Il primo ministro britannico Liz Truss si dimette dopo 44 giorni

È record, ma in negativo per l’Inghilterra: dopo solo 44 giorni, il primo ministro Liz Truss è il leader politico con la carica più breve della storia britannica. L’annuncio ufficiale è stato ugualmente singolare: là premier uscente ha fatto un discorso brevissimo, solo 90 secondi per lasciare la guida del governo inglese. Fino a questo momento era George Canning ad esser stato il primo ministro con il mandato più breve, perché venuto a mancare solo 119 giorni dopo la sua nomina, ma allora fu per l’imprevedibilità della vita, non per una dinamica prettamente politica come in questo caso.

Il primo ministro britannico Liz Truss ha annunciato le sue dimissioni dopo soli 44 giorni (fonte: theitaliantimes.it)

Scelta come successore di Boris Johnson, la cui uscita di scena è stata tra gli scandali, la fine del suo mandato è arrivata presto e dopo una serie di scelte di governo risultate non efficaci, né particolarmente apprezzate.

«Sono entrata in carica in un momento di grande instabilità economica e internazionale. Il nostro Paese è stato bloccato a lungo da una bassa crescita economica. Sono stata eletta con un mandato per cambiare ciò: riconosco, tuttavia, data la situazione, che non posso portare a termine il mandato. Ho quindi parlato con Sua Maestà il Re per informarlo che mi dimetto da Leader del Partito Conservatore».

La crisi è la causa. Truss è stata concisa, ma chiara: il suo mandato è imploso per le dimensioni dell’ostacolo da fronteggiare. La crisi economico ha retto i colpi del partito conservatore.

 

Il disastro Tory a partire dal “mini-budget ultra conservatore”

Non sono servite le manovre messe in atto mentre i drastici tagli alle tasse, finanziati a debito, sono stati bocciati dai mercati internazionali. Il “mini budget ultra conservatore”, 45 miliardi di sterline, poi revocato il 3 ottobre, aveva causato più peggioramenti che miglioramenti. Il passo falso, infatti, è costato innanzitutto le dimissioni del cancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, strettissimo collaboratore di Truss e ideatore della mini-finanziaria. Anche per lui dimissioni lampo. La Banca d’Inghilterra aveva dovuto intervenire d’emergenza per sostenere i titoli di Stato britannici — i cui rendimenti erano schizzati, superando quelli di Italia e Grecia – e aveva preannunciato un rischio realistico per la stabilità finanziaria.

Al ritorno a Londra da Washington, dove si trovava per una riunione del Fondo monetario, Kwasi si è recato subito a Downing Street da dove, dopo solo pochi minuti, ne è uscito dimissionario. Al suo posto nominato Jeremyn Hunt. I dubbi sulla resistenza del partito hanno iniziato da quel momento a farsi ancora più forti. L’uscita di scena di Kwarteng voleva essere usata per salvare il posto Truss, ma la carica del primo ministro era stata data già per spacciata e i consensi non hanno accennato a smettere di calare. Il colpo di grazia è giunto infine due giorni fa con la notizia delle dimissioni di Suella Braveman, il ministro dell’Interno e membro del partito Tory.

 

Il passato tanto discusso

Nata a Oxford, 47 anni e figlia di un professore di matematica e di un’infermiera, ha avuto una breve carriera da contabile, per poi entrare in Parlamento nel 2010. Ha scalato le gerarchie delle cariche politiche, passando da ruoli come la sottosegreteria all’Istruzione, per poi passare al ministero dell’Ambiente e poi della Giustizia. Successivamente, nel settembre 2021 era divenuta ministro degli Esteri, dove ha criticato l’operato di Dominic Raab per la gestione della crisi in Afghanistan. Infine lo scorso 5 settembre era stata eletta leader dei conservatori, succedendo a Boris Johnson sia nella guida del partito che del Paese. Figura controversa, ha attirato su di sé le attenzioni della sempre non poco invadente stampa britannica. Il suo passato è stato infatti messo al centro dell’attenzione mediatica per alcuni dettagli: le simpatie di sinistra e le critiche alla monarchia in primis, rinnegati come errori di gioventù e che l’hanno costretta a definere i reali come “la chiave” del successo del Regno Unito. Dulcis in fundo la partecipazione a manifestazioni contro Margharet Tatcher a suon di “Maggie, Maggie, Maggie, out, out, out”, mentre ora dice essere il suo idolo politico insieme a Ronald Reagan.

 

Si riapre la fase della successione

Con la ricerca del terzo inquilino di Downing Street in pochi mesi si apre un momento complicato considerando anche che sono state recentemente modificate le regole dei Tory per essere eletti primo ministro: i pretendenti devono avere il sostegno di almeno 100 dei circa 350 deputati della maggioranza Tory e a non dovranno essere più di tre.

Nel caso di una convergenza verso un unico nome, lunedì prossimo, vi sarà l’elezione direttamente a Westminister, altrimenti i due nomi indicati dai colleghi parlamentari dovranno sfidarsi per essere scelti tramite spareggio affidato agli iscritti. Tutto il processo dovrà comunque concludersi entro venerdì 28.

Tra i nomi che sembrano avere più possibilità, figura quello di Jeremy Hunt, il cancelliere gradito all’establishment, ma molto meno alla pancia Tory attuale; è stato chiamato in extremis da Truss per rassicurare i mercati.

I bookmaker vorrebbero Rishi Sunak, giovane ex cancelliere di origini indiane che a settembre era stato battuto da Liz al ballottaggio dopo aver ricevuto più consensi di lei tra i deputati; a bloccarlo è stata l’idea di presunto traditore di Johnson.

Un terzo nome è quello del ministro Penny Mordaunt, “brexiteer post-ideologica”, una delle poche figure che raccoglie simpatie trasversalmente, all’interno del caos Tory.

E se vi fosse un ritorno di BoJo? (fonte: www.spectator.co.uk)

In realtà, potrebbe entrare nel cerchio dei papabili anche “BoJo” (Boris Johnson), affossato dalla maggioranza conservatrice, ma ora rimpianto. Il Regno Unito si ritrova, dunque, a combattere per tenere insieme la solidità istituzionale.

 

 

Rita Bonaccurso

Cosa sta succedendo nello Yemen, un Paese dimenticato da tutti

Sullo sfondo del conflitto Russo-Ucraino, il concetto di guerra si è insinuato – dirompente come non accadeva da decenni – nell’immaginario comune. L’uomo realizza che la guerra è parte integrante della sua natura, deludendo ogni aspettativa sulla sua limitata localizzazione nel tempo e nello spazio.
Eppure, così come l’attuale guerra in Etiopia, in Tigray, quella yemenita è un tristissimo esempio del famoso adagio “Due pesi e due misure”: 7 lunghi anni di ostilità e scontri violenti nell’area mediorientale, territorio strategico per eccellenza incastonato tra l’Oman e l’Arabia Saudita, sono finiti nel dimenticatoio degli impotenti osservatori e volutamente ignorati dai potenti.

Lo Yemen protagonista di tre crisi nel mezzo di una guerra civile fuori controllo. Fonte: European Affairs Magazine

Dal 2015 in poi (anno ufficiale di inizio del conflitto) lo Yemen ha continuato ad essere un Paese privo di controllo, nonché teatro di un terribile scontro di interessi che vede contrapposti le milizie della minoranza sciita degli Houthi – governante il nord del paese – e l’esercito del legittimo governo in esilio.
Stiamo parlando di quella che l’ONU ha definito come la peggiore catastrofe umanitaria in corso, con oltre 380 mila vittime e 4 milioni di sfollati interni; dove oltre 20 milioni di persone (circa il 70% della popolazione) sopravvivono solamente grazie all’assistenza sanitaria di organizzazioni ed iniziative umanitarie, i cui fondi però non sono mai abbastanza. Ma la cosa più grave è che più della metà degli innocenti colpiti da tale flagello è rappresentata da bambini.

L’origine del conflitto

Lo Yemen è uno dei più antichi luoghi abitati del pianeta, una nazione dalla bellezza paesaggistica sfaccettata, con canyon, deserti, oasi, e lunghe coste incontaminate. Al posto dell’attuale origine semitica del nome odierno, gli antichi romani si riferivano alle regioni più meridionali della penisola arabica con il termine Arabia Felix (Arabia Felice), un’area ricca di spezie, incensi e snodo di scambi commerciali con Africa e India. Tuttavia, considerando quello che accade oggi in Yemen, il termine Felix è decisamente surreale e anacronistico.

Fonte: Documentazione.info

Il conflitto yemenita ha radici relativamente lontane, le quali diventano significativamente serie già a partire dai primi anni ’90, quando nella regione nord-occidentale del Paese, tra Sa’das e la capitale Sana’a, si andò formando un’organizzazione che in origine era più che altro una setta religiosa fondata dal clerico zaidita Hussein al-Houthi. In quanto zaidita sciita, Hussein era molto vicino ideologicamente e politicamente all’Iran e intesseva ottime relazioni con il leader supremo persiano, Ali Khamenei, così come anche l’altra realtà sciita in Medio Oriente, la libanese Hezbollah.

