Deforestation free: l’Unione Europea ha messo al bando i prodotti derivanti dalla deforestazione

E’ stato trovato l’accordo provvisorio raggiunto dal Consiglio e il Parlamento europeo che prevede che alcuni prodotti considerati fondamentali immessi sul mercato non contribuiscano più alla deforestazione e al degrado forestale nell’Unione e nel resto del mondo.

L’obiettivo è quello di preservare l’ambiente durante i processi di produzione, attuando delle procedure al fine di rispettare l’ambiente in cui viviamo. Motivo per cui l’applicazione del nuovo regolamento tenderà ad assicurare che una categoria di beni essenziali non siano più causa del disboscamento. In data 6 dicembre il Consiglio dell’ Ue e il Parlamento, hanno discusso la proposta – che il Parlamento aveva presentato a settembre – partendo da un primo progetto della Commissione Europea.

Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo, ha dichiarato: “per vincere la lotta che stiamo sferrando alle crisi del clima e della biodiversità nel mondo dobbiamo assumerci la responsabilità di agire sia all’interno che all’esterno. Il regolamento sul disboscamento risponde all’appello dei cittadini che chiedono di ridurre al minimo il contributo europeo a questo problema e promuovere consumi sostenibili. Le nuove norme che disciplinano le spedizioni di rifiuti promuoveranno l’economia circolare e garantiranno che le esportazioni di rifiuti non danneggino l’ambiente o la salute umana in altre parti del pianeta. E con la strategia per il suolo riporteremo i terreni in buona salute, faremo sì che siano usati in modo sostenibile e ricevano la necessaria protezione giuridica.” 

fonte: la Repubblica

 

Quali effetti avrà questa misura?

Dal punto di vista economico e ambientale la riduzione delle cause principali del degrado forestale in Europa porterà in futuro a preservare la varietà di organismi viventi di un determinato ambiente, ridurre l’effetto serra, evitare il surriscaldamento globale, il cambiamento climatico e il rischio idrogeologico

Il disboscamento determina soprattutto cambiamenti nel clima e aumenta il dissesto idrogeologico, questo comporta un elevato aumento del rischio di alluvioni e frane. Inoltre un’ulteriore conseguenza a seguito dell’abbattimento delle foreste è l’estinzione definitiva di numerose specie di animali e vegetali.

«Per combattere il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, la nuova legge obbliga le aziende a garantire che una serie di prodotti venduti nell’UE non provengano da terreni deforestati in qualsiasi parte del mondo» si legge in una note del Parlamento.

Il ministro ceco dell’ambiente e presidente di turno del Consiglio europeo ambiente, Marian Jurečka, ha ricordato che «L’Ue è un grande consumatore e commerciante di prodotti che svolgono un ruolo sostanziale nella deforestazione, come carne bovina, cacao, soia e legname. Le nuove regole mirano a garantire che quando i consumatori acquistano questi prodotti, non contribuiscano a un ulteriore degrado degli ecosistemi forestali. Proteggere l’ambiente in tutto il mondo, comprese le foreste e le foreste pluviali, è un obiettivo comune per tutti i paesi e l’UE è pronta ad assumersi le proprie responsabilità».

L’attuazione di questa legge inoltre, apporterebbe un cambiamento drastico in ambito di tutela ambientale, in quanto l’Unione Europea risulta essere tra i maggiori consumatori delle materie che provocano il fenomeno della deforestazione, ciononostante sarà davvero difficoltoso far rispettare il regolamento e mettere in pratica ogni tipo di controllo.

 

l’Ue è il secondo importatore globale di deforestazione tropicale, fonte: 3csc


Quali sono i prodotti da verificare?

Dopo un’accurata verifica è stato deciso che l’importazione di alcuni beni sarà vietata se la loro provenienza risulterà derivare da terreni disboscati. Le norme verranno applicate a: cacao, caffè, soia, olio di palma, carne bovina, gomma, carbone e prodotti di carta stampata.
La legge ha come obiettivo quello di rassicurare i consumatori sulla provenienza dei prodotti , e sul fatto che la produzione di questi ultimi non danneggi le foreste.
Per questo motivo le autorità dell’Unione Europea avranno accesso alle coordinate di geolocalizzazione e potranno effettuare una serie di controlli volti a monitorare e analizzare la provenienza dei prodotti sul mercato attraverso gli appositi strumenti.


Come si dovranno comportare le aziende?

Secondo il testo concordato, «mentre nessun Paese o prodotto in quanto tale sarà vietato, le aziende non saranno autorizzate a vendere i loro prodotti nell’Ue senza questo tipo di dichiarazione». Come richiesto dagli eurodeputati «le imprese dovranno anche verificare il rispetto della legislazione pertinente del Paese di produzione, compresi i diritti umani, e che i diritti delle popolazioni indigene interessate siano stati rispettati». Per effettuare i controlli le aziende dovranno avere accesso alle informazioni geografiche riguardo i terreni di coltivazione e le materie prime. Gli stessi co-legislatori hanno accordato severi obblighi di diligenza per gli operatori, che dovranno assicurare la tracciabilità dei prodotti venduti.


Quali saranno le sanzioni?

Sono previste sanzioni molto pesanti proporzionate al danno ambientale e al valore delle materie prime, pari al 4 % del fatturato annuale degli operatori nell’Europa, nonché il divieto di partecipare ad appalti e/o finanziamenti pubblici. Attualmente Consiglio e Parlamento devono adottare formalmente il regolamento affinché possa entrare in vigore; a seguito di ciò le aziende avranno 18 mesi di tempo per documentarsi e conformarsi alle nuove norme, nel caso di imprese più piccole il tempo è prolungato a 24 mesi.

Inoltre la Fao, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ha constatato che tra il 1990 e il 2020 a causa della deforestazione siano stati persi circa 420 milioni di ettari di foresta, un numero davvero significativo che induce a riflettere sulle problematiche del nostro pianeta.

Federica Lizzio

 

Cappato indagato per un nuovo caso di aiuto al suicidio: «La condizione del sostegno vitale una trappola dello Stato»

82 anni, ex giornalista toscano e residente a Peschiera Borromeo, il signor Romano era ormai costretto a vivere con forti dolori dovuti al Parkinsonismo atipico dal 2020, malattia che gli impediva di svolgere una qualsiasi attività in autonomia, ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.

«Mio marito Romano è affetto da una grave malattia neurodegenerativa, una forma di Parkinson molto aggressiva che gli ha paralizzato completamente gli arti e che ha prodotto una disfagia molto severa che lo porterà a breve a una alimentazione forzata», ha affermato la moglie di Romano.

Per questo motivo, la famiglia ha scelto di supportare l’uomo nella decisione di porre fine alla sua vita, chiedendo a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, di procedere con il suicidio assistito in Svizzera.

«Ho sempre fatto le mie scelte e ho sempre pensato che la nostra vita ci appartenga, prima ancora che questa frase diventasse centrale nella campagna dell’Associazione Luca Coscioni. Così ho iniziato ad informarmi sulle possibilità di organizzare il mio fine vita nel modo più dignitoso possibile, ma presto mi è stato chiaro che la situazione italiana è più complicata di come potessi pensare. L’opzione di recarmi in Svizzera in clandestinità mi spaventa perché non voglio assolutamente mettere i miei familiari nella condizione di rischiare di affrontare vicissitudini giudiziarie. Trovo però che sottrarre la libertà di scelta in questi casi sia anacronistico e crudele, e non mi arrendo all’idea di non essere libero».

Le condizioni per l’accesso al suicidio assistito

L’uomo, come più volte sottolineato, non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e quindi non rientrava nei casi previsti dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale per l’accesso al suicidio assistito in Italia. Secondo quanto deciso dalla Consulta, infatti, il suicidio assistito sarebbe possibile e legale quando la persona malata che ne fa richiesta risponda a determinati requisiti verificati dal Sistema Sanitario Nazionale:
1) Affetta da una patologia irreversibile.
2) Fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche.
3) Pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
4) Tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.

L’accusa di aiuto al suicidio

Non è la prima volta che ad un soggetto viene negato il trattamento in assenza di uno dei requisiti: è stato anche il caso della signora Elena Altamira, 69enne veneta malata terminale di cancro, aiutata a porre fine alla propria vita dallo stesso Marco Cappato, che risulta adesso nel registro degli indagati con l’accusa di aiuto al suicidio.

Per questo motivo Marco Cappato si è autodenunciato il 26 novembre presso i carabinieri della Compagnia Duomo a Milano per aver portato in una clinica in Svizzera l’uomo, rischiando fino a 12 anni di carcere.

Il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni però afferma che «la trappola nella quale l’82enne stava per cadere definitivamente era quella di acquisire il cosiddetto quarto criterio previsto dalla Corte costituzionale – diventare dipendente dal trattamento di sostegno vitale, ma allo stesso tempo avrebbe perso la capacità di intendere e di volere che è una delle condizioni indispensabili per ottenere l’aiuto alla morte. Questa è una condizione di oggettiva violenza esercitata dallo Stato».

