“Il Diluvio Universale” a Messina: cronaca di un grande ritorno

Si è tenuta domenica 6 gennaio 2019, a partire dalle 18:00 al PalaCultura, nel contesto della stagione concertistica organizzata annualmente dalla Filarmonica Laudamo, la prima esecuzione messinese dell’oratorio “Il Diluvio Universale” di Michelangelo Falvetti. Compositore attivo a Messina sul finire del XVII sec., la sua musica, per la prima volta dopo secoli, ha potuto finalmente risuonare ancora una volta nella città in cui fu concepita ed eseguita originariamente. Lo spettacolo si è aperto dopo un conciso intervento del musicologo prof. Niccolò Maccavino, autore di una delle principali edizioni critiche dell’opera di Falvetti. Con gesto sicuro ed appassionato il maestro Carmine Daniele Lisanti ci ha guidati tra le pagine di questo piccolo gioiello barocco, dove la vicenda biblica fa da spunto per mettere in scena un dramma intenso e carico di emozioni. Toccante la performance dei protagonisti Angelo Quartarone (Noè, tenore) e Alessandra Foti (Rad, soprano); fra i solisti, Daniele Muscolino (basso) ha impersonato un Dio roccioso e tonante; ottime anche Santina Tomasello (soprano), una fragilissima e cristallina Humana Natura, e Caterina d’Angelo (contralto), vigorosa nei panni della Giustizia Divina; ultimo ma non per importanza Simone Lo Castro (controtenore) ha reso bene l’insolito ruolo falvettiano di una Morte ironica, scanzonata, che festeggia il suo trionfo a suon di tarantella.
Vero grande protagonista, commentatore attivo dei momenti più drammatici, è stato il coro polifonico “Luca Marenzio”: solido e limpidissimo nella non facile resa della texture contrappuntistica e rischiarato, sul finale, dall’intervento del coro di voci bianche (diretto da Salvina Miano e Giovanni Mundo) a sancire, metafora dell’arcobaleno, la riappacificazione fra cielo e terra (“Ecco l’iride paciera”) per poi culminare nel catartico fugato conclusivo (“Or se tra sacre olive”). Il tutto sostenuto dalle evoluzioni capricciose, quasi improvvisative, pienamente barocche dell’ensemble strumentale “Orpheus”, perfettamente in linea con lo spirito dei tempi e le antiche pratiche esecutive su strumenti d’epoca.
A sipario calato, e dopo i meritati applausi, noi di UniVersoMe abbiamo avuto modo di scambiare due chiacchiere con un emozionatissimo maestro Lisanti, che ha cortesemente risposto alle nostre domande:

Maestro, innanzitutto complimenti per lo spettacolo. Cominciamo con una domanda molto personale. Come ci si sente a dirigere la musica di Falvetti proprio qui, a pochi passi da dove fu eseguita la prima volta, nel lontano 1682?

“È una cosa favolosa, fantastica! La prima volta che l’ho sentita sono rimasto sbalordito da quest’opera, non la conoscevo ed è davvero incredibile. Peccato che qualcosa di così bello sia rimasto nascosto per oltre tre secoli. È stato forse il lavoro più bello che abbia mai diretto.”

Secondo lei per quale motivo questo autore e quest’opera sono rimasti nascosti tanto a lungo al pubblico?

“Come ha anche spiegato Maccavino, questa opera è rimasta a lungo inedita. La sua prima edizione critica è del 2001, è stata edita dal conservatorio di Reggio Calabria. Lo scorso ottobre è uscita la nuova edizione critica della urtext, la edizione Orpheus, curata sia da Maccavino che da Fabrizio Longo. Adesso è edita, la si può acquistare, può essere diffusa con facilità, prima era inedita, non era mai stata trascritta, quindi era più difficile arrivare al testo musicale”

Andando a indagare si scopre che Messina, nel corso dei secoli, ha avuto un patrimonio musicale davvero degno di nota. Eppure questo repertorio è quasi del tutto assente dalle programmazioni concertistiche di ogni anno. Quali sono le cause, secondo lei, di questo scarso interesse nei confronti del patrimonio musicale nostrano?

“In effetti è assurdo che questa musica sia così sconosciuta ai messinesi stessi, ma in fondo si tratta di autori che a volte non si trovano neanche sui libri di storia della musica, neanche nelle edizioni più moderne. Eppure Falvetti è ormai da circa dieci anni che viene eseguito, lo hanno fatto in Francia; in Israele; in Austria, a Salisburgo; mi pare anche a Torino e Milano negli ultimi anni, insomma ha avuto un discreto successo negli ultimi dieci anni.”

