Cafè Society: leggerezza e ironia amara nel nuovo film di Woody Allen

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Se l’autunno che avanza diffonde sulle nostre vite una ventata malinconica in grado di allontanare i ricordi briosi e dolci dell’estate, l’avvio della nuova annata di cinema offre un efficace antidoto capace di risollevarci, o almeno di incanalare nel giusto cantuccio le emozioni che erano rimaste a lungo assopite sotto l’ombrellone. Il ritorno di Woody Allen, regolare come quello delle stagioni, rischiara i sentimenti con tocco soave, riconducendoli al proprio ordine naturale. Appaiono vivaci i riferimenti consueti del cineasta in un’opera che racconta l’amore non senza sganciarsi dagli aspetti beffardi dell’esistenza. E che ancora attraversa con nostalgia le lancette del tempo.

 

Siamo nei colorati anni ’30 dello star system di Hollywood. Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) è un giovane ebreo di New York figlio di un orefice per nulla attratto dalla prospettiva desolante e noiosa che la permanenza in città e il lavoro del padre paiono offrirgli. Con l’ambizione di inserirsi nell’industria del cinema si rivolge allo zio Phil (Steve Carell) manager di attori famosi, presenza attiva alle feste eleganti a bordo piscina. Il rapporto coi divi e la società frivola di Los Angeles si impadroniscono della sua nuova vita e sarà così, alla fine, l’incontro con la disinvolta e magnetica Vonnie (Kristen Stewart), segretaria di Phil, a stravolgere ogni suo progetto. Il triangolo amoroso che coinvolge i tre protagonisti scaverà con intensità il dubbio della scelta dell’amata. La delusione al ritorno nella città natale farà crescere Bobby senza inibizioni e lo spingerà a fondare un locale notturno frequentato da alcune teste coronate d’Europa, da signori mondani e altolocati della società dell’epoca, nonché da esponenti della malavita italo-americana.

 

In Cafè Society, frutto delle 80 candeline spente dal regista lo scorso dicembre, i temi dei film di Woody Allen ricorrono senza esclusione di colpi: l’umorismo corale dei personaggi brulicanti e caratterizzati di Radio Days, il fascino fiabesco verso altre epoche, i due poli in antitesi di New York e Los Angeles alla maniera di Annie Hall, il sempre eterno ritorno alle proprie origini newyorkesi e quel senso di attesa e di oscuro presagio rappresentato dal futuro che incombe. Non sono nuovi gli argomenti cari al regista, affrontati senza dubbio con ben diverso spessore e profondità che in altre storiche pellicole precedenti. Eppure l’apparente giocosità e mancanza di pesantezza di questa nuova brillante amara commedia romantica lascia posto a espedienti tecnici e a una rinnovata cura del dettaglio, specialmente visivo, realmente sorprendenti.

cafesocietIl peso di Vittorio Storaro alla fotografia (premio oscar per Apocalypse Now) si palesa su una storia semplice, priva di novità clamorose, nel solco di una rappresentazione tipica e prevedibile, ma accompagnata da immagini e sensazioni che lasciano il segno. A catturare lo schermo è l’eccezionale bellezza di Kristen Stewart, vera nuova musa di Woody. Ma è anche l’ironia, cifra del suo cinema, che non subisce increspature, incrinature, segni del tempo. L’esito finale è quello di un regista che dopo ben 47 film mantiene ancora in piedi la sua freschezza. Cafè Society è un film imperfetto, così come lo sono talvolta le opere che arrivano a sedimentarsi nel nostro immaginario per arricchirlo e costruirci intorno altre storie. E questo proprio perché, come uno dei personaggi afferma in una scena, la vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo. Il film scorre veloce e a tratti con passaggi frettolosi, ma non perde di vista la sua efficace unità espressiva fortemente inquieta e drammatica dietro la patina di leggerezza.

 

Messo da parte il tono sarcastico delle origini, la verve comica cerebrale e nevrotica dei primi film, Cafè Society è un’opera della piena maturità, formalmente riuscita, in buona misura riassuntiva e emblematica (immancabile la colonna sonora jazz nei titoli di coda e la magia che l’avvolge). Un film che vale la pena andare a vedere nelle sale, e che, alla fine della proiezione, accantonate le incertezze e le riserve sulla sceneggiatura, rimane come puro esempio di cinema.

