Un patto tra la Cina e le Isole Salomone preoccupa gli Stati che si affacciano sul Pacifico

Negli ultimi anni tra Pechino e Honiara vi è stato un avvicinamento consolidatosi ora dalla scelta delle Isole Salomone di stabilire relazioni diplomatiche ufficiali con la Cina, interrompendo quelle con Taiwan. Il governo delle Isole Salomone ha più volte smentito, ma, martedì 19 aprile, è stato siglato un patto con la Cina, che verrà ratificato nel mese di maggio. L’accordo prevede la creazione di una base cinese nel piccolo Stato per motivi di sicurezza.

I ministri degli Esteri cinese e delle Isole Salomone (fonte: zazoom.it)

Molti abitanti delle isole contrari all’avvicinamento a Pechino

Alla fine del 2021, negozi di proprietà cinese a Honiara, la capitale delle Isole, erano stati vandalizzati e bruciati, mentre cresceva già concretamente l’influenza cinese e un conseguente malcontento tra la popolazione locale.

Lo scorso novembre vi sono state anche delle vere e proprie rivolte, durate tre giorni, che coinvolsero circa 800mila abitanti, contrari all’avvicinamento alla Cina: oltre alla rabbia nei confronti del governo dovuta alle difficoltà economiche aggravate dalla pandemia, vi è la storica rivalità tra gli abitanti dell’isola più popolosa del Paese, Malaita, e quelli di Guadalcanal, dove si trova la capitale amministrativa.

Viste le tensioni, il governo locale chiese successivamente aiuto all’Australia, ma anche a Fiji, Papua Nuova Guinea e Nuova Zelanda, le quali schierarono delle forze di pace. Poi, però, il mese scorso, è trapelata la notizia di una bozza dell’accordo ora raggiunto, a distanza di soli quattro mesi dalle sommosse.

Dunque, molti cittadini sono stati sin dall’inizio contrari alla scelta del primo ministro di stringere legami più stretti con Pechino, dopo aver bruscamente interrotto le relazioni di lunga data con Taiwan. Sembra, così, una scelta non condivisa da molti e più basata su un interesse specifico della capitale Honiara.

Prima di tale firma, la Cina ha combattuto diplomaticamente contro l’opposizione dell’Australia, distante 1500 km dall’arcipelago, e degli Usa. Canberra e Washington avevano provato a ostacolare l’accordo, ma senza successo. La preoccupazione nella scena internazionale scaturisce per la conseguente militarizzazione di un’area per molto tempo innocua al livello delle rivalità mondiali.

Più che un accordo per la sicurezza?

«I ministri degli esteri della Cina e delle Isole Salomone hanno recentemente firmato un accordo quadro sulla cooperazione in materia di sicurezza» ha dichiarato martedì scorso un diplomatico cinese, Wang Wenbin, alla stampa.

Ha definito questa che è stata siglata “una normale cooperazione tra due Paesi sovrani e indipendenti“, aggiungendo che l’accordo sosterrà la “stabilità a lungo termine” delle Isole Salomone.

Il diplomatico cinese Wang Wenbin (fonte: globaltimes.cn)

Le Isole non sono nuove, effettivamente, a momenti di instabilità, avuti in diverse occasioni, per motivi socio-economici e migratori, avuti soprattutto tra il 1998 ed il 2000. A un certo punto, è stato necessario richiedere la presenza di una Missione di Assistenza Regionale (Ramsi), che fu guidata proprio dall’Australia, per ben sedici anni, tra il 2003 ed il 2019.

Però, pare inevitabile notare che l’interesse della Cina sull’arcipelago vada ben oltre che la semplice assistenza nel raggiungimento di una sicurezza e stabilità interna maggiori. Proprio successivamente ai rapporti tra Taiwan e Isole Salomone, la Cina ha iniziato a potenziare i rapporti economici con quest’ultime, aumentando investimenti e coinvolgendole nei progetti legati alla Nuova Via della Seta.

Da alcune analisi, è evidente il dominio cinese ormai sostanzioso in tutti i settori dell’economia delle Isole e della crescente influenza anche sul governo. Inoltre, la Cina reputa indispensabili questi investimenti per dare uno scossone alla propria ripresa dalla pandemia da Covid.

La preoccupazione degli altri Stati

Non deve sorprendere il forte impegno a dissuadere Honiara a formalizzare il patto con Pechino. Esiste, infatti, un’alleanza strategica informale tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti, detta “Quad” nata con lo scopo di arginare l’espansionismo cinese nella regione dell’Asia-Pacifico.

Nelle ultime settimane, l’Australia e gli Stati Uniti avevano infatti intensificato gli sforzi diplomatici per dissuadere le Isole Salomone dall’avvicinarsi alla Cina:

«Crediamo che la firma di un tale accordo rischierebbe di aumentare la destabilizzazione nelle Isole Salomone e di creare un precedente preoccupante per tutta la regione delle isole del Pacifico» ha detto lunedì scorso il diplomatico statunitense Ned Price.

L’amministrazione Biden e il governo australiano avevano anche provato a far qualcosa mobilitando figure politiche e diplomatiche di spicco, senza che ciò abbia portato a risultati. Si era unito al malcontento il primo ministro neozelandese, Jacinda Ardern, che aveva affermato non essere necessario un accordo per la sicurezza delle Isole Salomone, dichiarandosi quindi preoccupata per la conseguente militarizzazione del Pacifico che ne deriva.

Gli Stati Uniti, a febbraio, avevano annunciato la riapertura di un’ambasciata nelle Isole Salomone dopo ventinove anni di non rapporti.

Ora, come ribadito dal consigliere per la sicurezza Jake Sullivan, gli Usa faranno molta attenzione erisponderanno di conseguenza” a un eventuale installazione permanente di una presenza militare “de facto” cinese nelle Isole. Questa la linea che vuole intraprendere la Casa Bianca, resa nota dopo che una delegazione statunitense si è recata nell’arcipelago del Pacifico, per incontrarne il primo ministro.

Già nel 2018, la stampa australiana aveva rivelato a un possibile interesse della Cina a costruire una base militare nelle Isole Vanuato, situate a 1500 miglia dalla costa nord-orientale dell’Australia, in un’area a lungo ritenuta immune alle rivalità tra grandi potenze, anche se la notizia poi non ebbe immediatamente seguito.

Bisogna, inoltre, ricordare un dettaglio assolutamente non trascurabile: la Cina si oppone a qualsiasi riconoscimento dell’identità indipendente di Taiwan, ritenendola parte del proprio territorio. Ora dovrebbe risultare più chiaro il motivo della preoccupazione per questo patto. La “guerra diplomatica” per la supremazia nel Pacifico è già in atto e prevede mosse e contromosse da parte dei contendenti.

 

 

Rita Bonaccurso

L’Ucraina accusa la Russia del massacro di Bucha e avverte: “Russia muove truppe in Transnistria”

Il 40esimo giorno di guerra tra Russia e Ucraina si apre con la lunga scia di sangue lasciata dal passaggio delle truppe russe, prontamente smentita dal Ministero della Difesa russo, ma confermata dai video e dalle fotografie che testimoniano le atrocità avvenute nella cittadina ucraina di Bucha, palcoscenico di un massacro ai danni di decine di civili freddati dai soldati russi di stanza nella città a 37 km a nord ovest di Kiev fino allo scorso venerdì. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si è detta “scioccatadai resoconti del massacro, poi ha richiesto un’indagine indipendente per approfondire e sostenendo che” chi ha perpetrato crimini di guerra sarà ritenuto responsabile”. Nelle ultime ore si è tornati a parlare della Transnistria per via di un’indiscrezione diffusa dallo Stato maggiore ucraino e riportata da Ukrainska Pravda. Secondo Kiev

“è stato intensificato il lavoro per mobilitare unità di truppe russe con sede nel territorio della regione transnistriana della Repubblica di Moldova al fine di condurre provocazioni e svolgere azioni dimostrative al confine con l’Ucraina”

Le accuse dell’Ucraina 

Nella giornata di domenica, le autorità ucraine e diversi leader europei hanno accusato l’esercito russo di aver massacrato decine di civili a Bucha, a nord ovest di Kiev, durante le cinque settimane di occupazione. Come ha riferito il sindaco di Bucha ad AFP, Anatoly Fedoruk, l’esercito russo ha seppellito 280 persone in fosse comuni, dichiarazione confermata dalle testimonianze dei giornalisti internazionali che negli ultimi due giorni sono riusciti ad entrare a Bucha. Secondo quanto riportato dai corrispondenti, le vie della città sarebbero ricoperte di corpi in decomposizione e di una gigantesca fossa comune scavata nel giardino della chiesa ortodossa della cittadina. Come riporta ilPost, gli abitanti di Bucha raccontano che le violenze e le esecuzioni sommarie sono iniziate già nei primi giorni di occupazione russa.

