160 anni d’Italia, unione e pandemia: le parole del Presidente Mattarella e le proteste sul web

(fonte: twitter.com, @MinisteroDifesa)

17 marzo 1861: 160 anni fa nasceva il Regno d’Italia sotto la guida del re Vittorio Emanuele II di Savoia. Da quel momento molti eventi hanno segnato il destino del regno, poi divenuto Repubblica, fino ai giorni nostri: a celebrare la giornata una dichiarazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ricorda, tra l’altro, l’importanza dell’unità in tempi di pandemia.

Le parole del Presidente

Celebriamo oggi il 160° anniversario dell’Unità d’Italia, la “Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera“.

Così il Capo di Stato ha introdotto l’argomento della breve ma corposa dichiarazione, approfittando subito dopo per ricordare l’importanza dei valori di unità sanciti 160 anni fa nell’attraversare un periodo di sfida come quello del Covid-19.

L’Italia, colpita duramente dall’emergenza sanitaria, ha dimostrato ancora una volta spirito di democrazia, di unità e di coesione. Nel distanziamento imposto dalle misure di contenimento della pandemia ci siamo ritrovati più vicini e consapevoli di appartenere a una comunità capace di risollevarsi dalle avversità e di rinnovarsi.

Non è un caso che il Presidente abbia voluto spendere parole d’incoraggiamento alla coesione. Negli ultimi giorni, infatti, molti sono stati i motivi di dibattito e scissione sulla questione vaccini, soprattutto a causa dell’inchiesta e della sospensione temporanea della somministrazione del vaccino AstraZeneca. Poi continua:

La celebrazione odierna ci esorta nuovamente a un impegno comune e condiviso, nel quadro del progetto europeo, per edificare un Paese più unito e solido, condizione necessaria per una rinnovata prosperità e uno sviluppo equo e sostenibile.

Ribadisce l’importanza dell’impegno verso lo sviluppo sostenibile e la transizione ecologica, chiave del Recovery Plan ed oggetto dell’opera del neo-governo Draghi.

Le parole da Camera e Senato

Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, scrive sui social: “Gli Italiani sono un grande popolo, che ha dimostrato coraggio e responsabilità nell’affrontare la più difficile crisi sanitaria, economica e sociale dal Dopoguerra. Orgogliosa di essere italiana!”

(fonte: twitter.com @Roberto_Fico)

Il presidente della Camera Roberto Fico ha invece approfittato dall’occasione per toccare diversi punti importanti. Lo rivela Adkronos: il Presidente, nel proprio discorso, ha infatti ricordato l’importanza del raggiungimento di obiettivi come la pace e la prosperità tramite l’utilizzo di quelle energie morali, culturali e civili che animarono il Risorgimento. Poi prosegue:

“Nella difficile fase che stiamo vivendo c’è una splendida immagine di identità e di italianità: quella dei nostri medici e di tutto il personale sanitario che sono sempre rimasti in prima linea a combattere una guerra logorante a tutela della salute della collettività. E c’è quella degli uomini e delle donne, impegnati nelle missioni internazionali di pace che contribuiscono, con il nostro Tricolore, alla promozione dei valori universali della libertà e della dignità della persona nelle aree del mondo ricattate dai conflitti e dalle violenze”.

Infine rivolge un pensiero all’ambasciatore Luca Attanasio ed al carabiniere Vittorio Iacovacci, scomparsi tragicamente a causa di un attentato nel Congo e ricordati tra coloro che hanno contribuito a portare nel mondo la cultura della pace del nostro Paese.

Ripercorrere la nostra storia, promuovere i nostri valori, avere rispetto per il nostro passato, serve a dar forma a una forza positiva, a una riserva di energie morali, culturali e civili indispensabile per affrontare il futuro e le sue sfide.” Ha concluso il Presidente.

Le proteste del web e l’hashtag #IONONFESTEGGIO

Molti utenti del web hanno approfittato della ricorrenza per lanciare su Twitter l’hashtag di protesta #IONONFESTEGGIO, con motivazioni legate in particolare al divario tra Nord e Sud.
Effettivamente, un rapporto del 2020 dello Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) ha rivelato l’accentuazione del divario economico causato dalla pandemia, affermando che nelle regioni meridionali il secondo lockdown ha causato la caduta del reddito disponibile delle famiglie del -6,3% che si trasmette ai consumi privati, con una contrazione al Sud pari al -9,9% esuperiore a quella del Centro- Nord (-9%).

Secondo le proiezioni Svimez, il PIL crescerà al Sud dell’1,2% nel 2021 e dell’1,4% nel 2o22, mentre al Centro-nord avremo tassi di crescita del 4,5% nel 2021 e del 5,3% nel 2022. (agenziacoesione.gov.it)

I messaggi dei partiti

Diversi esponenti politici e partiti hanno voluto, allo stesso modo, approfittare della giornata per lanciare messaggi ai propri elettori: è il caso di Fratelli d’Italia, che celebrerà la giornata occupandosi della riqualificazione dei Parchi della Rimembranza ma ricorda l’importanza della difesa dell’identità nazionale.

Italia Viva, sotto l’hashtag #Italia160, ha dichiarato in un tweet l’intenzione di voler rendere omaggio allo spirito patriottico di coloro che lottarono per l’Unità battendosi per far ripartire il paese una volta superata la crisi pandemica.

Anche il neo-segretario del Partito Democratico Enrico Letta ha voluto condividere un messaggio di auguri, rimarcando l’importanza dell’unità nazionale.

 

Valeria Bonaccorso

Gli Usa dell’era Biden bombardano le milizie filoiraniane in Siria: i motivi delle tensioni tra i due Paesi

Attacco Usa in Siria. Fonte: Il Riformista

Giovedì 25 febbraio gli USA hanno compiuto un attacco aereo – il primo dall’insediamento del presidente Joe Biden – contro alcune milizie appoggiate dall’Iran nella zona orientale della Siria, al confine con l’Iraq. Si è trattato di una risposta all’attacco del 15 febbraio scorso contro la base statunitense di Erbil, nel Kurdistan Iracheno. Di qualche giorno fa, invece, la notizia del rifiuto dell’Iran di partecipare a un colloquio informale per la negoziazione di un accordo sul nucleare con gli Stati Uniti.

