“Mare Mosso”. Un noir mediterraneo per gli amanti del mare

 

Una storia vera di mare, d’amore e mistero. L’ideale per una lettura estiva – Voto UVM: 5/5

 

Dopo il romanzo d’esordio L’attimo prima, uscito nel 2019 per Rizzoli, Francesco Musolino ritorna con Mare Mosso, edito per e/o. Raccontare una storia di mare non è sempre un’operazione semplice. Per farlo bisognerebbe prendere il largo (non solo metaforicamente). Eppure, l’autore è riuscito perfettamente a costruire l’atmosfera, studiando ogni dettaglio possibile da inserire nella storia e la lingua da utilizzare, ponendo al centro della narrazione il mare in tempesta dove un gruppo di marinai tenta in tutti i modi di portare a termine un’ardua missione di salvataggio che si infittisce di mistero.

Prima di entrare nel dettaglio della trama, è doveroso parlare in breve dello scrittore messinese.

Conosciamo lo scrittore

Francesco Musolino ( che abbiamo avuto modo di conoscere personalmente in quest’occasione!) nasce a Messina nel 1981. E’ laureato in Scienze Politiche e oggi è giornalista culturale per conto di diverse testate, tra cui L’EspressoLa Stampa.  Nel 2014 fonda il progetto no-profit di lettura @Stoleggendo per costruire una rete di rapporti su Twitter tra librai, scrittori ed editori con lo scopo principale di creare un canale concreto per la lettura di qualsiasi testo con la partecipazione simultanea dei lavoratori dell’editoria.

Lo scrittore Francesco Musolino. © Sofia Ruello

Oltre ai romanzi citati, l’autore ha pubblicato nel 2019 un saggio interessante dal nome Le incredibili curiosità della Sicilia per la casa editrice Newton Compton, il quale esplora le caratteristiche tipiche delle città siciliane e della nostra cultura. E’ inoltre anche docente di scrittura creativa presso la Scuola Holden di Torino.

L’impresa da compiere

La storia è incentrata su un salvataggio a largo della costa sarda – precisamente nella “golfatina di Santa Caterina di Pittinuri”- avvenuto la notte del 24 dicembre 1981. L’obiettivo è recuperare una nave cargo turca chiamata Izmir. È una nave imponente, quasi impossibile da trainare fino al porto, al punto tale da gettare nello sconforto i personaggi che accompagnano il protagonista, Achille Vitale, in questa impresa.

Il motivo per cui si ritrovano in mare è per via degli interessi di un uomo misterioso, Mr. K, interessato a recuperare il carico della nave. All’inizio i marinai pensano che essa contenga solo tonnellate di pesce, ma successivamente saranno costretti a ricredersi. È proprio in quel momento che prendono vita le ombre del giallo, grazie a un climax ascendente fornito da un io narrante mai ripetitivo, che non lascia alcun buco nella trama. In virtù di ciò, la storia si alterna tra l’azione dinamica e l’introspezione dei personaggi, grazie anche all’uso ben calibrato dei flashback.

L’animo forte e sensibile di Achille

Il protagonista è abituato a intraprendere il largo, al punto tale da mostrare una sintonia emozionante con il mare:

“La potenza selvaggia della natura mi ha sempre affascinato. Quella paura che ti acchiappa fra le onde, che ti aggroviglia le budella e fa tremare le gambe mentre tutto oscilla intorno, rischia di diventare come una droga e ti chiedi perché cazzo ti piace quella vita, perché non sai rinunciare alla malìa del rullaggio, alla salsedine che mangia ogni cosa e intanto l’orizzonte all’improvviso si apre, si spalanca e ti invita ad andare mentre il vento ti spinge o ti sfida, ti provoca o ti soccorre.”

Tuttavia, egli non vive soltanto nella burrasca. Infatti, nel corso della narrazione Achille si lascia andare a dei pensieri che vedono al centro Brigitta, la donna che ama tanto. Tra la bellezza primordiale dell’amore e i tormenti dovuti alla gelosia, il romanzo affronta delicatamente questi temi ponendo in risalto la sensibilità dell’eroe, dando dimostrazione del carattere solo all’apparenza “duro” di un marinaio:

“Giunti a Cagliari, la nostra routine di coppia è cambiata velocemente. Io ero spesso fuori, in mare aperto, a tutte le ore del giorno e della notte, mentre Brigitta restava da sola, in una città completamente diversa dalla sua amata Venezia. Poi è arrivata Nina e, fra alti e bassi, c’abbiamo provato. Oggi continuo a prendermi cura delle sue rose in terrazza, immergendomi con le bombole sui fondali della costa in cerca di un po’ di pace ma i ricordi possono essere acuminati come le rocce, pericolosi come una murena che ti punta dalla profondità degli abissi, ingannatori come un bagliore che luccica e ti attira, trascinandoti sempre più giù, dentro le tue stesse paure.”

È evidente l’importanza simbolica di questa missione. Tornare a casa per Achille significa anche ritornare da Brigitta, lasciare tutto e ricominciare daccapo per vivere più serenamente.