Eulalia Cambria

Il Movimento E’ Fermo, un romanzo d’Amore e Libertà (ma non troppo)

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Il movimento è fermo, così si intitola il nuovo e primo libro di Lo Stato Sociale. Questo gruppo di cantautori, di poeti moderni, è incisivo fin dall’inizio con un titolo creato su un ossimoro.

Zeno e Genio sono due amici e sono i protagonisti della storia, anzi, delle storie. Tra le pagine di questo romanzo troveremo, infatti, tante storie che, in un modo o nell’altro, si intrecciano tra di loro.

Partono tutte da questi due ragazzi: due 30enni che ancora non hanno ben capito cosa vogliono dalla vita, che sanno cosa vorrebbero fare ma, forse, quello che vorrebbero fare è qualcosa di troppo utopico.

Sono due amici assolutamente diversi, che si divertono ad avere dibattiti filosofici davanti un calice di vino o una birra, che seguono il calcio e cercano (o forse no, non lo sanno nemmeno loro) la ragazza della propria vita.

In una Bologna rossa, quasi anarchica, se ne vanno in giro con un motorino e un furgone un po’ vecchi e, se volete, potete andarvene in giro con loro e vedere se riescono a trovare quello che stanno cercando. Perché tra le strade di Bologna, in effetti, si può incontrare una ragazza bellissima e insicura: Eleonora. Eleonora che, come un fulmine a ciel sereno, cambia tutti i piani di Zeno.

Parallelamente, si svolge un’altra storia: la storia di Michelle, giovane giornalista che vuole cambiare il mondo. Ed il mondo si può cambiare, lei ci riesce… Ma a quale prezzo? E cosa c’entra Michelle con gli altri ragazzi, che si arrangiano come possono ogni giorno della loro vita? Lo scoprirete voi perché, credetemi, non vedrete l’ora di saperlo.

Come tutti i testi e le parole di Lo Stato Sociale, questo romanzo è un continuo di sorprese, un’altalena di parti lente e velocissime. Le pagine si sfogliano da sole, difficile darsi un freno. E, tra una imprecazione e l’altra, si becca la frase della vita: classico del loro stile, troverete dentro questo scritto delle perle che vi si infileranno nel cuore.

Che poi la cosa davvero importante è: il movimento è fermo?

Elena Anna Andronico

Earthset: quattro chiacchiere con la Band

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Provenienti da varie parti d’Italia, formatisi nell’ambiente musicale dell’underground bolognese durante gli anni universitari e reduci dal loro primo tour, Ezio Romano (chitarra e voce principale), Luigi Varanese (basso e cori), Costantino Mazzoccoli (chitarra e cori) e Emanuele Orsini (batteria e percussioni), hanno presentato al pubblico italiano il loro LP “In A State Of Altered Uncosciousness”.

Nella musica degli Earthset c’è davvero di tutto. Era vero quello che mi disse Luigi il bassista quando parlammo prima della loro esibizione nell’anfiteatro della cittadella universitaria: “noi abbiamo smesso da tempo di chiederci che genere facciamo” e, d’altra parte, che importa catalogare, dare un’etichetta.

Loro punto di forza è una musica instancabile, innovatrice figlia della tradizione, un’energia che percorre ogni loro pezzo e un senso di panico, come se questo mondo, come se la loro stessa musica stesse stretto agli Earthset. Proprio questo mi porta a profetizzare una rapida ascesa di cui questo punto di partenza, questo loro primo lavoro, ha posto le basi.

Già dall’intro “Ouverture” si intuiscono atmosfere intimiste che faranno eco in tutto l’album; segue una sezione di ballads progressive e fortemente melodiche: “Drop”, “The absence theory” e “rEvolution of the Species”, in cui si incontrano atmosfere Gothic, Post-Punk e Brit Pop.

Le sonorità mutano invece in “Epiphany” che si apre con un lungo arpeggio di Ezio ed un cantato romantico e travolgente, fino alla potente scarica finale. Sentirete un grande riff di basso che aprirà l’unico pezzo cantato quasi interamente da Luigi, “So What”: un punk sbronzo e caotico, che ricorda Dead Kennedys, il movimento anarchico anni ’80, e la New Wave degli Smiths. E’ il pezzo più accattivante e che mi ha fatto pensare di definirli “gli Hendrix del Punk”. Ma il pezzo non finisce in un silenzio imbarazzante, bensì in due note dissonanti di basso che saranno poi l’intro di “Skizofonia”, personalmente il mio pezzo preferito, una prova di maturità incredibile per una band appena al primo album.