Il movimento di Hussein – inizialmente chiamato “la Gioventù Credente” – ha subito in seguito una radicalizzazione dovuta all’inasprirsi dei rapporti con il governo centrale, pertanto ora definendosi “Ansar Allah” (letteralmente i “partigiani di Dio”), altresì noti con il termine di Houthi. Nel 2014 il movimento ribelle degli Houthi prese il controllo della provincia settentrionale di Sa’ada e delle aree limitrofe, continuando ad attaccare e arrivando a prendere persino la capitale Sana’a, costringendo l’attuale presidente yemenita Hadi all’esilio.

Gruppo di Houthi ribelli. Fonte: The Defense Post

Si tratta quindi di una guerra indiretta tra i rivali regionali Arabia Saudita e Iran (che sostengono rispettivamente il governo riconosciuto e gli Houthi), ma anche la competizione nel fronte anti-houthi fra gruppi e milizie sostenute dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti (es. i secessionisti del Sud).

Chi è Hadi?

Abd Rabbih Mansour Hadi è un politico yemenita, entrato nell’esercito all’inizio degli anni ’70 e schieratosi inizialmente contro gli Houthi al fianco dello storico presidente Ali Abdallah Saleh, che per più di trent’anni era rimasto ai vertici di uno dei regimi più longevi della regione e alla guida di un Paese lacerato da guerre e carestia. Quest’ultimo ha scelto Hadi come vicepresidente dopo la guerra civile scoppiata nel 1994 a causa di un tentativo di golpe da parte di militari e politici di fede marxista, con l’obiettivo di realizzare la secessione del Sud e ricostituire un nuovo governo indipendente (come la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud del 1967).

Il presidente Hadi. Fonte: Agenzia Nova

Quando il 27 febbraio 2011 Saleh si dimise, Hadi si insediò formalmente alla presidenza della Repubblica, tentando in extremis un accordo con gli Houthi, per una condivisione del potere, concedendo loro una riforma istituzionale che gli avrebbe fatto acquisire un maggior peso politico e modificando l’assetto del paese in sei regioni federali. Gli Houthi, però, si dichiararono insoddisfatti delle proposte e, irritati dell’annunciata decisione governativa di un taglio ai sussidi, nel mese di gennaio 2015, guidati dal generale Abdul-Hafez al-Saqqaf, attuarono un colpo di stato, invocando le dimissioni di Hadi; a questo si aggiungeva la generale crisi economica e sociale del paese – già allora il più povero del mondo arabo – afflitto da gravissimi problemi come disoccupazione e inflazione alle stelle.

Hadi è da anni in esilio in Arabia Saudita e all’età di 77 anni, non godendo di buona salute, ai primi di aprile 2022, ha lasciato i poteri al Consiglio presidenziale, nella speranza di avviare una fase di transizione, accolta con favore da sauditi ed emiratini, che hanno annunciato nuovi aiuti finanziari per la ricostruzione.

Il vero motivo del coinvolgimento di Arabia Saudita

Emirati Arabi Uniti (EAU) e Arabia Saudita hanno, senza ombra di dubbio, contribuito in maniera decisiva alla frammentazione del Sud e del Nord del Paese, cooperando con alcuni alleati nella regione invasa per mantenere la legittimità del governo del presidente Hadi, l’unico riconosciuto a livello internazionale. Ma al di là della questione ufficiale, le vere motivazioni per l’intervento saudita in Yemen erano molte: l’Arabia condivide un confine di migliaia di chilometri con una nazione sull’orlo della guerra civile; una nazione dove chi rischiava di finire al potere era un clan sciita, alleato dell’Iran. E uno Yemen in mano agli Houthi avrebbe significato per i sauditi la rovina: isolamento totale, blocco dello stretto di Bab el-Mandeb oltre a quello di Hormuz e (punti strategici di traffico navale) e addio ai miliardi di barili esportati nel mondo. Niente export, niente petrodollari; niente soldi, niente potere. Ed ecco che l’incubo in versione Yemen – ma più esteso –sarebbe potuto diventare realtà dell’Arabia Saudita.

Il presidente Hadi con il principe saudita bin Salman. Fonte: la Repubblica

L’invio di armi USA e italiane

È intuibile che una guerra che va avanti da anni non potrebbe fare altrimenti senza il coinvolgimento di grandi protagonisti della scacchiera mondiale quali USA e Italia, vergognosamente responsabili dell’invio costante di armi. Chiaramente le denunce alle principali aziende produttrici di armi non sono mancate, ma ciò non decolpevolizza il governo italiano, che secondo l’Osservatorio dei Diritti nel primo semestre 2020 avrebbe inviato armi a sauditi ed emiratini (tra pistole e fucili semiautomatici) per un valore di 5,3 milioni di euro. Senza contare poi le bombe. A gennaio 2021 l’export è stato fortunatamente bloccato dal governo italiano. E ancora, Amnesty International nel 2018, titolava, riprendendo un articolo del Washington Post:

“Gli Stati Uniti non dovrebbero prendere parte ai crimini di guerra in Yemen”.

Il riferimento non era soltanto alla vendita di armi, ma anche all’invio di mercenari attraverso la compagnia militare privata Academi, un tempo nota come Blackwater.

Una pace più che necessaria

Di fronte a tali fatti, diviene quasi superfluo sottolineare l’esasperazione di una popolazione yemenita segnata da anni di sofferenze e privazioni: niente elettricità o acqua potabile, e quindi epidemia di colera; niente carburante per le auto e prezzi del cibo irraggiungibili per il cittadino comune, alcuni dei quali sono arrivati al punto – stando a quanto riportato da Al Jazeera da vendere letteralmente un rene al prezzo di 5-10,000$. Organi che poi sono rivenduti a clienti benestanti degli altri paesi del golfo a prezzi esorbitanti (anche 100,000$):

“La gente che ha un po’ di soldi tira avanti, ma gli altri non hanno nulla, quelli come me non riescono ad avere nemmeno il pane”, ha detto uno dei milioni yemeniti in stato di miseria.

I bambini, in Yemen, non possono andare a scuola. Fonte: Piccole Note

Pacificare l’area è dunque di fondamentale importanza. Anzitutto ristorerebbe parzialmente la sicurezza dei traffici nel mar Rosso: si pensi solo al rischio del formarsi di nuovi Foreign Fighters di matrice integralista, che approfittino del conflitto per dare vita a nuove cellule terroristiche. Inoltre, una possibile ragione a favore della pace – se mai ci fosse bisogno di sottolinearlo – potrebbe discendere dal raffreddamento delle relazioni tra gli stati del Golfo (sauditi e emiratini) dovuta alle guerre ucraina e siriana: le due monarchie assolute, infatti, non hanno voluto assolutamente aderire alle sanzioni contro la Russia e di aumentare la propria produzione di greggio per compensare le mancate forniture di Mosca. Ma forse il beneficio più grande, che la fine di questa guerra avrebbe, è uno in particolare: la fine di una catastrofe senza pari, dopo sette anni di una guerra che però viene raramente menzionata dai media nostrani.
Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia, commentando il conflitto in Yemen, ha parlato di “Una vergogna internazionale” aggiungendo che:

“Quello che continua a succedere in Yemen, nel silenzio dei grandi decisori internazionali, è una vergogna che intacca il senso di umanità”.

Gaia Cautela

Morire per una ciocca di capelli. L’Iran in rivolta per la tragedia di Mahsa Amini

Tre settimane fa, è successo qualcosa che ha sconvolto il mondo: il 16 settembre, la ventiduenne iraniana Mahsa Amini è stata picchiata a morte dalla polizia morale”, perché dal velo le sfuggiva una ciocca di capelli. La giovane è morta in ospedale tre giorni dopo e da allora, a partire dalle province con forte presenza di curdi, è dilagata nel Paese una rivolta.

Proteste a Teheran e nel resto dell’Iran per la tragedia di Mahsa (fonte: zazoom.it)

 

Arrestata per una ciocca di capelli fuori dall’hijab

La questione ha velocemente trovato eco in tutti gli angoli del mondo, soprattutto perché le donne iraniane hanno dato avvio alla più grande ribellione mai vista negli ultimi cinquant’anni.

Dal 1979, l’hijab, il velo, copre la testa delle donne già dall’età di nove anni. Fu detta “rivoluzione iraniana” e voluta dal regime degli ayatollah. “Rivoluzione” è un termine carico di storia, forse una delle parole più piene di significato in tutte le lingue: fa subito pensare alla ricerca e l’ottenimento di una libertà, in ogni caso più grande di ciò che precede. Nel caso delle donne iraniane e arabe tutte, questo termine ha avuto tutt’altra valenza, per mezzo secolo ha assunto il significato del suo contrario, quello di involuzione.

Mahsa era in vacanza a Teheran con la famiglia, originaria di una provincia del nord dell’Iran, quando è stata fermata proprio a causa del suo velo, che gli è costato la vita, solo perché non indossato rigorosamente a copertura di tutti i capelli.