Soldati ucraini e mezzi militari russi distrutti a Bucha (fonte: ilpost.it)

Le testimonianze dei giornalisti 

Oliver Carroll, corrispondente dell’Economist ha raccontato di avere visto diversi corpi all’ingresso della città. Il New York Times ha raccontato di una donna uccisa con colpi di arma da fuoco durante il primo giorno di occupazione semplicemente perché era scesa in giardino a controllare se i carri armati in giro per la città fossero ucraini o russi. Ancora l’Economist scrive:

“Nove corpi giacciono a lato di un cantiere, altri due nella strada che collega Bucha a Irpin. Tutti avevano fori di ingresso di proiettili nella testa o sul petto, oppure su entrambi. Almeno due di loro avevano le mani legate dietro la schiena. Dall’odore dei corpi in decomposizione, si trovano lì da un bel po’ di tempo”

Il ministero della difesa russo respinge le accuse 

Di tutt’altro avviso è l’ambasciatore russo a Washington, Anatoly Antonov che, stando a quanto riporta la Tass, in risposta ad una domanda formulata da “Newsweekha negato categoricamente il coinvolgimento delle truppe russe nel massacro di Bucha, sostenendo che “non sono state segnalate vittime civili nella città ucraina di Bucha quando era controllata dalle forze armate russe“. Discolpando il proprio Paese ha poi rivolto l’attenzione sul comportamento degli Stati Uniti e dei media americani, accusandoli di aver “ignorato i bombardamenti della città da parte dell’esercito ucraino, che sono seguiti al ritiro delle truppe russe“. L’ambasciatore ha poi aggiunto:

“Questo è ciò che potrebbe aver causato vittime civili. Detto questo, il regime di Kiev sta chiaramente cercando di addossare le sue atrocità sulla Russia”.

 

La Russia chiede una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite

La Russia avrebbe avanzato la richiesta di una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, da svolgersi nella giornata di oggi, lunedì 4 aprile, sulle accuse di crimini di guerra di Bucha. Secondo quanto riporta la BBC, Dmitry Polyansky, vice rappresentante russo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha affermato di aver avanzato la richiesta “alla luce della palese provocazione dei radicali ucraini“. Samantha Power, ex ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, ha così commentato la richiesta della Russia: “La Russia sta attingendo dallo stesso copione che ha già usato per la Crimea e Aleppoed è “costretta a difendere l’indifendibile”. Per questo sta chiedendo una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in modo da poter fingere indignazione e chiederne le responsabilità”.

La mobilitazione in Transnistria

La Transnistria, repubblica indipendente filorussa, al momento ha il solo riconoscimento della Federazione Russa. Considerata la “terra di nessuno” e situata al confine tra l’Ucraina occidentale e la Moldova, “ospita” circa 1.500 soldati russi, ma “non ci sono informazioni che confermino la mobilitazione delle truppe in Transnistria” si legge in una nota. Secondo quanto riporta il Financial Times, anche le autorità della Transnistria hanno negato questo scenario definendo le informazioni diffuse da Kiev “assolutamente false”.

Secondo quanto denuncia lo stato maggiore ucraino, un eventuale intervento via mare nel Budjak colpirebbe una zona adiacente alla Transnistria invierebbe un segnale molto più aggressivo sia nei confronti dell’Europa che della Nato.

Elidia Trifirò 

No alla teoria della sindrome dell’alienazione parentale nei tribunali. La svolta arrivata nel caso Massaro

Nell’ambito di una causa molto complicata, arriva una svolta epocale. Laura Massaro, protagonista della vicenda, è una donna che da nove anni lotta contro l’ex compagno, da lei denunciato per stalking.

La difesa di quest’ultimo ha accusato la donna di aver provocato nel figlio in comune un forte risentimento nei confronti del padre e, dunque, la sindrome da alienazione genitoriale.

Da molto tempo, la suddetta sindrome, è al centro della polemica per essere considerata non una vera malattia, perché priva di reale riscontro scientifico. Con il caso Massaro, la Corte di Cassazione, ha definito “pseudoscientifica” la controversa teoria che descrive l’allontanamento di un figlio da un genitore ad opera dell’altro.

Laura Massaro riabbraccia suo figlio dopo un allontanamento forzato (fonte: zazoom.it)

Il caso Massaro

Laura Massaro ha iniziato il suo calvario con la denuncia per stalking al suo ex compagno, nonché padre del minore. Negli anni, ha cercato di sostenere la sua battaglia con denunce pubbliche, scioperi della fame e proteste davanti tribunali. Molte associazioni e movimenti femministi hanno iniziato a supportarla e del suo caso si sono poi occupate anche diverse parlamentari.

Il 16 marzo 2022 durante l’audizione in tribunale di G.A., l’ex compagno, e dei suoi difensori dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono i minori, è stato riscontrato che la realtà dei fatti non corrispondeva alle dichiarazioni rese.

Tre consulenze tecniche d’ufficio, ora imputate per falso ideologico in atto pubblico, fatte alla signora Massaro negli anni, hanno fatto decidere al Tribunale per i minori di Roma l’affidamento del minore al Tutore il 05/07/2019 e il primo di allontanamento l’11/10/2019.

Il padre, comunque, aveva sempre esercitato il suo diritto di visita al figlio attraverso incontri protetti presso i servizi incaricati.

Ma, per ristabilire un rapporto che la controparte ha definito minato da ingiusti comportamenti di Laura Massaro, il Tribunale per i minorenni di Roma e la Corte di Appello di Roma, nel 2021, hanno deciso l’allontanamento del bambino, ormai di dodici anni, dalla madre, con collocamento del minore in casa-famiglia. La decisione è stata presa, nonostante la madre sia stata ritenuta da diversi operatori psico-sociali intervenuti negli anni sempre idonea, sotto il profilo della cura e dell’accudimento del figlio.

Lo spostamento in casa-famiglia è stato considerato ripetutamente contrario all’interesse del minore dalla Corte di appello di Roma nel 2015, dal Tribunale per i Minorenni di Roma nel 2018 e ancora dalla Corte di Appello di Roma nel 2020, quando questa ha revocato il provvedimento di allontanamento, evidenziando il pericolo di un trauma grave nei confronti del minore, l’inadeguatezza della situazione socio-ambientale del padre e il grave rischio per la salute del minore, giudicato iperteso.

Anche i medici che hanno visitato il minore, tra cui quelli interpellati direttamente dai Servizi Sociali, hanno espresso grandissima preoccupazione per le conseguenze sulla salute del bambino.

Nonostante ciò, la misura è stata nuovamente disposta e addirittura aggravata con l’interruzione di ogni contatto tra il bambino e la madre, anche telefonico, senza alcun limite temporale per il termine di tali misure afflittive.

 

Il ricorso alla Cassazione contro il provvedimento di allontanamento dalla madre

Così Laura Massaro ha fatto ricorso in Cassazione, richiedendo la sospensione dell’esecuzione del provvedimento. Il minore ha persino scritto personalmente una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, raccontando la sua disperazione per essere stato allontanato, anche con la forza, dalla madre e per non essere stato ascoltato dalla Corte di Appello prima della decisione.

Nonostante siano state riscontrate violazioni di legge da parte delle autorità giudiziarie di merito, l’assenza di comportamenti inadeguati da parte di Laura Massaro nel suo ruolo di genitore e la “compressione della libertà” del minore, la Procura Generale presso la Corte di Appello di Roma, prima favorevole alla sospensione del provvedimento, in data 12 novembre 2021 è stato comunicato provvedimento di rigetto della richiesta di sospensione dell’esecuzione dell’allontanamento del minore dalla madre contro la sua volontà.

L’allontanamento del minore avvenuto senza che questo fosse prima ascoltato (fonte: huffingtonpost.it)

La Cassazione ha ora accolto il ricorso della donna e dai suoi legali, messi a disposizione dall’associazione Differenza Donna, annullando la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale e il trasferimento del bambino in casa-famiglia stabiliti in precedenza dalla Corte di Appello.

Il ricorso è stato accolto sulla base di tre motivazioni: l’illegittimità dell’alienazione parentale, la superiorità dell’interesse dei bambini rispetto al diritto alla bigenitorialità e la condanna dell’uso della forza nei confronti dei minori.

 

Il caso posto in sede internazionale

La vicenda della signora Massaro è stata sottoposta alla Commission on the status of women e alla Special Rapporteur ONU contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne, dall’associazione “Differenza Donna”, al suo fianco dal 2017.

In seguito all’aggravarsi dei provvedimenti presi ai danni della donna, il fascicolo processuale è stato segnalato alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne”, all’attenzione di tutte le istituzioni e gli organismi di monitoraggio della tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, al Ministero della Giustizia, in ultimo, alla “Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono i minori”, ma anche al Ministero della Salute.

Proprio a quest’ultimo è stato chiesto la raccomandazione ad assicurare che le autorità giudiziarie minorili espungano dalla loro attività ogni riferimento all’alienazione genitoriale.

 

La teoria della sindrome da alienazione genitoriale e le difficoltà generate in ambito giudiziario

La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (“PAS” in inglese) è un concetto formulato per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner. Lo psichiatra lo descrisse come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minorenni coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori.