I temi e le caratteristiche del romanzo

Tra le pagine si evince una descrizione dettagliata degli ambienti sia interni, sia esterni alla nave, accompagnata da una continua suspense visiva. La scelta del mare è lungimirante poiché per lo scrittore, le storie sono estremamente importanti nella misura in cui evocano un profilo identitario che ci accomuni e che, quindi, ci appartenga. Questo principio viene rivendicato con forza grazie a una epigrafe di Stefano D’Arrigo (capitolo 20), tra le tante poste in apertura dei capitoli:

“Non c’è lido più lontano di quello dove non si approda”

Se ci pensiamo, è una condizione che nella vita quotidiana ci riguarda quasi sempre. L’autore ci sollecita a ricordare che il nostro è un viaggio continuo alla ricerca dell’appartenenza, del conflitto e, dunque, dell’approdo. Il lido spesso è lontano – come si evince dalla storia di Achille – però, solo se siamo in grado di affrontare le nostre paure, allora forse arriveremo alla meta.

“Mare Mosso”: copertina, Fonte: edizioni e/o

Chiudo questa recensione lasciandovi alla piacevole chiacchierata che ho intrattenuto con l’autore e invitandovi alla lettura del romanzo, con l’augurio che possiate prendere il mare con coraggio!

 

Federico Ferrara

Se cadono le montagne: un reportage a fumetti di Zerocalcare

 

Zerocalcare torna con il suo stile unico a raccontarci del suo viaggio nel nord dell’Iraq con incredibile sensibilità – Voto UVM:  5/5

 

Sulla copertina della recentissima uscita del settimanale Internazionale troviamo un disegno di Michele Rech in arte Zerocalcare, un assaggio del reportage a fumetti di 34 pagine, Etichette, che la rivista custodisce al suo interno. Ad accompagnare l’illustrazione in copertina c’è una frase: «Se cadono le montagne» e il sottotitolo Un reportage dal nord dell’Iraq, tra i curdi che vivono nel campo di Makhmour.

Il reportage è facilmente reperibile in edicola o con qualche click online sul sito del settimanale Internazionale; sempre online, sui social, si trova il racconto di  Zero circa la scelta di Alberto Madrigal per occuparsi della colorazione dell’illustrazione  in copertina e delle mezzetinte acquerellate all’interno del fumetto .

Zerocalcare, Con il cuore a Kobane; Internazionale. Fonte: ilbibliomane.wordpress.com

Se cadono le montagne?

Zerocalcare non è nuovo alla vicenda curda. Ci racconta infatti del suo viaggio tra il deserto e le montagne del Kurdistan qualche anno dopo l’uscita di Kobane Calling, un reportage a fumetti del viaggio di Michele in Turchia, Iraq e Siria in supporto ai combattenti curdi, un itinerario per comprendere le storie di un popolo in guerra per il proprio diritto ad esistere.

Ed è nell’introduzione del 2020 a Kobane Calling che ci scrive di un detto curdo che recita:

I curdi hanno un solo amico, le montagne.

In effetti nell’immaginario comune le montagne veicolano un significato di protezione e sicurezza. Il freddo e distaccato fascino del monte Fuji ne La grande onda di Kanagawa, qualcosa che è impossibile cada. E allora sembra che in gioco ci sia qualcosa di vitale, così la frase che leggiamo sulla copertina di Internazionale risuona in modo più decisivo e solenne, questa volta come una domanda: e se cadono le montagne?

La grande onda di Kanagawa, famosissima xilografia di Hokusai. Fonte: dueminutidiarte.com

Risposte                                    

La risposta la troviamo all’interno del fumetto: Se cadono le montagne cade tutto. Lapidaria, inscritta su uno sfondo malinconico, si vede una ragazza che siede su una roccia e regge un’arma mentre osserva i compagni che armi in spalla marciano tra le montagne.

Seguendo i dialoghi e le persone che Zerocalcare incontra nel viaggio verso il campo profughi di Makhmour, ci accorgiamo infatti che le montagne dei curdi non sono le montagne delle mappe o del nostro immaginario. Le montagne appiattite delle cartine. Sono le montagne del Pkk, dove si trovano i guerrieri curdi, considerati terroristi dai Turchi, le montagne del confederalismo democratico, le montagne da cui può arrivare l’aiuto.

Ci accorgiamo sfogliando che qualcosa non va nel nostro immaginario, che forse ci sono in gioco dinamiche più complesse a cui forse non abbiamo prestato ascolto. Dinamiche che è difficile districare e comprendere senza affidarsi ad etichette che altri hanno scelto per noi. E leggiamo ancora tra i disegni: “Le storie di guerra sono anche questo, portano con sé cose che non ci piace sentire, che ci fanno fare i conti con la realtà e la coscienza e con quello che siamo disposti ad accettare. Sono più complesse delle favole.”

 

“Se cadono le montagne”, Zerocalcare. Fonte: dalla rivista Internazionale.

Conclusioni

La complessità caratterizza le storie che Zero ci racconta con qualche battuta per alleggerire il carico emotivo.

Se cadono le montagne è una riflessione sulla complessità delle storie, 34 pagine ben riuscite che ci invitano all’ascolto e a superare i confini del – per dirla come farebbe Zero –  “così ho sentito di’ “, contro ogni riduzionismo o semplificazione. Un invito a disegni ad immaginare più da vicino i volti e i contesti, come quello dei campi profughi. Un aiuto a toccare con mano la realtà di chi abita quei luoghi e un modo per provare a prestare ascolto a voci che narrano storie diverse da quelle che siamo abituati a sentire, fuor da “etichette”.

Martina Violante

NextGenerationME: Jacopo Genovese, tra cantautorato e processi creativi

La Musica è sempre stata una parte fondamentale della mia vita, certe volte mi ha salvato nei momenti peggiori curandomi le ferite, a volte ha amplificato le mie paure rendendomi più consapevole di me stesso. No, questo non è un estratto dell’intervista che state per leggere, ma un pensiero personale e intimo del redattore che sta per raccontarvi l’esperienza e le speranze di chi, condividendo queste sensazioni, si è messo in gioco assecondando le proprie necessità creative e di scrittura.

