journal of Food Bioactives9. https://doi.org/10.31665/JFB.2020.9213

Flora Batterica Intestinale – My Personal Trainer

Wikipedia: Amigdala

 

I batteri che salvano il pianeta

Nell’immaginario collettivo i batteri sono indissolubilmente legati alle infezioni e quindi al concetto di malattia. In pochi sanno che in realtà solo una minima parte dei microrganismi appartenenti a questo regno sono dannosi per l’uomo.

Ma cosa c’entrano i batteri con la salvaguardia dell’ambiente?

Da diversi anni sono ormai note le grandi potenzialità di questi microrganismi, che si sono rivelati un ausilio fondamentale in diverse branche della scienza: dalla medicina alla biologia, dalla ricerca fino alle applicazioni pratiche innumerevoli.

Recentemente due diversi studi hanno dimostrato come alcune specie di batteri siano in grado di aiutarci nella risoluzione di due problematiche che da anni affliggono l’ecosistema terrestre: l’inquinamento causato dalla plastica e il riscaldamento globale.

Il problema ambientale inerente alla plastica è ormai noto a tutti: gli oggetti in plastica impiegano un tempo più o meno lungo a degradarsi nell’ambiente, causando danni consistenti a tutti gli ecosistemi.

Risale al 2016 la scoperta da parte di Shosuke Yoshida del Kyoto Institute of Technology del batterio Ideonella sakaiensis 201-F6, pubblicata sulla rivista Nature. Questo microrganismo produce due enzimi in particolare: PETase e MHETase, in grado di digerire il PET (polietilene tereftalato).

Questa molecola fa parte della categoria dei materiali plastici ed è usato in particolare per la produzione di bottiglie; si stima che una bottiglia di dimensioni medie impieghi circa 450 anni a degradarsi grazie a fenomeni naturali spontanei. Provate a moltiplicare questo tempo per la quantità enorme di bottiglie di plastica che produciamo ogni giorno: soltanto una parte di esse sarà riciclata, senza contare tutte quelle che sono state inadeguatamente smaltite in passato.

Tuttavia, servirebbe una quantità notevolmente elevata di batteri per degradare anche una sola bottiglia in PET. Far proliferare una mole così grande di batteri sarebbe un approccio svantaggioso in quanto troppo dispendioso.

Come possono dunque aiutarci questi microrganismi?

A questa domanda hanno provato a dare una risposta i ricercatori dell’Università di Greifswald e del Centro Helmholtz di Berlino; il loro studio si inserisce in un quadro più ampio di lavori britannici e statunitensi volti a identificare la struttura tridimensionale degli enzimi PETase e MHETase (figura in basso).

Conoscere la struttura 3D di queste due proteine è fondamentale, in quanto permette di capire esattamente come esse svolgano la loro funzione e di riprodurle in laboratorio con tecniche di biologia molecolare in quantità virtualmente illimitate.

Come se non bastasse, la conoscenza dettagliata delle reazioni biochimiche, che permettono la degradazione del PET, renderà possibile modificare la struttura degli enzimi per renderli ancora più efficienti.

Le implicazioni per il futuro sono estremamente interessanti: una volta “migliorati” in laboratorio, PETase e MHETase potranno essere impiegati per smaltire grandi quantità di PET nei suoi costituenti elementari (glicole etilenico e acido tereftalico). Questi, a loro volta, potranno essere riutilizzati per la sintesi di nuove molecole di PET in un ciclo virtualmente chiuso, senza danni per l’ambiente e più efficiente degli attuali sistemi di riciclaggio.

Il secondo argomento che affronteremo richiede un breve ripasso dei meccanismi alla base del riscaldamento globale.

L’effetto serra è un fenomeno naturale essenziale per lo sviluppo della vita sulla terra: i cosiddetti gas serra non sono altro che sostanze presenti nell’atmosfera che intrappolano parte delle radiazioni solari mantenendole all’interno dell’atmosfera stessa. In poche parole, questi gas permettono alle radiazioni di entrare nell’atmosfera, ma non di uscirne. Questo non è altro che un meccanismo di regolazione della temperatura della superficie terrestre.

Infatti, le radiazioni solari trasportano energia (dunque calore) attraversando i vari strati atmosferici per essere poi riflessi sulla superficie terrestre, come una pallina lanciata contro il muro che torna indietro.