Sicuramente è anche il pezzo più sperimentale, un vero “stato di alterata incoscienza”. Sviluppato sopra l’atmosfera oscura di un basso distorto e del delay martellante della chitarra, dall’acustico al noise vibrato e potente, per poi chiudere nel caos puro di uno splendido riff di basso su un tappeto indefinito e ipnotico, splendidamente ritmato da una lenta batteria, e da due voci di chitarra e i “canti dell’anima” che tanto ricordano “the Great Gig in the Sky”.aa

Gone è invece il pezzo più Hard Rock, dalle sonorità dei Guns ‘n Roses al Pop Punk, pur non disdegnando la consueta composizione multiforme, giovanile e rivoluzionaria, che chiude con complesse parti in dispari, per lasciar spazio al lungo arpeggio di apertura di A.S.T.R.A.Y., in cui Ezio può dar prova delle sue eccellenti capacità canore e chitarristiche, in uno splendido assolo finale. Non  a caso è un pezzo di cui è spesso stato richiesto il bis live. Pezzo impreziosito da stacchi “rumorosi” e acustici, prodigiosamente scanditi dalla predominanza del rullante di Emanuele, e di crescendo di batteria sempre al posto giusto.

E chi pensa al rock e alla letteratura horror come può non pensare a “the Call of Chtulu” del secondo album dei Metallica. Ebbene dimenticatelo, perché l’iniziale piano riverberato di chitarra, è ancora più precisamente in linea con le atmosfere orride e bizzarre di Lovecraft. Ed è proprio questo il nome della perla espressionista degli Earthset; una vera chicca di progressione ritmica claustrofobica e ossessionante, con seconde voci disturbanti di Costantino nel sottofondo della voce piangente e disperante di Ezio. Qui Emanuele e Luigi sembrano in trance musicale, grandi interpreti degli arpeggi che risuonano in tutto il pezzo, per poi alla fine lasciare lo spazio a Costantino per uno dei Riff-Solo più azzeccati che mi sia mai capitato di sentire.

Un viaggio nel sentiero della follia che porta all’addio struggente di “In A State Of Altered Uncosciousness”, una ballata dissonante e tormentata di nome “Circle Sea”, dimostrazione di maturità musicale e di scrittura nella perfetta metrica del testo, inscindibile dall’apparato musicale. Sognante e spaziale al contempo. Una poesia in musica, che come suggerisce il nome “mangia se stessa” nel finale, confuso e melodico al contempo. Nel perfetto gioco circolare del serpente che si morde la coda e rimanda all’ Ouverture iniziale.

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Ma adesso è tempo di parlare direttamente con loro.

R: Ciao a tutti ragazzacci!

D: Siete in tour per la promo del vostro primo lavoro in studio. Avete suonato avete già avuto 4 date in Sicilia, tra cui una all’Horcynus Orca ed una a Giardini Naxos. Ezio è messinese, quindi già ha avuto a che fare con la realtà siciliana: che impressione ha lasciato invece su voi tre questa Sicilia e il suo contesto musicale? E quali differenze notate col la vostra Bologna, in genere l’Emilia e il resto d’Italia?

Luigi: Beh dal punto  di vista estetico, sicuramente un’isola splendida, una regione bellissima in cui non ero mai stato. Dal punto di vista musicale invece delle realtà interessanti esistono e si sente buona musica. Bologna ha una scena musicale fin troppo attiva per certi versi, che rischia di divenire dispersiva.

Costantino: Possiamo infatti citare il Music House 17 a Trecastagni, che è una piccola realtà, nata da poco, molto interessante sia come sala Prove, che di registrazione, che di negozio di strumentazione, oltre che come Live House.

Emanuele: invece al nord di posti come questo è più immediato trovarne, non sono così tanti come a Bologna, che è una città dove si fa e si respira molta cultura, ma se si cerca bene si possono trovare ovunque. Qua ho notato tanti ragazzi che hanno voglia di cambiare e conoscere cose nuove rispetto al quotidiano. Molto attivi. È la prima cosa che ho notato.

Ezio: Concordo, la realtà che ho lasciato quando me ne andai da qui si è evoluta. Vi ho ritrovato Giovani propositivi che tentano di portare avanti un discorso musicale non prettamente commerciale.