La nostra testata si rivolge a un pubblico giovane, che spesso è molto lontano dal mondo della musica colta. Cosa direbbe a dei ragazzi, a degli universitari, per invogliarli a scoprire di più ed avvicinarli al mondo della musica colta?

“Secondo me si dovrebbe partire dalla musica antica, dai grandi classici, Bach, Mozart, questi autori che sono veramente grandi, hanno fatto cose eccezionali. Sono gli autori che più invogliano, sono melodici, sono brillanti (penso a Mozart per esempio), sono un buon punto di partenza per chi vuole scoprire di più”.

Grazie mille per la cortesia. Un’ultima domanda prima di salutarci: visto il successo di quest’anno, l’anno prossimo avete intenzione di eseguire il Nabucco, altra opera inedita di Michelangelo Falvetti?

“ Io la partitura ce l’ho, l’ho letta. Senza dubbio sarebbe bello, vedremo quel che si può fare…”

Che dire: che sia forse l’inizio di un “Falvetti-revival” per Messina?

Gianpaolo Basile

Un Diluvio di musica per Messina: Michelangelo Falvetti, compositore dimenticato

Se c’è una categoria di personaggi con la quale la Storia è stata più ingiusta, almeno per quanto riguarda Messina, è quella dei musicisti. Tra i pittori, tutti si ricordano del grande Antonello; tra gli scultori, del Montorsoli; tra i letterati, di La Farina, Cannizzaro, Maurolico, Bisazza; tutti, questi ultimi, “numi tutelari” di altrettanti licei cittadini. Se si parla invece di musicisti, subentra il vuoto più totale: l’unico conservatorio cittadino è intitolato ad Arcangelo Corelli, brillante compositore e violinista del periodo barocco, che con Messina non ebbe mai nulla a che spartire; solo i più colti si ricorderanno di Antonio Laudamo, compositore ottocentesco cui è dedicata l’omonima Filarmonica, nonchè la sala che porta il suo nome al teatro Vittorio Emanuele; a Mario Aspa, contemporaneo e collega, è andata peggio, dovendosi accontentare di una stradina secondaria poco lontana dal teatro stesso.

Un musicista che non ha avuto invece neppure questa fortuna (eppure se ne meriterebbe eccome), è invece Michelangelo Falvetti: compositore sconosciuto e geniale di origini calabresi, operò a

Messina alla fine del Seicento, come Maestro di Cappella della Cattedrale; la recente riscoperta di alcune delle sue opere, proprio risalenti al periodo messinese, ci ha permesso di gettare una luce su questa grande e complessa mente musicale che altrimenti sarebbe rimasta abbandonata all’oblio.

Della vita e delle opere di Michelangelo Falvetti sappiamo veramente poco e quel poco che sappiamo lo dobbiamo soprattutto a due musicologi contemporanei: Niccolò Maccavino e il messinese Fabrizio Longo.

Apprendiamo così che Michelangelo Falvetti nacque nel piccolissimo paesino di Melicuccà, nell’entroterra calabrese, nell’anno 1642. Della sua formazione musicale non sappiamo nulla, anche se possiamo supporre, dato che prese gli ordini sacerdotali, che ricevette i primi rudimenti musicali in seminario, come era comunissimo all’epoca.

Una fonte indiretta ci suggerisce infatti la sua presenza nella città peloritana, nel 1669, a 27 anni: si tratta della dedica fattagli da un suo collega musicista, il violinista Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, attivo nella Cappella Senatoria del Duomo di Messina, che nel 1669 dà alle stampe a Roma un libro di sonate, ciascuna dedicata a un suo collega diverso della cappella senatoria.

Nel 1670, Falvetti è chiamato a Palermo, dove diventa maestro di cappella e scrive numerose composizioni, soprattutto oratori. Il suo ruolo nel contesto musicale della città non era affatto marginale, tanto che, nel 1679, lo troviamo tra i fondatori dell’“Unione dei Musici”, una sorta di associazione di mutuo soccorso per i musicisti. In questo periodo è anche documentata la sua presenza a Catania, dove sono eseguiti alcuni suoi lavori.

Nel 1682, Falvetti torna a Messina, succedendo al conterraneo Domenico Scorpione nel ruolo di Maestro di Cappella del Duomo. Certo, Messina non è più quella della sua giovinezza: è appena uscita dalla violenta repressione della rivolta antispagnola ed è una città distrutta, disonorata, umiliata. Forse non è un caso che la sua prima opera del periodo messinese, quella che compose per il proprio insediamento e che è oggi considerata il suo capolavoro, sia un oratorio a cinque voci intitolato “Il Diluvio Universale”; il tema della giusta ma implacabile punizione divina, forse metafora della vendetta degli Spagnoli verso la città, domina l’intero lavoro, che solo alla fine si riapre con uno spiraglio di luce e speranza nella riconciliazione fra la terra e il cielo.