Il Pentagono statunitense risponde alle provocazioni iraniane

La prima azione militare dell’amministrazione Biden è stata ordinata come avvertimento a Teheran (capitale dell’Iran): dopo le consultazioni del presidente col capo del Pentagono Austin e con gli alleati, sono state sganciate ben sette bombe da 500 pound di esplosivo – cioè circa 227 chili – nella zona di confine tra Al Qaem e Abu Kamal. Un chiaro segnale di non tolleranza di ulteriori provocazioni iraniane, dopo quelle dello scorso 15 febbraio, delle quali sono stati responsabili i militanti legati alla Repubblica islamica.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Fonte: The New York Times

Con questa azione il capo della Casa Bianca ha voluto inoltre dimostrare di non essere debole nei confronti dell’Iran e né tanto meno pronto a fare qualsiasi concessione pur di ripristinare l’accordo nucleare, come sostenuto dagli oppositori interni repubblicani. In ogni caso, il Pentagono ha risposto con forza solo dove gli faceva più comodo, ovvero in territorio siriano, proprio per non mettere in difficoltà il governo iracheno con cui spera in una collaborazione per il contenimento delle infiltrazioni iraniane.

“La decisione di colpire in Siria invece che in Iraq avrebbe probabilmente evitato di causare problemi al governo iracheno, un partner chiave nei continui sforzi contro l’ISIS”, ha detto un alto funzionario del Pentagono di nome Michael P. Mulroy in una e-mail. “È stato astuto colpire in Siria ed evitare il contraccolpo in Iraq”.

Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha detto che nell’attacco statunitense sono stati bombardati alcuni edifici appartenenti alle milizie filoiraniane, tra cui Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al-Shuhada, che venivano usate per far arrivare le armi da un Paese all’altro (Siria e Iraq). Senza specificarne il numero, è stato aggiunto poi che durante l’attacco sono stati uccisi diversi miliziani: l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che da anni monitora la guerra in Siria, ha parlato di 17 miliziani morti.

L’attacco iraniano del 15 febbraio

La mappa dell’attacco iraniano alle basi in Iraq. Fonte: la Repubblica

La risposta militare statunitense è arrivata in seguito agli attacchi missilistici in Iraq verso una base aerea ospitante alcune truppe statunitensi vicino all’aeroporto di Erbil, il lunedì sera del 15 febbraio 2021. Durante l’attacco è stato ucciso un contractor, vale a dire un soldato professionista chiamato a lavorare a pagamento in zone di guerra, e sono state ferite altre 9 persone.

L’offensiva è stata rivendicata dal gruppo Awlya al Dam (che significa ‘’i guardiani del sangue’’), una milizia emersa di recente che, a detta di molti, sarebbe appoggiata dai principali gruppi sostenuti a loro volta dall’Iran e ostili agli USA, tra cui Kataib Hezbollah.

La BBC ha escluso che il contractor ucciso fosse di nazionalità americana, scansando così il rischio di ripetere quanto accaduto poco più di un anno fa: allora il governo statunitense aveva risposto al lancio di alcuni razzi, provocanti l’uccisione di un contractor americano, bombardando cinque siti in Iraq e in Siria controllati dalla milizia irachena Kataib Hezbollah e uccidendo più di 20 persone.

L’Iran si rifiuta di negoziare

La scorsa domenica, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh ha fatto sapere che l’Iran non ha alcuna intenzione di riprendere i negoziati con gli Stati Uniti sul dossier nucleare. L’incontro – organizzato alcuni giorni fa dall’Unione Europea – è stato a sua detta rifiutato per gli stessi motivi per cui non c’era stato un meeting con l’ex presidente Donald Trump, ossia per via delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti sull’economia iraniana. Anche se il recente attacco aereo statunitense ha cambiato le carte in tavola, il rifiuto dell’Iran non è stato affatto scontato, dal momento che negli ultimi giorni sembrava esserci la possibilità di ripresa delle trattative.

Cos’è l’accordo sul nucleare?

L’accordo sul nucleare iraniano venne firmato a Vienna il 14 luglio 2015, dopo lunghi negoziati tra l’Iran e i membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU con il potere di veto (Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania, vale a dire i paesi del cosiddetto “5+1”.

I ministri degli Esteri dell’Iran e del P5+1, annunciano l’accordo a Vienna, 14 luglio 2015. Fonte: Wikipedia

L’obiettivo era quello di sorvegliare le attività della Repubblica islamica dell’Iran in campo atomico, coinvolgendo nel patto le grandi potenze mondiali. Ciononostante, nel maggio 2018, l’allora presidente americano Donald Trump annunciò l’uscita degli Stati Uniti dal patto: fu in quell’occasione che vennero reintrodotte pesanti sanzioni economiche nei confronti di Teheran. L’Iran, in risposta a tale decisione, cominciò a ridurre gradualmente i suoi obblighi previsti dall’accordo, arrivando infine ad annunciare l’intenzione di un arricchimento di uranio che segnò la fine del patto. La decisione arrivò dopo la crisi scatenata dalla morte del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso il 3 gennaio 2020 in un raid aereo statunitense all’aeroporto di Baghdad.

Negli ultimi anni i paesi europei coinvolti nel patto tentarono in tutti i modi di salvare l’intesa, per esempio mediante l’introduzione di meccanismi per aggirare gli effetti delle sanzioni americane sulle aziende europee. I risultati però non furono quelli sperati ed è per questo motivo che, dopo anni di chiusure e tensioni, sarebbe stato importante che le due parti fossero ritornate a negoziare.

Gaia Cautela

Il potere della Costituzione a servizio delle future generazioni: così l’ambiente torna al centro del dibattito

Roberto Cingolani, ministro per la transizione ecologica – fonte: baritoday.it

Ne abbiamo sentito parlare per 40 anni, ma ora potrebbe diventare realtà. A vantarlo come punto saliente, il discorso programmatico del presidente del Consiglio Mario Draghi al Senato: sviluppo sostenibile e giustizia intergenerazionale. Negli ultimi anni il dibattito attorno a questi temi è stato acceso e, rispetto ad alcuni punti, crudele. Sempre più si è fatta notare una mancanza di attenzione verso le generazioni future; sempre più sono state criticate decisioni prese in vista dell’immediato futuro anziché di quello lontano. Abbiamo assistito a catastrofi naturali pensando che la Natura si stesse rivoltando contro di noi – spesso, abbiamo desiderato di estinguerci per non nuocerle più.