Torna la rubrica NextGenerationME con Jacopo Genovese, messinese classe 1993, appassionato alla musica fin da bambino grazie all’influenza del nonno Cleofe Lanese, tastierista dei Gens, storico gruppo anni ’70 della nostra città. Dopo aver partecipato ad alcuni reading poetici, ha preso coscienza di sé stesso e si è dedicato alla musica, dalla quale ha avuto le prime grandi soddisfazioni:

  • nel 2018 si classifica primo alla finale regionale di Area Sanremo tour con il brano “Gelso Nero“;
  • nel 2019 viene premiato come miglior testo al contest Game of Chords organizzato dal Saint Louis College of  Music di Roma, con il brano “La sorella di Sergio“;
  • sempre nel 2019 si esibisce sul palco dell’Indiegeno Fest  nella sezione Spaghetti Unplugged con la canzone “Alice“;
  • nel 2020 viene selezionato tra i dieci finalisti di Road to the Main Stage by Firestone.

Partiamo dalle origini: come e quando hai maturato l’idea di metterti in gioco pubblicando i tuoi lavori? Quando hai deciso di condividere con altri ciò che fino a quel momento era solo tuo? 

La passione per la musica c’è sempre stata; purtroppo da questo punto di vista crescere in una città come Messina non aiuta. Sono veramente pochi gli eventi artistici che vengono promossi, così viene negata ai ragazzi la possibilità di innamorarsi dell’arte e di pensare: “voglio fare questo nella vita!”. Al contrario c’è una sorta di pregiudizio nei confronti di chi si dedica a questo genere di attività; per fare un esempio banale, quando a scuola a ricreazione suonavo la chitarra, il resto della classe era da tutt’altra parte e io venivo visto quasi come uno un po’ strano. Quindi ho coltivato la mia passione di nascosto, possiamo dire che “me la sono cantata e me la sono suonata” fino ai 24 anni. Successivamente episodi e momenti piuttosto negativi che ho vissuto mi hanno portato alla scrittura di un pezzo: “Gelso Nero”.

“Gelso Nero” ha cambiato tutto, è come se il mio essere si stesse ribellando a me stesso e volesse liberarsi dalla gabbia in cui lo avevo messo, come se mi dicesse: “basta, non hai più via di scampo o difendi la tua musica e la fai conoscere agli altri oppure cadi nel baratro”. Questo pezzo mi ha fatto stare bene e mi ha dato la forza ed il coraggio per cambiare prospettiva e obiettivi.

Parlaci del processo creativo che c’è dietro i tuoi lavori, come nascono le tue canzoni? 

Nel mio telefono ci saranno almeno 15 giga di registrazioni in cui canticchio o suono e una serie infinita di note scritte. Qualsiasi idea che riguardi parole o melodia viene salvata nel mio telefono, che io sia in studio a registrare o che stia facendo tutt’altro. Per me l’ispirazione esiste, non so bene come nasca, ma esiste. Può avere però diverse intensità; per fare un esempio quando ho scritto “La sorella di Sergio” ero fortemente ispirato, ho buttato giù tutto senza fermarmi un secondo, altri lavori invece sono nati riprendendo pensieri o melodie che avevo salvato nell’archivio tempo prima. L’ispirazione però non basta, devi avere anche a disposizione gli strumenti per poterla sviluppare e trasformala in canzone e questo forse è il processo di crescita più importante per un’artista emergente: acquisire le capacità necessarie per rendere la tua ispirazione fruibile anche ad altri.

Quali artisti hanno influenzato il tuo mondo musicale o comunque ti hanno appassionato maggiormente?

Beh, direi tutti i maestri del cantautorato degli anni ’70: Dalla e De Gregori, per citarne alcuni. Dalla un genio assoluto, per scrittura e suoni era avanti anni luce rispetto al momento storico in cui viveva. Di De Gregori amo l’intimità dei suoi testi; probabilmente questa caratteristica gli ha negato un successo ancora più grande rispetto a quello che ha avuto. Per quanto riguarda la chitarra, amo la musica di artisti come Elliott Smith o Mark Knoplfer; per citarne uno più contemporaneo, apprezzo molto Ed Sheeran.

Oggi il cosiddetto indie-pop spopola tra i giovani ed ha trovato anche uno spazio importante nelle scalette delle radio più ascoltate in Italia, senti in qualche modo di appartenere a questo filone musicale?

Sinceramente no, non mi ci vedo proprio se non per il fatto di essere assolutamente indipendente a livello discografico, come lo erano i vari Calcutta o Gazzelle quando hanno iniziato. Comunque li apprezzo per aver portato una ventata di novità soprattutto a livello di scrittura e attitudine. In generale fatico a mettermi un’etichetta e mi interessa anche poco farlo. Ispirandomi ad una frase di Paul McCartney, ti dico: “io suono ciò che è mio, totale e libera espressione di ciò che ho in testa”.

Parliamo di futuro: che progetti hai in cantiere?

Da  qualche  tempo lavoro con il maestro Tony Canto, per avere una guida più professionale durante la produzione dei miei pezzi. Al momento stiamo lavorando alla produzione di tre brani: un remake di “Ciao Bambina”, che è un pezzo già uscito tempo fa, e due inediti. Inoltre sto lavorando alla realizzazione di un video di “Gelso Nero” sul cratere di Vulcano, con l’accompagnamento di una violinista; sono molto legato alle Isole Eolie, sarebbe veramente un sogno realizzare un video del genere.