Il generale Hossein Rahimi, il capo della polizia di Teheran, ha respinto le accuse di maltrattamento e ha dichiarato che la giovane è stata vittima diuno sfortunato incidente“, che sia morta di infarto e non per le percosse ricevute. Così la un altro colpo è stato inferto.

Al padre di Masha, Amjad Amini, è stato negato l’accesso alle informazioni riguardo il caso della morte di sua figlia:

“Nessuno mi dice cosa le hanno fatto e non mi fanno vedere i dati sulla sua morte”.

È intervenuto nella vicenda il presidente stesso dell’Iran, Ebrahim Raisi. Aveva promesso che sulla vicenda sarebbero state fatte indagini e pure con una certa celerità, ma ancora non vi sono novità, resta tutto nella vaghezza, seppur sembrano non esservi dubbi per le persone. Per il mondo intero è tutto chiaro: Mahsa è stata uccisa per una ciocca di capelli.

La morte della ventiduenne Mahsa fa scoppiare proteste che potrebbero cambiare per sempre il volto dell’Iran (fonte: lacrocequotidiano.it)

Le proteste dopo la morte di Mahsa e la risonanza in tutto il mondo

Nella sua inspiegabile tragedia Mahsa è divenuta il simbolo di una nuova lotta importantissima per un progresso sociale. Le piazze hanno iniziato ad infiammarsi, seguite soprattutto dalle università. Molte donne stanno scendendo in strada e, in segno di protesta contro il regime, si tagliano i capelli o bruciano hijab. Molti uomini le affiancano.

Attraverso i social media soprattutto arrivano testimonianze di ciò che sta accadendo: chi protesta viene investito dalla repressione delle forze dell’ordine iraniane, che si armano di gas lacrimogeni e violenza. Gli arresti sono in continua crescita e, purtroppo, alcune fonti segnalano la morte di varie persone.

Le donne che si ribellano rischiano la vita, ma continuare a lasciare da parte la libertà individuale non è un prezzo che vogliono ancora pagare.

Internet aiuta a raccontare, affinché sempre più persone possano sapere – così come le stesse iraniane supplicano di fare – e perché ciò che finora è stato normalità, possa esser descritto per quello che realmente è: una violazione dell’inalienabile libertà personale. Anche persone note stanno veicolando la propria popolarità perché un cambiamento reale possa avvenire. In Iran,

In Italia, l’attrice Claudia Gerini, nella giornata di ieri, si è filmata mentre si tagliava una ciocca di capelli, poi messa in una busta indirizzata all’ambasciata iraniana in Italia, a Roma: un gesto forte e chiaro, che molte altre attrici, anche non italiane, stanno compiendo per sottolineare l’importanza di far qualcosa e per farsi sentire più vicine alle donne iraniane.

L’obiettivo è quello di smuovere le coscienze della classe politica iraniana, di coloro che mantengono vivo un regime poco rispettoso dei diritti delle persone.

 

Un’italiana arrestata a Teheran

Alcune fonti segnalano dati terribili: molte persone sarebbero morte per la repressione delle proteste e ancora di più sono state arrestate.

Inoltre, è giunta la notizia dell’arresto di una ragazza italiana, in viaggio in Iran, la romana Alessia Piperno. Non si avevano notizie dallo scorso 28 settembre, data dell’arresto. Lei una viaggiatrice per lavoro, ormai da sette anni, con un amore grande per il mondo e le diverse culture. La trentenne travel blogger potrebbe trovarsi nel carcere di Evin, noto per essere il luogo riservato agli oppositori politici della repubblica islamica iraniana.

Alessia Piperno, travel blogger italiana arrestata in Iran (fonte: zazoom.it)

Alessia è riuscita, dopo giorni di silenzio, è riuscita ad avere una telefonata con la famiglia. Ha raccontato di essere stata fermata dalla polizia a Teheran, ma i motivi dell’arresto rimangono ancora sconosciuti.

Amnesty International ha ricordato quelli sono i capi d’accusa che il governo iraniano solitamente imputa ai prigionieri politici, per volere degli ayatollah, gli stessi che nel ’79 introdussero proprio l’obbligo dell’hijab:

“L’Iran ha detto di aver fermato nove stranieri che avrebbero preso parte alle manifestazioni. Se questa fosse l’accusa anche per Alessia sarebbe del tutto ingiustificata – le parole di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italian – ma i possibili capi d’accusa rischiano di passare dalla ‘minaccia contro la sicurezza nazionale’ alla ‘propaganda’ fino allo ‘spionaggio’.”.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio è a lavoro per cercare di risolvere la complicatissima situazione. Ha già avuto un colloquio telefonico con il suo omonimo iraniano, Hossein Amir-Abdollahian. Attraverso una nota ne sono stati resi noti i punti affrontati. Sembrerebbe, però, che il nome della giovane italiana non sarebbe stato fatto inizialmente. Il ministro Iraniano avrebbe parlato solo della situazione generale, dei disordini registrati dopo la morte di Mahsa Amini. Sarebbe stato, secondo fonti attendibili, il ministro Di Maio a sollevare la questione dell’arresto di Alessia.

In ogni caso, la Farnesina, per la liberazione della nostra connazionale, come reso pubblico tramite una nota, sta facendo leva su “legami secolari” che uniscono il nostro Paese all’Iran. Il lavoro per la diplomazia è molto difficile. La vicenda è delicatissima, una problematica potrebbe avere conseguenze gravissime.

Intanto le donne iraniane continuano a combattere per la propria libertà e anche quella di tutti noi indirettamente, poiché la libertà è un concetto universale o almeno dovrebbe esserlo. Forse, finalmente, stanno per esser spezzate alcune delle catene imposte dall’uomo conservatore che spesso confonde la tutela della libertà individuale con il mancato rispetto della moralità.

 

Rita Bonaccurso

Russia in “default tecnico”: il Paese non potrà pagare le sue obbligazioni, ma non per una mancanza di soldi

La Russia è in default, da oggi, lunedì 27 giugno. Uno schiaffo morale al Paese e il suo leader, Vladimir Putin, ma, stando alle parole degli esperti, si tratta di un fatto simbolico, più che di un vero e proprio problema, almeno per ora. È stato, per questo, definito “default tecnico”.

La Banca Centrale russa a Mosca (fonte: ANSA)

I precedenti

Un altro avvenimento analogo, nella storia della Russia, si è verificò nel 1918, per la prima volta, quando il governo sovietico si rifiutò di ripagare le somme accumulate dagli zar.

Un altro default, ma interno, si registrò nel 1998, quando il rublo andò in crisi e la Federazione russa dovette dichiararsi inadempiente verso il debito interno. All’epoca, annunciò una moratoria sul rimborso del debito contratto con gli investitori esteri.

Quello attuale era stato annunciato già ieri sera, domenica 26 giugno, in corrispondenza della fine dei 30 giorni scattati il 27 maggio, un “periodo di grazia”, entro cui la Russia avrebbe dovuto pagare due bond. Alcuni avvocati sostengono, però, che il Paese abbia tempo fino alla fine del giorno lavorativo successivo, quindi fino a stasera, per pagare.

Il suddetto mancato pagamento corrisponde a 100 milioni di dollari di interessi sulle due obbligazioni – una in dollari e l’altra in euro – in scadenza nel 2026 e nel 2036, i due bond di cui sopra. Sostanzialmente, la Russia risulta inadempiente nei confronti dei suoi creditori e degli investitori che detengono le sue obbligazioni internazionali.

 

 

Mosca sostiene di aver già i pagamenti per cui è stata dichiarata inadempiente

Il Cremlino ha rilasciato dichiarazioni che preannunciano una probabile complicazione di tale situazione:

«Le accuse di default della Russia sono illegittime, il pagamento in valuta estera è stato effettuato a maggio».

Il ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, negli scorsi giorni si era già espresso in merito: «Chiunque può dichiarare quello che vuole e può provare ad attaccare alla Russia qualsiasi etichetta. Ma chiunque capisca la situazione sa che non si tratta in alcun modo di un default».

Dunque, la Russia nega l’inadempienza nei pagamenti per cui è stato dichiarato il default. Prima, però, bisogna chiarire le modalità in cui questo è scattato: il default tecnico non è dovuto alla mancanza di denaro da parte del debitore (la Russia), ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori internazionali.

Mosca sostiene di aver sempre effettuato tutti i pagamenti a cui doveva adempiere, anche se, negli ultimi tempi, in rubli anziché nelle valute previste dai contratti, proprio per l’impossibilità di farlo. Da qui a fine anno, sui circa 40 miliardi di titoli denominati in valuta estera, circa 1 o 2 miliardi di dollari di pagamenti.

I mercati non hanno ancora ricevuto alcuna dichiarazione ufficiale, sulla nuova condizione per la potenza russa, ma, non avendo gli investitori esteri ricevuto le somme spettanti entro la scadenza prestabilita, il default è comunque scattato, appunto, tecnicamente.

