In Iran centinaia di bambine sono state avvelenate per far chiudere le scuole femminili

Nelle ultime settimane sono stati segnalati oltre duecento casi di studentesse di circa 10 anni, e di 14 scuole diverse, con sintomi di avvelenamento da agenti chimici, a pochi mesi dallo scoppio delle proteste in Iran legate alla morte della giovane Mahsa Amini.

Iran, bambine avvelenate per non farle andare a scuola. Fonte: Vanity Fair

Dopo un’iniziale reticenza, domenica scorsa sul caso si è espresso il viceministro dell’Istruzione iraniano Younes Panahi, secondo cui l’avvelenamento seriale di studentesse nella città religiosa di Qom e in altre città sarebbe “intenzionale”, nel tentativo di provocare la chiusura delle scuole femminili. Numerosi i genitori scesi in strada per chiedere più tutele da parte delle autorità locali e nazionali.

Qom, la città dell’Iran dove tutto è cominciato

La recente segnalazione rappresenta in realtà soltanto l’ultimo episodio di una serie di avvelenamenti “intenzionali” nei confronti di almeno 400 ragazze, con l’obiettivo di impedire l’istruzione femminile.

Il primo avvelenamento risale al 30 novembre, quando diciotto studenti della scuola tecnica Nour della città religiosa di Qom giungono in ospedale con sintomi di intossicazione grave. Da allora, più di dieci le scuole femminili nel mirino: sono almeno 194 gli avvelenamenti della scorsa settimana in una scuola femminile nella città di Borujerd, così come a Teheran e Ardebil.

Centinaia le famiglie spaventate che, vedendo da novembre figlie bambine o adolescenti rientrare da scuola con nausea, mal di testa, tosse, respiro difficile, palpitazioni, letargia, hanno messo in atto un passaparola che ha fatto chiudere le scuole per due giorni la settimana scorsa. Già il 14 febbraio, un gruppo di genitori protestava davanti al governatorato della città per chiedere spiegazioni.

Ad aggravare l’accaduto le ultime notizie sui social, secondo cui una delle studentesse di Qom avvelenate da sostanze chimiche non ancora certificate, sarebbe morta. Si chiama Fatemeh Rezaei e appare su centinaia di hashtag su Twitter. La famiglia dell’undicenne, allieva della più prestigiosa scuola religiosa della Repubblica islamica, è stata minacciata di non divulgare la notizia, poi rilanciata dagli amici della vittima.

Non è un caso che gli avvelenamenti siano cominciati proprio a Qom, città da 1,2 milioni di abitanti. Una città “santa”, sede di molte istituzioni del clero iraniano e che ha ospitato la maggior parte dei leader del paese.

Le dichiarazioni sul movente

Sebbene Panahi non abbia indicato i possibili responsabili nelle sue dichiarazioni, alcuni media locali riferiscono che le ragazze sarebbero state avvelenate proprio da movimenti di estremisti religiosi, probabilmente ispirati dalle politiche dei talebani afghani di vietare l’accesso alle scuole a bambine e ragazze.

Alla luce dei primi elementi emersi con le indagini del ministero dell’Istruzione e l’intelligence iraniana, il viceministro iraniano alla Salute ha affermato:

«Si è scoperto che alcune persone volevano che tutte le scuole, in particolare le scuole femminili, fossero chiuse», aggiungendo tuttavia che «i composti chimici usati per avvelenare gli studenti non sono prodotti chimici di guerra, gli studenti avvelenati non hanno bisogno di trattamenti aggressivi, e una grande percentuale degli agenti chimici usati sono curabili».

Anche Homayoun Sameh Najafabadi, membro del comitato parlamentare per la Salute, ha confermato in un’intervista al sito “Didbaniran” che l’avvelenamento delle studentesse nelle scuole di Qom e Borujerd è intenzionale. Le dichiarazioni giungono dopo che il ministro dell’Istruzione, Youssef Nouri, aveva definito come mere “voci” le notizie sull’avvelenamento.

Un evidente cambio di posizione da parte del regime, che appena dieci giorni fa definiva come “non confermate” le notizie degli avvelenamenti.