Sono diverse le opere che Falvetti scrive a Messina, ma solo il “Diluvio” e il successivo “Nabucco” (1683) ci sono rimaste per intero e sono ad oggi state eseguite e registrate almeno una volta. Si tratta di un piccolo, ma eloquente saggio delle capacità artistiche di questo brillante compositore: in un periodo storico in cui la musica è quasi una forma di artigianato, Falvetti da sapiente maestro padroneggia tutte le risorse armoniche e contrappuntistiche che la tecnica del periodo gli offre e le sfrutta al servizio di una scrittura estremamente espressiva, drammatica, teatrale in senso lato.

Come spesso accade nell’estetica barocca, tutto è giocato in funzione dell’impatto emotivo, della capacità della musica di rappresentare un “affetto”, una emozione; se i testi abbondano di prosopopee e personificazioni (concetti astratti che diventano personaggi, come la Morte, la Giustizia Divina, l’Idolatria, la Superbia), alla musica va il ruolo di rivestire di “carne ed ossa”, di emozioni umane questi concetti astratti, e di avvicinare il dramma dell’episodio biblico alla comprensione empatica dello spettatore, facendogli provare ciò che i personaggi provano. Anche quando la scrittura musicale vira verso la complessità del contrappunto, non c’è astrazione: tutto è tangibile, concreto, carnale, a volte persino sensuale, come quando il ritmo accenna dei movimenti di danza.

Della vita di Falvetti, passato il 1695, anno in cui cede il posto di Maestro di Cappella, si perdono le tracce. Restano oggi le sue opere, lentamente uscite dalle paludi dell’oblio per andare prima a finire sugli scaffali polverosi delle biblioteche, sotto forma di studi musicologici, e poi, finalmente, a trasformarsi di nuovo in musica, per le orecchie degli ascoltatori. È nel 2010 che il direttore argentino Leonardo Garcia Alarcòn riscopre questi due oratori, li mette in scena la prima volta dopo secoli e li registra, con grande successo di pubblico e critica, soprattutto all’estero.

In Italia questo successo è più lento ad arrivare, e negli 8 anni successivi sono state pochissime le esecuzioni di questo autore. In Sicilia, terra che lo vide fiorire, Falvetti è tornato, dopo 300 anni, solo pochi giorni fa, quando a Palermo al Teatro Massimo è stato messo in scena “Il Diluvio Universale”, a cura di Ignazio Maria Schifani. Da Palermo a Messina il passo è breve: c’è da chiedersi quanto ancora dovremo attendere per sentire le sue note risuonare, di nuovo, nella città del Diluvio…

Gianpaolo Basile

 

 

…uno tra i più talentuosi protagonisti del barocco italiano ha vissuto a Messina?

Caravaggio in un celebre ritratto d’epoca

 Forse non tutti sanno che la città di Messina può vantarsi di essere stata, anche se per un breve periodo, la casa di Michelangelo Merisi, noto come Caravaggio.

Ma cosa spinge il geniale pittore lombardo a stabilire la sua dimora a Messina? Prima di rispondere, bisogna fare delle premesse.

Caravaggio ebbe un’ indole violenta, oggi lo si definirebbe una testa calda. Non stupisce infatti che la sua vita sia stata un susseguirsi di risse, denunce e processi. Momento cruciale è quando, nel maggio del 1606, a Roma, ferisce mortalmente un nobile romano. Per sfuggire alla pena capitale, ossessionato dalla paura della morte, il pittore passerà il resto della sua breve vita -morirà quattro anni dopo, a soli 38 anni– scappando dalle guardie del Papa.

Prima si rifugia a Napoli, poi a Malta. Inizialmente viene accolto nell’ ordine dei Cavalieri di Malta, poi, a causa di una rissa, viene imprigionato dall’Ordine stesso. Grazie all’aiuto della famiglia Colonna, riesce ad evadere e fugge in Sicilia. Dopo essere stato a Siracusa ospite del pittore Mario Minniti (amico e forse anche amante) i due approdano nella città di Messina. Caravaggio vi si ferma per meno di un anno (dalla fine del 1608 fino all’estate successiva), ma è un periodo particolarmente fecondo per la sua produzione artistica.

Ma quindi, perché proprio Messina?