Uno dei due genitori, secondo la teoria, viene definito “genitore alienante” qualora cerchi di portare il figlio a provare e dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore, detto “genitore alienato”, fino all’allontanamento, attraverso l’uso di espressioni denigratorie, false accuse e costruzioni di realtà virtuali familiari”.

Per Gardner, affinché si tratti effettivamente di PAS è necessario che rancore e rifiuto da parte del minore non nascano da dati effettivamente reali e oggettivi che riguardano il genitore alienato.

Fin da subito la teoria di Gardner fu molto contestata nel mondo scientifico e accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Perciò, non è riportata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

Comunque, la sindrome è stata finora molto considerata, anche in Italia, nell’ambito di separazioni conflittuali.

La teoria di questo disturbo è divenuta spesso un problema, soprattutto nelle situazioni in cui fossero presenti casi di violenza, come quello di Laura Massaro. I sentimenti negativi di figli nei confronti di genitori violenti sono stati spesso addossati a presunti comportamenti scorretti da parte del genitore in realtà vittima.

La presidente e avvocato di Differenza Donna, Elisa Ercoli ha commentato l’avvenimento:

“Così come è stato per il no di Franca Viola sul matrimonio riparatore, oggi Laura rappresenta tutte le donne per un no definitivo a violenza istituzionale agita contro donne, bambine e bambini, in materia di Pas, prelievi forzati e altre forme di violazione dei diritti umani. Quando la storia è segnata da progressi come oggi, vinciamo tutte”.

 

Rita Bonaccurso

Zelensky in video-collegamento con Palazzo Chigi, ma non tutti sono presenti

Ospitato nelle scorse settimane, tramite collegamento video, al Parlamento Europeo, a Berlino, Londra, Washington, Ottawa e Gerusalemme, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky è atteso oggi a Palazzo Chigi. Un viaggio virtuale per il mondo, iniziato il 1° marzo, per chiedere aiuti per il suo Paese, dilaniato dal conflitto con la Russia.

 

Zelensky in collegamento con il Parlamento tedesco qualche giorno fa (fonte: evenpolitics.com)

Le polemiche e gli assenti

L’incontro con il Parlamento italiano è stato preceduto dalla polemica. Alcuni parlamentari, nelle scorse ore, avevano annunciato la loro assenza al Parlamento stamattina, in segno di protesta contro il premier Draghi, accusandolo di non essersi confrontato con il governo prima di prendere la decisione di accettare l’incontro:

«Il Parlamento è stato zittito da Draghi. – ha detto il senatore Crucioli – È inaccettabile che non sia previsto un dibattito o una interlocuzione tra i parlamentari, per prendere una risoluzione con voto rispetto a quello che il presidente Zelensky ci dirà. Parlerà solo il presidente del consiglio Draghi nella casa del Parlamento italiano e solo lui potrà tirare le somme ed esprimere la posizione del Paese, senza nessun dibattito democratico.».

Mattia Crucioli, ora nel gruppo di Alternativa, sostiene che, accettare di ascoltare le richieste che Zelensky da tempo fa al mondo, ancora una volta e in questa modalità, equivalga a schierarsi a favore delle scelte, in termini di guerra, dell’Ucraina e dunque contro la Russia, abbandonando una netta neutralità, almeno a livello teorico.

«Noi siamo contro l’invio delle armi, che, oltre ad essere contrario al nostro ordinamento, butta solamente benzina sul fuoco. E oltre alle questioni etiche, la nostra neutralità avrebbe evitato il rischio di una escalation militare e avrebbe permesso alla diplomazia, anche italiana, di fare la sua parte nel velocizzare le trattative per la pace.».

Ricevere il presidente significa, così, secondo alcuni, assecondare la sua linea d’azione, non vista di buon occhio, per le incessanti richieste di intervento nella dinamica della guerra rivolte al resto del mondo, come, ad esempio, con l’istituzione della no fly zone o l’invio di truppe. Se accontentato decreterebbe lo scoppio di una terza guerra mondiale.

L’incontro in agenda è visto, a detta di alcuni, come un “evento mediatico” svilente per il Parlamento, “un comizio tra il presidente Zelensky e Draghi, senza possibilità di interazione alcuna.”

Oltre il gruppo Alternativa, la pensano così, e avevano già dichiarato di aderire all’“ammutinamento” di stamane, il leghista Simone Pillon, Enrica Segneri del M5S, Emanuele Dessì, passato al PD e reduce da una trasferta in Bielorussia, e Gianluigi Paragone, leader di Italexit. Preannunciate anche due assenze tra le file di Forza Italia, quelle di altri parlamentari prima eletti con il Movimento 5 Stelle: Veronica Giannone e di Matteo Dall’Osso.

Quest’ultimo aveva pronunciato parole scottanti: “Sono orientato a non esserci, si dà visibilità solo a una parte. Anche Putin in Aula? Chi lo chiede fa bene”.

Ospitare Zelensky e non ascoltare quello che magari avrebbe da dire Putin, qualora gli venisse fatto e accettasse un invito, sarebbe una via più democratica, a quanto sembra, ascoltando le dichiarazioni di alcuni politici italiani.

Anche il presidente della Camera, Roberto Fico, si è espresso duramente sulla questione, dimostrando anche lui malcontento: l’Italia non dovrebbe affatto inviare armi, di cui il più recente convoglio è partito proprio stamattina dall’aeroporto civile di Pisa, tra altre critiche, per essere stato inserito sotto la dicitura di “aiuti umanitari”. Attenersi strettamente aun ruolo super partes”, promuovendo l’azione della diplomazia e la ricerca della pace immediata, per il presidente è l’unica cosa da fare.

 

Il “tour” per il mondo del presidente ucraino sta abbassando il sentiment nei suoi confronti?

Tutto ciò avviene all’indomani di una drastica svolta al Parlamento Ucraino: dopo la sospensione di 11 partiti e forze parlamentari, che non erano allineati al nazionalismo più oltranzista.

La stretta politica ha dato forza ai sospetti di chi già non apprezzava la linea di difesa di Zelensky, non disposto a ottenere la pace a tutti i costi, non fin quando questa prevedrà la cessione di anche solo una parte dei territori ucraini alla Russia, come proposto da quest’ultima in occasione degli scontri a Mariupol.

Negli scorsi giorni, inoltre, il presidente Ucraino, in collegamento con Gerusalemme, durante il suo intervento ha usato espressioni shock, che hanno scandalizzato molti, soprattutto il presidente israeliano. Ha paragonato quanto sta succedendo in Ucraina alla soluzione finale usata dalla Germania nazista contro il popolo ebreo.

«La nostra gente ora vaga per il mondo. Questa guerra totale vuole distruggere la nostra terra, la nostra cultura, i nostri figli» ha sbraitato Zelensky.

Queste parole non hanno suscitato sentimento positivo, anzi hanno scatenato critiche e proteste a Gerusalemme e Tel Aviv. Il presidente israeliano Naftali Bennett ha, infatti, dichiarato:

«Non credo che l’Olocausto dovrebbe essere paragonato a nessun altro evento. È stato un evento unico nella storia umana, con uno sterminio di un popolo metodico e su scala industriale in camere a gas. Un evento senza precedenti».

Zelensky, alla dura risposta ricevuta, ha controbattuto, dicendo che l’Ucraina scelse di salvare gli ebrei 80 anni fa. “Ora è tempo che Israele faccia la sua scelta“, ha proseguito. Bennett, però, non ci sta a paragonare Putin a Hitler, la guerra in Ucraina alla Shoa, anzi, ha ritenuto il paragone particolarmente oltraggioso.

Il presidente israeliano Bennett non ammette paragoni tra Ucraina e Shoa (fonte: lastampa.it)

Nonostante questo, Zelensky non si arrende, continuando a lottare per la sua causa. La pace a tutti i costi, per ora, non è una scelta contemplata, anche se è stata, nelle ultime ore, avanzata l’ipotesi di indire un referendum tramite il quale avere un riscontro dalla popolazione ucraina sulla linea adottata dal suo governo e quella da adottare in futuro.

 

Rita Bonaccurso

Putin appare in pubblico per le celebrazioni dell’anniversario dell’annessione della Crimea

Nel mezzo del conflitto in Ucraina, in Russia si festeggia l’anniversario dell’annessione della Crimea nel 2014. L’evento, svoltosi ieri 18 marzo, ha subito attirato l’attenzione di tutto il mondo, perché connotato da un forte significato simbolico e per l’improvvisa e strana scomparsa di Vladimir Putin dal palco dal quale ha parlato alla folla. Il presidente russo ha infatti deciso di presenziare all’evento e per questo ha suscitato molto stupore. Dallo scoppio della guerra, quasi non vi sono state affatto apparizioni in pubblico, a parte rarissime eccezioni.

Putin allo stadio per parlare alla gente (fonte: stampa-tuttigiorni.com)

L’evento per le celebrazioni dell’anniversario dell’annessione della Crimea

Mosca, Stadio Luzhniki, 90mila spettatori e il presidente Putin al centro della scena, sul palco su cui poi si sono esibiti musicisti e cantanti per le celebrazioni. Intorno una folla esultante, in ovazione sugli spalti per le parole pronunciate. Numerosissime le bandiere dei nazionalisti sventolate. Nel frattempo, circa 100mila persone all’esterno, almeno secondo quanto raccontato dai media russi.