Ha ribadito nuovamente la sua posizione alla trasmissione di Radio 24 “Uno, nessuno, 100Milan”: «Romano aveva due possibilità: morire come non avrebbe mai voluto, cioè incapace di intendere e di volere, attaccato a una Peg come sarebbe stato a breve, oppure morire potendo salutare senza soffrire le persone che lo hanno amato, ovvero la moglie e i figli. Questo è un suicidio? Per me non lo è».

A riguardo è stata intervistata la figlia del signor Romano, Francesca: «Mio papà ha appena confermato la scelta di morire. Io sono arrivata dalla California per essere qui con lui in questi giorni. In California, la scelta che ha fatto mio papà è legale e, nel caso di una malattia come la sua, avrebbe potuto scegliere di morire in casa, circondato dai suoi cari e dalla sua famiglia. Noi abbiamo dovuto fare questo viaggio per venire in Svizzera perché lui potesse fare questa scelta e io spero che in Italia, presto, sia possibile per le persone poter fare questa scelta a casa propria e morire a casa propria, circondate dalle persone care». 

Federica Lizzio

In Cina esplode la rabbia contro la politica zero Covid. Su Twitter il governo tenta la censura

Durante lo scorso fine settimana, in svariate città della Cina sono andate in scena una serie di proteste contro le restrizioni Covid, causando un’ondata a livello nazionale che non si vedeva dai moti pro-democrazia del 1989. A catalizzare la rabbia pubblica un incendio mortale (10 vittime) a Urumqi, la capitale della regione dello Xinjiang, dopo che molti hanno accusato le restrizioni sanitarie di aver reso impossibili le operazioni di soccorso.

Fonte: Wired Italia

È il culmine dell’insoddisfazione pubblica in costante crescita negli ultimi mesi nel Paese asiatico, uno degli ultimi al mondo ad applicare una rigida politica “zero covid”, che implica confinamenti continui e test molecolari quasi quotidiani della popolazione. Ma le manifestazioni di questo fine settimana hanno anche fatto emergere domande di maggiori libertà politiche, addirittura di dimissioni del presidente Xi Jinping, appena riconfermato alla testa del paese per un terzo mandato.

Slogan di protesta in tutta la Cina

Dopo l’incendio, la protesta scoppia prima sui social poi nelle strade: il 27 novembre una folla di manifestanti, rispondendo ad appelli sui social network, aveva espresso la sua rabbia principalmente a Pechino e Shanghai, prendendo alla sprovvista le forze dell’ordine. Tra gli slogan gridati all’unisono: “Basta test covid, abbiamo fame!”, “Xi Jinping, dimettiti! Pcc (Partito comunista cinese), fatti da parte!”, “No ai confinamenti, vogliamo la libertà”. Lo stesso giorno si sono svolte diverse manifestazioni a Wuhan (dove quasi tre anni fa è stato confermato il primo caso al mondo di Covid-19), a Canton, a Chengdu e a Hong Kong. Nella città meridionale di Hangzhou, due giorni fa le autorità hanno arrestato diverse persone bloccando un raduno sul nascere.

Fonte: Ansa

Nei giorni scorsi sono stati fermati anche alcuni giornalisti: domenica un cronista della Reuters, trattenuto per breve tempo prima di essere rilasciato, quindi Ed Lawrence, della Bbc. Un fatto “scioccante e inaccettabile” ha sottolineato il premier britannico Rishi Sunak. Per questa vicenda, ieri l’ambasciatore cinese a Londra è stato convocato dal Foreign Office. Nel frattempo, le proteste si sono estese anche davanti alle ambasciate cinesi di Londra, Parigi e Tokyo, oltre che alle università negli Stati Uniti e in Europa.

Il rigido controllo delle autorità cinesi sull’informazione e le restrizioni sanitarie sui viaggi all’interno del paese complicano la verifica del numero totale di manifestanti. Ma una sollevazione così estesa è rarissima in Cina, tenendo conto della repressione attiva contro tutte le forme di opposizione al governo: ciò fa credere che la mobilitazione è stata probabilmente la più grande dai disordini pro-democrazia del 1989. Tuttavia, “ci sono alcune differenze” tra le proteste in Cina di questi giorni e i fatti di Tiananmen del giugno 1989, quando le Forze di sicurezza cinesi hanno massacrato migliaia di studenti e cittadini che dall’iconica piazza della capitale chiedevano libertà e democrazia nel Paese. È il commento ad AsiaNews di Wei Jingshou, il “padre della democrazia” del colosso asiatico, attualmente in esilio negli Stati Uniti.

La rivolta dei fogli bianchi

La pagina bianca è diventata un elemento iconico del movimento di protesta, che molti ora chiamano «protesta del foglio bianco» o «protesta A4». Durante le varie manifestazioni, infatti, sono state viste parecchie persone esibire in mano un foglio di carta bianco, simbolo di tutte le cose che in Cina non si possono dire.

In un video virale – risalente a sabato, secondo quanto riferito – un uomo non identificato ha portato via uno di quei fogli di carta dopo che una donna dell’Università di Nanchino lo aveva sollevato. In un altro video di quella notte, dozzine di altri studenti sono state viste nel campus con in mano pezzi di carta bianca, in piedi in silenzio. Scene simili si sono verificate anche in altre grandi città durante il fine settimana.

Basta zero Covid

Il sito della Bbc riporta un prospetto delle conseguenze nefaste che la politica zero Covid portata avanti dal governo cinese ha comportato nell’ultimo anno. Oltre all’incendio di Urumqi sopra menzionato, all’inizio di questo mese, una famiglia di Zhengzhou ha detto che il loro bambino è morto dopo che un’ambulanza è stata ritardata a causa delle restrizioni di Covid. Lo scorso settembre, ai residenti di Chengdu è stato impedito di lasciare le loro case durante un terremoto di magnitudo 6,6 che ha ucciso 65 persone. A ottobre, un padre ha riferito che la figlia di 14 anni ha sviluppato la febbre durante la quarantena nella provincia di Henan ed è morta dopo non aver ricevuto cure adeguate in un centro di quarantena. Durante il lockdown di Shanghai ad aprile, le persone si sono lamentate della mancanza di cibo e delle difficili condizioni in cui versano gli anziani, portati con la forza nei centri di quarantena.

“Le persone hanno raggiunto un punto di saturazione dato che non ci sono direzioni chiare sulla via per porre fine alla politica zero covid”, spiega all’Afp Alfred Wu Muluan, esperto di politica cinese all’Università nazionale di Singapore. “Il partito ha sottovalutato la rabbia della popolazione”, aggiunge.

In foto Mi Feng, portavoce e vice direttore del Dipartimento della comunicazione della Commissione sanitaria nazionale cinese. Fonte: italian.cri.cn

Il portavoce della Commissione sanitaria nazionale Mi Feng ha affermato che i governi dovrebbero “rispondere e risolvere le ragionevoli richieste delle masse” in modo tempestivo. Alla domanda se il governo centrale stia riconsiderando le sue politiche anti-Covid, Mi ha replicato che le autorità “hanno studiato e adattato le misure di contenimento della pandemia per proteggere al massimo l’interesse delle persone e limitare il più possibile l’impatto sulle persone stesse“.
Ma nonostante la replica evasiva di Mi Feng, all’inizio del mese la Cina ha annunciato 20 misure intese a semplificare i controlli sanitari e di prevenzione del Covid-19 e a correggere le “misure politiche eccessive” intraprese dalle autorità locali, sotto le costanti pressioni di Pechino per tenere sotto controllo il numero di casi di infezione nei propri territori.

Una valanga di spam come censura

Le proteste degli ultimi giorni – apertamente antigovernative e schierate contro il presidente Xi Jinping – sono molto insolite in Cina, dove il dissenso viene sistematicamente soppresso. Ed è per questo che, oltre a utilizzare gli agenti per stroncare sul nascere ulteriori manifestazioni, dal 28 novembre la censura delle autorità cinesi lavora per cancellare ogni traccia dell’ondata di proteste dei giorni precedenti: decine di milioni di post sui social sono stati filtrati, mentre lo Stanford Internet Observatory ha notato un aumento di “tweet spam” che mostrano contenuti porno, annunci di escort e giochi d’azzardo e che stanno oscurando la protesta dei cinesi. Secondo l’Osservatorio, oltre il 95% dei tweet contenenti il termine di ricerca “Pechino” provengono da account spam che diffondono questo tipo di informazioni.

Non a caso Twitter è balzata improvvisamente tra le app più scaricate in Cina: in seguito alla censura del governo, molti cittadini hanno usato le Vpn per accedere ai servizi Internet e ai social media come Twitter e Telegram per organizzare le proteste. Ma l’elevato volume di spam rende più difficile trovare informazioni legittime e utili sulle proteste e ha anche un impatto sugli utenti al di fuori della Cina che stanno cercando di ottenere informazioni sul campo riguardo gli eventi. Anche i media hanno sostituito le notizie sul Covid con articoli sui Mondiali e sui risultati delle missioni spaziali della Cina.

https://twitter.com/WallStreetSilv/status/1597862999812734976

Per non parlare dei social network cinesi, dove tutte le informazioni riguardanti le manifestazioni del fine settimana sembrano già essere sparite.
Ad esempio, sulla piattaforma Weibo (una sorta di Twitter cinese) le ricerche “fiume Liangma” e “via Urumqi”, due dei luoghi di protesta del giorno precedente, non davano alcun risultato legato alla mobilitazione. Persino i video che mostravano gli studenti cantare e manifestare in altre città sono scomparsi dalla piattaforma WeChat: sono stati rimpiazzati da messaggi che avvertivano che il post era stata segnalato come contenuto sensibile contrario al regolamento.