Grazie per il tempo che ci hai dedicato!

Grazie a voi ragazzi, a presto.

 

 

Emanuele Paleologo

 

Jacopo su internet:

jacopogenovese.com

facebook.com/jacky793

youtube.com/channel

instagram.com/jackyspoint

open.spotify.com/artist

Immagine in evidenza:

Jacopo Genovese durante un concerto – Fonte: scomunicando.it

 

 

 

 

 

 

Pier Paolo Pasolini, la voce degli ultimi

 

 

E’ una storia da dimenticare
è una storia da non raccontare
è una storia un po’ complicata
è una storia sbagliata

Il 5 Marzo del 1922 veniva al mondo colui che venne definito  “lo scomodo”: Pier Paolo Pasolini. Autore e regista, che ha segnato non solo la storia italiana ma anche quella mondiale, il suo pensiero e la sua penna erano un ostacolo per coloro che governavano (e che governano). Ancora oggi il suo assassinio è avvolto nel mistero: c’è chi pensa che sia stata una morte accompagnata dall’ignoranza e chi crede che sia stata premeditata per mettere a tacere la sua voce.

Ma quali sono i libri e i film che hanno reso Pasolini immortale? Sono tanti e troppi, ma- cari lettori- vi mostrerò le opere che hanno segnato non solo la sua carriera, ma anche lo scrittore stesso.

Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla

 Pier Paolo Pasolini. Fonte: doppiozero.com                    

Comizi d’amore (1965)

Comizi d’amore, è un documentario scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Nel 1963, armato di videocamera e microfono, l’autore assieme al produttore Alfredo Bini comincia il suo cammino per tutta Italia; inizialmente il suo progetto era trovare volti nuovi per il  film Il Vangelo secondo Matteo ,ma, camminando, nella sua testa si forma e si crea un nuovo progetto che lo immortalerà come “lo scrittore degli ultimi.  

 Nell’estate del ’65 intraprende quindi un viaggio dal nord al sud Italia in cerca delle voce del popolo riguardo alla sessualità per capire come viene vista e pensata e per quale motivo sia ancora un tabù, nonostante sia una pratica che riguarda ogni singolo individuo.

Pasolini si traveste da nomade e interroga come i filosofi il popolo, scavando nella loro anima per cercare una risposta. Troverà risposte e pensieri differenti, giacché va a interrogare ogni rango sociale, dalla classe più umile fino ad arrivare all’alta società. Curioso sapere che all’interno dell’opera troveremo intellettuali come Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia e tanti altri. Il film è una pietra miliare del cinema italiano, ma è poco conosciuto, proprio perché va a toccare ciò che è sempre stato taciuto.

Che al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore.

Pasolini intervista la gente nei Comizi d’amore. Fonte:pordenonoeoggi.it

Le ceneri di Gramsci (1957)

Il libro è una raccolta di poesie in cui Pasolini si rivolge a Gramsci davanti alla sua tomba descrivendogli la società italiana contemporanea, devastata dal dopoguerra e dai quei diritti mancati:

Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?

L’opera raccoglie undici componimenti, il titolo è preso da una poesia: in quest’ultima vediamo Pasolini che si rivolge proprio alla tomba di Gramsci.

Pasolini davanti alla tomba di Gramsci. Fonte: googlesites.com

Ragazzi di vita (1955)

Ragazzi di vita è uno dei libri più famosi di Pier Paolo Pasolini.
L’opera si apre su una Roma devastata dal dopoguerra. I protagonisti sono dei ragazzini lasciati alla deriva non solo dalla scuola ma degli stessi genitori; essi cercano di vivere una vita normale e passano le loro giornate nelle strade della città eterna.

Pasolini con quest’opera ci descrive la decadenza post guerra che porta le persone a non saper più in cosa credere, tanto che per ammazzare la noia cadono esse stesse nel degrado più totale senza rispettare la morale.

Pasolini dietro la cinepresa.  Fonte: periodicodaily.com

Ma adesso dimmi Pasolini: chi sei realmente per la società? Tu che la società l’hai descritta in ogni sua piccola sfumatura, raccogliendo non solo le voci del popolo ma anche catturando l’estetica del paesaggio, donandogli un’anima e una voce…Chi sei realmente per tutti noi? Il “pedofilo” o il martire?  O semplicemente un individuo al di fuori dal comune?

Non illuderti: la passione non ottiene mai perdono. Non ti perdono neanch’io, che vivo di passione.

                                                                                                                  Alessia Orsa

 

Malèna: cronaca di una morte

Malèna (2000), regia di Giuseppe Tornatore, è una pellicola carica di crudezza ed apatia. Un film che grida alla denuncia di una mentalità chiusa e corrotta che, se esisteva nei lontani anni Quaranta del Novecento, non è sicuramente cambiata – almeno in determinati contesti –  ai giorni nostri. Una denuncia, dunque, che risulta più che attuale, specie se proveniente da una donna.

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Monica Bellucci nei panni di Malèna – Fonte: spietati.it

Sinossi

La protagonista è Malèna (Maddalena) Scordia (Monica Bellucci): un nomen loquens, potremmo dire. Co-protagonista e voce narrante è invece il giovane Renato Amoroso (il nostro concittadino Giuseppe Sulfaro), un ragazzino nel pieno della pubertà che inizia a provare una passione struggente per la statuaria Malèna, innamorandosene al primo sguardo.