Una festa dalle sfumature patriottiche per l’importante ricorrenza: l’ottavo anno dalla data di annessione dei territori della Crimea alla Russia.

Queste, immagini completamente diverse da quelle viste nelle scorse settimane, per le strade delle città russe, dove sfilavano in pacifici cortei migliaia di cittadini contrari alla guerra in Ucraina, contrari alle scelte del loro presidente, repressi dalla polizia, e tra questi molti arrestati.

 

Il discorso di Putin: la lode alla Crimea e all’eroismo dei soldati russi

In mezzo allo stadio pieno, un Putin in un giaccone blu da più di un milione di rubli, circa di 13mila euro, di marca italiana. Per tutto lo stadio moltissimi slogan sugli striscioni: “Per un mondo senza nazismo!”, “Per il presidente!“, “Per la Russia!“. Moltissime “Z” sui vestiti di presentatori, musicisti e partecipanti all’evento, perché ormai simbolo importante, già visto sulle divise dei soldati e sulla carrozzeria dei mezzi militari russi, impegnati in Ucraina. Secondo quanto riferito dal ministero della Difesa russo, il segno starebbe per “Za pobedu“, cioè “Per la vittoria”. Inoltre le Z sono state realizzate con un nastrino, uguale a quello indossato ogni 9 maggio, il giorno di San Giorgio, giorno in cui ricorre anche l’anniversario della vittoria della Russia sulla Germania nazista, durante la Seconda guerra mondiale.

Gli slogan a favore della guerra (fonte: notizie.virgilio.it)

Il presidente ha pronunciato un discorso tutt’altro che conciliante: dalla celebrazione dell’anniversario ricorrente, si è, poi, pronunciato sulla situazione in Ucraina:

«Sono gli abitanti della Crimea che hanno fatto la scelta giusta, si sono opposti al nazionalismo e al nazismo, che continua ad esserci nel Donbass, con operazioni punitive verso quella popolazione. Sono stati loro le vittime di attacchi aerei ed è questo che noi chiamiamo genocidio. Evitarlo è l’obiettivo della nostra operazione militare in Ucraina»

Ancora una volta ha parlato di un’“operazione militare speciale lanciata per evitare il genocidio dei russi” nella regione del Donbass per mano del governo ucraino. Ancora una volta ha rivendicato le sue scelte, dimostrando un’ostinatezza inscalfibile: “Sappiamo cosa deve essere fatto e come farlo. E sicuramente attueremo tutti i piani”, ha poi aggiunto. Ha lodato la Crimea per aver voluto tornare a un destino comune alla sua storica patria, bloccando l’avanzata di presunti neonazisti, in nome di un’unità. Appare, dunque, chiaro l’intento dietro il parallelo Crimea-Ucraina.

Poi, anche un riferimento al linguaggio biblico, alzando i toni della sua retorica: “Non c’è amore più grande che donare la propria anima per i propri amici. Questo è un valore universale per tutte le confessioni in Russia e in particolare per il nostro popolo“.

Il discorso di Putin sembra dunque non lasciare dubbi sulle sue attuali intenzioni riguardo l’Ucraina. Un “Paese in mano a un regime neonazista”, che vuole sconfiggereper liberare un popolo che ritiene uguale e parte di quello russo. Abbiamo imparato a capire le convinzioni del presidente russo, con l’evento al “Luzhniki” di Mosca abbiamo capito che non sono cambiate.

Pare riuscire a mantenere il consenso anche di molti cittadini, oltre che di quello di personaggi potenti e facenti parte della sua cerchia politica più stretta, Putin punta tutto sul ricorso al patriottismo e alla lode dell’eroismo del proprio esercito. Di questo ha parlato anche il suo fedele sindaco di Mosca, Sergei Sobyanin, giudicando l’intervento delle forze armate russe in Ucraina, le quali starebbero combattendo per nobili valori, per la difesa di quella fetta di popolazione russofona vessata da “continui bombardamenti aerei” in atto nella regione del Donbass, per mettere fine al “genocidio”. Quindi, è per estinguere queste sofferenze che la Russia avrebbe deciso di attuare ciò che non definisce mai attacco militare.

(fonte: gazzettadelsud.it)

Il presidente russo, chiuso nella sua ostinatezza

Eppure, sembra che l’evento non sia andato realmente come raccontato. Ci sarebbero stati fischi contro Putin e, proprio per questo, la regia avrebbe interrotto il discorso del presidente della Russia con qualche secondo di musica.

È lo scenario delineato da un video pubblicato su Telegram dal canale Ateo Breaking. Secondo la ricostruzione, a fischiare sarebbero stati soprattutto studenti presenti tra il pubblico, contrari alla guerra in Ucraina.

Il Cremlino, invece, ha ufficialmente dichiarato che l’interruzione sia stata dovuta ad un problema tecnico ad un server. In ogni caso, quello che ha generato sospetto sull’accaduto è la scomparsa di Putin dal palco, per poi non tornare più. Alcuni hanno addirittura pensato che il presidente, in realtà, non fosse realmente lì, che il suo intervento sia stato architettato ad hoc con il computer.

Potrebbe esser stato, comunque, davvero un problema della diretta, ma ciò non cambia che l’evento abbia avuto un forte impatto sull’opinione pubblica.

Non era per niente scontato assistere a ciò che è stato organizzato: il politico attualmente con più nemici nel mondo, fino ad adesso è rimasto nel suo isolamento ben pianificato, sotto la massima protezione e un gruppo di assaggiatori personali per i suoi pasti. Lo avevamo visto in compagnia di Macron, qualche tempo fa, ma seduti agli antipodi di un lunghissimo tavolo, che segnava una grande distanza tra lui e il francese, e allo stesso tempo, lanciava un forte messaggio: quello che il presidente russo sembra davvero distante dal resto del mondo che lo supplica di segnare la parola fine.

 

Rita Bonaccurso

La Russia e le operazioni “false flag”. Di cosa si tratta e cosa l’esercito russo potrebbe stare architettando

Durante gli antecedenti al conflitto tra Russia e Ucraina, si è parlato di tentativi, da parte degli Stati Uniti, di infiltrazione nella dinamica, tramite operazioni militari false flag”, cioè “falsa bandiera”: fingersi il nemico per creare un pretesto per attaccarlo, compiendo una terribile azione e facendo poi passare la stessa come compiuta per mano dell’avversario.

Oggi lo stesso presidente americano, Joe Biden, ha più volte cercato di avvertire il mondo del fatto che proprio la Russia sia, invece, pronta a usare questa strategia nel conflitto ormai aperto da più di due settimane.

L’espressione “false flag” è nata per descrivere una tecnica adoperata spesso nella pirateria: i pirati brandiscono bandiere amiche e false, per attirare navi mercantili da attaccare, le quali, a loro volta, credono si stia avvicinando un soggetto, appunto, non offensivo.

Nel tempo, è stato poi usato per descrivere genericamente qualsiasi attacco – reale o simulato – per incriminare un avversario e creare le basi per un’offensiva.

(fonte: globalist.it)

 

Un presunto attacco russo “false flag” a un villaggio bielorusso presso il confine con l’Ucraina

Diverse agenzie di intelligence occidentali hanno avvertito che la Russia utilizzerà operazionifalse flagcome parte del suo piano di disinformazione, durante il suo attacco all’Ucraina. Sappiamo come questa sia una delle armi più potenti, se non la più potente a questo punto del conflitto, in mano al Cremlino: la disinformazione.

Il popolo russo ne è la prima vittima, che, da lunedì 14 marzo, non potrà usufruire di Instagram, dopo che su Facebook ha iniziato ad aleggiare già da giorni la morsa della censura da parte del governo russo.

L’accusa di Kiev che ha fatto emergere l’ipotesi è quella secondo la quale Mosca avrebbe sparato contro un insediamento in Bielorussia vicino al confine con l’Ucraina, facendo credere che sia stata proprio quest’ultima a sferrare l’attacco.

Il Comando aereo ucraino ha, a tal proposito, dichiarato, nella giornata di ieri 11 marzo, che le autorità di frontiera hanno ricevuto informazioni dettagliate su come gli aerei russi siano decollati da un aeroporto della stessa Bielorussia, hanno attraversato lo spazio aereo ucraino e poi hanno sparato contro il villaggio bielorusso di Kopani.

«Questa è una provocazione! Obiettivo: coinvolgere le forze armate bielorusse nella guerra in Ucraina» ha dichiarato il Comando dell’aeronautica ucraina in una nota stampa.

L’esercito ucraino ha detto che anche altri due insediamenti bielorussi sarebbero stati presi di mira nella stessa operazione. I servizi di sicurezza hanno proceduto con una dichiarazione ufficiale via Telegram: «Dichiariamo ufficialmente: l’esercito ucraino non ha pianificato e non prevede di intraprendere alcuna azione aggressiva contro la Repubblica di Bielorussia».