Eppure, l’ultimo anno, la pandemia, il lockdown ci hanno servito alcuni dei fenomeni più intensi degli ultimi decenni: la Terra che si riappropria dei suoi spazi. Vedere i delfini nuotare tra i cristallini canali di Venezia ha risvegliato nei più un profondo senso di appartenenza al mondo. Adesso l’uomo sta ricevendo un messaggio: la crisi ha dimostrato che l’unica strada percorribile è quella della corresponsabilità, laddove ognuno sia consapevole che le proprie scelte influiranno sul destino del prossimo. Ecco allora che la celebre frase di Draghi, “Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”, si cala all’interno di un contesto che ha coscienza del fatto che l’ambiente non sia più un elemento sacrificabile.

Un delfino nuota nei canali veneziani durante il primo lockdown del 2020 – fonte: mondoaeroporto.it

Da quanto emerso, il nuovo premier sembra intenzionato a garantire il realizzarsi di una riforma costituzionale, avviata dal precedente governo, che si sta trattando in Parlamento. Per la precisione, la riforma coinvolgerebbe gli articoli 2, 9 e 41 della Costituzione. Anche nel 1983 la Commissione Bozzi aveva avanzato una proposta del genere con l’unico risultato di cadere nel vuoto per 38 lunghi anni. Ne deriva che nel migliore dei casi otterremmo la tutela delle generazioni future, dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile come diritti inviolabili del singolo e delle sue formazioni sociali; avremmo poi un’iniziativa economica costretta a rispettare i principi dello sviluppo sostenibile. Nel peggiore, tutto rimarrebbe com’è – con la novità del Recovery Plan che imporrebbe in ogni caso degli interventi orientati in questo senso.

Se nelle ultime settimane abbiamo sentito tanto parlare di ambiente, di sviluppo sostenibile e di transizione ecologica (a cui è stato dedicato un ministero nel neo-governo), è proprio per questo: una delle condizioni che tengono in sospeso il Recovery Fund è l’attuazione della transizione ecologica e digitale del nostro Paese – ossia il raggiungimento di un impatto ambientale pari a zero.

I criteri ai quali devono essere ispirati i piani di ripresa nazionali – fonte: consilium.europa.eu

Ma si tratta di obbiettivi a lungo termine che possono essere conquistati solo col tempo, da generazioni che non sono le nostre. In sostanza, si tratta di comprendere non soltanto cosa il presente stia lasciando a noi, ma soprattutto cosa noi lasceremo in mano ai nostri figli. Ottimisti sì, ma senza illuderci che una tutela formale – benché di massima importanza – possa di per sé comportare un cambiamento sostanziale.

Se pensiamo anche solo all’Accordo di Parigi, trattato ambientalista internazionale che quasi tutti i paesi del mondo si sono impegnati a firmare, e a come esso non venga rispettato da molti membri del G20, la questione appare ancor più evidente. Però è da questo primo passo che ci si rende conto dell’anacronismo tra la situazione attuale e l’aprioristica e dogmatica difesa del testo costituzionale. Chi, dopo e nonostante tutto, invoca l’intoccabilità della Costituzione sminuisce la sua vera potenza, la capacità di adattarsi al carattere vivente ed in evoluzione della realtà al fine di tutelarne ogni aspetto. Ora più che mai si avverte l’urgenza di muovere passi, anche piccoli. E’ l’insegnamento della pandemia: proiettarsi nel futuro, imparare del passato, mai rimanere attanagliati al presente.

Valeria Bonaccorso

Articolo pubblicato il 25 febbraio 2021 sull’inserto NoiMagazine di Gazzetta del Sud

Oggi presentata la bozza del dpcm di Draghi: verso nuove restrizioni a Pasqua. Ecco quali

19.886 casi, 308 morti, un tasso di positività del 4,8% sono i dati registrati nell’ultimo bollettino del Coronavirus che non possono essere ignorati. «Non possiamo allentare le misure, non ci sono le condizioni epidemiologiche» afferma Speranza. Parole che sembrano preparare gli italiani a nuove restrizioni che, per il secondo anno di fila, li costringeranno a trascorrere Pasqua e Pasquetta in casa. Proprio oggi il Premier Draghi presenterà il dpcm anti-covidil primo per il nuovo leader insidiato a Palazzo Chigi- in vigore fino dal 6 marzo fino al 6 aprile.

Fonte: VelvetMag. Oggi la bozza del primo dpcm anti-covid del governo Draghi che prevede nuove restrizioni fino alle festività.

Il dialogo con le Regioni

Ai governatori di ciascuna regione sarà consegnata la bozza del provvedimento in queste ore, la cui approvazione è prevista tra venerdì 26 febbraio e il week end. Nell’incontro di ieri la ministra degli Affari Regionali e le Autonomie Mariastella Gelmini (FI) ha annunciato:

«Per l’esecutivo Draghi è fondamentale il confronto costante con le Regioni e anticipare le decisioni, in modo da lasciare ai cittadini il tempo necessario per poter organizzare la propria vita. State certamente notando un cambio di metodo. Ci siamo visti domenica e ci stiamo rivedendo oggi. Gli incontri saranno sempre più frequenti e costanti».

Il confronto diretto con le Regioni e la comunicazione con largo anticipo delle misure adottate dal governo, come già preannunciato da Draghi in Parlamento, è il cambio di rotta fondamentale che segna una certa discontinuità rispetto all’esecutivo di Conte. Fedeli a questa linea, durante la riunione di ieri, presente anche il Ministro della Salute Roberto Speranza, che potrebbe cambiare il colore di alcune regioni: da giallo ad arancione, da arancione a rosso. A preoccupare è infatti la curvatura dei contagi che fa aumentare le probabilità di una Terza Ondata, con un innalzamento dell’indice Rt al di sopra dell’1% secondo il fisico dell’Università di Trento Roberto Battiston. Rassicura però la Gelmini: «Il sistema a fasce verrà mantenuto. Finora è stato scongiurato un lockdown generalizzato e questo deve essere l’obiettivo principale anche per le prossime settimane e per i prossimi mesi».