La condanna dell’Italia

Dinnanzi ai fatti di un Paese che continua ad essere dilaniato da forti instabilità politiche, la Lega ha deciso di presentare un’interrogazione parlamentare:

«Ennesimo episodio sconcertante che non può lasciarci in silenzio […] L’accanimento terribile e violento contro le donne iraniane continua a sconvolgerci e a indignarci. Come Lega, domani presenteremo un’interrogazione al ministro degli Esteri Tajani, perché su fatti drammatici del genere urgono risposte celeri», si legge in una nota dei senatori della Lega nelle commissioni Esteri e Difesa: Marco Dreosto, Andrea Paganella e Stefania Pucciarelli.

Severe anche le considerazioni di Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa verde e deputato di Verdi e Sinistra:

«I fatti gravissimi accaduti in Iran sono una dolorosa evidenza del fatto che ci troviamo di fronte a pratiche che ricordano l’orrore di quelle di sterminio naziste. Una situazione davanti a cui il Governo, insieme all’Unione europea, deve stabilire subito cosa intende fare per garantire il rispetto dei diritti umani»

Il ruolo delle donne nelle proteste

Parte dei movimenti di opposizione al regime iraniano ha accusato le autorità del paese per gli avvelenamenti, collegandoli al ruolo di riferimento che le giovani iraniane ricoprono nel movimento di rivolta nato con la morte di Mahsa Amini. Ad oggi, sui social circolano foto e video in cui le iraniane si tagliano i capelli e bruciano il velo islamico in segno di protesta.

Fonte: Agenzia Nova

Intanto, nelle ultime ore è stata rilasciata una cittadina 24enne spagnola, Ana Baneira, detenuta dallo scorso novembre. Le circostanze dell’arresto non sono mai state precisate, ma la durata della sua detenzione ha coinciso con il culmine delle proteste in Iran.

Gaia Cautela

Dahl, Walt Disney, Lovecraft: le censure ai libri per bambini che fanno discutere

Eliminare parole come “grasso” e “nano” per non offendere nessuno e insegnare ai più piccoli ad essere inclusivi. Così la casa editrice Puffin Books – appartenente al colosso editoriale Penguin Books – ha giustificato la scelta di censurare i libri per bambini dell’autore di fama mondiale Roald Dahl. La decisione fa parte di una rivisitazione più generale delle opere letterarie di cui detiene i diritti, il cui obiettivo sarebbe far sì che i suoi classici «possano essere fruiti ancora oggi da tutti».

I libri di Roald Dahl. Fonte: Agenzia Dire

Si tratterebbe di uno dei primi casi di cancel culture editoriale che provoca immediato allarme: l’iniziativa, infatti, non è piaciuta a molti, e ha portato persino all’intervento del primo ministro del Regno Unito, Rishi Sunak. A parlare per primo è stato venerdì scorso il Telegraph, che nell’inchiesta “The rewriting of Roald Dahl” ha raccolto un centinaio di modifiche mirate a rendere più inclusivi i testi su tematiche come aspetto fisico, etnia e questioni di genere.

L’inclusività che divide

La riscrittura, come spiega il Guardian, comporterà ampi cambiamenti: Augustus Gloop in Charlie e La Fabbrica di cioccolato, ad esempio, sarà descritto come “enorme”, mentre La Miss Trunchbull di Matilde da «femmina formidabile» è ora «donna formidabile»; i piccoli Umpa-Lumpa operai della Fabbrica di cioccolato non saranno più «piccoli uomini» ma «piccole persone».

Un portavoce della Roald Dahl Story Company ha dichiarato a Variety quanto segue:

«Vogliamo assicurarci che le meravigliose storie e i personaggi di Roald Dahl continuino ad essere apprezzati da tutti i bambini di oggi. Quando si ripubblicano libri scritti anni fa, non è insolito rivedere il linguaggio utilizzato insieme all’aggiornamento di altri dettagli, tra cui la copertina e il layout. Il nostro principio guida è stato quello di mantenere le trame, i personaggi e l’irriverenza e lo spirito tagliente del testo originale. Eventuali modifiche apportate sono state piccole e attentamente considerate».