Ma a chi compete decretare ufficialmente il fallimento di un qualsiasi Stato sovrano? Di solito sono le agenzie di rating maggiori. Il caso russo è unico nel suo genere, poiché le agenzie sono state impossibilitate a intrattenere rapporti con il Paese, per via delle sanzioni impostegli per aver scatenato il conflitto con l’Ucraina.

 

Un default “artificiale”, architettato dall’Occidente

Prima di arrivare a tal punto, era stato proposto alla Russia di emettere debito nominato in dollari, ma essa si rifiutò. Proprio la decisione degli Stati Uniti, di non rinnovare, successivamente alla suddetta proposta, la “licenza speciale” per cui, fino alla fine di maggio e nonostante le sanzioni già applicate, era concesso alla Russia di continuare come sempre a pagare le obbligazioni verso gli investitori americani, è stato determinante per la dichiarazione di default.

La Russia si era difesa con l’utilizzo di conti correnti doppi e la richiesta di pagamenti in rubli, per i titoli di Stato. In ogni caso, il Paese sostiene, non essendovi una reale impossibilità a procedere come finora ai pagamenti, per la gran disponibilità di denaro che comunque affluisce nelle sue casse, che questo sia un default “artificiale”, architettato dall’Occidente e legato alle sanzioni da esso imposte.

Essendo uno scenario mai verificatosi prima, quantomeno non nelle stesse modalità, ancora non si sa cosa possa accadere dopo, quali possano essere i risvolti per l’economia russa.

Potrebbe accadere che gli obbligazionisti verso cui Mosca è inadempiente potrebbero unirsi e formulare una dichiarazione congiunta oppure, al contrario, attendere per monitorare l’evoluzione del conflitto in Ucraina.

Attualmente il Paese non può, inoltre, chiedere dei prestiti internazionali. Però, pare non ne abbia bisogno, considerati i ricchi introiti per il gas e il petrolio. Si può prendere ad esempio che il Centro per la ricerca sull’energia e l’aria pulita, “Crea”, stima che la Russia abbia ricavato 70 miliardi di euro dalla vendita di petrolio e gas, soltanto nei primi 100 giorni dall’inizio della guerra

Comunque, non si hanno certezze su ciò che accadrà, la situazione risulta senza precedenti sin dalle sue premesse anomale: il default russo, infatti, comporterebbe l’esclusione per il Paese dai mercati finanziari in seguito alla perdita di fiducia per i mancati pagamenti, ma la Russia, di fatto, è già stata tagliata fuori dai rapporti con i Paesi occidentali per gli effetti delle sanzioni per la guerra.

Alcuni, sostengono che si debba attendere che un tribunale si esprima ufficialmente, su richiesta degli investitori, visto che nessun’altra dichiarazione, neanche dalle agenzie internazionali di rating, è arrivata.

 

Rita Bonaccurso

 

 

Una tragedia nel catanese: Elena, bimba di 5 anni, uccisa dalla madre. Non si trattava di rapimento

Non si trattava di rapimento, ma di un orrore ben più grande, che era quasi impossibile immaginare. La piccola Elena, la bambina di 5 anni di Tremestieri Etneo, di cui era stato denunciato un rapimento, è stata trovata senza vita. A macchiarsi dell’atroce delitto, la stessa madre, Martina Patti.

La piccola Elena e la madre Martina Patti (fonte: www.tgcom24.mediaset.it)

La confessione dopo ore di interrogatorio

Dopo una notte di interrogatori, la ventitreenne Martina Patti, madre della bambina scomparsa due giorni fa, ha confessato. La ragazza aveva sporto denuncia per rapimento, raccontando di esser stata assalita da tre uomini incappucciati, di cui uno armato, i quali le avevano portato via la figlia che era lì con lei, circa alle ore 15: dopo aver bloccato la vettura che lei conduceva lungo via Piave, il presunto gruppo l’avrebbe minacciata con una pistola o una mazza, sottraendole poi la bambina e dichiarando di volerla uccidere.

Stamane, alla fine è emerso che la piccola Elena sia stata uccisa proprio dalla madre. Gli inquirenti hanno rivelato di aver protratto per un’intera notte l’interrogatorio: la ricostruzione del tragico avvenimento fatto da Martina Patti aveva suscitato dei dubbi sin da subito. Il rapimento era una copertura dell’omicidio.

Nell’interrogatorio “erano state contestate varie incongruenze“, aveva affermato il pm Carmelo Zuccaro, prima della definitiva dichiarazione confessoria. Sin dall’inizio vi erano molti sospetti, suscitati dalla mancanza di testimoni, oltre lei stessa: l’ipotesi che la piccola Elena fosse stata rapita da un gruppo di uomini incappucciati è stata smentita dalle telecamere di sorveglianza, che non avevano registrato alcun tipo di situazione simile a quella raccontata.

Inoltre, non era stata fatta alcuna telefonata alle forze dell’ordine subito dopo l’aggressione, ma Patti si è direttamente recata, con dei familiari, al comando di Mascalucia per presentare la denuncia. Perciò i Carabinieri hanno insistito con le domande.

Quest’ultima, sotto pressione, dopo ore di interrogatorio, infatti, ha ammesso: “Sono stata io” e “Vi porto da Elena”.

In lacrime, ha così portato gli investigatori nel posto in aveva occultato il corpicino della figlia, un terreno incolto, in via Turati, a circa 600 metri dalla propria abitazione dove viveva da sola proprio con la bambina.

 

Le “anomalie” nella ricostruzione del rapimento

Omicidio premeditato pluriaggravato e soppressione di cadavere: queste le accuse rivolte dalla Procura di Catania alla reo confessa, che è stata trasportata alla casa circondariale di Catania “Piazza Lanza”. Gli inquirenti pensano anche a una premeditazione. Nella prima fase dell’inchiesta, è stato anche contestato il reato di false informazioni al pubblico ministero, avendo mentito.

Martina Patti ha chiarito la dinamica del delitto, anche se non del tutto, dichiarando di aver anche rimosso alcune fasi, come se non fosse realmente cosciente di ciò che stesse facendo. Non ha, invece, svelato il movente.

La donna si è dichiarata unica colpevole del delitto e ha fornito la ricostruzione reale dei fatti, seppur frammentaria: dopo aver preso la figlia all’asilo, aveva deciso di dirigersi a casa della madre, la nonna di Elena, aggiungendo che da quel momento in poi non ricordasse bene ciò che era accaduto. Alla fine ha detto:

Le ho dato un budino, guardava i cartoni, poi l’ho colpita“.

Sul corpicino di Elena, sono stati trovati segni di fendenti inferti un coltello da cucina e forse con un altro oggetto. La bimba senza vita era stata poi trasportata nel luogo del ritrovamento, posta in dei sacchi neri e nascosta nella terra e ricoperta di cenere vulcanica, ma non in profondità.

L’assenza di un riscontro tra immagini di telecamere che attestassero il passaggio di un gruppo armato nell’orario indicato da Patti è stata la conferma iniziale ai sospetti. I carabinieri della sezione Investigazioni Scientifiche stavano svolgendo dei sopralluoghi nell’abitazione della donna, quando questa ha confessato.

La donna non rivela il movente

Il padre della bambina, il ventiquattrenne Alessandro Nicodemo Del Pozzo, recatosi sul luogo del ritrovamento del corpo della figlia è scoppiato in lacrime. Con Martina Patti non vivevano più insieme da tempo. Le stesse indagini hanno rilevato il “quadro di una famiglia non felice, in cui la gioia della figli a non ha compattato la famiglia”. A rivelare quanto detto è stato il comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Catania, il colonnello Piercarmine Sica, il quale ha confermato l’esclusione di un complice nel delitto.

Lo stesso comandante è ritornato sulla questione del movente, non dichiarato dalla reo confessa: gli inquirenti hanno ipotizzato che possa esser stata gelosia, o meglio, la gelosia nei confronti della nuova compagna dell’ex convivente, a cui la figlia si era profondamente affezionata e verso cui dimostrava affetto. Elena sarebbe stata “troppo felice” con i nonni paterni, il padre e la sua nuova compagna.

Ancora si dovrà indagare, nulla è confermato. Intanto, l’avvocato di Martina Patti ha annunciato di voler far visitare l’assistita da uno psichiatra molto noto, per verificarne le condizioni di salute mentale.”.

 

Le dichiarazioni dei nonni e della zia paterna fanno luce su una situazione difficile

I familiari di Elena, da parte paterna, appresa la realtà di quanto accaduto hanno dichiarato che sarebbe stato impossibile immaginare una cosa del genere. “La madre di Elena era una ragazza molto chiusa, ma non riesco a spiegarmi il motivo di quello che è accaduto” ha detto il nonno paterno di Elena.

Avevamo creduto alla storia degli uomini incappucciati: non avevamo ragione di non credere.” ha dichiarato, invece, la nonna paterna, Rosaria Testa, sul luogo del ritrovamento della nipotina. Proprio la donna ha rivelato dettagli che potrebbero confermare il movente della gelosia: Martina Patti sarebbe stata ossessionata con l’ex compagno, il figlio della signora.