Tramite le sue parole, ma ancor più i suoi gesti, ci viene raccontata la parabola di una donnada santa a puttan*“:l’ascesa e poi il declino. Guardandola tramite gli occhi languidi del ragazzino, ci accorgiamo che il realismo magico delle scene erotiche non lascia spazio al romanticismo, a tratti inquietando lo spettatore, con l’incredibile effetto di sottoporci continuamente allo stress di quella situazione verosimile.

I personaggi

Seguendo i protagonisti nel loro percorso sentiremo chiaramente ogni sensazione da loro provata (e voluta dal maestro Tornatore): disagio, angoscia, rabbia, rassegnazione. Ed in effetti, la bellissima Maddalena è una donna rassegnata: a non vedere più il volto del marito, ad essere sola nella gabbia dei leoni. Disprezzata e rumoreggiata da tutti, passeggia per le strade della piccola cittadina siciliana quasi senza una meta.

Dopotutto, quale meta dovrebbe avere un personaggio spogliato di ogni dinamismo, cristallizzato nell’essere la valvola di sfogo dell’intero mondo costruitogli attorno?

Se notiamo bene, i personaggi secondari che ci vengono presentati sono della peggiore fattispecie e vili: una popolazione che sconcerta, raccapriccia, ma che descrive con incredibile finezza la mentalità bislacca della Sicilia d’altri tempi; mentalità, peraltro, talvolta ancora radicata nella nostra isola. In mezzo al questa accozzaglia di gente, si elevano le Erinni della donna. Il paragone non è casuale: la giovane viene perseguitata dalle altre signore del suo paese per un motivo semplice quanto banale: l’invidia.

Ma il male è sempre banale.

Fonte: webpage.pace.edu

L’urlo

E allora, dalle prime scene d’innocenti bisbigli, si passa alla scena più dura, intrisa di cattiveria del film: il linciaggio pubblico. Malèna – ormai divenuta la “prostituta del paese” – viene picchiata in pubblica piazza al cospetto di tutti gli uomini. Quegli stessi uomini che le facevano la corte, che facevano a gara per accenderle la sigaretta, che abusavano della sua dignità.

Chiave del film è il momento in cui la donna, malmenata, si rivolge agli omuncoli che erano rimasti a guardarla con ripugnanza. Nessuno di loro si fa avanti per offrire una mano a lei che striscia e cerca aiuto. Anche Renato, profondamente innamorato di lei, rimane a guardare come paralizzato. Ed allora un urlo: tutto il dolore accumulato negli anni, la rabbia, la depressione. Un urlo che mira a risvegliare le coscienze, non solo quelle della folla indisturbata, ma anche degli spettatori.

“Voi che mi avete derisa ed usata per il vostro intrattenimento, vedete come mi avete ridotta? Siete soddisfatti?”: suona così, tradotta in parole, la mia mia interpretazione della scena.

Ed ho capito anche che Tornatore ha svolto un lavoro incredibile nel momento in cui, anche solo per un secondo, mi sono sentita parte di quelle Erinni.

La cruda realtà

Malèna è un film che, nel suo asettico silenzio, parla di una morte spirituale con lucidità e cinismo e ci fa realizzare come siamo tutti aguzzini: lo siamo ogni volta che ignoriamo il grido d’aiuto di una persona bisognosa e lo siamo ancor di più quando giustifichiamo le violenze con la “disinvoltura dei costumi”.

Se da un lato è vero che la donna aveva effettivamente abbracciato la vita che non meritava, dall’altro dobbiamo renderci conto che tale scelta è stata spinta da un climax di sciagure di cui è la vittima inerme, inserita nella scena col solo fine di dimostrare quali livelli paradossali di malvagità si possano raggiungere.  E la strepitosa Bellucci impersona Malèna con preoccupante naturalezza.

Fonte: cineturismo.it

D’altro canto le rimane solo un ragazzino. Un ragazzino un po’ codardo, sì, ma che dal proprio errore (non aver prestato soccorso alla donna che, per due ore di film, ci ha ribadito di amare) ha attraversato un percorso di maturazione, mentre il resto delle grottesche figure tornerà a ricoprire, a fine film, il ruolo che aveva all’inizio, come se la vicenda si svolgesse dentro un carillon destinato a ripartire ogni volta che se ne gira la manovella.

Tutti tornano al loro posto, compresa Malèna (che a quel principio non è poi così estranea), ma non Renato. Lui, sin dal primo momento una voce fuori dal coro, si distinguerà per essere stato l’unico di quel paesello disgraziato ad aver conosciuto gli effetti devastanti della passione amorosa. Una passione che rimarrà impressa a vita, racchiusa in un nome maledetto ed abusato, ma che nei pensieri del ragazzo sarà sempre sinonimo di “amore”: Malèna.

Valeria Bonaccorso

Una vita meravigliosa pur partendo da un forte dolore: Lucio Presta, un uomo “Nato con la camicia”

Giovedì 28 marzo 2019. Ore 16.30.  Piazza Pugliatti. Rettorato. Accademia Peloritana dei Pericolanti. Lucio Presta, agente e produttore dello spettacolo, ha presentato il suo nuovo libro dal titolo “Nato con la camicia”. Libro dai forti tratti autobiografici, scritto in collaborazione con la cugina, nonché coautrice: Annamaria Matera. La storia di Lucio Presta è quella di un’Italia che ci piace raccontare e conoscere – cita il Magnifico Rettore prof. Salvatore Cuzzocreaun uomo del Sud che inizia la sua storia parlando di un momento difficile, che, nel corso della sua vita, ha comunque contribuito a rendere forte il legame con la sua terra. L’iniziativa è stata organizzata nell’ambito delle attività del Corso di Laurea triennale in Scienze dell’Informazione: Comunicazione pubblica e Tecniche giornalistiche, ed ha coinvolto anche alcuni studenti del DAMS.