Ma la reazione è stata critica da parte di molte voci importanti che lanciano l’allarme su questioni di libertà di espressione. L’autore Salman Rushdie sul suo account Twitter ha scritto in merito: «Roald Dahl non era un angelo, ma questa è un’assurda censura. Puffin Books e la Dahl estate dovrebbero vergognarsi».
Sulla revisione delle opere di Dahl si è pronunciata anche Suzanne Nossel, Ceo di Pen America (una comunità di oltre 7.000 scrittori che sostengono la libertà di espressione), che ha twittato dicendo di essere «allarmata» dai cambiamenti segnalati e ha avvertito che il potere di riscrivere i libri potrebbe essere abusato.

Varie polemiche da Zio Paperone a Lovecraft

Il politically correct ha investito anche il colosso americano Disney, che nei giorni scorsi ha deciso di non ristampare due particolari storie della saga di Paperon De Paperoni di Don Rosa che includono un particolare personaggio, per via di una nuova policy più attenta all’inclusività:

«Come parte del suo costante impegno per la diversità e l’inclusione, The Walt Disney Company sta rivedendo la propria libreria di storie», si legge nel messaggio inviato a Don Rosa e da lui prontamente ripubblicato sui social.

Gongoro sarebbe infatti una sorta di mostro rappresentato come lo stereotipico uomo nero popolarizzato dal personaggio di Jim Crow, ormai considerato simbolo del razzismo nei confronti delle persone afrodiscendenti. L’autore dell’Oregon lo pensò come un uomo africano in abiti laceri e con tratti caricaturali, ed è possibile che a posizionare le storie fuori dalla nuova policy Disney sia proprio questa rappresentazione.

Disney censura Zio Paperone. Fonte: Ventenni Paperoni

Il dibattito non ha risparmiato neanche uno degli scrittori fantasy più famosi di tutti i tempi, Howard Phillips Lovecraft, il cui lavoro è ovunque e che è stato più volte accusato di essere razzista (inequivocabile e innegabile). Ampie tracce di ciò si possono vedere nei racconti — The Call of Cthulhu è pieno di considerazioni ostili su «sanguemisti» e umani «di specie bassa» — e il suo epistolario ci consegna molte invettive contro «gli italiani del Sud brachicefali & gli ebrei russi e polacchi mezzi mongoloidi coi musi da ratti & tutta quella feccia maledetta» e altre descrizioni del genere.

Con un’influenza culturale satura come quella di Lovecraft, l’unica soluzione è quella di diffondere la consapevolezza dell’eredità dell’autore insieme all’opera stessa. In altre parole, l’alternativa è educare su ciò che è esistito già per creare qualcosa di nuovo, passando al setaccio sia ciò che si ama da ciò che è oramai obsoleto, che tutti quegli elementi rimandanti invece ad un’universalità dei temi.

La cancel culture deve far riflettere

Il problema di quanto descritto finora è legato al rischio di confondere l’arte, il contesto storico e le peculiarità di un autore con la tutela delle sensibilità contemporanee. Ma il vero pericolo di manomettere l’integrità di un’opera letteraria è forse quello di alimentare un clima di dubbi e incertezze; perché se è vero che oggi siamo capaci di cambiare le opere del passato censurandole e descrivendole in altro modo, cosa impedirà in un futuro prossimo di farlo in altri contesti?
È forse questa la via del ritorno al pensiero unico tanto temuto ai tempi delle dittature novecentesche? Come ci insegna la teoria politologica del ferro di cavallo le due estremità non sono gli opposti, ma si avvicinano quasi a toccarsi.

Fonte: iodonna.it

Ad ogni modo bisogna fare i conti anche con l’altro piatto della bilancia, possibilmente ritenuto responsabile di contenere eccessivo buonismo: da genitori molto spesso ci si ritrova a leggere storie e a modificarne delle parti perché ci si rende conto che, essendo state scritte in altri momenti storici, tendono ad esprimere visioni della società non più condivise e che pertanto non si vuole trasmettere ai propri figli. Si pensi ad esempio al ruolo stereotipato della donna nelle fiabe che hanno accompagnato l’infanzia di quasi ogni bambino e bambina; è indiscutibilmente responsabilità dell’adulto evitare – attraverso una buona dose di consapevolezza – che i più piccoli subiscano certi imprinting. Da non sottovalutare poi la rilevanza della lingua come potente strumento di cambiamento sociale, in grado di vincere stereotipi e pregiudizi che distorcono e alterano la realtà.