Fonte: ANSA. La ministra per gli Affari Regionali e le Autonomie Mariastella Gelmini. Roma, 25 Febbraio 2021.

Cosa prevede il nuovo dpcm

Infatti, per allontanare il rischio di una possibile chiusura totale, il nuovo dpcm di Draghi non conterrà alcuna riapertura, ad eccezione per un barlume di speranza dato al settore della cultura. Intanto, è possibile riassumere schematicamente alcuni provvedimenti in vigore fino a Pasqua.

  • Spostamenti tra regioni. Lo stop agli spostamenti tra regioni (consentiti solo per rientro nella propria residenza, motivati da esigenze lavorative, ragioni di salute o di necessità) è valido fino al 27 marzo, ma numerose sono le ipotesi che farebbero pensare a un prolungamento. Sempre all’interno dei confini regionali, in zona gialla è possibile andare in abitazioni private, una sola volta al giorno e compreso in un orario tra le 5 e le 22, in presenza di due persone più i figli minori di 14 anni.
  • Seconde case. Anche in zona rossa sarà possibile raggiungere le seconde case, ma solo per il nucleo familiare.
  • Attività commerciali. Saracinesche abbassate per i negozi in zona rossa, dove sono garantiti esclusivamente gli esercizi commerciali essenziali come farmacie, alimentari e ferramenta. In zona gialla e arancione tutti i negozi sono aperti, ma nel fine settimana vietato l’ingresso a centri commerciali.
  • Attività sportive. Sul fronte delle attività sportive continuano a rimanere sigillate palestre e piscine. Bici, corsa e attività individuali come la camminata all’aperto sono invece permessi. È attesa una decisione riguardo la possibilità di concedere il via libera a lezioni individuali o su prenotazione.
  • Ristorazione. Niente apertura in orario serale per i ristoranti, ma consentito fino alle 22 l’asporto. Asporto e domicilio sono consentiti anche in zona arancione e rossa. Bocciata l’ipotesi della Lega e di Fratelli d’Italia di ristoranti aperti nelle regioni di fascia gialla: oltre le 18 consentita l’attività solo a mense, ristoranti negli alberghi e autogrill.

Il settore culturale

Per quanto riguarda il cinema, si lavora a un protocollo molto rigido che prevede una riapertura in sicurezza entro aprile: uso delle mascherine, distanziamento in sala, misurazione della temperatura, biglietti acquistati online per evitare assembramenti alla cassa e sale sanificate. Altra prerogativa è tenere aperti i musei e le aree archeologiche anche il sabato e la domenica, che al momento sono aperti solo nei giorni infrasettimanali in zona gialla.

«Il ministro Franceschini – continua la Gelmini – ha avviato un confronto con il Cts per far in modo che, superato il mese di marzo, si possano immaginare riaperture con misure di sicurezza adeguate. E’ un percorso, non è un risultato ancora acquisito. Ma è un segnale che va nella giusta direzione».

La scuola: apertura o chiusura?

Le scuole costituiscono anche per il governo Draghi un argomento assai problematico. Molte regioni chiedono di chiudere gli istituti scolastici di ogni grado e ordine per evitare il contagio dalle varianti, ma l’esecutivo assume un atteggiamento attendista. Per la Gelmini, chiedere l’apertura di alcune attività economiche e la chiusura delle scuole non è altro che una contraddizione. Numerose le perplessità dei governatori, tra cui Emiliano, che propone un piano vaccinale più efficace e veloce che possa mettere in sicurezza il rientro nelle aule. Nel frattempo, continua l’alternanza tra didattica a distanza tra il 50% e il 75%

Per Zaia, governatore del Veneto, il parere del Cts è di primaria rilevanza:

«Ho chiesto formalmente che il Cts si esprima ufficialmente rispetto all’apertura delle scuole la scuola, è una realtà sacra. Quando decisi la chiusura parlai chiaramente di una ‘sconfitta’ ma, se la guardiamo dal lato epidemiologico, il Cts ci deve dire perché altre forme di aggregazione sono pericolose e la scuola no. Perché noi non siamo in grado di esprimere una valutazione scientifica».

Immediata la chiusura per le scuole invece nelle zone rosse (come Siena e Pistoia) e arancione scuro (come Bologna), che mirano a contenere i focolai causati dalle varianti del virus.

Alessia Vaccarella

Accordo su Brexit criticato dagli unionisti nordirlandesi: ecco perché non vanno più bene alcuni suoi punti

Oggi, lunedì 22 febbraio, è iniziata una campagna politica e giudiziaria guidata dalla leader del principale partito degli unionisti nordirlandesi, il DUP (Democratic Unionist party), con l’obiettivo di convincere il governo conservatore britannico guidato da Boris Johnson ad apportare delle modifiche su alcune parti essenziali dell’accordo su Brexit. Il motivo sarebbe legato all’allontanamento dell’Irlanda del Nord dagli altri territori del Regno Unito, dovuto proprio alle conseguenze di alcuni punti del trattato.

Graffiti degli unionisti in segno di protesta. Fonte: Il Post

È con tali premesse che in questa giornata si terrà un dibattito sul tema alla Camera dei comuni britannica e che, nei prossimi giorni, verranno presentati dal partito una serie di ricorsi legali per dichiarare l’illegittimità dei punti criticati nelle corti inglesi, nordirlandesi e delle istituzioni europee.

«Le tenteremo tutte per provare a ottenere giustizia per il popolo dell’Unione», ha comunicato una fonte del partito al quotidiano britannico ‘’The Guardian’’.

I motivi delle contestazioni

Il principale motivo delle polemiche degli unionisti è il trovato compromesso del primo ministro britannico nell’ottobre del 2019, con il quale si mise fine alla situazione di stallo dovuta ai lunghi negoziati, accettando la presenza dell’Irlanda del Nord sia nel mercato comune europeo che nell’unione doganale.

In tal modo, se da una parte è stato soddisfatto un obiettivo condiviso da entrambi le parti della negoziazione (europei e britannici) di evitare la costruzione di barriere fisiche fra le due Irlande, dall’altra si è assistito ad un indebolimento del legame fra Irlanda del Nord ed il resto del Regno Unito.