Anche la zia paterna di Elena, Martina Del Pozzo, ha apportato racconti che testimonierebbero comportamenti strani da parte di Martina Patti:

“La mamma di Elena voleva incastrare mio fratello. Un anno fa mio fratello fu accusato ingiustamente di una rapina, ma fu scagionato completamente. Quando dal carcere passò ai domiciliari, sotto casa trovammo un biglietto di minacce con su scritto “Non fare lo sbirro, attento a quello che fai”. Mio fratello non sa nulla di nulla. A quel biglietto la madre della bimba ha fatto riferimento dicendo che avevano rapito Elena. Martina disse che quelle persone incappucciate avevano fatto riferimento al biglietto dicendo “non ti è bastato il biglietto? Digli a tuo marito che questa è l’ultima cosa che fa: a sua figlia la trova morta”.”

Del Pozzo era stato accusato di rapina effettuata in una gioielleria di Catania, per cui fu arrestato il 15 ottobre 2020, ma assolto per non aver commesso il fatto. A questo avvenimento, la ventitreenne Patti avrebbe fatto riferimento, nelle prime dichiarazioni, riconducendo il rapimento della figlia – da lei inscenato – a una conseguenza di questo fatto accaduto all’ex compagno. Potrebbe essersi, dunque, trattato di un tentativo di incastrare il ventiquattrenne.

Insomma, la donna fu più volte colta in atteggiamenti strani, come quando, secondo quanto raccontato dalla donna paterna: “Un giorno la mamma le stava dando botte (ad Elena, ndr) e gliela abbiamo dovuta togliere dalle mani”. Però, mai era stata fatta una segnalazione agli assistenti sociali. Il sindaco della cittadina Vincenzo Magra, ha spiegato che a Mascalucia non si conosceva bene la famiglia, perché da pochi anni lì trasferitasi.

Sicuramente questo caso sottolinea, come altri, quanto sia necessario seguire da vicino persone, in momenti fragili della propria vita, come giovani madri, ma anche giovani padri, nelle prime fasi della genitorialità, quando queste si svolgono in condizioni complicate.

Rita Bonaccurso

Presunti incontri segreti tra vertici Ue, Usa e Uk per giungere alla soluzione del conflitto in Ucraina

Sul conflitto Russia-Ucraina alleggia lo spettro delle ultime stime, secondo le quali esso potrebbe protrarsi ancora dai due ai sei mesi. Secondo quanto rivelato dall’emittente televisiva americana Cnn, nelle ultime settimane, si sarebbero svolti diversi incontri segretissimi tra vertici Ue, Usa e Uk, per trovare il modo di mettere la parola fine alla guerra che sta sconvolgendo l’Ucraina e, indirettamente, il resto del mondo.

Il conflitto tra Russia e Ucraina potrebbe protrarsi per altri 2-6 mesi (fonte: ANSA)

Non si sa molto, non sono neanche chiare le modalità a cui si starebbe pensando per arrivare al cessate il fuoco, per portare l’Ucraina a trattare con la Russia. Kiev, però, non sarebbe stata direttamente coinvolta nelle presunte riunioni, nonostante gli Stati Uniti avessero promesso di “non decidere nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina”.

Tra le questioni discusse, sarebbe finito sul tavolo anche il piano in quattro punti proposto dall’Italia il mese scorso. Il contenuto di questo documento era stato reso noto dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.

 

Il contenuto del documento italiano

Il suddetto documento è stato redatto dalla Farnesina e propone un percorso verso il cessate il fuoco, tramite quattro tappe. Di Maio lo aveva fatto avere al segretario dell’Onu, il 18 maggio, a New York, inoltre, anche ai diplomatici dei ministeri degli Esteri del G7 e del Quint (Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia).

Il ministro Di Maio e il segretario Onu (fonte: ANSA)

Ad ideare la proposta è stata la Farnesina, in collaborazione e con la supervisione di Palazzo Chigi, in seguito all’incontro tra il premier Mario Draghi e il presidente statunitense Joe Biden. Il presidente del consiglio italiano aveva, in quell’occasione, ribadito che l’Italia vorrebbe formare un tavolo euroatlantico per discutere delle eventuali opzioni per la guerra.

Il secondo fine sarebbe quello di portarvi, poi, l’Ucraina, lasciandole il ruolo principale nelle trattative. Dunque, ancora una volta, il dialogo tra le nazioni in guerra è ritenuto essere potenzialmente l’unico strumento utile per arrivare davvero alla fine del conflitto.

Il percorso delineato si dovrebbe svolgere sotto la supervisione di un “Gruppo internazionale di Facilitazione”. Le quattro fasi si articolerebbero in: il cessate il fuoco, la neutralità dell’Ucraina, concordare delle decisioni sulle questioni territoriali di Donbass e altre zone come la Crimea, trovare un nuovo accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza nel continente Europeo.

Alla prima tappa si potrebbe arrivare tramite dei meccanismi di supervisione e con la smilitarizzazione della linea del fronte. Successivamente – per la realizzazione della seconda tappal’Ucraina dovrebbe dichiarare la sua neutralità a livello internazionale e, modificando il suo status, potrebbe, inoltre, conquistare una condizione che le permetterebbe di poter divenire un membro dell’Unione Europea.

La terza tappa comporterebbe ancor più difficoltà: arrivare a una soluzione che pongano fine alle controversie sui confini tra i due Stati, che vengano poi riconosciuti a livello internazionale, prevedrebbe un grande sforzo e decisioni su vari aspetti, tra cui quella su quale tipo di sovranità instaurare in queste aree. Qualora si arrivasse a tal punto, bisognerebbe anche capire cosa fare in ambito culturale, come regolare i diritti in materia di conservazione del patrimonio storico-culturale.

Il quarto e ultimo punto consisterebbe nel riorganizzare gli equilibri internazionali, elaborando un nuovo accordo multilaterale sulla pace. nel dopoguerra, si dovrebbe arrivare al ritiro delle truppe russe dai territori occupati durante il conflitto, per poi pensare di ritirare le sanzioni adottate contro la Russia.

La pace dovrebbe poi essere costruita su solide basi, prendendo misure come il disarmo e il controllo degli armamenti, per prevenire qualsiasi possibilità di conflitto.

Due esponenti statunitensi avrebbero, però, dichiarato alla stessa Cnn che gli Stati Uniti non sarebbero d’accordo con il piano proposto dall’Italia, nonostante negli scorsi giorni l’ambasciatrice americana, Linda Thomas Greenfield, aveva detto all’Onu che la proposta italiana potrebbe essere davvero una delle pochissime strade percorribili per porre fine alla guerra.

 

La questione del grano e della sicurezza alimentare

A New York, il ministro Di Maio aveva anche riportato l’attenzione sulla problematica del grano. Il tema della sicurezza alimentare era stato affrontato pure dai Paesi del G7, considerando l’iniziativa della Banca Mondiale di stanziare altri 12 miliardi di dollari per prevenire ulteriori disastri. Di Maio ha sottolineato la necessità di “costruire insieme un corridoio sicuro per provare a portare via il grano dal Paese e permettere quindi ai produttori ucraini di esportarlo e riportarlo sul mercato”.

I prezzi del grano hanno subito un rialzo a causa del conflitto, che potrebbe raggiungere picchi più alti di un ulteriore 20%, entro la fine dell’anno. Così, si verificherebbe una perdita d’acquisto sostanziale che colpirebbe anche gli italiani.

«L’Ue con i suoi progetti di cooperazione allo sviluppo ha una grande responsabilità anche perché saremo i Paesi che direttamente subiranno gli effetti di questa insicurezza alimentare».

 

L’intervista di Putin a un’emittente tv russa

Intanto, Putin ha parlato ai microfoni dell’emittente tv pubblica Rossiya 24, affrontando anche il tema delle esportazioni di grano dall’Ucraina. Il presidente russo si è detto pronto a garantire il passaggio tramite anche i porti occupati dalle sue truppe.

«I porti del Mar d’Azov, Berdyansk, Mariupol, sono sotto il nostro controllo. Siamo pronti a garantire un’esportazione senza problemi, anche del grano ucraino, attraverso questi porti – ha dichiarato il leader russo – Stiamo finendo i lavori di sminamento”, ha aggiunto, “il lavoro è in fase di completamento, creeremo la logistica necessaria, lo faremo».

Putin ha assicurato di non voler impedire l’export di grano ucraino, aggiungendo che la crisi alimentare non sia direttamente imputabile alla Russia, accusando anche per questo l’Occidente. Per il presidente, le notizie di un blocco all’esportazioni di grano dall’Ucraina, sarebbe un’invenzione dell’Occidente per coprire gli sbagli fatti proprio dai Paesi occidentali.

Inoltre, ha detto di aver invitato Kiev a rimuovere le mine poste nel territorio ora sotto il controllo russo, per rendere sicure le esportazioni del grano, aggiungendo che di tale situazione la Russia non ne approfitterebbe per sferrare attacchi dal mare.