Ciononostante, la questione che anima il dibattito rimane perché si continua a modificare pezzi scritti in altre epoche per adattarli ai nostri tempi, e comprensibilmente non tutti son d’accordo. Ma la domanda da porsi è principalmente una: meglio che un’opera sia modificata in modo da rimanere sostanzialmente la stessa ed immortale ma adattata alla nuova forma che vogliamo imprimere alla società o che per non fare un torto ai testi, frutto di persone di altre epoche, in generale ne aboliamo la fruizione, smettendo di stamparli e lasciando che il tempo li cancelli, così come si farà con le storie di Zio Paperone? La risposta più saggia da dare è che non esistono soluzioni univoche alle controverse questioni etiche, così che si deve accettare la convivenza di opinioni diverse e persino opposte, dalle quali comunque emergerà un’azione collettiva.

Gaia Cautela

Treno deragliato in Ohio, c’è il rischio di uno dei peggiori disastri ambientali degli ultimi anni

Il 3 febbraio in una cittadina nell’Ohio (Stati Uniti) un treno contenente vagoni carichi di sostanze chimiche altamente tossiche è deragliato, uscendo dai binari e finendo avvolto dalle fiamme di una terribile esplosione. Un’enorme nube tossica si è sprigionata così nel cielo dell’Ohio e le immagini dell’incidente hanno fatto rapidamente il giro del mondo. Ma le autorità, dopo avere inizialmente ordinato l’immediata evacuazione hanno invitato i residenti a tornare nel luogo.

Foto della nube tossica vista dall’aereo, fonte. reddit

L’evacuazione e i primi interventi

Subito dopo l’incidente gli addetti ai lavori hanno bruciato parte dei composti contenuti nei vagoni per evitare che i liquami si disperdessero ulteriormente nel terreno. Un elevato numero di residenti della zona sono stati così evacuati per precauzione. Nei giorni successivi l’Epa, l’Agenzia statunitense della Protezione Ambientale, ha condotto un monitoraggio dell’aria e ha affermato di non aver rilevato alcun “livello preoccupante” relativo alle sostanze rilasciate. I cittadini sono stati dunque invitati a rientrare nelle loro abitazioni ma sono sorte nuove domande e tanti dubbi in merito a quanto accaduto.

 

Il possibile disastro ambientale

Come detto, in un primo momento le autorità statunitensi hanno negato la presenza di possibili impatti nocivi sulla salute dei cittadini e sull’ambiente, ma dopo numerosi accertamenti ed inchieste, adesso stanno emergendo nuovi aspetti del caso che potrebbero far pensare anche ad un possibile disastro ambientale. Infatti, tra le sostanze contenute in alcuni dei vagoni coinvolti c’era il cloruro di vinile, utilizzato per produrre plastica PVC e prodotti vinilici, che se bruciato rilascia numerose sostanze cancerogene. Nello specifico, come ha spiegato la stessa Epa, il cloruro di vinile quando brucia si decompone in acido cloridrico e fosgene, rispettivamente un acido irritante e corrosivo e un gas fortemente tossico a cui lunga esposizione porta allo sviluppo di un raro cancro al fegato.

fonte: brandson.com

L’indagine dell’Epa e gli effetti sull’ecosistema

Sono molti i residenti di East Palestine, la cittadina direttamente coinvolta nell’incidente, che una volta ritornati nelle loro case subito dopo l’invito delle autorità si sono lamentati per i forti odori, e che a distanza di poche ore hanno lamentato mal di testa, nausea e altri disturbi di salute. Nel mentre alcuni cittadini hanno notato che molti pesci di fiumi vicini alla zona dell’incidente erano morti. Sono stati stimati circa 3500 pesci morti lungo 7,5 miglia di corsi d’acqua a sud di East Palestine. Altri cittadini, come una residente di North Lima vicino a East Palestine, hanno anche raccontato che le galline da allevamento sono improvvisamente morte poco tempo dopo l’esplosione. L’Epa ha dichiarato di aver aperto un’indagine sulla possibile contaminazione del suolo e delle acque superficiali, iniziando a raccogliere campioni. Un nuovo controllo eseguito ieri in 290 case ha concluso di non aver riscontrato la presenza di cloruro di vinile o acido cloridrico, sostanze che possono causare problemi respiratori potenzialmente letali.