Poi è arrivato l’appello alla Bielorussia, di non farsi coinvolgere con l’inganno nella guerra dalla Russia:

«Facciamo appello al popolo bielorusso: non lasciatevi usare in una guerra criminale!»

 

La risposta del governo Bielorusso

La portavoce del Ministero della Difesa bielorusso, Ina Harbachova, ha respinto la dichiarazione del Comando dell’aeronautica ucraina, additandola come falsa.

«Il ministero della Difesa afferma inequivocabilmente che le informazioni su un attacco missilistico in un villaggio bielorusso sono sciocchezze» ha detto Harbachova.

Il rapporto dall’Ucraina è arrivato lo stesso giorno in cui il presidente bielorusso Alyaksandr Lukashenko è stato ricevuto da Vladimir Putin, a Mosca.

Foto da un vecchio incontro tra Lukashenko e Putin (fonte: en.news-front.info)

La Bielorussia ha aiutato la Russia a lanciare il suddetto attacco, lasciando che il suo territorio venisse utilizzato come terreno di sosta per le truppe russe. Lo stretto rapporto tra i due Stati, d’altronde, non avrebbe potuto farci pensare che la Bielorussia avrebbe vacillato davanti a dichiarazioni così forti contro il suo fidato partner. Inoltre, ormai queste operazioni vengono ritenute largamente possibili, non perché siano comuni, ma perché la storia ci ha insegnato che in guerra, i governi, i potenti, siano assolutamente e facilmente inclini a non avere alcuno scrupolo.

 

Il sospetto di un’operazione false flag a Chernobyl

Secondo quanto dichiarato dall’intelligence ucraina, vi sarebbe un altro tentativo sotto false flag, di cui la notizia è arrivata stamattina: la Russia starebbe accumulando dei corpi di soldati ucraini morti per inscenare un attacco false flag che coinvolgerebbe Chernobyl. Putin avrebbe, dunque, ordinato alle sue truppe di rilasciare scorie radioattive nei pressi dell’impianto nucleare, per poi procedere a incolpare i sabotatori ucraini e giustificare così un’altra escalation nella guerra.

«I frigoriferi per auto russe che raccolgono i corpi dei difensori ucraini morti sono stati avvistati vicino all’aeroporto Antonov di Hostomel. C’è la possibilità che vengano presentati come sabotatori uccisi nella zona di Chernobyl».

La centrale – ricordiamo – è stata presa dalle forze russe il primo giorno dell’invasione. Da allora i lavoratori al suo interno svolgono le loro mansioni sotto la minaccia delle armi.

Il disastro di cui si ipotizza causerebbe problemi con le scorie radioattive anche alla Russia. Uno scenario sconvolgente e assurdo, ma sarebbe usato per giustificare l’uso di ulteriore forza contro l’Ucraina e tentare di far vacillare la comunità internazionale nel sanzionare la Russia e fornire armi all’Ucraina.

Ma ci sono timori che ci possa essere anche una perdita accidentale nel sito nucleare perché i russi che lo presidiano “non hanno alcuna idea dei protocolli di sicurezza nucleare”, come ha avvertito la figlia di un membro dello staff che lavora di notte nell’impianto.

Chernobyl (fonte: ilsussidiario.net)

Tutto questo arriva mentre i bombardamenti sono continuati durante la notte in tutta l’Ucraina. Il bilancio delle vittime di Mariupol sale a 1.600, mentre i russi si avvicinano ancora a Kiev che si sta preparando per un brutale assalto: c’è l’alto rischio che essa diventi la nuova Stalingrado.

 

 

Rita Bonaccurso

 

Dieci giorni di guerra, ciò che è successo nelle ultime ore del conflitto tra Russia e Ucraina

Decimo giorno di guerra. Questa è una frase che non avremmo forse mai pensato di udire nel 2022, almeno non noi cittadini di quella parte del mondo nella quale non si assiste a una guerra dal secolo scorso. Eppure, il conflitto in Ucraina non accenna a virare verso una de-escalation. Aldilà dei danni materiali, delle città distrutte, delle case di migliaia di ucraini sventrate dalle bombe russe, ciò che guarirà a stento sono le ferite dell’animo.

Dieci giorni di guerra. L’Ucraina tra le macerie (fonte: larepubblica.it)

Un esodo di milioni di persone

Una valanga umana”, così è stata definita la moltitudine di persone che si sta riversando nei Paesi confinanti all’Ucraina. Le stime indicano 1.5 milioni di persone in movimento, ma il numero è destinato a crescere sempre più. A dirlo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi.

Chi è rimasto vive ormai nei rifugi, negli scantinati, nei garage o nelle metropolitane, ma ci sono moltissimi anziani che non possono raggiungere neanche questi luoghi più al riparo. Le famiglie sono state smembrate: mentre gli uomini impugnano le armi per combattere personalmente contro il nemico, donne e bambini se non sono già aldilà dei confini – anche se abbiamo visto molte donne unirsi ai combattimenti con molto coraggio – sono in marcia verso di essi. Un cammino, normalmente della durata di poche ore, che adesso può durare anche diversi giorni, dovendosi spesso fermare per ripararsi dagli attacchi.

Immagini di persone in cammino (fonte: larepubblica.it)

Gli adulti non sanno più come giustificare ai bambini ciò che sta accadendo e del perché debbano nascondersi o andarsene via.

L’avanzata russa lascia dietro di sé sangue e disperazione. A Kharkiv le autorità locali hanno contato più di 2mila morti, fra i quali oltre 100 bambini. Un dato, quest’ultimo, che convince sempre di più sull’atrocità, e soprattutto l’assurdità, del conflitto. Una guerra non è mai giusta ma quando vengono coinvolti bambini e civili non si riesce ancor più a realizzare che una cosa del genere stia accadendo davvero.

 

L’attacco alla centrale ucraina di Zaporizhzhia

L’attacco di ieri, 4 marzo, alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa e che fornisce il 20% dell’energia necessaria all’Ucraina, è prova dell’ostinatezza russa ad ogni costo.

All’1.20 della notte era scattato l’allarme antincendio: all’interno del perimetro dell’impianto sono divampate le fiamme a causa degli scontri che andavano avanti da giovedì sera. Il terrore, che era tutto per la minaccia all’integrità dei reattori, è fortunatamente rientrato dopo 3 ore. Il direttore generale dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) ha, infatti, rassicurato dicendo:

«Siamo stati fortunati, nessun rilascio di radiazioni».

Gli operai della centrale nucleare “stanno lavorando sotto la minaccia delle armi”, riferisce Petro Kotin, il capo di Energoatom, l’azienda di Stato ucraina che si occupa della gestione delle quattro centrali nucleari sul territorio. I russi hanno ormai il controllo di questo impianto e  tengono in pugno anche l’Europa: qualora avvenisse ciò che si temeva stesse già per succedere, costringerebbe forse l’intero continente a doversi svuotare, per sfuggire alle radiazioni.

Aldilà della paura per un eventuale scoppio, l’evento ha sottolineato quanto i russi sembrino veramente pronti a tutto, addirittura a rischiare la loro stessa incolumità e quella del loro popolo, scatenando una catastrofe peggiore di Chernobyl.

 

Il bavaglio alla libertà di stampa in Russia

La Duma, il parlamento russo, ha approvato una legge che limita la libertà di stampa. Fino a 15 anni di carcere per chiunque diffonda fake newssull’esercito e l’azione militare russa: è ormai vietato usare parole come “invasione”, “guerra” e persino “offensiva”. Quella della Russia, per il Cremlino è infatti un’“operazione militare speciale”.

Novaya Gazeta”, il giornale del premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, ha dovuto rimuovere tutti i contenuti sulla guerra in Ucraina per non incorrere nella censura. Non è l’unico caso: emittenti radio e tv indipendenti, sono state costrette a chiudere.

Alexey Venediktov, direttore dell’ “Eco di Mosca”, emittente radio indipendente, ha vissuto il giorno più nero in 32 anni di storia del canale radiofonico, chiuso insieme al suo sito web, per volere delle autorità.

Sappiamo bene che la libertà passa tramite la libertà di stampa. Nei giorni scorsi, il gruppo di hacker più famoso al mondo, Anonymous, ha dichiarato l’inizio di una guerra informatica a Putin. Negli scorsi giorni ha trasmesso sulle tv russe le reali scene di ciò che sta succedendo in Ucraina, così da rendere davvero coscienti i cittadini russi e spingerli a scavare nella propria coscienza, nonostante, come abbiamo visto, la repressione dall’alto stia usando il pugno di ferro anche contro le spontanee manifestazioni pacifiche.

 

Il no-alla-guerra che parte dal cuore della Russia

Nel cuore della stessa Russia è scoppiato un altro conflitto dai connotati diversi: migliaia di persone continuano a manifestare contro la decisione del loro presidente. Circa 6mila persone, finora, sono stare arrestate in sei giorni. Tra loro persino un’anziana.