©SofiaCampagna (incontro con Lucio Presta), Accademia Dei Pericolanti – Messina, Marzo 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©SofiaCampagna (incontro con Lucio Presta), Accademia Dei Pericolanti – Messina, Marzo 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’autore, orfano di madre sin dalla nascita, ha scritto questo libro spinto dal desiderio fortissimo di raccontare una persona così diversa da quella percepita dall’opinione pubblica e da quello che è il suo mondo lavorativo e non. Come lui stesso ha dichiarato durante l’incontro:

Lo dovevo ai mie figli. Volevo che i miei figli conoscessero da dove sono partito e com’ero arrivato a loro. Sono partito dalla curiosità di conoscere cosa fosse successo la notte della mia nascita, cioè cose terribili e straordinarie nello stesso tempo, che mi hanno regalato una vita meravigliosa pur partendo da un forte dolore. Poter condividere con gli altri la possibilità di dimostrare che da un dolore può nascere una storia bellissima era davvero necessario; potevo raccontarlo solo in prima persona.

©SofiaCampagna (incontro con Lucio Presta), Accademia Dei Pericolanti – Messina, Marzo 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nero su bianco viene descritta la perdita della figura materna, nel giorno della sua nascita, tra la notte del 13 e 14 febbraio 1960, la scoperta di un fratello sconosciuto, il difficile rapporto con il padre, la zia che lo ha cresciuto come un figlio, la morte della prima moglie, madre della sua prole. Le donne della sua vita, capaci di comprendere che dietro al professionista inflessibile si celava un uomo fragile che non ha mai realizzato il sogno di ricevere il bacio tanto desiderato della madre. Un viaggio nel tempo, uno sfogo per narrare a penna ciò che non è in alcun modo facile spiegare a parole, una storia privata, intima, fatta di momenti felici ed episodi drammatici, sicuramente saturi di significato che lo hanno portato ad essere un uomo “nato con la camicia”. Da qui il titolo del “diario-romanzo” edito da Mondadori Electra. Nelle sue parole è presente il sud, ha un forte senso di appartenenza: cosentino di nascita e di madre di origini messinesi. C’è un amore viscerale per quella terra che è l’unico luogo in cui si sente davvero sicuro. Emozioni, esperienze, sensibilità che non riescono ad essere contenute.

Quasi due ore di dialogo in cui il brillante manager si è messo a nudo e ha portato alla luce una storia tanto triste quanto bella. All’incontro erano presenti oltre al Magnifico Rettore, prof. Salvatore Cuzzocrea, il Direttore del Dipartimento DICAM, prof. Giuseppe Giordano, ed il prof. Marco Centorrino, docente di Sociologia della Comunicazione.

 Gabriella Parasiliti Collazzo

Emilio Isgrò, presenta il suo libro Autocurriculum.

Ieri sera, alle ore 21 presso il Circolo delle Lucertole di Barcellona Pg, si è svolta la presentazione del libro di Emilio Isgrò, dal titolo Autocurriculum.

Emilio Isgrò, conosciuto maggiormente per le opere delle “cancellature”, è uomo di cultura, poliedrico, artista, scrittore e regista. Ha partecipato a diverse edizioni della Biennale di Venezia, oggi vive e lavora a Milano. E’ uno dei nomi dell’arte italiana più prestigiosi a livello internazionale.

 

Introdotto da Marco Bazzini e Matteo Reale che accennano alla biografia dell’autore, incentrando il discorso sul testo, “Autocurriculum” ovvero il lavoro creato da sé.

Nel libro presenti diversi episodi simpatici dove si raccontano gli anni di formazione in Sicilia, e poi il trasferimento a Milano.

Barcellonese di nascita, città alla quale ha donato l’opera del seme d’arancia, che è divenuto simbolo di questa. Tornato a casa, ci accoglie mangiando delle more di gelso. Nomina tutti i conoscenti e amici venuto a trovarlo per la presentazione, raccontando piccoli aneddoti della sua vita.
Fin dall’inizio si mostra come una persona di grande umiltà.
Uomo colto e abile oratore, accenna al luogo in cui ci si trova, non sempre incline ad attività culturali che purtroppo scarseggiano.

Racconta di aver viaggiato molto, della sua vita, si auto definisce un privilegiato, molto riconoscente al padre, amante dei libri e della musica, che l’ha indottrinato verso gli studi migliori.
Al contrario del padre, lui stesso non si considera uno studioso, anzi da giovane si comportava in modo svagato per questo lo definivano “il poeta”.
Artista che ha vissuto negli anni della pop art in America, pre-concettuale sempre avanti rispetto agli altri, non ha mai voluto essere riconosciuto in uno stile.

In copertina del libro si legge “che è il direttore della società unico per raccomandare di non fare”. Ne accenna l’autore mentre sta per concludere il discorso sul suo libro, parlando dell’importanza dell’individualità e sull’essere originali.

Parla dell’omologazione della massa, della necessità di riconoscere la diversità accettandola come tale e facendone un punto di forza.
Ma cosa più importante, del bisogno di diffondere la cultura, ovvero l’antidoto a tutte le guerre.