Se non fossero presenti i gas serra, i raggi solari e la loro energia tornerebbero nuovamente nello spazio dopo aver “colpito” la superficie terrestre: la temperatura del globo sarebbe così bassa da non permettere lo sviluppo della vita.

Tuttavia, se la concentrazione di gas serra aumenta eccessivamente si osserva il fenomeno inverso: la temperatura della superficie terrestre si innalza, con tutte le conseguenze dannose che ne derivano. Esempi di gas serra sono il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O) e il metano (CH4). Questi gas sono sia di origine naturale, sia antropica, termine che indica la loro produzione in una serie di processi dei quali è responsabile l’uomo.

Ma come fa un organismo piccolo come un batterio a ridurre l’effetto serra?

Semplicemente metabolizzando i gas sopracitati, ovvero sottraendoli dall’ambiente per trasformarli in sostanze innocue.

Lo studio pubblicato da Boran Kartal e colleghi del Max-Planck Institut su Nature si focalizza sul batterio Kuenenia stuttgartiensis. Questo microrganismo è in grado di fare reagire il monossido di azoto (NO) con l’ammoniaca producendo azoto (N2), normale costituente dell’atmosfera.

Il NO ha un potenziale dannoso: viene convertito a protossido di azoto (N2O), annoverato tra i gas serra.

Le principali fonti di NO di origine umana sono vari processi di combustione, come quelli dovuti al funzionamento di motori dei mezzi di trasporto (sia diesel che benzina e GPL) e alla produzione di calore ed elettricità.

Un’idea interessante potrebbe essere l’impiego di questi batteri negli impianti di trattamento delle acque reflue, che permetterebbe di sottrarre gran parte del NO prodotto da processi industriali.

Se degli organismi così piccoli possono fare così tanto per il pianeta, possiamo noi umani essere da meno?

A giudicare dagli ultimi dati sul riscaldamento globale e sulla plastica negli oceani, sembrerebbe di sì.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

Structure of the plastic-degrading Ideonella sakaiensis MHETase bound to a substrate, Uwe T. Bornscheuer et al.

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09326-3)

Nitric oxide-dependent anaerobic ammonium oxidation, Boran Kartal et al. 

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09268-w)

Antibiotico-resistenza, un’emergenza che potrebbe diventare più pericolosa del cancro

 

Il ventesimo secolo merita di essere ricordato per la scoperta di una delle sostanze che più contribuì ad aumentare l’aspettativa di vita della popolazione: la penicillina, il capostipite dei moderni antibiotici.

A partire dalla metà del secolo scorso, infezioni che generalmente si concludevano nel peggiore dei modi, divennero improvvisamente controllabili e ben curabili; malattie come polmoniti e meningiti fecero sempre meno paura e non furono più sinonimo di una morte preannunciata.

Il progresso scientifico portò alla scoperta di sempre più tollerabili ed efficienti antibiotici tanto che, nel decennio compreso tra il 1983 e il 1992, la FDA (Food and Drug Administration, ente statunitense che si occupa della regolamentazione dei farmaci) approvò più di 30 nuove molecole per l’uso clinico.

Sir Alexander Fleming, inventore della penicillina, tuttavia, in una intervista successiva alla vincita del Premio Nobel nel 1945, ci lasciò un messaggio molto importante:

Chiunque giochi con la penicillina senza pensare alle conseguenze, è moralmente responsabile del decesso di chi morirà per una infezione sostenuta da un microrganismo resistente alla penicillina

anticipando quello che sarebbe stato uno dei più gravi e pericolosi problemi del ventunesimo secolo: l’antibiotico-resistenza.

Secondo una review del 2017 infatti, in Europa, i batteri resistenti sono responsabili di circa 33 mila morti ogni anno. Emerge un dato drammatico in Italia dove, nel 2015, si sono verificate ben 10762 morti, tanto che il nostro, insieme alla Grecia, rappresenta il peggior paese per rischio infettivo in Europa. Si stima che le infezioni resistenti provochino lo stesso numero di morti dovute a tubercolosi, HIV ed influenza messe assieme.

In particolare, in un recente lavoro pubblicato su The Lancet Infectious Diseases è stata eseguita un’analisi su otto specie batteriche più frequentemente rinvenute in liquidi biologici, tra cui: Pseudomonas aeruginosa multifarmaco-resistente; Klebsiella pneumoniae carbapenemi e cefalosporine di terza generazione-resistente; Pneumococco penicilline e macrolidi-resistente; Stafilococco aureus meticillino-resistente. Tutti batteri responsabili di infezioni diffuse alle vie urinarie, apparato respiratorio, apparato digerente e dei siti chirurgici che, nei peggiori casi, possono portare a setticemia (condizione grave caratterizzata dalla presenza di batteri nel sangue).