Proteste di cittadini russi, nel cuore della Russia contro la guerra (fonte: zazoom.it)

«Soldato, metti giù le tue armi e sarai un vero eroe». Così recitavano i due cartelli che la nonnina russa, Yelena Osipova, teneva in mano durante le proteste per la pace a San Pietroburgo. Nata durante l’assedio nazista nella città, allora Leningrado, l’anziana, due giorni fa, si è unita ai cortei. Diventata immediatamente un simbolo del no-alla-guerra, durante il corteo è stata avvicinata da due agenti antisommossa che le hanno fatto segno di andarsene. Hanno poi provato a sfilarle i cartelli dalle mani, senza aggredirla, ma con fermezza. Yelena non si è scomposta neanche in quel momento, ha persino alzato lo sguardo per incrociare quello dei due agenti, fin quando, tra i cori di chi stava intorno, filmava e gridava “no alla guerra”, non è stata arrestata.

Yelena Osipova, l’anziana russa contro la guerra (fonte: zazoom.it)

Il video di 41 secondi, in poche ore ha raggiunto quattro milioni di visualizzazioni. Su chi sia Yelena poco si sa, ma di sicuro ora sappiamo che è un’eroina: ha dimostrato come la forza d’animo può essere più forte di un intero esercito, come la forza fisica non possa niente contro gli ideali, se ci si crede veramente.

Solo cinque ore di cessate il fuoco

Di stamane, la notizia di una momentanea tregua tra Mosca e Kiev, per consentire l’apertura di corridoi umanitari e, dunque, ai civili di Mariupol e Volnovakha, lasciati senza acqua ed elettricità, di lasciare le città, anche se il primo ministro ucraino Zelensky ha chiesto, a chi può, di rimanere per aiutare la difesa. Da Mariupol verranno fatte evacuare 200mila persone e 15 mila da Volnovakha.

Solo cinque ore al giorno, quelle concesse da Mosca, non si sa per quanto. La rotta prevista per il corridoio umanitario seguirà l’itenerario: Mariupol – Nikolskoye – Rozovka – Polohy – Orekhov – Zaporozhye, secondo quanto riportato dalle agenzie ucraine. I cittadini potranno prendere i mezzi personali o usare i mezzi messi a disposizione, come dei bus.

Intanto, gli attacchi aerei continuano altrove, Kiev è quasi accerchiata, poiché il lunghissimo convoglio delle forze di Mosca è, seppur bloccato, a 25 chilometri da essa. A Sud le forze russe avanzano e si preparano ad assediare Odessa.

Quanto durerà la guerra?

Non si sa quanto ancora durerà il conflitto e che piega prenderà. Gli analisti hanno però formulato varie ipotesi.

La Russia ha subito, nella prima settimana di scontri, più perdite di quante se ne aspettasse, vista la strenua difesa ucraina. Potrebbe, dunque, scegliere di premere sull’acceleratore, procedendo con bombardamenti a tappetto, pur di conquistare Kiev, ottenendo ciò che l’ha spinta a iniziare il conflitto: il “cambio di regime”, abbattendo le “forze neo-naziste” ucraine e annettendo Bielorussia e Ucraina al suo territorio.

La guerra potrebbe durare dalle 4 alle 6 settimane e richiedere l’impiego di più dei 200mila uomini all’inizio impegnati, per serrare i confini e poter conquistare l’intero Paese.

(fonte: zazzom.it)

Lo scenario peggiore, per evitare il quale non si è proceduto a sancire una no-fly zone sull’Ucraina, vedrebbe l’Onu costretta a dichiarare guerra a Mosca, qualora, ad esempio, Putin, una volta conquistata l’Ucraina, penserebbe a invadere Moldovia e Georgia (ex-repubbliche sovietiche) o persino i tre Paesi Baltici, chiedendo aiuto alle minoranze russe lì residenti.

 

 

Rita Bonaccurso

Crisi Russia-Ucraina: espulso il viceambasciatore americano da Mosca, tensioni fortissime nel Donbass

Le speranze del mondo intero convergono verso una “de-escalationnella crisi Russia-Ucraina. Dei precedenti sviluppi ne abbiamo parlato qui. Ora, passiamo agli ultimi aggiornamenti, i quali sembrano suggerire tutt’altro che passi in avanti, verso una pacifica risoluzione della questione.

Vecchia foto di un incontro tra Biden e Putin, alcuni mesi fa (fonte: startmag.it)

Una mappa con gli obiettivi sensibili in Ucraina

Come gli Stati Uniti continuano a ritenere vicina un’invasione dell’Ucraina, la Russia non crede che gli Usa vogliano aiutare solo a ristabilire l’equilibrio geopolitico. Dopo la smentita della presunta data del 16 febbraio per un attacco, ipotizzata dai primi, l’allarme resta alto per i prossimi giorni.

Dall’Estonia, peraltro, arriva una notizia clamorosa: ci sarebbe una cartina che segnalerebbe i punti sensibili puntati dal presidente russo Vladimir Putin in Ucraina. A dichiararlo il ministero degli Esteri estone, su Twitter: “Sono gli obiettivi individuati dall’intelligence russa che, se neutralizzati, possono interferire con il comando, il recupero e l’approvvigionamento delle forze armate ucraine e l’approvvigionamento energetico dell’Ucraina”.

 

La lettera di Mosca in risposta a Washington e le accuse

Continua, intanto, la corsa della diplomazia: il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha proposto al ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, un ulteriore vertice Usa-Russia.

Mosca, negli ultimi giorni, ha risposto a Washington con una lettera di undici pagine alle pretese degli Usa: il ritiro dei militari statunitensi dall’Europa orientale e dal Baltico e il non avanzamento della Nato a Est, sono per la Russia necessarie per dei passi indietro da parte sua. Quest’ultima si è detta pronta al dialogo con l’Occidente e a una cooperazione con gli Stati Uniti per realizzare “una nuova equazione di sicurezza“. Però, ha anche sottolineato che, dall’altra parte, la Nato stia da tempo ignorando la necessità di mantenere l’area cuscinetto costituita dall’Ucraina, così come gli Stati Uniti, ma anche che l’Ucraina in sette anni non abbia rispettato gli accordi di Minsk.

«È stata ignorata – accusa Mosca – la natura del pacchetto delle proposte russe, da cui sono stati estrapolati deliberatamente argomenti convenienti che, a loro volta, sono stati distorti per creare vantaggi agli Stati Uniti e ai loro alleati.».

 

 

Il ritiro delle truppe russe: gli Usa non ci credono e ricordano a Mosca il rischio di sanzioni

Il 15 febbraio, il presidente russo ha incontrato, presso il Cremlino, il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Quest’ultimo ha dimostrato una grande apertura al dialogo e ha dichiarato che la sicurezza dell’Europa “non può essere costruita contro la Russia ma in cooperazione con la Russia”. Il leader russo si è detto contento di questa apertura, ma ha ribadito che la Russia non crede che l’Ucraina rinuncerà effettivamente al suo ingresso nella Nato.

Finalmente, in seguito all’incontro, Putin ha dichiarato chiaramente di aver autorizzato l’inizio del ritiro delle truppe dal confine, assicurando di non volere la guerra. Eppure, la Nato ha espresso ancora dubbi su una reale de-escalation.

Putin ha voluto dare un segnale di distensione con il ritiro, pur insistendo nelle sue richieste. Anche da parte sua la diffidenza è tanta. Gli Usa non hanno dichiarato chiaramente di non voler entrare a Kiev.

Dalla Casa Bianca sono poi giunte voci di una forte diffidenza al riguardo, secondo le quali la ritirata non sarebbe avvenuta, anzi, che sarebbe stato predisposto lo schieramento di altri 7mila militari russi e la costruzione di un ponte galleggiante in Bielorussia, a 6-7 km dalla frontiera ucraina. Il ponte, successivamente smantellato, non è ancora chiaro se sia stato costruito dalla Russia o dai suoi alleati nella regione.

Immagini satellitari del ponte, poi smantellato, come dimostrano successive acquisizioni (tg24.sky.it)

Il presidente americano Joe Biden continua a dirsi pronto a qualsiasi eventualità, anche ad a ricevere cyber-attacchi. Con tono duro ha avvertito chiaramente la Russia delle sanzioni che verrebbero applicate contro di essa, in caso di invasione dello Stato confinante:

«Se la Russia attacca l’Ucraina, sarà una guerra frutto di scelta. Le sanzioni sono pronte».

 

Espulsione del viceambasciatore americano da Mosca

Nella giornata di ieri, 17 febbraio, la via diplomatica si è fatta più difficilmente percorribile. La Russia ha espulso il viceambasciatore americano a Mosca, Bart Gorman.

Questo ha spinto ancor di più Biden verso la convinzione di un attacco imminente e ha aggiunto altre dichiarazioni forti: la Russia starebbe cercando un alibi falso per giustificare l’invasione dell’Ucraina, potrebbe stare architettando persino “un’operazione sotto falsa bandiera” (“false flag“). Blinken sostiene che potrebbe inventare attacchi terroristici, inscenare attacchi con droni contro i civili o attacchi con armi chimiche – ma anche compierli veramente – rivelare false fosse comuni, nonché convocare teatralmente riunioni di emergenza per rispondere a operazioni sotto falsa bandiera e poi cominciare l’attacco contro obiettivi già identificati e mappati.