I residenti non sembrano essere convinti delle numerose rassicurazioni e anche le autorità sanitarie dell’Ohio hanno ammesso che dai nuovi dati emergerebbe un maggior quantitativo di sostanze chimiche rilasciate. Andrew Whelton, professore di ingegneria ambientale ed ecologica della Purdue University, ha affermato che l’aver bruciato le sostanze presenti sversatesi dai vagoni è stata la peggior scelta possibile poichè ha di fatto esteso gli effetti nocivi delle sostanze stesse oltre ad averne liberate di ulteriori e pericolose per popolazione ed animali.

A seguito di quanto avvenuto, si riscontrano numerose  preoccupazioni e allarmismi, soprattutto da Greenpeace ed altre associazioni ambientaliste. Ma nonostante ciò sembra esserci notevole disinteresse per l’accaduto. Come ha detto la giovane e popolare attivista Sophia Kianni, di Friday for Future, negli Usa sembra infatti esserci un “totale disinteresse” per quella che potrebbe essere una delle “emergenze ambientali più nocive” degli ultimi anni.

 

 

 

Federica Lizzio

Disney in odore di licenziamenti: l’impatto della crisi del 2022

Proseguono i numerosi licenziamenti: dopo Amazon, Meta, Twitter e Microsoft, anche la piattaforma Disney+ annuncia grossi interventi.

Le cause

Negli ultimi tre mesi del 2022, la piattaforma sembra aver perso 2,4 milioni di abbonati, motivo per cui si prospetta un taglio di circa 7mila posti di lavoro, pari a circa il 3,6% della forza lavoro globale.

Questa drastica decisione, genererà circa 5,5 miliardi di dollari di risparmi sui costi per la piattaforma. 

Crediamo che il lavoro che stiamo facendo per trasformare il nostro business intorno alla creatività, riducendo al contempo le spese, porterà a una crescita sostenibile e alla redditività della nostra attività di streaming.

Ha dichiarato Bob Iger, l’amministratore delegato.

È la prima volta dal 2019 che il servizio registra una perdita di abbonati di queste dimensioni, la piattaforma al momento sembrerebbe avere 161,8 milioni contro i 164,2 milioni del trimestre precedente.

Il motivo sarebbe riconducibile anche agli ultimi aumenti dei prezzi della piattaforma.

Cosa c’è dietro tutto questo 

Il team Disney conta circa 190mila dipendenti in tutto il mondo. Gestire questo elevato numero ha un costo piuttosto consistente, costo che la multinazionale non può più gestire. Così afferma il CEO di Disney:

Dopo un solido primo trimestre, ci stiamo imbarcando in una trasformazione significativa, che massimizzerà il potenziale dei nostri team creativi di livello mondiale e dei nostri marchi e franchising senza precedenti. Crediamo che il lavoro che stiamo facendo per rimodellare la nostra azienda attorno alla creatività, riducendo al contempo le spese, porterà a una crescita sostenuta e alla redditività per la nostra attività di streaming, posizionandoci meglio per affrontare le interruzioni future e le sfide economiche globali e fornire valore per i nostri azionisti.

Quanti saranno i licenziamenti nel 2023

Risulta che il 50% dei 2,5 miliardi di dollari di spese non relative ai contenuti deriverà dalle spese di marketing, il 30% dal costo del lavoro e il 20% dalla tecnologia e da altre spese aggiuntive.

Il servizio Disney prevede quindi che i risparmi sui costi verranno effettuati entro la fine del 2024.

Cosa succederà dopo il taglio dei posti di lavoro

L’amministratore delegato ha dichiarato di voler mettere in atto una nuova modalità operativa, che avrà inizio dopo i licenziamenti nel 2023, organizzando nello specifico tre segmenti di attività: Disney Entertainment (film, televisione e streaming), ESPN (focalizzata sullo sport) e Disney Parks, Experiences and Products (relativa ai parchi divertimenti).

I prossimi passi della Disney

Il CEO intende compiere vari passi per risolvere la situazione. Al momento, l’intenzione è quella di “ristrutturare” l’azienda, diminuendo i costi e migliorando la redditività. Tutto ciò risulterà possibile solo attraverso due azioni: limitando il personale e tagliando la produzioni dei programmi.