 

D: “The place where grows this kind of tune

And you can see the Earth-set from the moon…”

“Il luogo dove cresce questo tipo di tonalità e puoi vedere la terra tramontare dalla luna” : recita così uno dei versi più belli della vostra “A.S.T.R.A.Y.” , nona traccia del vostro “In A State Of Altered Uncosciousness”.

Il paragone è d’obbligo con Floyd, che amarono prendere un frammento di Brain Damage per dare un nome ad uno degli album più importanti della storia: Dark side of the moon.

E la prima cosa che si nota ascoltando il vostro album, è che c’è di tutto: dai Tool, ai Floyd, ai Muse, ai Rush, senza però mai ridursi ad un semplice copia incolla di altri artisti. Tutto ha sapore di nuovo e di “antico”. Gli Earthset sono qualcosa di nuovo. Mi chiedo dunque cosa significhi per voi “Earthset”, cosa “In a State of Altered Uncosciousness”?

Ezio:  Earthset è un’immagine che viene da quella lirica citata che è in sé un omaggio ai Pink Floyd ed utilizza la stessa rima di Eclipse, perché è un brano sull’ispirazione artistica, e chi più dei Floyd ha ispirato le generazioni successive. Anche questa rappresentazione di trovarsi sul suolo lunare a vedere la terra che tramonta è tutto una meta-citazione di Dark Side Of The Moon.

Earthset raccoglie in una sola parola quello che per noi è l’esperienza artistica, cioè il porsi in una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella ordinaria. E’ la nostra prospettiva sul mondo, sulla musica, sull’arte.

“In A State Of Altered Uncosciousness” è invece un verso di “rEvolution of the species” , anche per questa nostra voglia di dare una coerenza ai nostri lavori e non essere un’accozzaglia di canzoni, come può essere in certe produzioni più commerciali. E’ il concept dell’album: lo stato di alterata incoscienza che esprime lo stato in cui molti di noi vivono le proprie esistenze sia in positivo che in negativo, una vox media. Ti trovi in questo stato nel momento in cui vivi in modo apparentemente cosciente alla società, ma sei incosciente verso te stesso e viceversa. Un concetto anche un po’ psicoanalitico di contrapposizione tra Sé e Collettività. Bisogna avere il coraggio di mettere in dubbio le proprie certezze, le recite della società, per svelare le sovrastrutture che sembrano il tuo Io, ma che in realtà non ti ritraggono e ti ingabbiano, incosciente a te stesso.

D: oltre al lavoro strettamente musicale, c’è una ricerca anche cinematografica (lo si può vedere dai vostri Videoclip, reperibili su youtube ) e poetica nei vostri testi, misto di esistenzialismo e ermetismo. Come la musica si fonde ai vostri testi per creare un prodotto così composto? E da dove nasce l’ispirazione per scriverli?

Luigi: Un testo sicuramente può nascere da ogni cosa, filtrata però attraverso l’esperienza personale. Così come Ezio racconta in “the Absence Theory” un suo momento privato, la canzone dove canto io, “so What”, è un racconto stilizzato di una mia serata di sbronza un po’ presa a male. Inoltre in quel periodo ero in fissa con un libro russo, un viaggio nell’estasi alcolica, un racconto tragicomico, per cui ci sono sicuramente influenze letterarie e musicali. Prendi “Lovecraft” ad esempio, dedicato all’omonimo scrittore, che è una trasposizione della novella “i Sogni Nella Casa Stregata”, che vi consiglio di leggere.

Emanuele: “rEvolution Of the Species” fa riferimento al periodo politico che stavamo vivendo, il governo Monti. Ci dava fastidio l’idea che se il sistema capitalistico fallisce e dimostra di essere pesantemente in crisi, vi sia la pigrizia mentale di non provare a trovare delle soluzioni,  ma si cerchi in tutti i modi di salvare il sistema coi suoi propri mezzi che già hanno dimostrato di essere fallaci.

Costantino: Dobbiamo metterlo in discussione questo sistema. Ed è proprio durante le nostre discussioni che ci facciamo i viaggioni e scriviamo i testi. Insomma la nostra musica nasce dal dialogo.

D: State già lavorando ad un nuovo Progetto?