Fonte: JPress

In effetti, da quando il Regno Unito ha completato la sua uscita dall’Unione Europea il primo gennaio 2021, gli impedimenti burocratici tra l’Irlanda del Nord ed il resto dei territori britannici non hanno fatto altro che moltiplicarsi: i supermercati nordirlandesi non si sono potuti più rifornire dall’Inghilterra e ciò ha provocato un’iniziale penuria di prodotti alimentari, oltre che ad un ripensamento generale delle tratte commerciali.

Altre conseguenze – tra le più contestate dell’accordo – riguardano la necessità di un nuovo passaporto per gli animali domestici di chi viaggia fra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito e l’impossibilità di acquistare online alcuni prodotti della Gran Bretagna. A ciò si aggiunge l’entrata in vigore nei prossimi mesi di nuovi iter burocratici, come quello richiesto ad esempio per l’esportazione delle salsicce di maiale (assai diffuse nelle colazioni inglesi) che potrebbe renderle molto più costose per i nordirlandesi.

Fonte: Eunews

Il DUP cambia idea

Da alcuni anni il DUP aveva grandi aspettative sull’alleanza con il partito Conservatore, tradizionalmente più legato all’integrità territoriale rispetto ai Laburisti: alle elezioni britanniche del 2017 sostennero apertamente il governo Conservatore di Theresa May, la quale non avrebbe altrimenti ottenuto una maggioranza parlamentare e che si è sempre opposta a lasciare l’Irlanda del Nord così legata all’Unione Europea.

La leader del DUP Arlene Foster, nei primi giorni, addirittura difese il compromesso di Johnson, nella convinzione che si sarebbe comunque trovata una soluzione per preservare il legame privilegiato dell’Irlanda del Nord con gli altri territori britannici. Oggi però i toni di Foster sono completamente cambiati, come dimostrano le sue affermazioni di qualche giorno fa:

«è stato il primo ministro britannico a metterci in questa situazione e causare queste difficoltà interne al mercato britannico, quindi spetta a lui risolverle».

La Foster criticata dal giornalista Murray

Eppure – secondo quanto commentato dal giornalista Conor Murray sul sito della tv pubblica irlandese RTÉ – le critiche della Foster non sono credibili, dal momento che le potenziali conseguenze della Brexit sono già note da un anno e mezzo:

«Montare un’opposizione ai diversi regimi commerciali [fra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito] potrebbe fare parte di un cinico tentativo di galvanizzare la propria base elettorale», ha detto.

La leader del DUP Arlene Foster. Fonte: BBC

Incertezze sulla campagna di pressione del DUP

Non è ancora ben chiaro in che modo il DUP intenderebbe contestare il Protocollo definito dall’accordo su Brexit che regola lo status dell’Irlanda del Nord, ma alcune ipotesi si stanno già facendo strada: in passato il DUP e i suoi governi regionali erano ricorsi al petition of concern, un meccanismo che aveva impedito l’applicazione di alcune leggi del governo centrale nell’Irlanda nel nord senza che ci fosse il consenso della comunità nordirlandese; è possibile quindi che un simile provvedimento venga preso anche in questo caso.

Ciononostante, il governo britannico e le istituzioni europee non hanno – almeno per il momento – manifestato alcuna intenzione di modificare radicalmente l’accordo su Brexit, così come non è possibile sapere con certezza fino a che punto la campagna di pressioni del partito Partito Unionista Democratico possa funzionare.

Gaia Cautela

La Nuova Zelanda distribuirà assorbenti gratis alle studentesse. Una decisione epocale

A partire da giugno 2021, in Nuova Zelanda la distribuzione di assorbenti e prodotti indispensabili per il ciclo mestruale sarà resa gratuita per le studentesse ed effettuata in tutte le scuole. La decisione definitiva arriva dopo 3 anni di sperimentazione in 15 scuole, con oltre 3mila studentesse. La decisione, che costerà 25 milioni di dollari neozelandesi – circa 15 milioni di euro – nei prossimi 3 anni, è stata confermata ieri dalla premier Jacinda Ardern, che ha sottolineato il motivo del provvedimento:

«Le giovani ragazze non dovrebbero essere costrette a perdere la loro istruzione a causa di un qualcosa che è parte integrante della vita di metà della popolazione».

Povertà, disagio scolastico e stigma sociale: un’iniziativa concreta

Secondo uno studio citato dalla stessa Ardern, un’alunna su 12 è costretta a saltare le lezioni per il cosiddetto “period poverty”. Per molte studentesse, è impossibile andare a scuola durante il periodo mestruale a causa di uno stato di povertà che non permette loro di acquistare questo tipo di prodotti sanitari. Addirittura, nelle aree più povere, le autorità neozelandesi riportano che alcune ragazze utilizzano “mezzi di fortuna” – carta igienica nel migliore dei casi – pur di non saltare le lezioni.

«Perciò – ha aggiunto la prima ministra – garantire la gratuità e la distribuzione dei prodotti per l’igiene mestruale nelle scuole è una delle strade che il governo sta seguendo per affrontare la povertà, migliorare la frequenza scolastica e incrementare il benessere delle più giovani».

Fonte: Dignity NZ’s Instagram. Nel post, l’associazione femminile ribadisce l’impegno contro il senso di vergogna e la disparità economica che le studentesse mestruate subiscono.

Educazione scolastica e accesso gratuito a prodotti sanitari indispensabili non sono e non devono essere considerate un lusso. In età da mestruazioni sono ben  95mila studentesse tra i 9 e i 18 anni – a quanto afferma Dignity NZ. Avere il ciclo è una cosa naturale e non può ancora essere oggetto di disparità economica e stigma sociale. Infatti, oltre alla natura propriamente pratica del provvedimento, ciò si costituisce come vero e proprio progetto a sostegno delle studentesse, che a gran voce hanno richiesto un “porto sicuro” per ricevere maggiori informazioni su come affrontare le mestruazioni e le indicazioni per utilizzare le forniture.

La Scozia, la prima a fare il passo

Un modello di riferimento quello neozelandese per la comunità internazionale, ma non certamente il primo. «Non saremo gli ultimi a farlo ma abbiamo la possibilità di essere i primi»: queste le parole di Monica Lennon, deputata di Edimburgo e autrice del disegno di legge che, con voto unanime, lo scorso novembre ha fatto conquistare alla Scozia il primato nel mondo per il libero accesso ai prodotti sanitari legati alle mestruazioni negli edifici pubblici.