In ogni caso, al di là delle dichiarazioni fatte dalla Russia e della questione della veridicità degli incontri tra vertici europei, statunitensi e britannici, ciò che più conta è che i protagonisti politici siano d’accordo nel tentare di trovare la via per la pace più corta.

 

 

Rita Bonaccurso

 

Un vaiolo dalle scimmie: “Monkeypox virus”. Preoccupazione in Europa, ma gli esperti rassicurano

Il Monkeypox virus visto al microscopio (fonte: roma.corriere.it)

L’Italia e l’Europa di nuovo preoccupate per un virus: si tratta di un vaiolo proveniente dalle scimmie, “Monkeypox virus”. Si invita a mantenere alta l’attenzione, ma la malattia virale non provocherebbe complicazioni gravi.

Diffuso soprattutto in Africa, in particolare in Ghana e Nigeria, tra scimmie e roditori, il Monkeypox virus non è paragonabile al vaiolo umano, diffusosi negli anni ’80 e molto più grave di questa malattia di origine animale.

Ancora non molto si sa dell’agente patogeno di questo virus. Le indagini sono già iniziate e l’attenzione a livello internazionale sia altissima, ma si tratta di prudenza, poiché non vi è una reale preoccupazione per i sintomi. Sappiamo che una rassicurazione come questa non sia realmente d’aiuto, poiché lo spettro del Covid-19 alleggia ancora sulle nostre teste.

Diagnosticato sporadicamente in Europa, negli ultimi anni, e in altre zone delle Americhe, il vaiolo delle scimmie è stato di solito contratto da viaggiatori provenienti da zone endemiche, aree in cui esso è normalmente diffuso.

La malattia, quindi, non è sconosciuta e non ha mai causato allarmi. Perciò le autorità sanitarie di tutto il mondo invitano a rimanere attenti, ma calmi.

L’Istituto superiore di sanità, l’Iss, ha costituito una task force di esperti per monitorare tramite il supporto di vari centri nazionali che si occupano di malattie infettive.

 

I sintomi

L’ Iss ha fatto alcune raccomandazioni sui comportamenti da tenere in caso di sintomi sospetti e di contatto con persone sintomi simili a quelli riscontrati finora: febbre, dolori muscolari, cefalea, linfonodi gonfi, stanchezza e manifestazioni cutanee, quali vescicole, pustole e piccole croste. La manifestazione dei sintomi avviene dopo circa 12 giorni dall’esposizione al contagio, che avviene tramite le vie aeree, attraverso le goccioline del respiro (“droplets”).

Attualmente non è sicura la trasmissione tramite rapporti intimi, dunque, attraverso tutti i liquidi corporei. Inoltre, al momento non viene considerato contagioso chi non presenta sintomi, ma in tutti i casi è raccomandata la massima precauzione, visto che il virus non si è registrato in moltissimi casi.

Si raccomanda, in tal caso, di restare a casa, a riposo, e di rivolgersi al medico di fiducia, per evitare di diffondere il virus. Inoltre, dalla malattia si guarisce, secondo quanto si sa, senza terapie scientifiche, questa scompare spontaneamente, nel corso di 1 o 2 settimane.

 

Il primo caso italiano allo Spallanzani di Roma

Finora, una ventina i casi accertati in Europa, di cui i primi nel Regno Unito, Spagna e Portogallo. In Italia, il primo identificato all’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma. Si tratta di un giovane di ritorno dalle Isole Canarie, che si era presentato inizialmente al pronto soccorso dell’ospedale Umberto I. Altri due i casi sospetti attenzionati nel frattempo.

I medici dello Spallanzani hanno dichiarato:

«Il quadro clinico è risultato caratteristico e il Monkeypox virus è stato rapidamente identificato con tecniche molecolari e di sequenziamento genico dai campioni delle lesioni cutanee. La persona è in isolamento in discrete condizioni generali, sono in corso le indagini epidemiologiche e il tracciamento dei contatti».

Informato tempestivamente il ministro della Salute, Roberto Speranza, dall’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, il quale ha dichiarato esser stata già avviata un’indagine epidemiologica dai “cacciatori di virus”.

Speranza ha, a sua volta, riferito che verranno coinvolti nell’azione di monitoraggio l’Autorità europea per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie, l’Hera, e il Centro europeo per la prevenzione delle malattie, l’Ecdc, da cui è stato consigliato di non procedere con vaccinazioni contro il vaiolo, se non in strettissimi casi ad alto rischio, poiché sufficiente un semplice trattamento antivirale.

 

Le dichiarazioni degli esperti invitano alla prudenza, ma allo stesso tempo rassicurano

Anna Teresa Palamara, capo del dipartimento di Malattie infettive dell’Iss ha confermato che nel nostro Paese non ci sia un allarme, ma ha invitato alla prudenza con i rapporti intimi, poiché ancora non è chiaro se possano veicolare il contagio.

Il noto infettivologo Matteo Bassetti, direttore Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, ha dichiarato che chi ha effettuato il vaccino contro il vaiolo è protetto anche dal vaiolo delle scimmie, che condivide la stessa famiglia, pur essendo diverso.

Però, la profilassi è vietata, in Italia, dal 1974 e, dunque, la maggior parte della popolazione è scoperta. Perciò, l’infettivologo ha stimato che nei prossimi giorni si possa arrivare a un migliaio di casi.

«Dobbiamo cercare di mettere in sicurezza il vaiolo delle scimmie. È molto più leggero di quello degli uomini per quanto riguarda i sintomi e si trasmette anche attraverso il respiro, ma solo se si sta molto vicini» ha detto ai microfoni di Rai Radio1.

In ogni caso, le autorità sanitarie non consigliano di effettuare vaccinazioni, se non in strettissimi casi ad alto rischio.

La situazione viene controllata comunque con attenzione per evitare un aumento dei contagi, ma il virus non arrecherebbe un’elevatissima infettività intra-umana, da quel che si conosce. «Ovviamente è qualcosa che ci preoccupa. Al momento, però, è necessario solo procedere correttamente con segnalazioni tempestive e un’attenzione specifica nei laboratori», ha detto Fabrizio Pregliasco, docente dell’università Statale di Milano e direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi.

Il microbiologo dell’Università di Padova, Andrea Crisanti, ha evidenziato la necessità di diagnosticare velocemente gli eventuali casi vaiolo, per poter utilizzare una terapia e tenerlo sotto controllo sin da subito. Però, il fatto che il virus non sia mai stato diffuso nel nostro Paese o in Europa, potrebbe causare ritardi nella diagnosi.

Nonostante ciò, Crisanti ha ricordato che non si tratta di una malattia nuova:

«Chi la presenta così racconta una bufala clamorosa: è endemica in Congo, abbiamo avuto un cluster nel 2003 negli Stati Uniti e in Sudamerica ci sono stati diversi casi negli anni scorsi. L’unica cosa anomala al momento è l’elevato numero di casi Inghilterra e in Spagna».

La pandemia da Covid-19 ci ha cambiato e le prime indiscrezioni sul Monkeypox ci ha subito allarmato, ma le parole degli esperti e l’organizzazione tempestiva di enti ed istituti sanitari suggerisce che saremmo in grado di evitare un disastro come quello iniziato da Wuhan, facendo ricorso all’arma da sempre più efficace: la prevenzione.

 

 

Rita Bonaccurso

Un livello surreale di molestie durante il raduno degli Alpini. Richiesta la sospensione della tradizione

Cinquecento segnalazioni per molestie: questo, ciò che resta del 93esimo raduno degli Alpini svoltosi a Rimini, dal 6 all’8 maggio. Fischi, proposte oscene, inseguimenti per allungare le mani e comportamenti oltre il limite, penalmente perseguibili secondo la Legge italiana, mascherate indebitamente da goliardia, che tale affatto non è. L’orrendo bilancio di quanto accaduto è stato reso pubblico dalla delegazione riminese dell’associazioneNon una di meno”.

Registrati molti casi di molestie durante il raduno degli Alpini a Rimini (fonte: lapresse.it)

Il raduno ha visto la partecipazione di ben 520mila persone, di cui almeno 450mila “penne nere“. Avrebbe dovuto celebrare – considerando le motivazioni per cui la tradizione venne creata – i sani valori degli Alpini, ma si è trasformato, per l’ennesima volta, per colpa di alcuni partecipanti, persino anziani, in uno scempio ai danni delle donne. Non è, infatti, la prima volta che in occasione di tale ricorrenza si verificano riprovevoli episodi di molestie fisiche e verbali.

All’associazione Non una di meno è bastato raccogliere le testimonianze delle donne – tra cui anche delle minorenni – per lanciare l’allarme e portare attenzione sul caso e, sin da subito, iniziare ad agire: “Daremo supporto a chiunque voglia denunciare le molestie subite” aveva assicurato sin da subito sui social il movimento.

«Alcune donne hanno deciso di denunciare e ci hanno contattato per chiedere il nostro supporto che non tarderà ad arrivare».

L’associazione ha raccolto tutto il materiale, tra cui foto e video, che potrebbero essere impiegate per una procedura legale collettiva.