Costantino: si,  abbiamo già prodotto del materiale che sarà condensato in un EP sul quale stiamo già lavorando. La produzione artistica sarà sempre di Carlo Marrone, Enrico Capalbo e Claudio Adamo. Per le batterie avremo alla produzione un altro produttore. Dovrebbe essere un EP a 4-5 Tracce, con brani che già suoniamo anche dal vivo.13442489_1195250337160438_1578367912385154853_o

D: cosa vedete nel futuro del panorama musicale italiano? Si va sempre più verso un sterilizzazione musicale, che porta alla celebrità burattini senza idee o sentite vento di cambiamento nell’aria?

Ezio: l’Italia è un mercato estremamente difficile, è un mercato in cui c’è poca attenzione verso le produzioni indipendenti a livello di grande pubblico. Il grande pubblico è quello del mainstream, dei talent, delle Major e purtroppo questo nei prossimi anni non lo vedo come una cosa in mutamento. Certo la scena indipendente sta crescendo anche se rimane in una cerchia ancora ristretta e appannaggio per lo più di certa critica del settore e appassionati del genere.

Luigi: purtroppo sono i sistemi di informazione principali ad avere il controllo, fin da piccoli siamo influenzati da quelli.

Costantino: Si infatti! Quello che interessa alle major è avere un ritorno economico, vendere. Quindi che loro abbiano uno o due artisti, anche se dureranno solo un anno, loro sanno che per quell’album rientreranno nelle spese e ci guadagneranno pesantemente, anche se poi scomparirà nel nulla.

Ezio: non vorrei buttarla sulla critica ai talent, ma si sa che sono il canale principale delle nuove proposte, per cui un ambiente indie, come quello in cui ci muoviamo noi arranca. La rete spezza molto e aiuta le realtà indipendenti, ma ancora non è abbastanza forte per supportare un mercato rivale di quello delle major, come magari avviene all’estero, prendi il caso di Grimes, artista canadese, a livello internazionale conosciutissima.

Luigi: si parla comunque di un tipo di prodotto più facilmente accostabile a quello che viene mandato dalle major, per cui è anche più facile. Comunque l’epoca delle rockstar col jet privato è bello e finito, non tornerà più. Dimenticatela.

Emanuele: un piccolo inciso, Alan Moore diceva che tutto ciò che ha un pubblico è classificabile, ma non fa sempre massa. L’underground non vuole essere troppo ristretto a livello di pubblico, anzi ha un pubblico molto vasto e non parlo solo di musicisti, ma di artisti, writers, DJ, non quelli da discoteca, ma i grandi producer. Certamente il mainstream è più visibile, ma la proporzione rimane su 60 e 40.

Luigi: io ho una teoria su questa cosa e penso che ogni 30 anni ci sia una rivoluzione musicale. La prima l’hanno fatta i Beatles, la seconda i Nirvana, fra un’altra decina di anni ne aspetto un’altra.

Ezio: dobbiamo essere pronti!

Luigi: eh, noi saremo già bell’e vecchi…

Emanuele: …ma soprattutto belli!

Luigi: insomma se uno pensa agli anni 90 per cui una scena indie minuscola diventa commerciale, grazie all’esplosione dei Nirvana a caso, e non si sa come siano arrivati a vendere così tanto. Però sono essenzialmente i nuovi Beatles. Hanno cambiato anche le sonorità pop che venne dopo. Fu una cosa imprevedibile, alla fine erano tre che nemmeno sapevano suonare bene, con dei suoni cacofonici, anche se degli ottimi interpreti.

D: se poteste salvare un pezzo ciascuno (o più di uno) quali salvereste?

Emanuele: lo so! “Maquiladora” dei Radiohead. È un pezzo bellissimo che non conosce nessuno! L’ho conosciuto da un loro live del ’94. Poi per ora lo ascolto ogni giorno, più volte, e siccome scegliere un pezzo in assoluto è impossibile, tanto vale scegliere quello con cui sei in fissa al momento.

Ezio: Non mi uccidete, ma io salverei Bach il corale della cantata 147, “Jesus Bleibet Meine Freude”. Costantino?

Costantino: Se dovessi salvare qualcosa dalla catastrofe universale, io devo andare per forza sui Pink Floyd. Lo prendo come un unico brano, ma per me è come se lo fosse: The Wall, nella sua integrità.

Luigi: io salvo “When the Music is Over” dei The Doors perché è il mio pezzo preferito che conosco da quando ero  bambino perché lo ascoltava mio padre e rimane nel mio cuore.