A coronare il tutto, la pubblicazione di un articolo sul Quotidiano del popolo – il più diffuso e autorevole giornale della Cina – che mette in guardia contro la “paralisi” e la “stanchezza” di fronte alla politica zero covid, senza tuttavia accennarne un termine. D’altronde, come George Orwell insegna, la parola ha un enorme potere nella delimitazione dei confini del pensiero delle masse.

Gaia Cautela

Al via i mondiali di calcio in Qatar. Tutte le controversie intorno alla competizione

Da pochi giorni hanno avuto inizio i mondiali di calcio 2022, in Qatar. Ancor prima del primo fischio di inizio e della cerimonia di apertura, non poche sono state le polemiche intorno alla competizione di più alto livello dello sport più praticato al mondo. Ogni grande evento è sempre circondato da chiacchiere, che presto cadono nell’oblio, ma in questo caso non si tratta solo di chiacchiericcio.

Cerimonia di apertura dei mondiali di calcio 2022 (fonte: tuttomercatoweb.com)

La spettacolare cerimonia di apertura

Per quasi un mese, dal 20 novembre al 18 dicembre 2022, il Qatar ospiterà la FIFA World Cup, la prima mai disputata in Medio Oriente e la prima a svolgersi in periodo autunnale, non estivo come sempre. Cinque città e otto stadi in cui 32 nazionali di calcio, tra cui manca quella degli azzurri, si sfideranno per il titolo.

La cerimonia di apertura è avvenuta nella giornata di sabato scorso. Mezz’ora di spettacolo, con la direzione dall’italiano Marco Balich.

Prima star dell’evento è stato Morgan Freeman, il famosissimo attore di Hollywood, che ha recitato, sulla scena allestita al centro dello stadio Al Khor, a 50 km da Doha – a forma di tenda beduina, per omaggiare la tradizione del Paese – un dialogo sull’importanza di alcuni valori, insieme a un’altra celebrità, il giovane qatarino Ghanim al-Muftha, ammirato per come affronta la rara sindrome di cui è affetto.

(fonte: ansa.it)

Una scenografia bellissima, colorata dal passaggio di tutte le mascotte dei precedenti mondiali e dai ballerini, oltre che dagli spettacoli pirotecnici. Balich ha voluto rappresentare, con canti e coreografie la linea invisibile e ininterrotta che unisce tutti gli essere umani di tutto il globo e, per quanto riguarda il racconto del Qatar, quella che collega il suo passato e le sue tradizioni con il presente. Protagonisti di uno dei momenti anche gli sbandieratori di Faenza che hanno fatto librare nell’aria le 32 bandiere delle nazionali partecipanti.

La mascotte qatarina per la competizione appena iniziata (fonte: tuttomercatoweb.com)

Uno spettacolo, a detta di alcuni, che voleva dire al mondo che il Qatar è pronto a ospitare anche le Olimpiadi. Il Paese ha tentato più volte di candidarsi, ma il più grande ostacolo è il clima troppo caldo in estate, stagione in cui tradizionalmente si svolgono i giochi. L’eccezione, per ora, è stata fatta solo dalla Fifa.

Di certo, non mancano le possibilità, al Paese, di creare le strutture idonee e anche in poco tempo: abbiamo visto come gli stadi per la competizione calcistica, capolavori di ingegneria e design, siano stati costruiti in pochissimo tempo.

Proprio questa è stata la prima controversia a far sollevare l’opinione pubblica internazionale.

 

Il discorso dell’emiro all’insegna di nobili valori

Migliaia di lavoratori sono stati artefici dei magnifici impianti che in questi giorni incantano gli occhi degli spettatori e i telespettatori. Questi però hanno dovuto lavorare nelle peggiori condizioni: orari di lavoro massacranti sotto il sole qatarino. Non pochi hanno subito gravi danni alla salute, ad esempio alla vista, alcuni hanno anche perso la vita.

Per questo motivo, il discorso dell’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, dalla tribuna d’onore, durante la cerimonia di apertura, è stato accompagnato dai dissensi e i commenti negativi.

«Diamo a tutti, qui dal Qatar, il benvenuto alla Coppa del Mondo. Abbiamo lavorato duramente con tanta gente per allestire un torneo di successo. Abbiamo profuso tutti i nostri sforzi per il bene dell’umanità. Finalmente è arrivato il giorno dell’inaugurazione, il giorno che tutti qui aspettavamo. A partire da oggi e per i prossimi 28 giorni seguiremo, e con noi tutto il mondo, la grande festa del calcio, in un ambiente caratterizzato da umana e civile comunicazione.».

Queste le prime parole dell’emiro, alle quali ne sono seguite altre, che hanno fatto riferimento, come quelle dei due attori protagonisti della scena, a tematiche positive, come quella dell’inclusione e della condivisione.

«È bello che i popoli mettano da parte ciò che divide e celebrino le loro diversità e al tempo stesso ciò che li unisce. Auguro a tutte le squadre di giocare un calcio magnifico, di grande sportività, di vivere un tempo pieno di gioia e di emozioni. Che siano giorni che possano ispirare bontà e speranza. Benvenuti e buona fortuna a tutti».

 

Parole distanti dalla realtà. Il dissenso dell’opinione pubblica

Purtroppo, la realtà del contesto si distacca dal clima di serenità e gioia raffigurate. Anche il momento dell’inno del Qatar cantato dal cantante sudcoreano Jungkook, della famosissima band BTS, e il qatarino Fahad Al Kubaisi, insieme è stato celebrazione di positività.

Tutto ha fatto pensare all’inizio di una grande festa, ma sotto la patina scintillante e colorata ci sono molte controversie, oltre lo scandalo della realizzazione degli stadi.

Quel “eliminiamo le barriere” a cui l’emiro ha fatto riferimento nel suo discorso ufficiale, trova subito un ostacolo nel divieto di bandiere arcobaleno imposto. In Qatar, infatti, l’omosessualità è ancora oggi punita dalla legge con l’arresto.

Però, la comunità Lgbtq e il supporto ad essa sono più forti. Trovato l’ostacolo, trovata la soluzione: l’associazione francese Stop Homophobie e l’azienda statunitense Pantone hanno realizzato una bandiera che rappresenta la comunità, aggirando la legge del Paese arabo. Si tratta dell’iniziativa “Colors of Love” per la quale è stata ideata una rainbow alternativa, bianca, ma con tutti i codici identificativi universali del sistema Pantone per ogni colore della bandiera abituale.

Le reazioni negative sono esplose in tutto il mondo. Dalla cantante Dua Lipa la quale ha sottolineato di non aver voluto accettare l’invito a a intraprendere le trattative per una sua esibizione durante lo spettacolo di apertura, all’emittente britannica Bbc, che ha scelto di non trasmettere la cerimonia di apertura: è la prima volta nella storia. Il gesto ha avuto come finalità quello di mettere sotto accusa un Paese che non rispetta e protegge i dei valori universalmente fondamentali di uguaglianza tra uomini e donne, di rispetto per la comunità Lgbt e dei diritti dei lavoratori, come suddetto, e, soprattutto, della libertà di espressione.

 

La prima partita della nazionale iraniana: la protesta silenziosa

L’ultima grande polemica che ha investito questa coppa del mondo, ma che parte, in questo caso, dall’esterno, è quella che riguarda la nazionale iraniana.

Il fischio di inizio di Inghilterra-Iran, peraltro durata ben 117 minuti – con forse il recupero più lungo mai avuto durante un mondiale di calcio – è stato preceduto da tre minuti probabilmente ancor più intensi.

Gli inglesi si sono inginocchiati per dire, ancora una volta, no al razzismo, e gli iraniani sono rimasti in silenzio durante l’esecuzione del proprio inno tramite gli altoparlanti.

La nazionale iraniana non canta il proprio inno in segno di protesta (fonte: corriere.it)

I giocatori si sono disposti in riga abbracciati, ma con le bocche serrate per gridare, con la voce forse più potente, quella del silenzio, il proprio segno di vicinanza a tutti i connazionali e di dissenso contro il regime politico iraniano.

Come sappiamo, il Paese sta vivendo un momento storico di forte tensione sociale. Le ribellioni alla repressione da parte del regime non si placano. Il popolo iraniano continua a combattere, in parte per strada, nelle piazze, nelle università, in parte da un’altra parte nel mondo, da un campo di calcio spianato sopra altre ingiustizie.

 

 

Rita Bonaccurso

 

 

 

8 miliardi di persone e…non è più l’inizio di una frase ironica. Siamo davvero cresciuti di 1 miliardo in soli 11 anni

8 miliardi di persone non è più solo il titolo di una canzone, o una frase per fare ironia sui i più svariati temi, ma un vero e proprio record raggiunto dalla popolazione mondiale. Una crescita senza precedenti, considerando che nel 1950 – un tempo, in proporzione, non troppo lontano – eravamo in 2,5 miliardi.