 

La grave situazione in Donbass potrebbe divenire il casus belli

Cartina del Donbass (fonte: Wikipedia)

A sostegno delle accuse, gli americani avevano fatto circolare anche un documento all’Onu in cui la Russia rievocacrimini di guerra” e un “genocidiocontro la popolazione russofona del Donbass. In questa regione ormai indipendente, sul confine russo-ucraino, ieri, è stato condotto un attacco ad un asilo, da parte dei separatisti filo-russi. Ferite due maestre, ma nessuna vittima e nessun bambino colpito. Poi intorno alle 10.25 di mattina, durante il bombardamento del villaggio di Vrubivka, un colpo è stato sparato nel cortile di un liceo.

L’asilo colpito durante le tensioni con i ribelli filo-russi (fonte: www.cbsnews.com)

Nelle ultime ventiquattro ore, ci sarebbero state sessanta di violazioni al cessate il fuoco da entrambe le parti. Si credeva che quello potesse essere la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. La regione, in passato, fu teatro dello scontro tra russi e nazisti durante la Seconda guerra mondiale, poi zona sempre sotto controllo da parte di Kiev per le tensioni createsi da quando essa si è dichiarata, nel 2014, unilateralmente indipendente dall’Ucraina, e i separatisti costituirono la Repubblica Popolare di Doneck e la Repubblica Popolare di Lugansk.

 

Tutti, compresa l’Italia, lavorano a un incontro tra Putin e Zelensky

Nelle suddette undici pagine, Mosca, oltre a dimostrarsi aperta alla collaborazione, ha rimarcato anche la sua fermezza in un vero e proprio aut aut:

«In assenza della disponibilità da parte americana a concordare garanzie giuridicamente vincolanti della nostra sicurezza, la Russia sarà costretta a rispondere, anche attuando misure di natura tecnico-militare.».

La prossima settimana si svolgerà in Europa un altro vertice. Prenderà parte anche il premier italiano Mario Draghi, che di ritorno dal Belgio, ieri ha dichiarato con preoccupazione: “Per il momento episodi di de escalation sul terreno non si sono visti”.

«L’obiettivo – ha detto il presidente del Consiglio- è ora far sedere al tavolo il presidente russo Vladimir Putin e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L’Italia sta facendo il possibile per sostenere questa direzione».

L’Italia ci tiene al sostegno della diplomazia. Non solo la classe politica, nelle persone di Draghi e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ma anche i cittadini sono molto preoccupati. La Comunità di Sant’Egidio ha persino promosso delle manifestazioni in strada, a Roma, contro la possibilità della guerra, poiché in tal caso, a rimetterci, come sempre durante le guerre, è soprattutto la gente comune.

Corteo manifestazione promossa dalla Comunità di Sant’Egidio. Striscioni “No war” (Fonte: rainews.it)

 

Rita Bonaccurso

Un diciottenne muore durante l’ultimo giorno di uno stage con la scuola. Scoppia la rabbia degli studenti italiani

La dinamica della tragedia

Diciotto anni, quarto anno di scuola e una vita ancora davanti. Lorenzo Parelli, uno studente di Castions di Strada, frazione di Udine, lo scorso 21 gennaio, è morto sul colpo schiacchiato da una trave d’acciaio nella fabbrica Burimec“, dove si trovava per l’ultimo giorno di un Pcto (“percorso per le competenze trasversali e per l’orientamento”). Il lunedì successivo sarebbe tornato a scuola, dopo l’esperienza che lo aveva appassionato tanto.

Lorenzo Parelli, giovane studente rimasto ucciso da una trave d’acciaio (fonte: zazoom.it)

Aperte le indagini, ancora molto deve essere definito. Indagati il datore di lavoro e un operaio, tra i primi o forse il primo a soccorrere il ragazzo in quel capannone dove è avvenuta la tragedia. Il dettaglio che è subito rimbalzato tra le cronache è la notizia dell’assenza, quel giorno, del tutor che doveva seguire lo studente, però risultato assente giustificato per motivi di salute. Dunque, le responsabilità sono ancora da definire, forse quel giorno potrebbero non essere state prese tutte le misure di sicurezza. Dovrà esser chiarito se la tragedia potesse essere evitata e se vi è un colpevole.

La zona della tragedia è stata immediatamente transennata e posta sotto sequestro dalla Procura di Udine: le indagini sono state affidate ai Carabinieri di Palmanova e agli ispettori dell’Azienda sanitaria.

Tra i primi ad accorrere sono stati anche i genitori della vittima, a cui si sono stretti i titolari dell’azienda e i “colleghi” di Lorenzo. La produzione è stata immediatamente fermata e disperazione e incredulità hanno raggiunto tutto il paese del ragazzo, dove lui e la sua famiglia erano molto ben visti.

Ancora polemica sul rapporto Scuola-Lavoro e in generale sulla sicurezza sui posti di lavoro

Quello che Lorenzo stava svolgendo in azienda, era un “percorso per le competenze trasversali e per l’orientamento”. I Pcto vennero creati nel 2018 e prevedono un minimo di 210 ore da svolgere in tre anni negli istituti professionali, come quello in cui studiava Lorenzo, l’Istituto salesiano Bearzi di Udine, mentre 150 nei tecnici e 90 nei licei.

Poi vi è l’Alternanza Scuola-Lavoro, un percorso scolastico reso obbligatorio dal governo Renzi nel 2015, erede della Riforma Moratti, che l’aveva ideata nel 2003 prevedendo adesione spontanea per le scuole, ma solo sulla carta. Da quando è obbligatoria, non molte sono le difficoltà per le scuole, che, innanzitutto, devono portare a termine dei progetti con un’esigua disponibilità di fondi. Non poche sono le volte in cui gli studenti e le proprie famiglie devono sopperire personalmente a questa mancanza.

Poi, vi è un mondo del lavoro non sempre pronto a fare al meglio la sua parte in questo rapporto obbligato. Le problematicità non sono poche, ma soprattutto non sono ancora risolvibili. Dunque, in tanti, prima di tutto gli stessi studenti si interrogano se tutto ciò sia realmente utile per lo sviluppo di un percorso lavorativo e se si fa tutto ciò perché anche con solo un po’ di convinzione, seguendo le proprie attitudini.

Nonostante la differenza tra le due tipologie di percorso, questo non cambia che Lorenzo sia morto in un contesto legato al mondo della scuola. Il caso di Parelli, inoltre, non è il primo di questo genere avvenuto nell’ambito di un percorso professionalizzante: nei pochi anni della Buona Scuola ci sono stati almeno sei feriti gravi e nel 2021, in Italia, i morti per infortunio sul lavoro sono stati 1404. Con questo si realizza facilmente che i luoghi di lavoro, per la vita che conduciamo nel terzo millennio, non sono spesso all’altezza degli standard e che gli studenti spesso sono troppo a rischio, contando la loro inesperienza.

Eppure, per la morte di Lorenzo, avvenuta in un contesto legato sia al mondo della Scuola che del Lavoro, nessuna componente della macchina statale ha dimostrato di sentirsi chiamata in causa.

(fonte: zazoom.it)

 

Le proteste degli studenti per Lorenzo e contro altri aspetti del mondo scolastico

Di fronte a un episodio del genere, risulta quindi inevitabile lo sconcerto e soprattutto la rabbia dei più giovani, sempre chiamati a capire le scelte fatte per loro, a volte insufficienti come risposta alle loro domande. Numerose le manifestazioni organizzate da studenti e studentesse negli scorsi giorni. La tensione accesasi si colloca in un più ampio clima difficile, creatosi negli scorsi mesi per il generale malcontento per la gestione della scuola durante la pandemia. È stato poi aggravato dagli scontri scoppiati tra polizia e ragazzi, a Torino, Milano, Napoli e Roma, in cui la prima ha fatto ricorso anche ai manganelli.

La primissima manifestazione si è svolta la scorsa domenica nella capitale. Tra trecento partecipanti quattro ragazzi sono rimasti feriti nello scontro con la polizia. Durante il corteo, organizzato dal movimento studentesco “La Lupa”, sono state lanciate contro il cordone delle forze dell’ordine alcune bombe carta e dei petardi, in via Cavour all’altezza di via Annibali. Questa pare la motivazione che ha fatto scattare la repressione. La manifestazione si è poi conclusa presso i Fori imperiali con l’osservazione di un minuto di silenzio.

Un’immagine da una delle proteste (fonte: zazoom.it)

Nel mentre gli studenti gridavanoLa vostra scuola uccide” e “L’alternanza uccide”, i sindacati discutevano online di come per riformare Pcto e Alternanza sarebbe importante pagare di più gli insegnanti. Nessun contributo diretto da parte loro a sottolineare innanzitutto la gravità dell’accaduto al diciottenne di Udine.