Monica Lennon
Fonte: NPR. La Scozia è il primo paese al mondo a rendere gratuiti i prodotti legati alla mestruazione.

Un passo avanti nella lotta alla parità di genere, di straordinaria importanza per donne e ragazze, troppo spesso lasciate indietro nel dibattito pubblico su temi che inoltre le riguardano in prima linea.

L’Italia non è un paese per donne

L‘ex Ministro delle Finanze Roberto Gualtieri –  dal 2019 fino alla caduta del Conte II – annunciò con giubilo l’abbassamento dell’IVA sugli assorbenti dal 22% al 5%. Questo, però, riguardava esclusivamente prodotti igienici compostabili e biodegradabili, la cui scarsissima reperibilità – solo in farmacie specifiche e alcuni supermercati bio – è inversamente proporzionale al costo molto elevato che esclude l’acquisto a gran parte delle donne. Inoltre, per quanto nobile l’attenzione rivolta all’ambiente, questi prodotti sono ancora visti con largo scetticismo in fatto di efficacia.

Gualtieri
Fonte: L’avvenire. Il tweet di Gualtieri riguardo il taglio della tampon tax. Tra le firmatarie del provvedimento, anche Laura Boldrini.

Poter comprare assorbenti non è un privilegio, così come il ciclo mestruale non è qualcosa che avviene ogni mese in seguito a una libera scelta di una donna. Se accedere gratuitamente a questi prodotti sembra ancora un provvedimento lontano per il nostro Paese, abbassare l’IVAattualmente pari a un prodotto di lusso come il tartufo – segnerebbe davvero l’inizio di una svolta.

Quello che venne salutato come un “primo segnale per l’Italia” non sembra una conquista, piuttosto appare come un piccolo inefficace aiuto – che alcuni definirebbero “un contentino” – concesso per placare gli animi femminili. Muoversi verso una traiettoria comune, all’insegna di una giustizia sociale che dia importanza al benessere e alla salute delle donne, è una prerogativa che necessita oggi più che mai di essere realizzata. Ne abbiamo gli esempi.

 

Alessia Vaccarella

Gli USA rientrano nell’Accordo di Parigi. Cos’è e perchè pochi Paesi lo stanno rispettando

(fonte: teleambiente.it)

Da venerdì gli Stati Uniti fanno nuovamente parte dell’Accordo di Parigi, un trattato internazionale nato nel 2015 a salvaguardia dell’ambiente e con l’intento di contrastare i cambiamenti climatici.

“Un appello per la sopravvivenza giunge dal nostro stesso pianeta, un appello che non potrebbe essere più disperato e più chiaro di adesso.”

Ha affermato l’attuale presidente durante il proprio discorso d’insediamento.

La notizia, anche se ufficializzata solo alcuni giorni fa, è stata annunciata da tempo in quanto rappresenta uno degli obiettivi primari del presidente neo-eletto Joe Biden. Anche tale provvedimento, tra gli altri, appartiene ad una linea di discontinuità rispetto all’amministrazione Trump, che dall’Accordo di Parigi aveva deciso di ritirarsi nel 2017.

Accordo di Parigi, ecco cosa prevede

Firmato da 195 paesi in tutto il mondo e sottoscritto da 190 (compresa l’UE), l’Accordo di Parigi nasce nel 2015 per limitare le emissioni di gas serra e l’aumento della temperatura terrestre entro i +1.5 gradi. A ciò si aggiunga anche l’obiettivo, per ciascun membro, di versare un contributo in denaro all’anno per aiutare i paesi più poveri a sviluppare fonti di energia meno inquinanti.

Limitare l’aumento di temperatura rappresenta un primo passo verso la neutralità climatica, ossia verso un impatto climatico di ciascun paese pari a zero. Particolare attenzione è riservata alle emissioni di carbonio: al momento, USA e Cina sono i due stati che detengono i record di emissioni e per tale ragione sarebbe fondamentale la loro attiva partecipazione all’Accordo.

L’obiettivo più vicino è quello di arrivare a produrre, nel 2030, 56 miliardi di tonnellate di anidride carbonica anziché gli attuali 69 miliardi. Una meta che, si nota bene, può essere raggiunta solo tramite il rispetto degli accordi internazionali.

(fonte: limesonline.com)

L’abbandono degli USA e le sue conseguenze

Eppure, nel 2017, il presidente Donald Trump ha deciso di abbandonare l’Accordo. Non essendo vincolante, ciò non crea particolari problemi, però si tratta di un risultato raggiungibile circa in 4 anni. Ecco perché l’uscita dal trattato è stata ufficializzata solo a novembre 2020, al termine dell’amministrazione precedente.

Le reazioni alla notizia sono state negative, poichè furono proprio gli USA, durante l’amministrazione Obama, a rendere possibile la realizzazione dell’Accordo. Dalla decisione dell’ex presidente Trump, invece, è derivata la possibilità di gestire le proprie emissioni indipendentemente dal trattato.

L’effetto più importante era quello di dare più spazio alle emissioni statunitensi, con un conseguente ribasso del prezzo del proprio carbonio ed un rialzo di quello degli altri paesi. Il simbolico rientro nel trattato si accompagna adesso alla pretesa degli altri membri di un’azione seria e mirata da parte degli USA, che miri a riparare ai tanti anni d’inerzia.

Quali paesi rispettano davvero l’Accordo?

Sebbene il caso degli Stati Uniti abbia fatto, ai tempi, scalpore, bisogna ricordare tuttavia che molti dei paesi aderenti al trattato non lo stanno rispettando. Recente è la constatazione che la Cina, paese col primato di emissioni, non rispetta il trattato invocando la clausola – per molti inappropriata al suo caso – del paese in via di sviluppo. Quest’ultima contempla delle imposizioni più lievi rispetto agli altri paesi. Nel 2019, la Cina ha infatti emesso circa il 29,3% di tonnellate di CO2 al mondo.