 

Articolo e foto Marina Fulco

Resto al Sud: come uscire dalla crisi delle crisi

É da tempo sulle pagine dei quotidiani, nei servizi televisivi ed in cima ai programmi elettorali dei nostri cari politici. É invisibile, ma i suoi effetti si vedono eccome. É silenziosa, ma causa crolli e cadute di colossi che fanno rumor(e). Conviviamo con essa da anni, un malessere generale riassumibile con due parole: la crisi. Quando si parla di crisi si sottende necessariamente quella economica che dal 2008 sino ad oggi ha causato un esponenziale incremento del tasso di disoccupazione, del livello di povertà e dell’indebitamento. Oltre a causare falde finanziarie non rimarginabili, fatto saltare posti di lavoro, aziende ed imprese, aumentando la pressione fiscale, la crisi ha causato esiti negativi per quanto riguarda la psiche dell’individuo. Alla crisi economica si affianca quella della psiche. Le conseguenze di questa commistione di crisi sono: depressione,  insoddisfazione e smarrimento. Ci si sente fuori luogo, inadeguati. E si emigra in cerca di fortuna. Eppure una soluzione a tutto questo c’è, ed é il lavoro.

Secondo il Briefing Document for the National Governors Association possedere un’occupazione rappresenta un fattore rilevante che segna la routine quotidiana, fornisce obiettivi significativi, aumenta le finanze individuali e familiari allontanando il rischio di povertà. Ottenere un impiego è anche correlato con l’aumento del benessere personale, la “self efficacy”, il miglioramento della gestione delle relazioni ;rappresenta inoltre, un’opportunità di instaurare amicizie, ottenere supporto sociale e contribuisce a definire se stessi come lavoratori. Dunque avere un lavoro rende liberi, indipendenti, e ci si scrolla di dosso tutte quelle preoccupazioni sopraindicate. Il lavoro é la soluzione! Ma qualcuno potrebbe anche dire: <<Scusa giovane – mi domanda un qualsiasi abitante del Meridione – qui al Sud “non c’è nenti”, in più c’è la crisi, chi ce lo dà il lavoro?>>.

Di certo il nostro conterraneo non ha tutti I torti. Il lavoro non cade dal cielo, ma su una cosa sbaglia di grosso. Al Sud, c’é molto più di niente. Migliaia e migliaia di risorse inutilizzate o in mano ad individui che voglion tutto fuorché il bene della nostra terra. C’è bisogno di arrotolarsi le maniche, cambiare ciò che manda a rotoli il nostro paese, estirpare quella “mala pianta”. Ed un’opportunità ci viene data proprio da quelle istituzioni che spesso e volentieri latitano da queste parti. “Resto al Sud”, un bando istituito dal decreto Mezzogiorno n. 91-2017 a sostegno dell’autoimprenditorialità giovanile. Invitalia ha attuato un nuovo regime di aiuto per incoraggiare la costituzione di nuove imprese nelle Regioni meno sviluppate e in transizione, cioè Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, da parte di giovani imprenditori.

Le richieste di agevolazioni possono essere presentate dai soggetti di età compresa tra i 18 e i 35 anni che siano in possesso, al momento della presentazione della domanda, dei seguenti requisiti: che siano residenti in una delle regioni sopraindicate;  e che non risultino già titolari di attività di impresa in esercizio alla data del 21 giugno 2017!

Le risorse disponibili stanziate sono pari a un miliardo e 250 milioni di euro ed i finanziamenti sono concessi fino ad un massimo di 50mila euro, o di 50mila euro per ciascun socio nel caso in cui l’istanza sia presentata da più soggetti già costituiti o che intendano costituirsi in forma societaria, fino ad un ammontare massimo complessivo di 200mila euro.

Il finanziamento è così articolato: 35% come contributo a fondo perduto erogato dal Soggetto gestore; 65% sotto forma di finanziamento bancario, concesso da istituti di credito in base alle modalità ed alle condizioni economiche definite dalla Convenzione. Dunque il finanziamento bancario deve essere rimborsato entro otto anni dall’erogazione del finanziamento, di cui i primi due anni di pre-ammortamento.

I settori nei quali le aziende si possono specializzare sono: industria, turismo, costruzione, audiovisivo, ICT, servizi, trasporti, energia, sanità, cultura, farmaceutico ed alimentare.

Dallo scorso 15 gennaio é possibile inviare la propria idea di azienda. Circa 6 mila le domande presentate e quasi 900 i progetti già presi in analisi da Invitalia. Se dovessero andare in porto questi progetti, momentaneamente si stima un incremento del lavoro di circa 4 mila posti, con un investimento pari a 55 milioni di euro. Le regioni con maggior numero di domande presentate sono: Campania(49,3%) , Sicilia (15,8%) e Calabria (13,2%).

Il settore turistico-culturale è il più rappresentato con quasi il 43% dei progetti, al secondo posto le attività manifatturiere (27%), quindi i servizi alla persona (13%). Il 37% dei proponenti si colloca nella fascia d’età 30-35 anni e il 38% di essi ha un elevato livello di istruzione (laurea, master, dottorato di ricerca). Significativa la quota di under 25, che arrivano al 32% del totale.

Un vero e proprio incentivo del governo per sviluppare economia e lavoro nel meridione limitando la famigerata fuga di cervelli. Il sud c’è , e risponde a gran voce presente. “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’.” Questo era Albert Einstein, il quale tirando le somme, e non era molto bravo a farlo, ci fa capire a noi terroni che la crisi tra le crisi, la più grande e la più difficile da combattere é la questione meridionale. Ed esiste dall’unità d’Italia, non dal 2008. Dopo un secolo e mezzo non si può più far finta di niente, dobbiamo mettere in crisi i meccanicismi mafiosi e classisti che ci hanno portato a questo punto. Dobbiamo restare. Dobbiamo tornare. Solo così avverrà la crisi delle crisi.  