Ezio: posso aggiungere le “Variazioni Goldberg” sempre di Bach?

Costantino: sottoscrivo!

D: ho voluto fare questa intervista perché credo davvero nelle vostra capacità ed è sempre bello parlare con qualcuno della propria passione, i propri sogni. Earthset è un nome di cui spero sentiremo parlare, e consiglio a tutti gli amanti della musica l’ascolto di “In A State Of Altered Uncosciousness”. Questo spazio finale lo lascio a voi, per dire qualsiasi cosa vi salti in mente, dalla citazione alla confessione, alla lista della spesa.

Luigi: posso dire una cosa seria? Noi ci siamo conosciuti in ambito musicale, un consiglio che mi sento di dare a te e a tutti i musicisti è di sforzarsi di fare pezzi propri, di non aver paura. Anche da soli, a caso, ormai si riesce a registrare anche in camera! Non importa se i suoni fanno cagare, è il processo creativo che è importante. Quello che sta succedendo è che si scinde il processo creativo dal concetto di musica, cosa sbagliata.

Ezio: la musica è creatività! Anche se il mercato vi dice che facendo musica di altri riuscite a fare qualche serata in più, mettete in moto la  vostra creatività anche per una questione di soddisfazione personale.

Luigi: anche io ho iniziato da autodidatta in un gruppo cover e mi divertivo tantissimo, ma la soddisfazione che hai dopo che scrivi un tuo album, anche se poi i pezzi fanno schifo, è qualcosa in più.

Costantino: Perché è tua, semplicemente.

Ezio: Non fermate la musica, grazie di cuore a tutti.

Angelo Scuderi

 

 

La “pazza gioia” di Paolo Virzì: la vulnerabilità incontenibile della felicità

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L’oblio dei ricordi che riaffiorano nella memoria frammentata e nella quotidianità dolorosa di due donne. Il desiderio travolgente di scappare dagli spettri del passato e da un’esistenza che si riesce a contenere a fatica. Può il disagio della sofferenza psichica accordarsi con i vessilli della felicità? L’ultimo film di Paolo Virzì, nelle sale da martedì 17 maggio, è il punto di contatto tra universi che spesso entrano in collisione, al cinema come nella vita: la “normalità” della sanità mentale e l’instabilità dei deviati e degli ultimi.
Il nuovo lavoro del regista livornese, d’origine siciliana per parte paterna, scritto con la collaborazione di Francesca Archibugi, una brillante commedia drammatica on the road che mette insieme divertimento intelligente a momenti genuini di commozione, ha raccolto ben quindici minuti applausi nella sezione Quinzaine des realizateurs del Festival di Cannes e un successo al botteghino già nei primissimi giorni di programmazione sugli schermi. Come lo stesso Paolo Virzì ha dichiarato durante un’intervista proprio in occasione della presentazione al festival la vicenda racconta una storia di follia che parla del forte legame di amicizia, o meglio della “relazione affettiva tempestosa”, tra due figure femminili dalla vita complicata in un turbine di ribellione alle regole imposte.
Dopo la Brianza del Capitale umano, torna ancora ad essere protagonista il paesaggio della Toscana. Nella campagna pistoiese si trova Villa Biondi, immersa nei fasti di un antico casolare, gestita dai servizi sociali e dal personale medico psichiatrico, e trasformata in una comunità terapeutica che accoglie donne ritenute socialmente pericolose in custodia giudiziaria. E’ in questo luogo che si incrociano per caso gli sguardi di Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi, già nel Capitale umano e vincitrice di tre David di Donatello) e di Donatella (Micaela Ramazzotti, a fianco di Paolo Virzì in Tutta la vita davanti e ne La prima cosa bella), donne dal carattere differente ma dai tratti psicopatologici ugualmente profondamente segnati: esuberante, mitomane, loquace, la prima è scossa dall’arrivo in comunità di Donatella, ragazza fragile e silenziosa che ascolta senza sosta dalle cuffiette del cellulare la canzone Senza Fine di Gino Paoli. L’incontro le porterà a ritrovarsi in una circostanza fortuita che provocherà una fuga verso un altrove non pianificato; così seguiranno una serie di accadimenti tragicomici e rocamboleschi, l’incontro con dei personaggi che metteranno in discussione il concetto di normalità psichica, il furto di un auto, il giro notturno nella movida, e infine l’avvicinamento coraggioso alle ombre passato: il legame affettivo impetuoso che scaturirà proprio grazie alla diversità si concretizzerà in un esortazione ad andare avanti nonostante il buio interiore e gli errori commessi.
I personaggi di Paolo Virzì sono delle figure complesse indagate nella loro interezza umana e psichica, senza nessuno spazio lasciato alla facile impronta macchiettistica. Nel cast accanto alle attrici professioniste non a caso, sono state selezionate delle pazienti dei centri del dipartimento di salute mentale della Ausl, che è arduo distinguere dalle altre attrici. L’introspezione della sensibilità femminile è uno degli aspetti più riusciti. Le due donne appaiono in misura diversa alienate dalla realtà e allontanate dai loro affetti. Il percorso alla ricerca della normalità, se di normalità si può parlare in quel “manicomio a cielo aperto che è l’Italia”, sarà un lento risalire fuori dall’acqua, come nell’incidente che ha coinvolto Donatella e il figlioletto Elia. Il mare che può inghiottire ma anche fare da palcoscenico agli spruzzi e alle risate di una ritrovata ma sempre incerta e mai ferma serenità, rappresentata dalla toccante scena finale in Versilia.
Il delicato tema del disagio mentale, ancora molto spesso tabù in Italia, è trattato senza arrivare a conclusioni affrettate e a giudizi lapidari: gli operatori sanitari sono figure allo stesso modo convincenti e reali. Ma è nell’oscillazione tra l’euforia e l’amarezza che si incunea l’emotività delle protagoniste che coinvolge il senso della fugace possibilità di vivere la pazza gioia. Per citare la scrittrice Mignon McLaughlin: “molte cose possono farti infelice per settimane; poche possono portare un giorno intero di felicità”. 
Eulalia Cambria