 

Le dichiarazioni degli Alpini arrivano in ritardo e infuria la polemica

Solo alla prima denuncia raccolta dalle forze dell’ordine, martedì 10 maggio, sono giunte le scuse dell’associazione nazionale Alpini. Oltre la gravità di quanto accaduto e nonostante la notizia fosse stata divulgata già anche dalle principali testate giornalistiche e dai telegiornali nazionali, gli Alpini avevano fatto scoppiare una polemica lasciando scorrere giorni di silenzio.

In tutto il Paese non si è parlato che di questo e dell’assurdo negazionismo trapelante dalla linea scelta. Il presidente nazionale, Sebastiano Favero, ha preso le distanze da quanto accaduto solo dopo la prima denuncia, fatta da una ragazza di 26 anni al Comando dei Carabinieri di Rimini. Ha raccontato di essere stata accerchiata e aggredita da tre persone durante l’evento di sabato 8 maggio, per poi essere strattonata e insultata con frasi dall’esplicito riferimento sessuale.

«Adesso ci sono fatti concreti. Mi consenta – ha detto il presidente – innanzitutto di chiedere scusa a chi ha subito le molestie. Faremo di tutto, insieme alle forze dell’ordine, per individuare i responsabili. E se sono appartenenti alla nostra associazione, prenderemo provvedimenti molto forti.»

Queste parole che l’opinione pubblica attendeva, ma che sono arrivate come uno stridio alle orecchie per quel “Adesso ci sono fatti concreti”, che ha completato quei precedenti “senza i fatti e le denunce”, che “al momento non ci risultano”. Si può ben capire perché queste dichiarazioni abbiano infiammato subito la polemica, vivendo in un’epoca in cui ormai Internet è veicolo velocissimo per far girare foto e video, che dalle prime ore avevano iniziato a girare.

Non serviva attendere la conferma delle denunce per anche solo cogliere l’occasione di stigmatizzare certi comportamenti. Questa l’accusa ricevuta dal presidente e gli Alpini.

Favero in sua difesa, per giustificare le sue parole, aveva ricordato che, nel 2018, in occasione dell’adunata degli Alpini a Trento, “simili voci” erano circolate e voci erano rimaste. Ciò, però, non è bastato, proprio in virtù del tanto materiale già in rete e della convinzione ormai diffusa che il beneficio del dubbio, in certi casi, andrebbe concesso senza alcuna esitazione, consapevoli dei retaggi di una cultura patriarcale che ancora generano gravi episodi.

 

Una petizione per sospendere i raduni

Intanto, oltre 13mila firme sono state registrate da una petizione online su Change.org, da Micol Schiavon.

«Non è la prima volta che si verificano molestie nelle città ospitanti, le scuse non sono più sufficienti».

L’attivista, autrice della petizione, ha ribadito che, purtroppo, non è la prima volta che si creano situazioni simili durante le adunate: “Ogni anno emergono episodi di questo genere, eppure continuiamo ad accettare che questo evento abbia luogo, rendendo ancora più insicure le strade delle città italiane per le donne e per le minoranze.”

Dunque, per dare uno scossone forte, la richiesta per cui sono state lasciate migliaia di firme nelle sole prime 12 ore, in seguito al lancio, è quella di sospendere per ben due anni i raduni degli Alpini. Dare un segnale chiaro è necessario perché davvero troppi uomini, centinaia e centinaia, ogni volta si sentono liberi di avere comportamenti molesti, pensando, inoltre, che nel clima di questa ricorrenza sia normale.

Supporto alle vittime di molestie dall’associazione Non una di meno (fonte: fanpage.it)

I commenti dal mondo della politica

Davanti anche all’impressionante livello di molestie, anche dalla politica sono giunti commenti. Innanzitutto, il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che aveva parlato di “comportamenti gravissimi” sin dalle prime indiscrezioni, da accertare per mezzo degli organi competenti, “ma che non possono e non devono essere sottovalutati”. Il ministro si è dimostrato, dunque, ferreo nelle prime dichiarazioni, ribadendo con forza, che tali comportamenti sono “all’opposto dei valori degli Alpini e di una manifestazione che è celebrazione di solidarietà, principi e bellissime tradizioni”.

Nella polemica c’era finito anche Matteo Salvini, sempre attento a commentare prontamente i maggiori fatti di attualità che si verificano nel nostro Paese: «Scorretto e indegno invece additare il glorioso corpo degli Alpini, da sempre esempio di generosità, sacrificio e rispetto, come simbolo di violenza e volgarità».

Proprio perché i valori degli Alpini sono altri e la loro storia va onorata, era necessario che dai suoi esponenti, arrivassero commenti tempestivi, proprio per ricordare che esistono ancora uomini di sani principi e che si può essere uomini eterosessuali e allo stesso tempo non maschilisti.

 

Rita Bonaccurso

Aiuti, Accise e Iva: il Governo Draghi stanzia 14 miliardi per contenere i costi del conflitto in Ucraina

Il premier Mario Draghi vuole provare a fare miracoli per l’Italia e per farlo nella giornata di ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un pacchetto di misure dal valore di ben 14 miliardi. Lo scopo è quello di contenere il rincaro prezzi causato dal conflitto in Ucraina il quale, sommato ai due anni di pandemia e alla crisi generale, sta mettendo da tempo in ginocchio l’economia nel nostro Paese.

Il premier Draghi durante la cabina di regia di ieri ha dichiarato che il governo è pronto a tutto per aiutare l’Italia (fonte: zazoom.it)

Tentare di sostenere famiglie e imprese

Come detto, l’azione del governo è volta a sostenere le famiglie e le imprese nel far fronte al caro energia e carburante. Parallelamente, per non dovere nuovamente ricorrere a misure temporanee, l’esecutivo sta studiando dei metodi per ridurre la dipendenza italiana nei confronti del gas russo, unico vero fattore di ricatto per l’Europa da parte di Putin.

Solo poche settimane fa gli italiani si accalcavano in folte folte code presso le stazioni di rifornimento, per accaparrarsi carburante prima dell’annunciato rincaro del costo del petrolio. Poi, l’arrivo di bollette dell’energia dalle cifre duplicate, a parità di consumo con i mesi precedenti. Scenari questi che non hanno fatto altro che rincarare difficoltà già sussistenti dal periodo della pandemia.

«Nel clima di grandissima incertezza che c’è il governo cerca di far il possibile per poter dare un senso di direzione, di vicinanza a tutti gli italiani» ha dichiarato Draghi per spiegare le ragioni dei provvedimenti varati.

Secondo i dati, non si tratterebbe ancora di recessione dell’economia, ma di una fase di rallentamento pari a -0,2% nel trimestre. In ogni caso, c’è stato bisogno di un intervento del governo, il quale sarebbe pronto anche ad altro, a qualsiasi misura necessaria, in caso di peggioramento.

 

Due i decreti approvati

Due sono stati i decreti approvati per dare l’ok a tutto il pacchetto di misure da 14 miliardi, senza scostamento di bilancio. Inizialmente, era stata preventivata una cifra di 6-7 miliardi attraverso l’aumento della tassazione degli extraprofitti guadagnati dall’aziende dell’energia. Gli altri 8 miliardi sono stati “trovati” solo dopo, grazie a ulteriori manovre.

Nella tarda mattinata di ieri, dopo un confronto con i sindacati, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto “Accise e Iva” per la proroga dello sconto sul carburante fino all’8 luglio, che altrimenti nella stessa giornata sarebbe scaduto.

Nel pomeriggio, poi, la riunione con i capidelegazione di maggioranza e il via libera al secondo, il decreto “Aiuti”, riguardante aiuti alle famiglie e all’economia, gli interventi pubblici a sostegno alle imprese e anche l’emergenza profughi per la guerra.

 

Il Decreto legge “Accise e Iva”: contegno dei prezzi e il pericolo della speculazione

Dopo una brevissima tregua, sono tornati a crescere i prezzi dei carburanti in tutta Italia. I dati rilevano una media nazionale del prezzo della benzina in modalità self sale a 1,798 euro/litro, mentre ancora più alta per il diesel a 1,815 euro/litro. Ovviamente i costi del servito sono più consistenti mentre il Gpl resta elevatissimo.

Con il decreto “Accise e Iva”, che conta un solo articolo e vale due miliardi, viene prorogato, come suddetto, il taglio delle accise e dell’Iva sui carburanti. Inoltre, sarà previsto un monitoraggio anti-speculazione, condotto dal Garante per la sorveglianza dei prezzi con l’aiuto della Guardia di Finanza. Saranno sottoposti a controllo anche i prezzi relativi alla vendita al pubblico.

Per Federconsumatori i costi sono ancora troppo alti e soprattutto privi di alcuna giustificazione. I provvedimenti potrebbero non servire a molto e a ciò si aggiunge l’ombra della speculazione.

Il Codacons spiega che, nonostante i tagli, ma anche il calo delle quotazioni in borsa del petrolio, gli italiani continuino a pagare i rifornimenti il 20% in più rispetto allo scorso anno e che per questo servirebbero interventi sui listini.