Vincenzo Francesco Romeo

 

 

 

 

                                                                                                                

“Quer pasticciaccio brutto” del quartiere Avignone

Ha scosso l’opinione pubblica la notizia, risalente ormai dadiversi giorni fa, della demolizione di un palazzo residenziale risalente circa al finire del ‘700, situato nei pressi della via Cesare Battisti, in quello che, nella toponomastica della città pre-terremoto, era il Quartiere Avignone. Questo antico quartiere, conosciuto nell’800 come uno dei più poveri e disagiati della città di Messina (non a caso punto di partenza della predicazione e delle opere caritatevoli di padre Annibale Maria di Francia), pare essere destinato periodicamente a tornare al centro di controversie accanite: e di fatto, la notizia di cui sopra ha aperto un autentico vaso di Pandora, scatenando tante e tali reazioni confuse e confusionarie da creare un inestricabile groviglio, un “pasticciaccio brutto” degno forse della penna di Carlo Emilio Gadda (da cui l’improvvida citazione del titolo, della quale ci scusiamo col defunto scrittore), e nel quale risulta difficile fare chiarezza.

Ci proviamo, senza nessuna pretesa, solo per dare l’idea ai lettori meno informati. Nel primo pomeriggio dell’8 gennaio, le ruspe entrano in azione distruggendo ciò che resta del palazzo; vengono interrotte successivamente dall’intervento della polizia municipale. Alcune ore dopo, l’Assessore all’Urbanistica De Cola comunica, in una nota, le sue perplessità circa l’accaduto: le demolizioni sarebbero state infatti intraprese senza che il Comune di Messina le avesse autorizzate, come testimoniato dall’assenza, sul sito dei lavori, del regolare cartello. Interviene anche la Soprintendenza, disponendo il blocco dei lavori che sarebbero avvenuti senza che ne fosse data comunicazione. Dulcis in fundo, il giorno successivo arrivano le caustiche dichiarazioni del neoassessore regionale Vittorio Sgarbi, il quale tuona, dall’alto della sua autorità, di aver “cacciato” il soprintendente di Messina, reo di non aver vincolato il palazzo in questione. Da precisare che il soprintendente non è stato cacciato (né del resto sarebbe possibile, in così poco tempo),e che lo stesso Sgarbi ha successivamente corretto il tiro dicendo che non c’è stata nessuna rimozione dall’incarico per il funzionario, e che sarebbero invece stati inviati degli ispettori per indagare sull’accaduto.

 

Va anche specificato a scopo di chiarezza che il palazzo in questione è da tempo al centro di una
disputa giudiziaria, che vede coinvolti da un lato i proprietari dell’immobile e dall’altro quelli dei
terreni circostanti, per cui la sua demolizione sarebbe già stata disposta dai magistrati per
questioni di sicurezza.
Pare oltretutto che la demolizione in questione fosse tutt’altro che una sorpresa: era stata
preventivata già nel 2013 da una ditta edilizia messinese, che avrebbe dovuto costruire, al posto
dell’edificio storico, un grande palazzo a 22 piani (comprendente tra l’altro nel progetto una
ricostruzione per anastilosi della facciata originale).

Tali lavori sarebbero stati regolarmente autorizzati dalla Soprintendenza (!), a patto appunto di
preservare la facciata originale e di effettuare la debita comunicazione per tempo all’inizio delle
demolizioni: cosa, quest’ultima, che pare non essere avvenuta giorno 8, da cui il blocco dei lavori.
Da precisare oltretutto che i lavori sono stati approvati da un Soprintendente diverso da quello
attuale, il che rende dunque la boutade di Sgarbi del tutto inopportuna. Il progetto in questione,
approvato come già detto dalla Soprintendenza nel 2013, aveva trovato l’opposizione della
passata amministrazione comunale; la ditta aveva quindi fatto ricorso al TAR lo stesso anno, ma il
Comune non si era presentato.

Alla luce dei fatti dunque, la questione della demolizione, priva di quel carattere di “scandalo” che
tanta stampa locale non ha esitato a darle, diventa dunque una sorta di disastro annunciato,
assistito e passivamente lasciato accadere; e i suoi risvolti si colorano di tinte quasi grottesche, da
teatro dell’assurdo.
Ma se all’assurdità lo spettatore della cronaca messinese dovrebbe forse (purtroppo) essere
abituato, quella che colpisce è l’ipocrisia malcelata dei tanti indignati della prima ora: gente che
fino al giorno prima probabilmente ignorava addirittura l’esistenza di questo piccolo angolo di
Messina storica che è andato in polvere, gente che non ha mosso né fatto muovere un dito per la sua valorizzazione o il suo restauro (e lo testimoniano le condizioni di totale abbandono in cui
l’immobile versava prima della demolizione), adesso è in prima fila a strapparsi le vesti e piangere
sul latte versato.

Tutti pronti ad ergersi a paladini del patrimonio culturale messinese, ma solo
quando si tratta di lamentarne la perdita; quando si tratta di conservarlo, difenderlo, farlo
conoscere, rivendicarne l’appartenenza a nome dell’intera comunità messinese, al solito nessuno
si presenta. E se John Lennon cantava, in una sua canzone, che “tutti ti amano, quando sei sei
piedi sotto terra”, allora è forse vero che a Messina bisogna attendere che la Storia muoia, prima di
trovare qualcuno che la ami.

Gianpaolo Basile