Crescita della popolazione mondiale negli ultimi 12mila anni (fonte: OurWorldInData.org)

La conferma ufficiale da parte dell’Onu e l’analisi dei dati

Arrivata ieri, 15 novembre, la conferma ufficiale da parte dell’Onu, che ha definito il traguardo raggiunto “un’importante pietra miliare nello sviluppo umano”, ma che ha anche colto l’occasione per sottolineare, ancora una volta, la necessità di lavorare con tutte le risorse possibili alla cura del nostro pianeta e alla lotta contro l’inquinamento, ma anche a sfide importanti come il contrasto alla povertà, che affligge in maniera sproporzionata il mondo.

Nonostante fosse già sicuro il raggiungimento degli 8 miliardi, la data fissata per ieri è stata calcolata in base a statistiche, per cui vi è un margine di errore, che si quantifica in un range di 160-240 milioni di persone. Ciò è dovuto alla scarsità di dati a disposizione in alcuni Paesi.

Nell’Ottocento era stato raggiunto il picco più alto nella storia dell’uomo, quello di un miliardo. Dunque, vi è senz’altro una netta separazione tra la storia fino a quel momento e dopo, dovuta allo straordinario e, in proporzione, velocissimo miglioramento della qualità della vita.

L’incremento più considerevole è avvenuto in soli undici anni, con la crescita pari a 1 miliardo, il doppio rispetto al 1974. L’aumento ha subito un boost incredibile nell’ultimo secolo, ma ha rallentato a partire dagli anni Settanta, in specifico nel Nord America e in Europa, poiché sono in diminuzione le nascite.

Nei Paesi più ricchi, circa 61, la popolazione ha già iniziato o comunque comincerà a diminuire, almeno, dell’1% fino al 2050. Fattore determinante, oltre la bassa natalità, è l’emigrazione.

A bilanciare il decremento parziale è stato l’aumento delle nascite in Africa e Asia: qui è stato registrato l’incremento maggiore. Nei prossimi anni, infatti, solo 8 Paesi saranno quelli interessati dall’aumento di popolazione in maniera esponenziale: Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Tanzania.

Si ritiene, inoltre, che l’anno prossimo l’India dovrebbe superare la Cina, il Paese finora più popoloso al mondo.

Le altre cifre calcolate con abbastanza certezza sono quelle di 8,5 miliardi e 9,7 miliardi, che dovrebbe raggiungere la popolazione mondiale, rispettivamente nel 2030 e nel 2050. Nel 2050, potrebbe essere raggiunto un picco di 10,4 miliardi, che dovrebbe esser mantenuto fino al 2100.

L’ultimo nato per il record di 8miliardi (fonte: ansa.it)

Le differenze di distribuzione della crescita demografica nelle varie aree del globo

Il monitoraggio dell’andamento della crescita demografica globale ha svelato altri dati. Innanzitutto, l’incremento generale della popolazione ha comportato uno sfruttamento maggiore delle risorse ambientali, in gran parte brutale, causando il riscaldamento globale.

Deforestazione, sfruttamento del suolo, problemi con emissioni di anidride carbonica e anche enormi quantità di rifiuti sono le problematiche createsi e che si dovranno risolvere nel minor tempo possibile, prima di arrivare, come sappiamo, al punto di non ritorno.

Oltretutto, si dovrà fare i conti con la povertà che investe in maniera devastante alcune aree del pianeta più che di altre, creando sproporzioni disumane. I Paesi che hanno già registrato un aumento della popolazione più significativo, in rapporto a quello di altri, sono tra i più poveri al mondo.

Mentre in queste aree continuerà la crescita, in altre avverrà l’opposto, con il superamento della popolazione anziana rispetto a quella giovane, scatenando le dinamiche di indebolimento della società e dell’economia dei Paesi. Eppure, nei Paesi con sovrappopolazione, nonostante l’età media più bassa, dunque, potenzialmente, un fattore decisamente positivo, vi saranno altri problemi, seppur diversi, come la fame e l’insufficienza di altre risorse.

 

Le sfide per il futuro

«La rapida crescita della popolazione rende più difficile sradicare la povertà, combattere la fame e la malnutrizione e aumentare la copertura dei sistemi sanitari e scolastici. Al contrario, il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, in particolare quelli relativi alla salute, all’istruzione e all’uguaglianza di genere, contribuirà a ridurre i livelli di fertilità e a rallentare la crescita della popolazione mondiale».

Queste le parole di Liu Zhenmin, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari economici e sociali. La crescita demografica globale, dunque, investirà quelle zone del mondo meno preparate a rispondere adeguatamente al fabbisogno che ne verrà.

Inoltre, il miglioramento delle condizioni di vita porterà a un ulteriore aumento dell’aspettativa di vita, fino a circa 77,2 anni nel 2050 e, di conseguenza, un invecchiamento della popolazione globale. Sempre nello stesso anno, si ritiene che il numero di persone di età pari o superiore a 65 anni sarà il doppio di quello dei bambini sotto i 5 anni.

Quella che di per sé poteva essere una notizia solo positiva, ci pone davanti a problematiche importanti e urgenti, soprattutto perché a subirne poi i danni saranno le categorie di persone sempre svantaggiate.

Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, ha infatti ricordato sia la gran conquista in termini di qualità della vita e riduzione della mortalità materna e infantile, ma ha anche aggiunto:

«Allo stesso tempo, è un promemoria della nostra responsabilità condivisa di prenderci cura del nostro pianeta e un momento per riflettere su dove ancora non rispettiamo i nostri impegni reciproci».

 

 

Rita Bonaccurso

 

Attacco terroristico a Instanbul. Erdogan: “Vile attentato”

Domenica di terrore nel cuore di Istanbul: attorno alle 16:20 (le 14:20 in Italia) una forte esplosione in Istiklal Avenue – trafficata via dello shopping del centro città – ha causato almeno 6 morti e 81 feriti, di cui 2 in gravi condizioni. Tuttavia, si dice che il bilancio dell’accaduto sia destinato ad aggravarsi e che, nonostante non siano ancora ben chiare le dinamiche, le autorità di Ankara abbiano confermato la pista terroristica: probabilmente una bomba lasciata a terra in una borsa da una donna, oppure un vero e proprio attacco kamikaze. D’altronde il 13 novembre è da diversi anni una data difficile da dimenticare.

Istiklal Caddesi, la strada dell’attentato. Fonte: Corriere

Ad ogni modo, il ministro della Giustizia Bekir Bozdağ ha annunciato che la Procura nazionale ha già aperto un’indagine, mentre la via dove si è verificata l’esplosione è stata chiusa. Oltre ai soccorritori, alla polizia e ai vigili del fuoco, è arrivato sul posto anche il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu.

L’esito delle prime indagini

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha definito quanto accaduto «un vile attentato»:

«Forse sarebbe sbagliato dire che si tratta di terrorismo, ma i primi sviluppi, le prime informazioni che il mio governatore ci ha fornito, mi dicono che c’è odore di terrorismo qui».

Fonte: Sicilia Report

Il sito web di notizie turco Mynet ha riferito che le forze di sicurezza stanno analizzando i filmati delle telecamere di sicurezza per determinare dove sarebbe stata collocata la borsa piena di esplosivo.
Secondo il vicepresidente Fuat Oktay, a compiere l’attentato è stata una donna kamikaze. «Lo consideriamo», ha detto, «un attacco terroristico provocato da una bomba fatta esplodere da un assalitore che, secondo le informazioni preliminari, sarebbe una donna». I media turchi hanno già pubblicato una foto della sospettata, anche se il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha spiegato che la borsa che trasportava sarebbe potuta esplodere anche a distanza con un telecomando. In ogni caso, una donna è di per certo rimasta seduta in panchina per 40 minuti e poi si è alzata in piedi; l’esplosione è avvenuta 1 o 2 minuti dopo.

Una donna kamikaze dietro l’attentato. Fonte: ANSA

Diversi sono i video che stanno circolando nelle ultime ore sui social: uno in particolare, ripreso da una telecamera di sicurezza, mostra l’esplosione e gli istanti successivi da molto vicino, con forti botti, fiamme divampanti e centinaia di persone che fuggono. Dopo l’esplosione e poco prima di partire per il G20 di Bali, il presidente Erdoğan ha dunque parlato di un «attentato dinamitardo», aggiungendo che i tentativi di conquistare la Turchia con il terrorismo «non avranno buon fine né oggi né domani, come non lo hanno avuto ieri».

In Turchia torna il terrore

C’è un motivo se si è subito pensato al terrorismo come causa dell’esplosione, giacché la Turchia ha un precedente sanguinoso: tra il 2015 e il 2017 il Paese, situato a metà strada tra Europa e Asia, è stato infatti teatro di attentati, ad opera dell’Isis e di altri gruppi terroristici.