Perché la città offre tutto quello che un artista potrebbe desiderare. In quel tempo a Messina, grazie alla grande crescita economica e alla presenza del suo porto, si sviluppa una borghesia mercantile cosmopolita con un grande senso estetico. Caravaggio, infatti, trova subito diversi committenti, disposti a tutto pur di avere un suo quadro. C’è anche da dire che la protezione di persone potenti, come l’arcivescovo di Messina, e la possibilità di approfondire la conoscenza delle opere di Antonello, potrebbero aver influito sulla sua scelta.

Purtroppo,  nonostante il periodo messinese sia stato piuttosto proficuo, sono pochi i quadri certamente attribuibili alla permanenza del pittore in città.

“La resurrezione di Lazzaro” (a sinistra) e “L’adorazione dei pastori” (a destra). Messina, Museo Regionale.

Sicuramente in quei mesi Caravaggio dipinge “La resurrezione di Lazzaro” e “L’adorazione dei pastori”, opere che è possibile osservare al Museo Regionale. Curioso il fatto che, mentre nella maggior parte delle tele prodotte in quel periodo ricorrono temi come morte e penitenza, gli unici due dipinti sicuramente messinesi hanno come soggetto la vita.

C’è da dire che “La resurrezione di Lazzaro” è protagonista di uno degli aneddoti più noti della vita dell’irrequieto pittore, avvenuto al momento della consegna del dipinto. Sembrerebbe infatti che, a seguito di una critica mossa da un accompagnatore del committente, Caravaggio abbia preso a colpi di pugnale la tela con veemenza. Dopo essersi ricomposto egli si rivolse al committente, dicendogli di non preoccuparsi, in quanto presto avrebbe sostituito la tela appena distrutta con un’altra migliore.

È bello pensare che Caravaggio, il pittore della luce, tra gli artisti italiani più apprezzati al mondo, osservando il sole che emerge dallo Stretto ed illumina la città di Messina, come tutti quelli che giornalmente vedono tale spettacolo, sia rimasto a bocca aperta.

Renata Cuzzola

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Filippo Juvarra: da Messina a Roma e Torino, l’architetto delle capitali

Filippo Juvarra

Nella Messina del lontano 1588, su disegni di Andrea Calamech, fu edificata la Chiesa di San Gregorio, oggi inesistente a causa del terremoto del 1908 che mise in ginocchio l’intera città. Il suo completamento, nel 1703, vide impegnati numerosi professionisti, e non, tra cui il giovane Filippo Juvarra, architetto siciliano. 

Il “nostro” architetto nasce proprio a Messina nel 1678 da una famiglia di artigiani argentieri e sin dalla giovinezza si trova a lavorare con il disegno e l’arte orafa; si possono a lui ricondurre, infatti, alcuni dei candelieri del Duomo di Messina e forse collaborò, assieme al padre e al fratello maggiore, alla realizzazione del meraviglioso paliotto d’argento oggi inglobato nell’altare maggiore. Parallelamente alla sua attività manifatturiera, Juvarra condurrà studi teologici che lo porteranno a pronunciare i voti sacerdotali nel 1703. Data la vocazione per l’architettura, si trasferì a Roma per perfezionare gli studi ma si ritrovò comunque autodidatta e volenteroso di imparare così da riuscire a mettersi in contatto con l’architetto Carlo Fontana che, rimasto entusiasta delle capacità del giovane, riuscì a farlo distogliere dal mito di Michelangelo per farlo approdare al metodo da lui proposto.

Il paliotto d’argento datato 1701, opera della famiglia Juvarra, custodito nell’altare maggiore del Duomo di Messina.

Grazie al trampolino di lancio offertogli dal Fontana, Juvarra debutta, nel 1705, a Roma vincendo il “concorso clementino” con la presentazione di un “palazzo in villa per il diporto di tre illustri personaggi”. Successivamente alla vittoria si ristabilì nella sua città natale, dove ebbe l’onore di occuparsi della ristrutturazione del Palazzo Spadafora e della sistemazione del coretto della chiesa di San Gregorio. Qualche mese dopo, grazie alla proficua attività svolta a Napoli, riuscì ad ottenere la nomina di accademico di merito all’Accademia di San Luca; a testimonianza dell’onore per questa nomina, Juvarra fece dono all’Accademia di un suo progetto, utilizzato poi come soluzione per la Basilica di Superga.

Poco dopo, sul piano accademico, si  ritrovò a ricoprire il ruolo di professore unico di architettura al San Luca; mentre sul piano professionale, si limitò a collaborazioni con i Fontana, ricevendo la commissione per la cappella di famiglia dell’avvocato Antamoro nella chiesa di San Girolamo della carità.