 

Il Dl “Aiuti”

Ben più numerosi (cinquanta) gli articoli del decreto “Aiuti”. Il principale intervento è quello ancora sul caro bollette. Verrà sfruttata l’estensione del credito d’imposta per le imprese energivore e il bonus Energia” (gas e luce) diventa retroattivo, venendo applicato dall’1 gennaio: l’eventuale pagamento di somme eccedenti sarà automaticamente compensato in bolletta una volta presentata l’Isee, la quale dovrà essere sotto i 12mila euro per poter ottenere il bonus.

Sta per essere messo a punto un fondo di 200 milioni che finanzia contributi a fondo perduto alle imprese più colpite dalle ripercussioni della guerra, le quali, per questo, hanno subito perdite di fatturato dovute alla flessione della domanda, dall’interruzione di contratti, progetti e dalla carenza di materie prime.

Verrà finanziato nuovamente il fondo di sostegno per gli affitti per il 2022, con 100 milioni. Per il Servizio sanitario, in arrivo 200 milioni per compensare i maggiori costi per l’aumento dell’energia. Infine, le garanzie sui prestiti bancari saranno estese fino al 31 dicembre.

 

Gli altri “Aiuti” approvati e il braccio di ferro sul termovalorizzatore della Capitale

Oltre a ciò, verrà anche corrisposto un contributo di 200 euro a lavoratori e pensionati con reddito medio-basso per contrastare l’inflazione. I rincari delle materie prime, invece, hanno spinto il Cdm a stanziare 3 miliardi nel 2022, 2,5 nel 2023 e 1,5 per 2024 e 2026, per contrastare il caro appalti, il quale mette a rischio anche il Pnrr.

Prorogato, inoltre, al 30 settembre il termine per poter accedere al Superbonus 110% da destinare alle villette unifamiliari.

Aiuti previsti anche per l’emergenza profughi. I Comuni che accolgono i minori non accompagnati in fuga dall’Ucraina verranno rimborsati dei costi sostenuti fino a un massimo di 100 euro al giorno pro capite.

Infine, per ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas russo – uno dei temi più attenzionati – si guarda ancor di più alle fonti di energia rinnovabile. Verranno nominati uno o più commissari di governo per i rigassificatori galleggianti. Il mondo delle energie rinnovabili, però, fatica a causa dei lunghi iter per le autorizzazioni: ben undici i passaggi che gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili devono fare per avere il consenso per i progetti. A questo proposito, intanto, si partirà dalla definizione di criteri uniformi per la valutazione dei progetti degli impianti.

Sul tema ambiente, peraltro, si è discusso ampiamente in cabina di regia, a causa di una norma sul termovalorizzatore per Roma, approvata nonostante il rifiuto del Movimento 5 Stelle.

 

Rita Bonaccurso

Da domani, 1 maggio, diremo addio alla mascherina. O quasi.

Ci siamo. Da domani, 1 maggio, avrà inizio una fase che tutti noi attendavamo sin dal marzo 2020, ma che nessuno sapeva quando sarebbe realmente arrivata: fra circa 24 ore, diremo addio all’obbligo di mascherina, non dappertutto, ma in molti contesti.

A sancire il cambiamento delle regole finora attive, è l’ultimo decreto Covid del 24 marzo. Quest’ultimo avrebbe abolito totalmente l’uso – fatta eccezione per ospedali e Rsadelle mascherine, da domani, 1° maggio, ma il ministro della Salute, Roberto Speranza, il 28 aprile scorso, ha firmato un’ordinanza, con la quale si è stabilita la proroga dell’uso dei dispositivi di protezione in alcuni luoghi al chiuso, fino al 15 giugno.

Addio all’obbligo della mascherina in alcuni luoghi al chiuso (fonte: open.online)

Quando e dove continuare a usare la mascherina

Resterà in vigore l’obbligo di indossare le mascherine, fino al 15 giugno, solo per:

  • aerei, treni, navi, tram, metropolitane e autobus, dunque, su tutti i mezzi di trasporto locale e a lunga percorrenza;
  • sale teatrali e da concerto, cinema, teatri;
  • eventi e competizioni sportive al chiuso, come, ad esempio, quelle che si svolgano in palazzetti;
  • locali di intrattenimento e musica dal vivo e altri locali assimilati;
  • per lavoratori, utenti e visitatori di strutture sanitarie ed Rsa.

Per gli altri luoghi al chiuso, quali negozi, palestre e discoteche decadrà l’obbligo. Ciò varrà anche per i posti di lavoro, senza distinzione tra pubblico e privato. Per il privato, resterà possibile, per i singoli datori di lavoro, poter scegliere se, invece, continuare a mantenere la regola.

A scuola, invece, i dispositivi di sicurezza dovranno esser mantenuti fino alla fine dell’anno scolastico, previsto per l’8 giugno, ma anche durante gli esami di terza media e di maturità, dunque fino all’inizio di luglio, da tutti coloro che saranno coinvolti: studenti, ma anche docenti, personale Ata e altre persone che entreranno negli ambienti scolastici in quei giorni.

Per i luoghi religiosi, nonostante verrà meno anche in questi casi l’obbligo, la Conferenza Episcopale Italiana (Cei) ha raccomandato l’uso della mascherina in chiesa e per lo svolgimento di tutte le attività che prevedono la partecipazione dei fedeli in spazi al chiuso, come per le catechesi.

Uso Ffp2: dove rimane attivo il divieto della mascherina di tipo chirurgico

Negli ultimi mesi, era stato introdotto l’obbligo specifico di indossare la mascherina di tipo Ffp2, con il conseguente divieto di usare quella chirurgica, in diversi contesti. Tale disposizione rimarrà attiva, fino al 15 giugno, per tutti i mezzi di trasporto, locali e non, sale teatrali e da concerto, teatri, cinema, eventi e competizioni sportive al chiuso, locali di intrattenimento e musica dal vivo.

Inoltre, dal Ministero della salute è contemporaneamente giunta la raccomandazione di valutare di indossare i dispositivi, preferendo quelli di tipo Ffp2, in situazioni di rischio assembramento in luoghi dove l’obbligo non sarà più attivo.

 

Green pass, obbligo vaccinale e le regole per i viaggi

Le novità riguardano anche il Green pass e l’obbligo vaccinale. Sarà quasi la fine per la certificazione verde, la quale non dovrà essere più esibita per poter accedere a tutti i luoghi al chiuso dove finora l’accesso era regolato proprio dalla stessa. Di seguito ricordiamo quali, nello specifico:

  • bar;
  • ristoranti;
  • feste;
  • ricevimenti;
  • discoteche;
  • trasporto pubblico locale;
  • trasporto a lunga percorrenza;
  • palestre;
  • stadi;
  • concorsi pubblici;
  • sale gioco;
  • centri benessere;
  • centri universitari;
  • mense;
  • palazzetti dello sport;
  • tutti i luoghi di lavoro pubblici e privati.

Sottolineiamo che la decadenza dell’obbligo nei suddetti casi riguarda sia il Green pass (3-4 dosi) “rafforzato” che quello “base” (due vaccinazioni, guarigione o tampone negativo), mentre l’obbligo rimane per accedere a ospedali e Rsa. La certificazione necessariamente richiesta sarà quella che attesti un ciclo vaccinale completo, di tre dosi di vaccino anti-Covid, quindi il Super Green pass. L’obbligo è stato esteso fino al prossimo 31 dicembre.

In caso di viaggi a lunga percorrenza, potrebbe essere necessario essere in possesso della certificazione, ma basterà quella base. Le regole variano a seconda dei Paesi di destinazione, ma per l’ingresso nei Paesi Ue rimane, a livello generale, obbligatorio esibire la certificazione verde all’arrivo.

 

L’attenuazione delle limitazioni in nome della fiducia ai cittadini

Il ministro Speranza (fonte: tpi.it)

Lungo e pieno di confronti all’interno dell’esecutivo è stato il percorso fino alla firma da parte del ministro Speranza, il 28 aprile. Quest’ultimo puntava a mantenere lo stesso livello di prudenza per le prossime settimane, così consigliato anche dal suo consulente, il dottor e docente di Igiene Pubblica all’Università Cattolica, Walter Ricciardi , che aveva messo un freno all’ipotesi di liberarsi in modo definitivo di uno dei principali strumenti per la protezione dal covid.

ma altri, tra i quali lo stesso sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, spingevano per una linea di maggior libertà:

«L’inizio di questa fase nuova – ha commentato Costa- è coerente con la responsabilità dimostrata dagli italiani che hanno imparato a convivere con il virus con grande consapevolezza. Si tratta di un atteso messaggio di fiducia per tutti.».

Alla fine, dunque, il compromesso è stato trovato tra le due posizioni, in nome di quella fiducia nel buon senso dei cittadini italiani, i quali sembra abbiano dimostrato prudenza, la stessa che non si deve abbandonare proprio ora, nel primo vero passo verso il ritorno a una vita senza limitazioni.

 

Rita Bonaccurso