Ritenuti i più sanguinosi mai avvenuti nella storia della Turchia, la serie di attentati di Ankara del 10 ottobre 2015 sono stati compiuti da terroristi affiliati all’autoproclamato Stato Islamico. La mattina di sabato 10 ottobre, alle 10:04, due kamikaze, vicini all’Isis, si sono fatti esplodere nella piazza centrale di Ankara, antistante la stazione, dove si stava tenendo un corteo per la pace con i curdi, in opposizione alle politiche del presidente Tayyip Erdogan. Allora l’attacco aveva ucciso ben 103 persone, oltre a ferirne più di 245. Dopo gli attentati, la città di Ankara ribattezzò la piazza della stazione, dandole il nome di piazza della Democrazia.

La gente guarda mentre la sicurezza e i medici esaminano la scena in seguito all’esplosione alla stazione ferroviaria principale della capitale turca Ankara, il 10 ottobre 2015. Fonte: Internazionale.it

Ma la scia di sangue proseguì anche dopo di allora. Qui di seguito è riportata una lista degli attentati più gravi in Turchia:
12 gennaio 2016 – Sultanahmet, Istanbul: kamikaze contro i turisti. Dodici i morti tra cui 11 tedeschi e un peruviano;

19 marzo 2016 – Via Istiklal, Istanbul: un attentatore suicida, un turco che si era unito all’Isis in Siria, si fa esplodere nella via dello shopping. Muoiono cinque civili, tutti stranieri;

20 giugno 2016 – Gaziantep (est): un ragazzino con un giubbotto riempito di esplosivo si fa esplodere ad un matrimonio di curdi uccidendo 57 persone;

28 giugno 2016 – Istanbul: tre uomini armati (due russi e un kirghizo) con addosso cinture esplosive attaccano il terminal internazionale dell’aeroporto Ataturk. Due di loro si fanno esplodere, l’altro viene ucciso dalla polizia prima di azionare il detonatore. I morti sono 44, per lo più stranieri;

1° gennaio 2017 – Istanbul, Ortakoy: un uomo armato apre il fuoco contro i frequentatori del nightclub Reina, dove si celebra il Capodanno. Trentanove persone muoiono. Questo è il solo attacco rivendicato ufficialmente dall’Isis.

I messaggi di cordoglio di Meloni, Tajani e Zelensky

L’Italia, così come anche diverse altri Paesi, non è rimasta indifferente dinanzi a delle terribili immagini che hanno avuto la prontezza di immortalare minuti fatali di panico e morte in una nazione facente parte dell’Unione Europea dal 2005:

«Sono terribili le immagini di Istanbul, voglio esprimere le nostre più sentite condoglianze alla Turchia per l’attentato subito e la morte di cittadini innocenti», ha affermato la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Attentato Istanbul, Tajani. Fonte: Il Messaggero

Più loquace e ardito l’intervento del ministro degli Esteri, Antonio Tajani:

«L’Italia condanna con la massima fermezza il vile attentato che ha sconvolto oggi la città di Istanbul. Nell’esprimere solidarietà alle famiglie delle persone colpite e auguri di pronta guarigione ai feriti, l’Italia riafferma la sua vicinanza alle istituzioni e al popolo turco e ribadisce, nel giorno dell’anniversario della strage del Bataclan, il suo risoluto impegno nella lotta al terrorismo. Il Consolato Generale, in stretto raccordo con l’Unità di Crisi, si è immediatamente attivato per verificare l’eventuale coinvolgimento di connazionali. Al momento non risultano italiani né tra le vittime né tra i feriti».

Su Twitter, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha scritto:

«È con profonda tristezza che ho appreso del numero significativo di morti e feriti durante l’esplosione avvenuta a Istanbul. Esprimo le mie condoglianze ai parenti dei morti e auguro una pronta guarigione ai feriti. Il dolore del cordiale popolo turco è il nostro dolore».

“Divieto di trasmissione” per un terrorismo che non passa

L’emittente statale turca RTÜK ha annunciato che, in seguito all’esplosione, tutti i media del paese sono soggetti a un «divieto di trasmissione» in base a una legge approvata di recente che punisce severamente la diffusione di informazioni false sui giornali e su Internet: per questo le notizie che stanno circolando sull’evento non sono moltissime.

Ma non sono necessarie molte informazioni per proiettare il singolo episodio all’interno di uno scenario tanto ampio quanto avvilente: anche in Turchia c’è un passato che non passa e si accompagna ad antiche vicende e nuovi problemi, dalla questione curda alla guerra di Siria. Il terrorismo costituisce ancora una sanguinosa variabile dell’attualità turca.

Gaia Cautela

Facebook come Twitter: il caso dei licenziamenti di massa

Le due più grandi aziende tech di social network, Meta e Twitter, hanno annunciato uno dei licenziamenti di massa più grandi degli ultimi due decenni.

Dopo l’annuncio e il successivo licenziamento di almeno metà dei dipendenti di Twitter, mandati a casa tramite email, Elon Musk ha già fatto dietrofront e ha richiamato alcuni di loro perché “l’email di licenziamento partita per sbaglio” oppure “altri sono stati mandati via prima che la direzione si rendesse conto che il loro lavoro e la loro esperienza potrebbero essere necessari all’azienda“.

A cavalcare l’onda mediatica non viene da meno Mark Zuckerberg, aprendo così tanti interrogativi sul futuro dei social network.

Mark Zuckerberg durante la conferenza sul cambio nome di Facebook del 30 Aprile 2019. Fonte: instanews.it

Il nuovo proprietario di Twitter

Lo scorso 28 ottobre Elon Musk, l’amministratore delegato di SpaceX e di Tesla, nonché l’uomo più ricco del mondo in base alla classifica stilata da Forbes con un patrimonio pari a 219 miliardi di dollari, ha acquistato la piattaforma social Twitter per 44 milioni di dollari.

Inizia la propria scalata per l’acquisizione del social acquistandone il 9% delle azioni. Nonostante la proposta per il consiglio d’amministrazione di Twitter, l’imprenditore rifiuta categoricamente, per poi, il giorno seguente, postare Tweet di critica circa la policy e le sue modalità di funzionamento, giudicata troppo restrittive, troppo lesiva per la libertà di espressione.

La proposta del consiglio di amministrazione per l’entrata in società e il successivo acquisto non tardarono ad arrivare.

Solo dopo una lunga serie di trattative iniziate ad Aprile del 2022, arriva la notizia ufficiale: il 1 Novembre Elon Musk diventa ufficialmente l’amministratore delegato di Twitter, il CEO della piattaforma social.

Non sono in pochi che si domandano come abbia fatto ad acquistare Twitter: a inizio novembre, Elon Musk ha venduto 19,5 milioni di azioni di Tesla, per un totale di 3,9 miliardi di dollari di valore complessivo, come riportato dalle agenzie Bloomberg citando alcune comunicazioni alla SEC.

Nonostante ciò, qualche giorno prima, l’imprenditore rassicura gli utenti del social network e spiega le sue motivazioni:

Il motivo per cui ho acquisito Twitter è perché è importante per il futuro della civiltà avere una piazza cittadina digitale comune, dove un’ampia gamma di opinioni può essere discussa in modo sano, senza ricorrere alla violenza. Attualmente c’è un grande pericolo che i social media si spezzino in camere d’eco di estrema destra e di estrema sinistra che generano più odio e dividono la nostra società.

Il caso del “let that sink in” e dello smart working

Alla vigilia della scadenza imposta dal tribunale per acquistare l’azienda, Elon Musk sorprende tutti con la sua entrata nel quartier generale trasportando a mano un lavandino.  Il CEO di Twitter non perde occasioni di far parlare di sé.

Il momento è stato immortalato proprio con un tweet accompagnato da una frase sibillina: “Let that sink in” (“lascia che affondi!”), giocando col significato di sink, sia lavandino che affondare. Ma si può anche tradurre “fatevene una ragione“, come a sottolineare il proprio potere insinuatosi al momento dell’acquisizione della società.

Proprio per questo, cambia anche lo status del suo profilo pubblico di Twitter in “Chief Twit”, autoaffermandosi capo ancor prima della notizia ufficiale.

Sebbene il tweet abbia fatto scalpore, in realtà Musk aveva già iniziato a visitare gli uffici di Twitter a San Francisco. Afferma il chief marketing officer di Twitter, Leslie Berland, in una comunicazione ai dipendenti riportata dall’agenzia Bloomberg.

Elon è negli uffici di San Francisco questa settimana per incontri. Questo è solo l’inizio di molti incontri e conversazioni con Elon, e avrete modo di sentirlo direttamente da lui venerdì

Come se non bastasse, nella sua prima email ai dipendenti di Twitter, il nuovo proprietario ha confermato l’abolizione della possibilità di lavorare da casa “per sempre” che era stata istituita durante la pandemia di COVID-19 e implementare almeno 40 ore settimanali di lavoro in ufficio.

Nella stessa email ha aggiunto che vuole che gli abbonamenti rappresentino la metà delle entrate di Twitter. Avverte nello stesso scritto i suoi dipendenti di “tempi difficili andando avanti” e che “non ci sono modalità per addolcire la pillola”, presagendo quello che sarà uno dei licenziamenti di massa più grande dell’azienda.