Basilica di Superga

Tuttavia, Juvarra iniziò ad ambire a impieghi di corte: inizialmente per quella di Federico IV di Danimarca; successivamente per Luigi XIV per poi essere chiamato presso la corte Ottoboni come scenografo. Qui troverà un’ambiente stimolante che ne influenzò l’iscrizione all’Accademia dell’Arcadia, con il nome pastorale di Bramanzio Feeseo, dove poté insegnare il proprio mestiere ad un giovane Luigi Vanvitelli.

Con la morte del maestro Fontana,  Juvarra spezza il legame con Ottoboni per tornare a Messina dove incontrerà Vittorio Amedeo II di Savoia, al quale presentò il progetto del palazzo reale di Messina, che lo porterà alla volta di Torino per l’elezione della Basilica intitolata alla Vergine sul colle di Superga, universalmente considerata uno dei suoi capolavori. La sua attività architettonica fu impegnata principalmente nell’ampliamento della città sabauda e nella realizzazione della facciata e dello scalone di Palazzo Madama, ma anche nel completamento della Reggia di Venaria e della Reggia di San Uberto.

Palazzina di caccia di Stupinigi

A questo punto della sua vita, Juvarra si trasferì in Portogallo per la realizzazione di alcune opere architettoniche che

però non avranno buon esito; decise quindi di spostarsi a Londra, poi nei Paesi Bassi e a Parigi per poi ritornare in Italia muovendosi tra Roma e Torino dove costruirà la sua casa studio e, accanto ad altri progetti, porterà avanti la realizzazione ex novo della palazzina di Stupinigi, villa di caccia.

Nella capitale sabauda, divenuta, grazie a lui,  un polo di architettura europea, progettò la chiesa del Carmine; la sua abilità conquistò  Filippo V Re di Spagna che gli commissionò il completamento del Palazzo Reale a  Madrid, dove morì il 31 gennaio del 1736.

Erika Santoddì

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Tra cielo e mare, un tuffo con la Storia: Santa Maria della Grotta a Pace.

La primavera è ormai arrivata, l’estate si avvicina, ed anche noi di Messina da Scoprire ogni tanto ci spostiamo dall’afa e dal traffico del centro cittadino verso le note zone balneari della riviera nord della città, in quella che una volta era denominata “Lingua Phari”, la Lingua del Faro di Messina, cioè dello Stretto. Non dimentichiamo, però, la passione dei nostri lettori per la storia e la cultura messinese, ed è per questo che ai celebri laghetti di Ganzirri, al villaggio Sant’Agata o al gettonatissimo “Piluni” preferiamo una spiaggia speciale, diversa dalle solite mete: un luogo in cui l’arte e la bellezza del paesaggio si incontrano e si fondono dando vita ad un connubio unico e suggestivo. Stiamo parlando della spiaggia del Villaggio Pace, su cui da secoli veglia, sospesa tra il cielo e le acque dello Stretto, l’elegante cupola del tempio di Santa Maria della Grotta.

 

Per scoprire le origini di questo monumentale edificio, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo di diversi secoli, fino a quando Pace era poco più che una piccola comunità di pescatori e gente di mare, distante circa tre miglia dalle mura della città di Messina. In questa piccola comunità è documentata fin dal Cinquecento la presenza di un piccolo oratorio, gestito dai Padri Predicatori, nei quali si venerava una icona di origine probabilmente greco-bizantina. Secondo una leggenda, che ci tramanda lo storico gesuita Placido Samperi in un testo devozionale del 1644, l’icona proveniva da una nave levantina che l’aveva lasciata in quel luogo, all’interno di una grotta naturale, dopo essere rimasta bloccata per diverso tempo dalle correnti, che i marinai avrebbero interpretato come un segno della volontà dell’icona di rimanere lì. Da notare che il tema dell’immagine sacra dotata di volontà propria che “sceglie” il luogo in cui restare è tipico delle leggende sacre messinesi e siciliane in generale: trae forse il suo prototipo dalla leggenda della Madonna di Trapani, il cui culto è presente anche a Messina, ed una storia simile riguarda l’origine di una altra nota chiesa messinese, quella di Santa Maria della Valle, oggi nota come la Badiazza

 

 

Molto più probabilmente, invece, il nome della chiesa deriva dalla grande pala seicentesca che tutt’oggi è custodita al suo interno, opera del pittore messinese Domenico Marolì, raffigurante la Natività (da cui il nome di Madonna della Grotta); essa fu probabilmente dipinta nella metà del XVII secolo, ad ornamento del nuovo tempio che proprio in quel periodo, nel 1622, era stato fatto ricostruire per ordine del Vicerè di Sicilia Emanuele Filiberto di Savoia.