Abbiamo infatti indotto i batteri ad adattarsi ai nostri tentativi volti a combatterli, tanto che alcune popolazioni batteriche, come riportato, risultano completamente immuni alle terapie. La causa di questo fenomeno si deve ricercare nell’uso sregolato di questi farmaci: spesso vengono utilizzati antibiotici “di ultima generazione” per infezioni banali o anche lì dove non sarebbero necessari.

Occorre infatti precisare che numerose malattie stagionali quali raffreddori ed influenze, non sono generalmente causate da batteri (cellule viventi a tutti gli effetti) ma da virus (macromolecole incapaci di riprodursi fuori dall’organismo ospite), sui quali gli antibiotici non hanno alcuna efficacia e quindi, vanno evitati ad ogni costo. Numerosi studi confermano tra l’altro che l’uso di antibiotici in caso di alcune patologie delle alte vie respiratorie non migliora significativamente né la sintomatologia né la clinica dell’infezione che si risolve nello stesso periodo di tempo, rischiando però di provocare, ovviamente, maggiori effetti collaterali. Quindi, alla prossima influenza, bisogna rifletterci un po’ prima di chiedere l’antibiotico.

La situazione in ospedale non è dissimile: a causa della comparsa di specie sempre più resistenti gli infettivologi sono obbligati ad utilizzare potenti antibiotici di nuova generazione che per adesso danno ottimi risultati, ma ai quali i batteri, in futuro, potrebbero diventare immuni per lo stesso principio. La colpa non è comunque solo di medici e pazienti, infatti più del 65% del consumo di antibiotici annuo è destinato agli allevamenti animali e nell’agricoltura, ambienti nei quali si creano facilmente dei batteri super-resistenti che talvolta possono essere trasmessi all’uomo.

Complessivamente, stando agli ultimi dati, il fenomeno dell’antibiotico-resistenza nel 2018 continua ad essere in crescita. Da poco si è conclusa la settimana dedicata all’antibiotico-resistenza (12-18 Novembre) in cui, oltre ad iniziative mediche, sono state avanzate iniziative sociali e politiche al fine di migliorare la gestione dei farmaci a disposizione. L’obiettivo è quello di promuovere l’uso di linee guida standardizzate per la prescrizione e un servizio attivo di monitoraggio per l’eventuale comparsa di altre specie multi-resistenti.

Purtroppo, nonostante ciò, l’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che, senza adeguate misure di prevenzione, da qui al 2050 i super-batteri killer saranno la prima causa di decesso a livello mondiale, superando cancro, diabete ed infarti.

Il cambiamento dovrà quindi comunque partire da medici e pazienti e da una reciproca fiducia per i farmaci prescritti in quanto, come detto prima, contrariamente alle credenze, l’antibiotico non è comunque il rimedio a tutti i mali. Con l’augurio di trovare meno spesso “mostri” come questo:


Antonino Micari

“Fleming”: un messinese nella lotta all’antibiotico-resistenza

Paolo Pino, 23enne messinese doc, ex archimedino, Dottore in Ingegneria industriale presso UNIME e specializzando in Ingegneria dei materiali presso il Politecnico di Torino, è l’ideatore di Fleming, una nuova piattaforma che ha tutte le carte in regola per diventare uno strumento indispensabile per il mondo sajnitario del futuro. Noi di UniVersoMe lo abbiamo intervistato, spinti a capire quanto Fleming potrà essere utile.

Paolo, puoi spiegarci cos’è “Fleming”?

“Partiamo da alcuni dati allarmanti: gli antibiotici stanno perdendo di efficacia a un ritmo esponenziale. Questo costa al mondo 700 mila vite ogni anno, ed entro il 2050 potrebbero diventare 10 milioni.
Fleming vuole essere uno strumento moderno nel contrasto di questa minaccia. Si tratta di una piattaforma informatica in grado di assistere tutti gli attori in gioco a diversi livelli. Si parte dagli ospedali, dando ai medici gli strumenti per coordinarsi e monitorare in tempo reale l’evoluzione della popolazione batterica locale, delle resistenze, delle malattie e del consumo di antibiotici, ottimizzando tempi e risultati delle terapie.