«Noi vogliamo l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro e dei PCTO e per i tirocini, come quello che stava frequentando Lorenzo, noi chiediamo un tavolo con l’Ufficio scolastico del Ministero dell’Istruzione, per stilare dei protocolli di sicurezza da poter utilizzare durante questi stage, che in ogni caso vorremmo fossero facoltativi e retribuiti.» ha dichiarato Pietro Zanchini, rappresentante di istituto del Virgilio.

«Quella di Lorenzo non è una morte, è un omicidio noi diciamo basta a tutto questo che è solo sfruttamento gratuito.» ha aggiunto Tommaso Marcon, rappresentante di Osa, Opposizione studentesca d’alternativa.

(fonte: mattinodiverona.it)

La polemica riguardo lo sbaglio degli studenti poiché inizialmente riversato la rabbia contro l’Alternanza, seppur Lorenzo stava svolgendo, più precisamente, un Ptco, per poi ampliare la protesta anche contro l’esame di maturità – giudicato ingiusto dopo due anni di pandemia e le relative difficoltà nella scuola – non deve far dimenticare che quanto successo resta grave e potrebbe esserlo anche di più qualora venisse stabilito che vi sono precise responsabilità da parte di qualcuno in quanto accaduto il 21 gennaio. Scuola, ma anche Lavoro necessitano di maggiori attenzioni, in ogni caso, da parte dello Stato e gli studenti, che stanno per iniziare la loro vita lavorativa ne sono estremamente consapevoli e bisognosi.

 

 

Rita Bonaccurso

Giornata della Memoria 2022. Coltivare la memoria è un dovere civile

27 gennaio 1945, Auschwitz. Durante un’operazione, nel mentre della Seconda Guerra Mondiale, delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa, viene scoperto e vengono aperti i cancelli di quel posto che era come un inferno sulla terra. Il mondo, per la prima volta, scoprì cosa accadesse nei campi di concentramento, tra cui, appunto, quello presso la cittadina polacca di Oświęcim, Auschwitz per i nazisti.

 

I cancelli del campo di concentramento di Auschwitz (fonte: ilpost.it)

Ideati inizialmente per sterminare la popolazione ebraica, all’interno di questi luoghi, noti anche come lager, trovarono la morte anche slavi, rom, persone di colore, disabili, omosessuali e avversari politici, oltre che circa 6 milioni di ebrei, principali bersagli.

In questa data, dunque, ricordiamo ogni anno tutte le vittime innocenti di questo genocidio noto comeOlocausto” (“sacrificio”) oShoa” (“tempesta devastante”), espressione usata per la prima volta nella Bibbia, nel libro di Isaia, per indicare una forma di sacrificio praticata nell’antichità in cui la vittima veniva interamente bruciata.

Gli avvenimenti storici

Tra il 1933 e il 1945, morirono uccise dai nazisti circa 15-17 milioni persone.

Adolf Hitler a capo del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, dopo esser salito al potere in Germania nel 1933, diede inizio a quel programma politico che fu causa di tutto. Intendeva porre la Germania nazista come erede storica del Sacro Romano Impero e del moderno Impero tedesco. Perciò istituì il “Terzo Reich(letteralmente “Terzo Impero”). Il 30 gennaio 1933, divenne cancelliere del Reich e, nonostante inizialmente fosse a capo di un governo di coalizione, si liberò velocemente dei partiti alleati, per accentrare nella sua persona tutto il potere, esecutivo e legislativo, nel giro di un solo anno, ponendo le basi per il regime totalitario di estrema destra, ispirato a ideologie come quelle nazionalistiche – in cui ritroviamo i concetti di “razza” e “superiorità ariana”e connotato da un’aggressiva politica estera, dovuta al gran risentimento della Germania per il funesto esito del primo conflitto mondiale.

L’invasione della Polonia fece degenerare le tensioni in Europa, dopo che la Germania iniziò la sua espansione, per cui Regno Unito e Francia dichiararono guerra.

Ebrei costretti ad indossare il simbolo distintivo per essere riconosciuti (fonte: Rai News)

Da quel momento in poi, i nazisti perseguitarono e assassinarono moltissime persone, tutti considerati nemici del Reich, non solo, dunque, gli ebrei per completare lasoluzione finale”.

Il razzismo era uno strumento importantissimo per i nazisti – più di quanto lo fosse per i fascisti, che lasciarono maggiore libertà personale ai cittadini – per combattere comunismo e capitalismo, odiatissimi, di cui principali autori erano considerati gli ebrei, accusati di star mettendo in atto una vera e propria cospirazione contro il mondo. Un alto numero di persone di origine ebraica lavorava nell’alta finanza angloamericana e molti erano stati tra gli esponenti della rivoluzione bolscevica; perciò, per i nazisti, anticomunismo e antisemitismo finirono per combaciare.

Per questo venne messa a punto la “soluzione finale”, per cui vennero sterminati i due terzi degli ebrei che vivevano in Europa.

Istituzione della Giornata della Memoria

L’1 novembre 2005, a conclusione della 42esima riunione plenaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, venne istituito il Giorno della Memoria, fissando la ricorrenza al 27 gennaio. Quello stesso giorno di sessant’anni prima, nel 1945, le truppe sovietiche guidate dal maresciallo Ivan Konev e dette “Fronte ucraino”, dell’Armata Rossa, impegnate nella offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania, scoprirono e in seguito liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.

Foto in cui si possono notare le condizioni disumane in cui erano costretti a vivere i deportati nei campi di concentramento (fonte: ANSA)

Trovarono ad aspettarli circa 7000 prigionieri in condizioni disumane. Scoprirono i forni crematori e i resti delle centinaia di esseri umani nelle fosse comuni scavate in fretta dalle SS primati scappare e compiere la “marcia della morte” con migliaia di deportati trascinati con sé.

Furono circa un milione le persone che morirono all’interno e non solo ebrei.

Nonostante i sovietici avessero liberato, circa sei mesi prima, il campo di concentramento di Majdanek e conquistato, nell’estate del 1944, anche le zone in cui si trovavano i campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka, questi erano stati precedentemente smantellati dai nazisti, nel 1943. Fu stabilito che la celebrazione della Giornata coincidesse, dunque, con la data in cui venne liberato quello che era il lager più grande mai costruito.

L’Italia ha formalmente istituito la giornata commemorativa nello stesso giorno. Prima, erano state proposte altre date, con le quali si sarebbe sottolineato ancor di più le responsabilità anche italiane nello sterminio e altre tramite cui si sarebbe fatto risaltare, invece, il forte antifascismo che dilagò in Italia in contrapposizione al fascismo. Infine, però, per la portata evocativa che aveva assunto negli anni Auschwitz, si optò per concordare il 27 gennaio.

 

La senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, e il valore della memoria

In Italia, abbiamo ancora testimoni in vita di quegli orrori, tra cui la senatrice Liliana Segre, deportata e sopravvissuta ad Auschwitz, la quale ogni anno si impegna affinché tutti possano mantenere vivo il ricordo di quell’atrocità, vissute anche in prima persona, e di conseguenza far sì che una simile cosa non si ripeta mai più.

Per la ricorrenza di oggi, 27 gennaio 2022, settantasette anni dopo la fine dell’incubo, la senatrice ha voluto rivolgersi in particolare ai giovani studenti italiani: «Se non saremo sempre vigili, attenti, informati, solidali e attivi, il passato potrebbe accadere ancora e ridiventare futuro».

La senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e alla “marcia della morte” (fonte: fanpage.it)

Eppure, l’odio, seppur non così diffuso, continua a vivere tra negazionisti dell’Olocausto e razzisti, in tutto il mondo. La senatrice ha fatto riferimento anche ad episodi recenti: il funerale avvenuto poco tempo fa, a Roma, durante il quale una bara è stata avvolta in una bandiera nazista e l’aggressione a Livorno di due ragazzine quindicenni ai danni di un dodicenne perché ebreo.

La stessa senatrice continua ad esser vittima di razzismo, ricordiamo l’episodio delle minacce ricevute pochi mesi fa, dopo essersi sottoposta alla vaccinazione anti-covid. Sotto la foto che la ritraeva durante la vaccinazione, pubblicata sui social per sensibilizzare sull’importanza di immunizzarsi, delle persone, poi individuate dalla polizia postale, si sono scatenate con commenti trasudanti sentimenti antisemiti e profondo odio razziale.

«Coltivare la memoria è un dovere di ogni società che voglia dirsi civile. Curare il senso della storia, situare il proprio essere in una prospettiva di lungo periodo che permetta di muoversi meglio nel presente, di vedere meglio i pericoli sulla scorta appunto dell’esperienza, questo il compito di tutti e di ciascuno. La memoria è una componente indispensabile di una personalità ricca, vigile, sensibile, democratica.».

È importante non dimenticare mai, anche se non abbiamo vissuto direttamente quell’incubo, portando avanti la missione dei sopravvissuti anche quando non ci saranno più, perché il ricordo diventi un monito sempre presente nelle nostre menti e ci faccia essere un’umanità diversa, migliore.

 

Rita Bonaccurso