Il progetto venne affidato a un importante esponente del barocco seicentesco messinese: l’architetto Simone Gullì, che proprio in quegli anni si era occupato del monumentale progetto della Palazzata, il Teatro del Mare, monumentale cortina di palazzi destinata ad ornare, con un unico respiro stilistico, la banchina del porto della Città. Per questa piccola ma monumentale chiesa, Gullì ideò un tempietto a pianta circolare con la caratteristica cupola circondata dall’ampio porticato, che, per la sua pittoresca posizione lungo la spiaggia, diventerà nei secoli successivi un soggetto d’elezione per stampe, dipinti e in seguito fotografie d’epoca.

La chiesa seicentesca, purtroppo, già danneggiata dal terremoto del 1783, a seguito del quale fu restaurata, non resse al drammatico sisma del dicembre 1908 che la rase al suolo. Nel 1928, su interessamento dell’arcivescovo Angelo Pajno, di cui si ricorda la fervente attività di costruttore e ricostruttore di chiese sul territorio messinese, fu progettato il suo recupero. La nuova chiesa, ricostruita dagli architetti Viola, Basile e Fichera, è il frutto di un compromesso storico fra la volontà della Sovrintendenza, che intendeva ricostruire la chiesa nella maniera più fedele possibile all’originale barocco , e quella dell’allora parroco Gentile, che desiderava una chiesa più grande in linea con le esigenze della comunità parrocchiale, decisamente aumentata di numero rispetto ai tempi passati. Oggi quindi ciò che vediamo sono in realtà due chiese in una: il tempietto circolare fedelmente ricostruito a partire dal progetto del Gullì, benchè con tecniche moderne, e la nuova chiesa, a pianta rettangolare, che comunica con esso. Perduti sono, purtroppo, i sontuosi interni seicenteschi e settecenteschi in stile barocco, mentre resta, come già accennato, la pregevole pala del Marolì, sotto la grande cupola.

Con la sua silhouette da cartolina, la chiesa della Madonna della Grotta domina ancora, come 400 anni fa, il lungomare nord di Messina, e guarda la Calabria dalla bella spiaggia di Pace: che aspettate quindi a farvi anche voi un bel tuffo, nelle acque dello Stretto, assieme alla Storia e alla bellezza?  

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Storia di un musicista errante: l’avventurosa vita di Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, violinista a Messina

Gerrit van Honthorst, “L’allegro violinista”, 1623.

Da Montepulciano a Venezia, da Venezia a Innsbruck, da Innsbruck alla nostra Messina, e da lì non si sa dove, fino a finire alla corte del Re di Spagna. Aggiungiamoci tanta, tantissima musica, perchè di un musicista stiamo parlando: Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, violinista e compositore. Poi, giusto per aggiungere un pizzico di torbido, la storia misteriosa di un omicidio… Come ambientazione, il Seicento europeo delle corti nobiliari, dei fasti e dei capricci del Barocco, il Seicento dell’epoca d’oro della storia di Messina e del suo crepuscolo.

Ce n’è abbastanza per un romanzo d’appendice, vero? E invece stiamo parlando di una storia vera, faticosamente ricostruita da archivi e fonti bibliografiche e confinata alla polvere e agli scaffali delle biblioteche; e stiamo parlando di alcuni spartiti, anch’essi poco più che muti fogli di carta, che però, nelle sapienti mani degli esperti, possono trasformarsi in musica; musica che ci parla di un’epoca e un mondo che non esiste più.

E’ a Montepulciano, in Toscana, che il nostro protagonista viene alla luce nel 1624, col nome di Domenico Pandolfi: il nome Giovanni Antonio, con cui diverrà noto in futuro, lo prenderà anni dopo, quando si farà prete, mentre il secondo cognome, Mealli, è quello del primo marito della madre, vedova e risposata con Antonio Pandolfi. Nel 1629, cinque anni dopo la sua nascita, il padre muore: è così che la famiglia si trasferisce a Venezia, dove Giovan Battista Mealli, il suo fratellastro, figlio di primo letto, lavora come cantore nella cattedrale di San Marco. Proprio qui il giovane, presumibilmente, apprende i rudimenti della musica.