A questo punto, i dati dai singoli presidi confluiscono in un processo avanzato di trattamento dei dati in grado di ricostruire una mappa dettagliata del fenomeno e di distribuire informazione a governi e industrie farmaceutiche, consentendo loro di orientare al meglio interventi e risorse cruciali. Con Fleming pensiamo di poter raggiungere un livello di flessibilità e scalabilità del tutto nuovo, e di farlo mentre tutte le parti in gioco ne traggono vantaggio.”

La questione della resistenza agli antibiotici sarà tra le emergenze del 21° secolo, questa idea sembra essere la risposta alle necessità di un’era in cui la digitalizzazione può davvero fare la differenza tra la vita e la morte. Come e quando nasce questo progetto?

“L’idea è nata in occasione della European Innovation Academy, una scuola internazionale dedicata all’imprenditoria e all’innovazione durante la quale team di studenti da tutto il mondo lavorano per tre settimane allo sviluppo accelerato di nuove idee, sotto la guida di mentori ed esperti che vengono da Google, da Berkley, dalla Silicon Valley, e così via. Quando ho scoperto che avrei avuto un’opportunità così grande, mi sono detto che avrei dovuto sfruttarla per fare qualcosa di buono. Per la mia tesi al Politecnico sto studiando delle nanotecnologie che possano assistere – e in futuro, magari, sostituire – gli antibiotici nell’eradicazione dei batteri resistenti. E così ho proposto Fleming, e un team fantastico si è formato intorno a questa idea. La squadra è composta da due ingegneri informatici, Callum e Marina, che vengono dall’Australia e dalla Macedonia, da Aniket, un bioingegnere della Virginia Commonwealth University, e da Mallory, un’economista texana. Siamo molto affiatati e sin da subito ho messo in chiaro una cosa fondamentale: si dice arancino e non arancina.

Paolo nell’atto di “sicilianizzare” il team.

Sicilianizzare il team fa di te un vero “buddace in missione”, complimenti! Tornando a Fleming, perché sarà utile soprattutto ai medici di domani?

“I medici di domani vivranno in un mondo a iperdigitalizzato, in cui Big Data, intelligenze artificiali e tecnologie avanzate acquisiranno un ruolo centrale nell’evoluzione delle civiltà. In questa prospettiva, i medici capaci di cogliere la portata e le potenzialità di questi strumenti saranno gli artefici di un contributo rivoluzionario alla salute dell’uomo. Gli studenti che conosciamo hanno sempre dimostrato una spiccatissima sensibilità e una grande apertura nei confronti di questi temi, quindi siamo molto fiduciosi.”

Da studente di medicina posso confermarti quanto dici. Quali sono i prossimi step di evoluzione e promozione di questa piattaforma?

“Qui alla scuola ci ripetono sempre: “Build, measure, learn, repeat”: ci aspetta un susseguirsi di fasi di progettazione, sperimentazione e miglioramento del prodotto, da condurre sulla base di una continua interlocuzione con gli utenti finali. Abbiamo avuto un primo feedback positivo all’ospedale Regina Margherita, qui a Torino, e una clinica in Brasile ha mostrato interesse per l’idea, ma ovviamente c’è ancora molto lavoro da fare.”

Come possiamo noi, oggi, contribuire alla crescita di Fleming?

“Attualmente sarebbe per noi di grandissimo aiuto poter lavorare con medici e studenti per raccogliere suggerimenti e opinioni e per testare i prototipi. Un’iniziativa del genere non può prescindere dalla collaborazione con gli esperti del settore.
In più abbiamo una piccola pagina su internet che è la nostra prima interfaccia con il pubblico, e attraverso la quale raccogliamo i contatti degli interessati per coinvolgerli ed informarli sugli sviluppi.”

Il mio sogno è che Messina possa essere tra i pionieri del progetto!
Per finire, Antonio, consentimi di ringraziare te e UniVersoMe per il tempo e l’attenzione dedicateci. Non solo questo ci entusiasma e ci incoraggia, ma mi fa anche sentire il calore di casa. Grazie a nome mio e di tutto il team Fleming.

Grazie a te Paolo, e a tutti gli altri ragazzi che, come te, rappresentano un vanto per la città e il Sud Italia in generale. Ci aiutate a credere più fortemente nei nostri sogni, nelle nostre capacità, nella nostra “identità meridionale”, troppo spesso denigrata da pregiudizi che la fanno vacillare. Abbiamo bisogno di voi.

Antonio Nuccio