 

Non solo Musk: anche Meta costretta a ridimensionarsi

Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Meta, ha annunciato il licenziamento di oltre 11 mila dipendenti (di cui 22 a Milano) tra Facebook, Whatsapp e Instagram. La notizia era stata anticipata nei giorni scorsi dal Wall Street Journal, ma non era sicuro quale portata avrebbe intrapreso questa azione.

A fronte dei quasi 87 mila dipendenti della società, la decisione di ridurre la forza lavoro del 13% è stata presa a causa dei risultati finanziari molto deludenti nell’ultimo trimestre, registrando un calo delle entrate provenienti dalle pubblicità del 4% circa.

Sfortunatamente, non è andata come mi aspettavo. La recessione macroeconomica, l’aumento della concorrenza e la diminuzione di inserzioni pubblicitarie hanno fatto sì che le nostre entrate fossero molto più basse di quanto mi aspettassi. Ho sbagliato, e me ne assumo la responsabilità.

Sede di Meta in Italia, in Via Missori 2, Milano. Fonte: ilsole24ore.it

I licenziamenti, spiega Mark Zuckerberg, riguarderanno tutti i settori della società, ma in particolare il team che si occupa di reclutamento di nuovo personale e il reparto finanziario.

Meta ha anche annunciato che inizieranno a ridurre i costi in generale, tra cui la riduzione dei budget, dei benefit e degli spazi usati come ufficio.
Per i dipendenti licenziati negli Stati Uniti saranno garantite 16 settimane di retribuzione base più due settimane aggiuntive per ogni anno di servizio, coprirà anche il costo dell’assistenza sanitaria per le persone e le loro famiglie per sei mesi, e fornirà tre mesi di supporto professionale con un fornitore esterno per accedere a nuove offerte di lavoro.

Victoria Calvo

Singapore e quel sottile confine tra Smart City e ipercontrollo

Singapore, l’isola città-Stato situata a sud della Malesia, è considerata in base a varie classifiche la città più tecnologicamente all’avanguardia, oltre che secondo Paese (dopo l’Islanda) più sicuro al mondo. Si tratta di uno Stato in cui non si vedono poliziotti per strada e dove i reati, oltre a non essere commessi, non vengono neppure immaginati: la trasgressione è infatti percepita come una forma di follia. Eppure, stiamo parlando dello stesso luogo in cui esistono ancora pene corporali e pena di morte, incorrendo in un controsenso tanto inestricabile quanto apparente.

Fonte: We Build Value

L’organizzazione statuale della Singapore post-coloniale è frutto del modello di sperimentazione originale di Lee Kuan Yew, consideratone non per puro caso il fondatore. Esso aderisce ad un criterio di massima valorizzazione delle tecnologie digitali, proponendosi all’avanguardia nel mondo contemporaneo seppur con inevitabili riverberi sulla sfera dei diritti dei cittadini, sottoposti a costante e pervasivo controllo. Un presente, quindi, dove a dominare è la pervasività della tecnologia, che se da un lato assicura una grande efficienza, dall’altro assume forme distopiche inquietanti in cui l’autorità può controllare nel dettaglio il movimento degli individui grazie ad un uso disinvolto di dati personali, i cosiddetti Big Data. Con tutto ciò viene da chiedersi: in che modo lo Stato anticipa comportamenti e reati nel pratico?

Il discredito sociale come deterrente

Quello di Singapore è un regime autocratico poggiato, piuttosto che sull’autoritarismo ruvido delle dittature, sulla pervasività della presenza governativa nella vita dei cittadini, basata sullo scambio tra benessere sociale e adesione conformistica al potere.
Durante un recente servizio del TG1 è stata intervistata una ragazza di nome Crystal Abidin, considerata una delle migliori menti under 30 al mondo nello studio dei comportamenti dei nativi digitali:

“Qui anche le razze sono profilate. In aeroporto un software riconosce i volti: il sistema riconosce l’etnia, e in base alla casistica, alcune razze vengono fermate più spesso di altre. Decide tutto l’algoritmo.”

In foto, la ricercatrice Crystal Abidin. Fonte: WISHCRYS

L’antropologa della Western Australia University continua poi dicendo:

“Nessuno è disturbato dal controllo, la nostra è una società pragmatica: privacy, diritti umani, libertà d’informazione, sorveglianza di massa. Di tutto questo, ancora una volta, non c’è coscienza. Nessuno si pone domande se vive in una società confortevole, ricca e dove a casa il cibo è assicurato.”

Sono affermazioni che fanno di certo riflettere molto, ma la scelta di Singapore del discredito sociale come metodo efficace per combattere l’elusione è ancor più sbalorditivo: dal momento che il PIL pro-capite del Paese è tra i più alti al mondo, se qualcuno getta ad esempio una carta a terra le telecamere lo riconoscono e la polizia, invece dei soldi infliggerà come pena di dover indossare una maglia fosforescente con su scritto ‘litterer’ (colui che sporca) per una settimana. E se lo rifarà, dovrà anche pulire il parco.

Con lo stesso metodo della sorveglianza già nel 2016 è stato arrestato un uomo prima che commettesse uno stupro, dopo che erano stati registrati e filmati comportamenti anomali, e un gruppo di terroristi che preparava un attentato alla vigilia del Gran Premio di Formula 1 di Singapore.

È così che viene portata avanti una società disciplinare: invece di punire a valle i reati si inducono i cittadini a comportarsi bene usando i Big Data. Lo Stato li raccoglie in un super computer e li analizza per creare algoritmi che regolino la vita dei cittadini in modo da anticiparne i bisogni, ancor prima che vengano espressi, approfittandone, tra le altre cose, per orientare dolcemente i comportamenti futuri in modo efficiente per la comunità. Tutto è inquietantemente data-driven, guidato cioè dai dati.

Confucianesimo: il “consenso dietro benessere”

Il filosofo Confucio. Fonte: Scaffale cinese

Singapore è una città-Stato multietnica, con una comunità cinese – suddivisa in diversi gruppi linguistici – rappresentante il 77% della popolazione residente. La seconda comunità, quella malese raggiunge il 14%; gli indiani l’8%, gli euroasiatici ed arabi poco più dell’1%. Venendo a conoscenza di un simile assetto viene forse più semplice immedesimarsi nei panni di chi ha ritenuto indispensabile il rigore per impedire scontri tra etnie e ricostruire un’identità comune al momento della formazione del Paese.

La proiezione verso il ruolo di quarta potenza finanziaria globale e di modello avanzato di Smart City, descrivono la traiettoria di un innegabile successo dell’esperienza singaporiana, se riguardato esclusivamente dal punto di vista efficientistico, all’interno di una cultura ispirata ai valori confuciani.

La base dottrinaria del confucianesimo (che sostiene l’adesione del popolo alle gerarchie) considera le élite al governo alla stregua di civil servants a servizio della comunità. La selezione delle élite avviene per merito e per virtù e la funzione di governo è vocata al conseguimento del benessere collettivo. In questo schema si rende possibile l’attuazione del sinallagma “consenso dietro benessere”.

Ecco, quindi, che i singaporiani neppure si pongono il problema della privacy:

“Tutto funziona, quindi la gente non pensa alla tecnologia separata dalla vita perché ormai è tutt’uno. Da voi in Europa non è ancora così. Noi abbiamo un numero identificativo che ci segue dappertutto, a scuola, a lavoro. Non ci si fa più caso”, ha sottolineato la giovane antropologa Crystal Abidin.

“Smart Cities” sempre più diffuse

Da tempo, il governo di questa città-stato è impegnato nella creazione di una Smart Nation, al fine di migliorare la vita dei propri residenti attraverso l’utilizzo di svariate tecnologie. Ma proprio perché è così avanzata tecnologicamente, è anche un laboratorio per il futuro dei centri urbani. I visionari di WOHA, celebre studio di architettura con sede a Singapore, fondato nel 1994 da Wong Mun Summ e Richard Hassell, hanno realizzato il video Singapore 2100, che presenta questo insediamento come una città 50/50: metà della superficie è destinata alla natura e metà agli spazi urbani. Grazie alla biodiversità che prospera, l’effetto dell’isola di calore si riduce, l’aria è più pulita e la qualità della vita degli abitanti migliora.

Sono realtà che si ripetono, con diverse sfumature, anche in altri Paesi asiatici caratterizzati da megalopoli ipertecnologiche: dal Giappone alla Corea del Sud, passando per l’Arabia Saudita e la Cina, le smart city costituiscono modelli virtuosi di sostenibilità e sono pioniere di progetti suggestivi e rivoluzionari in grado di rafforzare la sicurezza urbana e di garantire una gestione attenta dell’energia. L’idea comune a tutte queste città del futuro è quella di creare un nuovo standard di vita urbana con regole diverse e infrastrutture intelligenti in grado di supportare i cittadini nelle loro attività quotidiane, dalle più banali alle più complesse.

Anche in Italia il processo di cambiamento sta procedendo rapidamente e, nonostante il notevole divario tecnologico rispetto alle metropoli più avanzate, le città italiane stanno diventando sempre più sostenibili e digitalizzate: tra queste Firenze, Milano e Bologna aventi il ruolo di leader.