Passano gli anni e Giovanni Antonio, divenuto sacerdote e valente violinista, si stabilisce a Innsbruck, alla corte dell’Arciduca d’Austria: è lì che vengono pubblicate, nel 1660, due raccolte di musica per violino, pezzi pregevoli scritti in uno stile irruento, capriccioso, espressivo e virtuosistico, nel pieno dei canoni barocchi dello “stylus phantasticus”, lo stile fantastico, in voga all’epoca nel Nord Europa. (qui una registrazione completa: https://www.youtube.com/watch?v=J2HSgxfN_ks )

Evaristo Baschenis, “Natura morta con strumenti musicali”, 1650

Nove anni dopo lo ritroviamo a Messina, violinista nella Cappella Senatoria del Duomo. Non si sa quali vicende lo abbiano portato a spostarsi dall’Austria alla città dello Stretto; ma sappiamo che in quel periodo Messina è una città florida, ricca e culturalmente vivace, il Senato è all’apogeo del suo potere politico, e la Cappella Senatoria, come riflesso di questo periodo di splendore, è una istituzione musicale fiorente e importante nel panorama siciliano e ospita musicisti da tutto il resto d’Italia e da Roma. In questo contesto di variopinta attività culturale possiamo anche inserire l‘Accademia le cui riunioni si tenevano nella residenza del nobile Giovanni La Rocca, principe d’Alcontres e marchese di Roccalumera, mecenate che si dilettava di musica (pare possedesse e suonasse il claviorgano, uno strumento dell’epoca ibrido fra un clavicembalo e un piccolo organo) e della cui cerchia Pandolfi faceva parte come protetto. A lui è infatti dedicata la raccolta di Sonate pubblicata a Roma nel 1669, l’unica opera che ci sia pervenuta dal suo periodo messinese. Una opera che documenta un netto cambio di stile rispetto ai lavori precedenti: scompaiono le capricciose evoluzioni del violino solista, cedendo il passo a danze e variazioni su temi: un genere che doveva essere molto di moda nella Messina del ‘600, dato che anche Bernardo Storace, che della Cappella del Duomo fu vice maestro e organista più o meno negli stessi anni in cui vi lavorò Pandolfi, ne fa largo uso in una raccolta di pezzi per organo e clavicembalo. Spesso sono scritti per più strumenti, chiaramente destinati ad essere suonati in gruppo, da piccole ensemble strumentali: secondo una usanza tipica dell’epoca, che Pandolfi adottò anche nei lavori del 1660, le singole sonate sono intitolate coi nomi dei colleghi ed amici della Cappella Senatoria di Messina, ed erano probabilmente destinate ad essere eseguite con loro, tanto in chiesa quanto nel contesto dell’Accademia.

Bartolomeo Bettera, “Natura morta con strumenti musicali”, XVII sec.

Poi, nel 1675, avviene un fatto misterioso che cambia la vita di questo musicista: un giorno, mentre si trova nel Duomo, ai piedi della scala della cantoria, ha una lite violenta con un cantante, il castrato Giovannino Marquett. Nulla si sa, e forse mai si saprà, di cosa sia successo tra i due, che peraltro dovevano essere stati in ottimi rapporti fino a qualche anno prima, dato che proprio a Marquett è dedicata una delle sonate del 1669, appunto intitolata “il Marquetta” (la trovi qui: https://youtu.be/VtydebLyFyE?t=1761 ). Quel che è certo però è che deve essersi trattato di una lite davvero seria: a un certo punto, dopo essere stato a lungo provocato, Pandolfi perde il controllo, sottrae la spada al cantante e lo colpisce a morte.

Costretto a scappare da Messina in seguito a questo omicidio sacrilego, Pandolfi scompare dalla circolazione, per poi ricomparire, qualche anno dopo, nientemeno che a Madrid, come violinista della Cappella Reale. Da questo momento in poi, le tracce della sua esistenza iniziano a diradarsi fino a perdersi nei meandri della Storia.

Cosa ci resta di questo musicista avventuroso dalla storia piena di punti interrogativi? Senza dubbio la musica: ma perché essa possa continuare a vivere e non tacere per sempre, bisogna che qualcuno la esegua. Se, infatti, dei lavori musicali di Innsbruck abbiamo diverse registrazioni ed esecuzioni, lo stesso non si può dire delle Sonate messinesi, sconosciute tanto al grande pubblico quanto, spesso, agli stessi addetti ai lavori, tanto che ad oggi manca una loro registrazione completa. Un altro frammento dell’enorme (e sottovalutato) patrimonio culturale della città di Messina, destinato forse a rimanere nell’oblio. 