“Fai bei sogni” di Massimo Gramellini

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“ Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere: completamente vivi.”

Il pensiero della morte è uno di quei fardelli che ci portiamo dietro per tutta la vita. Si cerca sempre di relegarla nel più profondo dei nostri cassetti del cuore, si prova a nasconderla sotto una pila di avvenimenti ed emozioni vissute. Più volte tentiamo di esorcizzarla purificandoci con una serie di riti di fede. Ma lei è sempre lì, pronta a venir fuori dalla sua prigione dell’anima, per segnare alcuni dei momenti più tragici e difficili della nostra vita lasciando cicatrici che difficilmente vanno via.

La storia di Massimo, narrata in prima persona in questo romanzo autobiografico, inizia proprio alla fine di quella della sua amata madre. È la mattina del 31 Dicembre 1969  e i suoi sogni da bambino innocente di nove anni sono interrotti bruscamente dall’urlo del padre che è appena venuto a conoscenza della morte della moglie, la mamma del fanciullo che osserva sgomento la scena dalla porta della sua cameretta, ancora intontito dalla quantità di informazioni, miste ai postumi della dormita, che gli stanno pervenendo.

Questo avvenimento segnerà un repentino cambiamento nella vita del giovane torinese, che alternerà momenti di solitudine e moderata autocommiserazione, a momenti di tenui gioie donategli dai brevi amori giovanili, dalla scrittura e dalla sua squadra del cuore, il Torino.

La storia è narrata in maniera lineare, attraverso un lungo flashback che si interrompe negli ultimi capitoli, con forti spunti ironici che accompagnano tutte le fasi della vita del protagonista: dagli anni delle scuole medie passati a difendersi dai bulli e a rinnegare la morte della madre, al periodo Universitario, in cui il demone della sua infanzia, che lo scrittore denomina Belfagor, lo priva di emozioni,  passioni e sentimenti per evitargli ulteriori delusioni che la vita potrebbe propinargli; fino ai primi anni da giornalista e inviato vissuti nel limbo tra amore e frustrazione, gioie e delusioni.

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“Camminavo sulle punte e le guardavo di continuo, perché non ero capace di alzare gli occhi al cielo. Avevo le mie ragioni. Il cielo mi faceva paura. E anche la terra.”

Il rapporto con il padre sarà un nodo cruciale nella storia, caratterizzato da pallidi momenti di vicinanza e brusche liti che porteranno più volte lo scrittore a sferrare decise staffilate nei confronti dell’autoritario genitore. Il tutto si risolverà nelle pagine finali in cui Massimo, ormai grande, riceverà una busta sigillata da quarant’anni nella quale si nasconde il più sconcertante dei segreti che lascerà ogni lettore stupefatto.