Il 13% di Singapore sarà milionario entro il 2030

L’Asia ospita attualmente 16 delle 28 megalopoli del mondo e il dato non deve affatto sorprendere: le città asiatiche sono caratterizzate da un’elevata densità di popolazione, tanto che le Nazioni Unite prevedono un raddoppio della loro popolazione urbana entro il 2030. La rapida crescita, alimentata dalla migrazione di massa, porta all’aumento dei redditi e al cambiamento degli stili di vita, il che mette a dura prova le infrastrutture e le risorse urbane, soprattutto nelle aree economicamente emergenti.

Singapore, patria di milionari. Fonte: ItaliaOggi

Un rapporto di HSBC intitolato “The Rise of Asian Wealth” ha indicato con forza che entro il 2030 Singapore vedrà una percentuale più alta della sua popolazione diventare milionaria rispetto a Stati Uniti, Cina e qualsiasi altra nazione dell’Asia Pacifico. Nel 2021 il 7,5% della popolazione dell’avanzata nazione insulare – sia cittadini che residenti permanenti – aveva lo status di milionario, ma si prevede che quel numero salirà al 9,8% nel 2025 e al 13 % nel 2030.

Il rapporto ha spiegato che le economie in più rapida crescita stanno accumulando ricchezza molto più velocemente, evidenziando come paesi quali Vietnam, Filippine e India vedrebbero aumentare coloro con ricchezze superiori a $ 250.000 più del doppio, seguite da vicino anche da Malesia e Indonesia.

Un modello che fa pensare

L’esempio di Singapore fa riflettere sul concetto di datacrazia e sulla costante esigenza di dati da parte di colossi tecnologici e Stati, il che significa principalmente l’inclusione di elementi sempre crescenti di intelligenza artificiale nel mondo umano.
Bisognerebbe poi chiedersi chi vorrà vivere – al di là di chi se lo potrà permettere – in luoghi asettici per quanto “ordinati”, le cui dinamiche che portano le persone a viverci sono molte e incrociano più quel “fascino folle” che un ovattato “ordine”.

In foto, il filosofo Luciano Floridi. Fonte: Il Dubbio

Luciano Floridi, filosofo della Oxford University, sostiene:

”Singapore è un modello che molti hanno in mente con un po’ di invidia, per ragioni di tipo finanziario, educativo e di stabilità sociale. Ma c’è qualcosa di preoccupante in questo modello: una componente di controllo della libertà individuale da parte delle istituzioni. È un luogo che è stato molto criticato da Amnesty International, per esempio, per problematici rapporti con i diritti umani. Singapore è pur sempre un luogo in cui un solo partito ha dominato la scena delle elezioni per gli ultimi 60 anni circa”.

Gaia Cautela

Rave a Modena: il governo Meloni emana un decreto contro i rave e scoppia la polemica

Rave a Modena interrotto dalle forze dell’ordine per volontà del ministro dell’Interno. I raver defluiscono in modo pacifico (fonte: rainews.it)

Rave in un capannone abbandonato

Tra sabato 29 e lunedì 31 ottobre, circa 3mila, o forse 5mila, si sono radunate presso un capannone abbandonato, nella periferia di Modena, in prossimità dell’autostrada A1. Giunti lì da ogni parte d’Italia, ma anche da molti angoli di Europa, con camper e auto, hanno dato inizio al raveWitchtek 2k22” (dall’inglese “witch”, strega), in occasione della prossima notte di Halloween.

Però, proprio il 31 ottobre, è arrivato l’ordine del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, di interrompere l’evento.

Sopraggiunte le forze dell’ordine, queste sono rimaste al di fuori del capannone, iniziando le trattative con gli organizzatori. Seicento gli agenti schierati intorno al perimetro dello stabile.

«Non abbiate paura, non entriamo: la polizia non entra. Siamo qui perché la struttura è pericolosa, non per voi».

A proferire queste parole, tramite megafono, è stato il dirigente della polizia di Modena, Domenico De Iesu, che da subito ha voluto chiarire l’intento di voler metter fine all’evento senza alcuna tensione.  La preoccupazione, infatti, er innanzitutto, per l’incolumità delle migliaia di giovani.

In quel momento, aveva iniziato ad esser chiaro a tutti che la situazione si sarebbe risolta senza troppe difficoltà, come poteva, invece, accadere, considerato l’alto numero di presenti e le dinamiche di contesti analoghi. Dopo ventiquattro ore, la massa ha iniziato a defluire dall’edificio: l’azione di sgombero forzato è stata evitata.

«Abbiamo reagito nella maniera giusta, nessuno ha alzato le mani, non vogliamo lo scontro» ha detto una partecipante del rave tra coloro che hanno parlato ai microfoni dei giornalisti sopraggiunti sul luogo.

 

 

Sgombero completato in maniera pacifica

Più di 1300 le persone identificate dalla Questura di Modena a seguito dell’interruzione del rave, denunciate quattordici, riconosciute come gli organizzatori, di cui tredici italiani e un olandese.

Le operazioni di sgombero pacifico si sono concluse proprio nella serata del 31 ottobre, che avrebbe dovuto essere il culmine dei festeggiamenti. Tramite i social, gli organizzatori avevano annunciato che il rave avrebbe dovuto protrarsi fino al martedì dopo la ricorrenza.

Ieri mattina, 1 novembre, sono stati apposti i sigilli al capannone sfruttato per l’evento, abbandonato e pericolante, successivamente al completamento della messa in sicurezza dell’intera area abbandonata.

Sequestrati quattordici autocarri, strumenti musicali, mixer e casse, per un totale di oltre cento pezzi e un valore stimato di almeno 150mila euro di attrezzatura. Poi, coloro che sono stati individuati dalle forze dell’ordine sono stati sottoposti ad obbligo di “ripristino dell’ordine nei luoghi dove si sono svolti i rave”.

Tutto si è svolto, dunque, con calma, senza tensioni. “La linea del dialogo è sempre quella vincente“, ha commentato il prefetto di Modena, Alessandra Camporota, lodando il funzionario De Iesu e la sua capacità di mediazione nel tranquillizzare i raver.

Il sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, aveva chiesto di “garantire nei tempi più rapidi possibili il ripristino della legalità, tutelando l’ordine pubblico e l’incolumità di tutte le persone, agendo senza forzature“, quindi di chiudere la situazione al più presto, ma senza forzature, ponendosi così sulla stessa linea del capo della polizia locale.

Anche lo stesso ministro Piantedosi aveva chiesto rigore, ma soprattutto tutela dell’incolumità pubblica e calma, anche se nella stessa mattina del 31 ottobre erano stati segnalati dei disagi, come la chiusura, per sicurezza, delle uscite autostradali di Carpi e Campogalliano, sull’A22, Modena Nord e Sud, sull’A1, e poi blocchi del traffico, code e disagi nella zona nord della città, coinvolta anche nell’iniziativa “SkiPass”, salone degli sport invernali.

Però, tutto si è risolto nel migliore dei modi con l’intervento della polizia.

 

 

Il disagio tra i giovani

«Veniamo qui solo per fare festa, ma non diamo fastidio a nessuno», aveva detto uno dei tantissimi raver, riassumendo le intenzioni di tutti gli altri. Le migliaia di giovani accorse a Modena si erano dati appuntamento per un momento di evasione.

Certo, non sono mancanti alcool, fumo e sostanze stupefacenti ad accompagnare i raver nelle ore di musica immersione nella musica assordante.

Ancora una volta, queste le strade intraprese per rincorrere un po’ di evasione. Ancora una volta il motivo è stato quello della ricerca dell’evasione da una realtà a tratti e soprattutto per alcuni troppo pesante.

Per questo, nonostante la discutibilità di costumi adottati durante il rave, anche dall’esterno sono arrivati commenti permeati di una sorta di comprensione per i raver: nonostante l’infrazione della legge, c’è chi sostiene che i raver non abbiano, fondamentalmente, arrecato danni a persone o cose esterne.

Alla luce di ciò, l’emanazione di un decreto appositamente contro i rave, stilato dal governo nelle ultimissime ore, è stato giudicato, anche dall’opposizione, non necessario.

Il decreto sui rave e la polemica

Fino a 10mila euro di multa e la detenzione fino a 6 anni per chi prende parte a un raduno pericoloso: queste le misure che entrano in atto con il nuovo decreto Rave” emanato dal governo Meloni, proprio in seguito all’ultimo evento di questo tipo, organizzato appunto a Modena.

Ciò ha allertato immediatamente l’opposizione politica e non solo. Il leader pentastellato, Giuseppe Conte, ha definito la manovrada Stato di polizia”, alzando i toni del malcontento.

In breve, la paura diffusa è quella che con tale decreto possano essere limitate qualsiasi tipo di manifestazione, anche quelle non potenzialmente davvero pericolose, per la mancanza di un’esaustiva chiarezza sulla definizione di sicurezza pubblica, nell’articolo 5 del decreto, che prevede: l’introduzione del reato di invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine, la salute e l’incolumità pubblica, con sanzioni sia per gli organizzatori che per i partecipanti stessi.

«Esistono una serie di reati ben più gravi di colletti bianchi puniti con pene minori e per i quali proprio il centro destra vietò le intercettazioni – tuona Conte – Creare uno nuovo reato, costruito tutto su una struttura di pericolo, modificando il codice penale, ha conseguenze enormi. Il rischio è che venga utilizzato come strumento repressivo con cui gestire il controllo sociale a ogni livello, considerato che sarebbe applicabile anche nelle scuole, università e fabbriche».