Un caso altrettanto recente è quello della Francia, multata per il simbolico valore di 1 euro dopo aver perso un processo intentato dalle ONG ambientaliste contro lo stesso Stato francese. Secondo l’accusa, il progetto di legge sul clima non permetterebbe di raggiungere l’obiettivo di una riduzione di almeno il 40% delle emissioni nel 2030 in rapporto al 1990.

(fonte: valuechina.net)

Il movimento ambientalista Fridays For Future ha denunciato che, di tutti i paesi appartenenti al G20 (Italia compresa), nessuno stia effettivamente rispettando l’Accordo di Parigi. Un rapporto delle Nazioni Unite del 2018 ha evidenziato i problemi della linea seguita dal G20, la quale non permetterà di rispettare le promesse del trattato previste entro il 2030. Dai tempi di Parigi, le emissioni dei paesi del G20 non avevano fatto altro che rimanere in stallo per poi aumentare nel 2017.

Bene, invece, Marocco e Gambia che mirano rispettivamente a convertire il 52% della produzione di energia entro il 2030 ed a ridurre le emissioni del 55% entro il 2025.

Valeria Bonaccorso

In Catalogna vincono gli indipendentisti. Ecco perché il nuovo governo non si formerà facilmente

Elezioni in Catalogna. Fonte: TPI

Ieri, domenica 14 febbraio, si sono tenute nella comunità autonoma della Catalogna (che si trova nel nord-est della Spagna) le elezioni regionali per il rinnovo del Parlamento, la quale fisionomia non è molto cambiata rispetto a quella dell’assemblea uscente: i partiti indipendentisti hanno vinto di nuovo, dopo aver già governato durante l’ultima legislatura.
Nessuno dei tre partiti indipendentisti – Erc, Junts per Catalunya e Cup – è però risultato il più votato, essendosi presentati separatamente alle elezioni. Nonostante ciò, un’eventuale alleanza post-voto consentirebbe loro di superare con largo margine la maggioranza assoluta del parlamento catalano, pari a 68 voti. Su 135 seggi, il blocco indipendentista ha infatti ottenuto 74 seggi contro i 61 ottenuti dal blocco opposto (che tra l’altro comprende forze politicamente lontane fra loro).

I risultati delle elezioni

Le elezioni catalane sono state segnate da un crollo dell’affluenza rispetto al 2017, in parte a causa della pandemia: ha votato il 53,5 % dei catalani, vale a dire il 25 % in meno delle elezioni del 2017. Ciononostante, contando anche i partiti che non hanno ottenuto seggi, gli indipendentisti hanno superato per la prima volta il 50 % del consenso.

Bandiera della Catalogna, Fonte: Globalist

La Sinistra repubblicana della Catalogna (ERC), di centro sinistra, ha ottenuto il 21,3 % dei voti e 33 seggi; Insieme per la Catalogna (Junts per Catalunya), di centro destra, ha ottenuto il 20 % dei voti e 32 seggi; Candidatura popolare unita (CUP), di estrema sinistra, ha invece ottenuto il 6,6 % dei voti e 9 seggi. E ancora, l’estrema destra di Vox (partito neofranchista) ha preso il 7,6 % dei voti e 11 seggi, superando le aspettative dei sondaggi.
La prima forza resta comunque il Partito socialista catalano (PSC), con il 23 % dei voti e 33 seggi ottenuti, ma la sua vittoria in termini di voti non gli consentirà di ottenere la guida al governo catalano ‘’Generalitat’’, essendo privo di alleanze.

Il PSC spera in una coalizione improbabile

Il Partito socialista catalano potrebbe tentare una coalizione tutta di sinistra con Catalunya Ecp e Erc, ma quest’ultima si è allontanata dall’ipotesi già in campagna elettorale. In questa coalizione spererebbe il candidato del PSC ed ex ministro della Salute del governo centrale Salvador Illa, anche se è piuttosto difficile che si realizzi.
Difficile perché negli ultimi anni è andata accentuandosi sempre più la polarizzazione tra indipendentisti e unionisti, tant’è che poco prima del voto una piattaforma civica chiamata ‘’Catalani per l’indipendenza’’ aveva avviato una campagna per incoraggiare i candidati indipendentisti a dichiarare per iscritto che «in nessun caso negozieranno la formazione di un governo con il PSC». Tutti i leader hanno firmato.

Fonte: la Repubblica

Più probabile è dunque che ERC – quest’anno primo partito indipendentista – si ponga alla guida del blocco vincente, provando ad imporre la sua agenda moderata, lontana da quella dei puri secessionisti di Junts.
Il presidente del partito Oriol Junqueras ha già detto che «ERC tornerà ad avere la presidenza della Generalitat» benché gli equilibri saranno difficili da raggiungere. Questo perché l’alleanza tra ERC e Junts durante l’ultima legislatura è stata tutt’altro che pacifica: i leader dei due partiti si sono scontrati in numerose occasioni.

Aragonès mette fretta alle negoziazioni tra partiti indipendentisti

Le trattative risultano essere quindi molto complesse e, secondo alcuni analisti politici, l’alleanza di sinistra non è probabile ma nemmeno impossibile, specie se le negoziazioni con Junts dovessero andar male.
Il candidato premier di Erc, Pere Aragonès, sembra comunque avere fretta di formare un governo indipendentista:

“Nei prossimi giorni, oggi o comunque entro la settimana, dovremo essere in grado di andare avanti nei colloqui. Il 12 marzo è il termine per una prima votazione in Parlamento, ma spero che ci sia l’accordo molto prima”, ha detto.

Gaia Cautela

Trump assolto dal secondo impeachment. Scoppia la polemica e la frattura repubblicana

Trump dopo la sua assoluzione con la copia di un giornale americano e il titolo “assolto” (fonte: ansa.it)

 

Accusato e assolto, di nuovo. Donald Trump entra nella storia, anche se per una triste motivazione: è stato l’unico, nella storia degli Stati Uniti, ad esser accusato due volte per impeachment e, soprattutto, ad esser stato processato in qualità di presidente non più in carica.

Il processo lampo, durato solo 5 giorni, si è concluso il 13 febbraio.

Nel febbraio del 2020, invece, durante il primo dei due processi, era stato assolto dopo l’accusa di aver ricattato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nel tentativo di ottenere materiale imbarazzante sull’attuale presidente, Joe Biden.