Con questo libro, Massimo Gramellini, ci apre le porte più remote della sua anima e ci permette di toccare con mano le ferite che gli sono state inferte, ma anche di vivere i numerosi successi che la  vita gli ha riservato, tutto in maniera semplice e ironica, ma allo stesso tempo profonda e diretta al cuore.

È una lettura consigliata per tutti coloro che, nonostante la scomparsa di un qualcosa o un qualcuno a loro caro, hanno il coraggio di andare avanti e di combattere i propri demoni interiori, proprio come Massimo con Belfagor. Ma è anche un libro per tutti coloro che hanno perso la speranza nella vita, affinché possano riprendere a guardare il cielo tenendo i piedi ben saldi a terra.

Giorgio Muzzupappa

Brancaccio – Storie di Mafia Quotidiana

  “Carme’, tu ci sei mai stato in treno?”
“E per andarmene dove?  C’è qualche posto meglio di Palermo?”
Brancaccio è lo sfondo e l’involucro avvolgente di molte storie. Così come delle vite che al suo interno si incrociano. E’ un luogo stantio e sospeso, separato apparentemente dal resto del mondo, dove gli eventi si ripetono seguendo ciascuno il medesimo corso circolare in un’atavica perpetua immobilità. Di recente la Bao Publishing ha curato questa nuova edizione del fumetto, uscita nelle librerie nel mese di febbraio. Al soggetto scritto da Giovanni di Gregorio che ha ottenuto nel 2007, all’epoca della prima pubblicazione, il riconoscimento Attilio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura di un romanzo grafico e il premio Carlo Boscarato, si è aggiunta un’inedita appendice illustrata a colori di Claudio Stassi e una nuova copertina.
Entrambi gli autori, affermati e di fama internazionale, sono nati a Palermo, e già nelle dediche di apertura mettono nero su bianco quel plumbeo senso di nostalgia e di rassegnazione di chi ama la propria terra ma è costretto a lasciarla. Lo stesso destino che in un altro contesto, quello proprio del fumetto e della Palermo della metà degli anni ’90, Nino, l’adolescente protagonista delle illustrazioni, interpreta attraverso il desiderio di partire con il treno che di notte porta nel continente. La fuga verso un futuro diverso e migliore è solo uno degli aspetti che formano l’intreccio delle piccole storie quotidiane che agitano Brancaccio, il quartiere industriale che Pino Puglisi aveva sottratto alla mafia e fatto rivivere grazie alla forza comunicativa delle sue parole prima di venire assassinato nel settembre del 1993. Ma, se la mafia uccide, lo fa anche senza pallottole o bombe: “basta far finta che non ci sia”.
L’esigenza urgente di parlare e raccontare, come Rita Borsellino sottolinea nella prefazione, è la causa che ancora oggi portano avanti Libera, Addio Pizzo ed altre realtà e associazioni che operano nei quartieri della città per contrastare la mentalità mafiosa e interrompere l’immobilità che storie come quelle narrate rappresentano. La  capacità del fumetto di rivolgersi soprattutto ai giovani è interprete efficace di questa esigenza. Le linee dei disegni tracciano con nettezza, come i limiti della ferrovia, i confini di un quartiere schiacciato dalla misera e dalle pieghe dell’omertà: le moto rubate e rivendute nelle officine, le lotte dei cani cresciuti con le bastonate perché imparino ad attaccare, la malasanità e la corruzione negli ospedali, l’acqua che manca per giorni interi, i favoritismi e le mazzette. Dall’altra parte la rivalsa del doposcuola e le figure eroiche che in questa Palermo si incontrano, unite da un filo che le congiunge, ma che finisce per travolgerle:  Nino appunto, un venditore ambulante di panelle, e Angelina.
Il cambiamento può avvenire se non si rinuncia a gridare a gran voce. E ciò vale da sempre per Brancaccio e oltre Brancaccio, come nel titolo della prefazione. Il fumetto è un viaggio intenso e doloroso attraverso i chiaroscuri dei disegni di luoghi che ci sono familiari. E’ un romanzo disegnato che ha ottenuto un ampio consenso da parte dei lettori già nella prima edizione, e che in questa nuova veste torna a parlare di sé, senza smettere di parlare agli altri.
              
  Eulalia Cambria