«È assolutamente inaccettabile che la vicenda del rave di Modena venga usata dal governo come pretesto per comprimere il diritto di manifestare». Così chiude il leader del M5S al riguardo.

Su questo punto, insistono il Pd e +Europa, ribadendo essere pericoloso non definire i criteri per stabilire in maniera definitiva la pericolosità degli eventi che di volta in volta verranno sottoposti a quanto previsto dal decreto, perché potrebbero subire la stesse pene previste anche i partecipanti i scioperi sindacali, manifestazioni pacifiche e perfino occupazioni scolastiche.

La pena definitiva è stata a mettere in allerta i penalisti, anche se per i soli partecipanti è prevista una riduzione della pena, e, in particolare, anche la questione delle intercettazioni telefoniche e telematiche.

Anche lo stesso ministro degli Affari esteri, Antonio Tajani, le intercettazioni, in questa particolare fattispecie, rappresenterebbero uno strumento d’indagine eccessivamente invasivo.

La premier Giorgia Meloni aveva dichiarato, in realtà, di non aver dato il via libera alle intercettazioni per questo reato, ma una pena di oltre 5 anni di reclusione, come quella prevista dal decreto in questione, ne permette di fatto il ricorso.

 

 

 

Rita Bonaccurso

 

Xi Jinping verso il suo terzo mandato: le sue dichiarazioni al Congresso Nazionale del Partito Comunista

Dal 16 al 22 ottobre il segretario generale Xi Jinping ha presieduto il 20° Congresso Nazionale del partito Comunista cinese (PCC), tenutosi nella Grande Sala del Popolo a Pechino. L’ershida, attesa da tutti i media cinesi e mondiali, ha ancora una volta dato prova della forza e del potere politico che il segretario generale ha accumulato durante i suoi anni di mandato. 

Cos’è il Congresso Nazionale del partito comunista 

Considerato come uno degli eventi politici più importanti ed attesi nel territorio cinese, il Congresso si tiene ogni cinque anni, della durata di circa una settimana, e riunisce ben 2.300 membri rappresentativi dei quasi 97 milioni di iscritti del partito comunista, chiamati delegati 

Di questi delegati, circa 400 fanno parte del Comitato Centrale del Partito, la più alta autorità istituzionale cinese, del quale poi saranno chiamati ad eleggere il Segretario Generale del Partito, che a sua volta eleggerà il cosiddetto Politburo, l’ufficio politico del Partito Comunista Cinese. 

La Grande Sala del popolo di Pechino durante il 20° Congresso Nazionale del Partito Comunista cinese. Fonte: rainews.it

Xi come “nucleo” del partito 

Dalla sua elezione nel 2012 come Segretario Generale del Partito Comunista e Presidente della Commissione Militare Centrale, Xi Jinping ha cercato sempre di più di consolidare la sua autorità e accrescere il suo potere individuale, portando così il Congresso Nazionale del PCC tenutosi nel 2018 a fare la prima sostanziale modifica sul limite di due mandati.  

Fatto sta, l’intento di Xi era chiaro: la mancata nomina di un suo successore aveva già fatto presagire l’ipotesi di un terzo mandato, per poi essere stata confermata davanti ai media nazionali e internazionali il 23 ottobre, al termine del Congresso del Partito Comunista. 

Nel discorso d’insediamento dichiara:  

“La Cina continuerà ad aprirsi, perché nessuno può chiudersi. Il percorso davanti a noi è arduo, ma raggiungeremo la destinazione”

Ha poi presentato la lista dei sei membri eletti nel Comitato permanente del Comitato Centrale, tutti uomini molto vicini e fedeli di Xi. Come numero due troviamo il nome di Qiang Li, segretario del partito comunista di Shangai, che ha destato qualche polemica a causa delle politiche “zero-covid” fallimentari che ha portato la città in lockdown per due mesi nel 2022. 

I riferimenti alla figura di Mao Tse-tung, il presidente più longevo della Cina rimasto al potere dal 1949 al 1976, non tardano ad arrivare. Nonostante questo possa essere addirittura un azzardo, è innegabile affermare che Xi abbia intenzione di accentrare tutto il potere e l’influenza politica intorno alla figura del “leader del popolo”, termine usato per la prima volta da Mao, in un processo sempre più irreversibile di una istituzionalizzazione del pensiero di Xi e della conseguente “leaderizzazione” del partito comunista. 

Questo ha portato all’approvazione degli emendamenti alla costituzione, dei “Due Stabilimenti” e delle “Due Salvaguardie”, che ha sancito Xi Jinping come il nucleo del partito. 

Xi Jinping avvia il suo storico terzo mandato il 23 ottobre 2022. Fonte: faz.net

Dalla politica Zero covid all’economia

Il discorso d’apertura del Congresso, della durata di circa due ore, si basa su argomenti di attualità, come la lotta al covid, in cui ribadisce l’intento di proseguire ancora per tanto tempo con le politiche “Zero Covid”, a discapito delle proteste sollevate dai cittadini cinesi che sono scesi in piazza a Shenzhen contro la misura contenitiva fra le più rigide. Al grido di “Togliete il lockdown”, la contestazione si è diffusa anche nei distretti di Xinzhou e Huaqiangbei, in seguito alla rilevazione di 10 infetti su una popolazione di oltre 18 milione di abitanti.  

Fra gli altri successi del partito, Xi cita anche la campagna anticorruzione, che ha permesso di eliminare i gravi pericoli latenti all’interno del partito, lo Stato e l’esercito”, l’istituzione di programmi di salute, promettendo un miglioramento del sistema sanitario pubblico, l’avanzamento nelle politiche ambientali, su cui rassicura che il Paese si attiverà per la transizione ecologica e nella lotta contro il cambiamento climatico, per poi parlare di uso pulito ed efficiente del carbone. 

Anche se l’economia cinese ha registrato un boom negli ultimi decenni, a causa del covid e della crisi della guerra russa in Ucraina, il segretario generale ha ribadito anche che “lo sviluppo economico è la priorità”, dichiarando: 

“[La Cina] ha grande resilienza e potenziale. I suoi solidi fondamentali non cambieranno e rimarrà su una traiettoria positiva nel lungo periodo. Saremo risoluti nell’approfondire la riforma e l’apertura su tutta la linea e nel perseguire uno sviluppo di alta qualità”

 

La posizione su Hong Kong e Taiwan

Si è menzionato come da prassi il discorso su Hong Kong e Taiwan: se per il primo si è rivelato molto più stringente, per il secondo ha toccato la questione con una certa prudenza.  

Su Hong Kong ha ribadito che l’amministrazione della regione indipendente ha trovato una stabilità, grazie alla concretizzazione e all’affermarsi di un governo portato avanti da patrioti. Al di fuori di ciò, conferma l’intenzione di reprimere senza sé e senza ma qualsiasi principio di protesta volta a destabilizzare Hong Kong per colpire la Cina.  

Riferendosi alle regioni indipendenti di Macao e Hong Kong, vengono definite dallo stesso Xi Jinping “un Paese, due sistemi” proprio per sottolineare il modello che tiene in rapporto le due città e Pechino.  

Non è dello stesso avviso per Taiwan, il quale si è fermamente opposto, da sempre, affermando che la “riunificazione” di Taiwan alla Cina si farà, impegnandosi in un’operazione pacifica, senza però voler rinunciare all’uso della forza e si riserva di utilizzare “tutti i mezzi” che ha a disposizione. 

Il presidente del Partito democratico di Hong Kong, Wu Chi-wai, mentre viene portato via a forza dal Consiglio legislativo della città. Fonte: ansa.it

L’ex presidente scortato fuori 

Poco prima del voto all’unanimità per il sostegno al segretario generale Xi Jinping, l’ex Presidente della Cina, il suo mandato durato 10 anni dal 2003 al 2013, Hu Jintao viene portato fuori dalla Grande Sala dove si è tenuto il Congresso da due presenti, di cui uno dei due pare sia il vicedirettore dell’Ufficio Generale del Comitato Centrale del Partito. Seduto a sinistra di Xi, viene invitato dapprima a lasciare l’auditorium, per poi prenderlo quasi di forza e fatto scortare fuori. Hu dapprima sembra confuso, chiede anche spiegazioni al premier Li Keqiang, ma dopo una breve conversazioni, l’ex presidente lascia l’aula sotto l’indifferenza di tutti i presenti, tranne che per la reazione di uno dei sette membri del Comitato permanente del Politburo Li Zhanshu, cercando prontamente di aiutare ma viene trattenuto da Wang Huning, altro membro del Comitato. 

Il motivo di questo gesto non è ancora molto chiaro, ma a rompere il silenzio ci pensa il post dal profilo Twitter della testata giornalistica cinese Xinhua, che spiega: 

“Dal momento che non si sentiva bene durante la seduta, il suo staff, per motivi di salute, lo ha accompagnato in una stanza accanto alla sede della riunione per un periodo di riposo. Ora sta molto meglio.”

Victoria Calvo