Una dei manifestanti a favore di Trump, durante l’assalto al Congresso (ansa.it)

Le concitate fasi del processo durato solo pochi giorni

Il Senato ha assolto l’ex presidente, nel secondo processo d’impeachment. Per Trump “è finita la caccia alle streghe”. Ma ovviamente non tutti la pensano così.

L’accusa sosteneva l’influenza di Trump per l’assalto al Congresso del 6 gennaio. Nelle ore immediatamente prima del voto, i Democratici hanno cercato di reclutare testimoni per sostenere la tesi, tra cui la deputata repubblicana Jaime Herrera Butler.

Questa aveva dichiarato di aver parlato con il leader repubblicano della Camera, Kevin McCarty, il quale avrebbe sentito l’ex presidente al telefono durante l’assalto a Capitol Hill, il quale non avrebbe condannato i responsabili.

In risposta, gli avvocati di Trump hanno fatto una forte resistenza e hanno minacciato di aggiungere centinaia di testimoni, tra cui la speaker della Camera Nancy Pelosi, causando l’allungamento di diverse settimane del processo, ipotesi che ha sempre preoccupato Joe Biden.

Nancy Pelosi, speaker della Camera (fonte: usnews.com)

Così democratici hanno fatto un passo indietro, chiedendo che venisse accettata solo la dichiarazione scritta della deputata Herrera.

I sette sì repubblicani per la condanna

Necessari 67 voti per la condanna, corrispondenti ai 2/3 dei 100 senatori giudicanti. Alla fine i “soli” 57 sì, di cui 50 democratici e 7 repubblicani, non sono bastati. Quest’ultimi appartengono all’ala moderata del partito: Mitt Romney, Susan Collins, Lisa Murkowski, Ben Sasse, Patrick Toomey, Bill Cassidy e Richard Burr.

Solo sette, dunque, i membri del partito del tycoon che hanno accolto l’appello dell’accusa: “Ci sono momenti che trascendono l’appartenenza politica e che chiedono di mettere da parte i partiti” aveva detto uno dei manager dell’accusa, Joe Neguse.

43, invece, gli altri repubblicani a favore dell’assoluzione, che hanno impedito, dunque, il raggiungimento del quorum. Fino all’ultimo, non era sicuro quanti di loro avrebbero votato a favore della condanna, unendosi ai dem.

La polemica

Il leader dei senatori repubblicani, Mitch McConnell, dopo aver votato a favore dell’assoluzione, ha comunque continuato a definire Trump “praticamente, moralmente responsabile” per l’attacco a Capitol Hill.

Questo ha spiegato le sue azioni – viste le critiche per il suo iniziale sostegno all’accusa, prima del processo – sostenendo che il Senato non può essere considerato “un tribunale morale”, in potere di condannare l’ex presidente per le sue responsabilità nelle vicende del 6 gennaio, che dovrebbero essere altre le sedi giudicanti, magari in ambito penale.

“Il presidente Trump – ha detto – è ancora responsabile per tutto ciò che fece mentre si trovava in carica. Non si è lasciato dietro nulla.”.

McConnell (fonte: pbs.org)

Ha sostenuto l’incostituzionalità dell’impeachment contro un presidente già decaduto, ritenendo questo solo “principalmente uno strumento per la sua rimozione” e che, dunque, il Senato non avrebbe giurisdizione. Ha sottolineato che “la Costituzione stabilisce chiaramente che i delitti di un presidente commessi nel corso del suo mandato possono essere perseguiti dopo che lascia la Casa Bianca”, intendendo quindi esservi possibilità che le inchieste in corso possano proseguire in altre sedi.

Per i democratici, invece, questo equivarrebbe a dire che Trump sia libero dall’essere per le azioni durante le ultime settimane del suo mandato.

Sembra che condannare Trump, dunque, ai repubblicanii quali hanno abbracciato tutti la linea di McConnellabbia fatto paura. Avrebbe significato mettersi contro suoi potenti sostenitori, oltre che esporsi a “vendette” pericolose per l’esito delle prossime elezioni del Midterm, previste per il prossimo anno. Hanno scelto la via della prudenza, per aspettare che la figura dell’ex presidente diventi in modo naturale sempre meno capace di muovere le fila del partito e per evitare ripercussioni in un momento delicato per la preparazione agli impegni del 2022.

In effetti, sono già iniziate delle vere e proprie purghe nel Grand Old Party, contro, innanzitutto, i repubblicani unitisi ai dem nel processo. Cassidy – uno dei sette – il quale aveva twittato di aver votato per la condanna “perché la nostra Costituzione e il nostro Paese sono più importanti di qualsiasi persona”, è stato oggetto di una mozione di censura da parte della commissione esecutiva del partito repubblicano della Louisiana: “Condanniamo nei termini più duri il suo voto. Fortunatamente menti più lucide hanno prevalso e Trump è stato assolto”, ha reso noto la commissione.

 

Il futuro, le prime dichiarazioni di Trump e i commenti di Biden

Trump potrebbe riprendere il controllo dei repubblicani nel 2024, qualora non vi fossero novità in campo giudiziario. Il partito, invece, rischia un crollo interno.

Una frattura è stata già, in realtà, aperta da una piccola fronda parlamentare e personalità di spicco come l’ex ambasciatrice dell’Onu nominata da Trump, Nikki Haley, che ha già voltato le spalle a quest’ultimo.

Trump, intanto, dopo l’assoluzione, ha diffuso un comunicato stampa in cui ha attaccato i Dem per avere portato avanti quello che, a suo dire, è stato un processo politico. Ha poi concluso dichiarando di esser pronto a tornare in campo:

“Il nostro storico, patriottico e meraviglioso movimento Make America Great Again (rendere l’America di nuovo grande, ndr) è solo all’inizio.”.

“La democrazia è fragile” ha detto, invece, il presidente eletto Biden, ricordando gli avvenimenti dell’assalto al Palazzo del Congresso e commentando il voto al Senato.

“Anche se il voto finale non ha portato a una condanna la sostanza dell’accusa non è in discussione” ha aggiunto. “Questo triste capitolo della nostra storia ci ha ricordato che la democrazia è fragile. Che deve essere sempre difesa. Che dobbiamo essere sempre vigili.”.

 

 

Rita Bonaccurso