Gianpaolo Basile

 

Il Monte di Pietà: vita e morte, denaro e potere nella Messina barocca

8493143Messina, 1581. La città porta ancora i segni della recente pestilenza del 1575: la falce della malattia ha mietuto spietatamente oltre 40.000 dei suoi abitanti, e quella che era una delle maggiori città del Rinascimento siciliano è ora messa in ginocchio dagli strascichi del contagio e dalla carestia che ne è seguita, e fatica a rialzarsi in piedi. A essere maggiormente prostrate dalla miseria sono le classi meno abbienti della popolazione, spesso costrette, per sopravvivere, a indebitarsi con usurai e strozzini. Proprio in questo contesto si inquadra l’azione dell‘Arciconfraternita degli Azzurri: una delle tante confraternite dell’epoca con finalità religiose e assistenziali, nata quarant’anni prima, nel 1541, con lo scopo primario di prestare assistenza e conforto, durante le ultime ore di vita, ai condannati a morte. È in quest’anno infatti che si decide di affiancare a questa attività preesistente una nuova mansione: la gestione di un banco dei pegni, una struttura nella quale i bisognosi potevano ottenere piccoli prestiti a basso interesse dietro la cessione di un pegno, che veniva messo all’asta qualora il debito non fosse stato saldato entro un certo periodo di tempo.

Nasce così, in Via dei Monasteri, oggi Via XXIV Maggio, il primo nucleo del Monte di Pietà, i cui resti possiamo ammirare tutt’ora, all’incrocio con Via della Munizione, assieme a quelli della chiesa di Nostra Donna della Pietà, sede dell’Arciconfraternita. Il complesso monumentale si articola su più livelli e assume l’aspetto odierno in un periodo di quasi due secoli. Nel 1616, infatti, gli Azzurri decidono di ampliare la sede del Monte di Pietà e affidano l’incarico all’architetto Natale Masuccio, ex gesuita. È suo il progetto del palazzo, la cui architettura maestosa conserva i lineamenti classicheggianti tipici del manierismo toscano, stile molto in voga a Messina grazie all’influenza del Calamech e del Montorsoli, ma rivela già, nel sapiente gioco di chiaroscuri, di pieni e di vuoti, la transizione verso i fasti scenografici del primo Barocco. Purtroppo, Masuccio non poté ammirare la sua opera completa, perché morì qualche anno dopo, mentre i lavori erano fermi ancora alle fondamenta, per via di beghe giudiziarie col vicinato; la costruzione riprenderà diversi anni dopo, nel 1648, e sarà ultimata solo nel Settecento inoltrato con la costruzione del primo piano dell’edificio, distrutto poi dal sisma del 1908.

Entrati nell’edificio, e superato il breve corridoio centrale, su cui si aprono gli ambienti interni laterali, si raggiunge un ampio loggiato a tre archi, che a destra dà sulla rampa d’accesso al piano superiore e a sinistra offre alla vista una piccola fontana raffigurante un putto che cavalca un delfino. A catturare immediatamente lo sguardo è però la grandiosa corte interna, chiusa anteriormente dalla scenografica scalinata che porta all’ingresso della chiesa di Nostra Donna della Pietà. L’intero complesso fu costruito nel 1741, per commemorare i 200 anni di esistenza della Confraternita; l’impianto della scalea, progettato da Antonino Basile e Placido Campolo, interpreta con eleganza il gusto tardo-barocco per la teatralità con i suoi giochi di concavità e convessità. Fulcro della struttura è la Fontana dell’Abbondanza, posizionata al centro della scalinata, opera dello scultore Ignazio Buceti, che qui personifica l’Abbondanza in una giovane donna con una mano sulla cornucopia piena d’oro, simbolo di fertilità, e l’altra sul seno prosperoso: un segno di buon auspicio per un futuro migliore, rivolto ai meno fortunati che erano costretti a rivolgersi ai prestiti del Monte di Pietà.

In cima alla scalinata, la scena era chiusa dalla chiesa di Nostra Donna della Pietà, parzialmente perduta nel terremoto del 1908. Ne sopravvive oggi molto poco: parte della facciata settecentesca, dai lineamenti grandiosi ma austeri, se paragonati a quelli di altri edifici sacri contemporanei in stile barocco siciliano; e infine, nella zona in cui si trovava l’abside, i resti di una cripta con una galleria in asse con il castello di Rocca Guelfonia. La tradizione vuole che servisse ai confrati per prelevare, dalle segrete della Rocca, i condannati a morte, e portarli in chiesa, dove sostavano in preghiera prima dell’esecuzione capitale.

Ricchezza e miseria, denaro e potere, vita e morte si incontravano dunque in questo luogo unico, nei secoli “sudici e sfarzosi”, per dirla con Manzoni, della Messina barocca.

Gianpaolo Basile