Iger ha, inoltre, precisato nelle ultime ore: «Ho un enorme rispetto e apprezzamento per il talento e la dedizione dei nostri dipendenti in tutto il mondo e sono consapevole dell’impatto personale di questi cambiamenti».

Perché il numero dei licenziamenti sta diventando sempre più elevato

La scelta di eliminare drasticamente il numero dei posti di lavoro è una conseguenza di una serie di fattori che negli ultimi anni ha influenzato la società in cui viviamo.  

Uno dei fattori chiave è stata la pandemia di COVID-19 che ha avuto un impatto decisivo sull’economia mondiale, provocando molteplici difficoltà nel settore economico. Anche la piattaforma Disney+ è rimasta vittima di questo cambiamento, e ha tentato di risolvere il problema riducendo le spese e semplificando le operazioni.

Il dubbio degli spettatori è anche quello dell’impatto che questa situazione alquanto complessa avrà sulla programmazione e sui contenuti: 

Per quanto riguarda i contenuti Disney ci saranno delle riduzioni di circa 3 miliardi di dollari:

Esamineremo realmente con attenzione tutto quello che realizziamo nel settore dell’intrattenimento perché le cose sono semplicemente diventate più costose in un mondo più competitivo.

Logo di Disney+. Fonte: AGI
Logo di Disney+. Fonte: AGI

Federica Lizzio

Terremoto in Siria e Turchia: oltre 11000 i morti

Veduta aerea Fonte :AGI

Nella notte tra domenica e lunedì, intorno alle ore 2:17 italiane, si è verificato un forte terremoto ha colpito la Turchia meridionale, nella provincia di Gaziantep, una zona altamente sismica, e il confine con la Siria.

É stato il più grande disastro registrato nel Paese dal 1939 “sono queste le parole del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

Due le scosse maggiori , la prima con magnitudo 7.8 e la seconda di 6.7, seguite poi da  ben 120 di assestamento. Il sisma ha avuto un ipocentro a 7 km di profondità ed è stato sentito nelle 10 province meridionali del paese, nonché in Libano e a Cipro. Il bilancio delle vittime è in continuo aggiornamento, e dopo due giorni, si stimano esservi stati 11200 morti e trentamila feriti. Inoltre il governo turco ha segnalato il crollo di ben  2.824 edifici.  Virale il video di uno stabile che crolla diverse ore dopo la scossa.

Le immagini che ci arrivano mostrano uno scenario a dir poco catastrofico : gente che fugge per trovare un riparo, abitazioni rase al suolo che non fanno che aumentare l’apprensione per coloro che ancora, dopo giorni, si trovano intrappolati sotto le macerie. Foto e video hanno fatto il giro del mondo, innescando una mobilitazione internazionale significativa. Sono tanti i Paesi che hanno offerto assistenza e aiuto al popolo turcho e siriano.

 

Aiuti internazionali: quali sono i paesi mobilitati

A mostrare il proprio supporto vi è stata anche l’ Italia, che tramite il ministero italiano della Difesa ha fatto sapere che è stato predisposto “un velivolo P180 dell’Aeronautica Militare che è in partenza con la prima aliquota avanzata di personale specializzato della Protezione Civile. Seguiranno ulteriori voli con C130 per trasportare mezzi, materiale e personale tra cui anche personale sanitario”. Biden che tramite un tweet comunica “Sono profondamente rattristato dalla devastazione causata dal terremoto in Turchia e in Siria. Ho detto alla mia squadra di continuare a monitorare la situazione, coordinarsi con la Turchia e fornire tutta l’assistenza necessaria”.

Anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha espresso su Twitter le sue condoglianze alle vittime del terremoto cha ha colpito nella notte il sud della Turchia ed ha offerto assistenza. “Siamo al fianco del popolo turco in questo momento difficile. Siamo pronti a fornire l’assistenza necessaria per superare le conseguenze del disastro”. Non da meno il presidente russo Vladimir Putin che  ha dichiarato che Mosca è pronta a fornire tutto il sostegno e si dice vicino al popolo colpito.  Ugualmente pronti a offrire attrezzature e forniture mediche sono state la Germania e il Messico. Solidarietà al popolo turco anche dalla Gran Bretagna , dalla Francia e dall’Azerbaigian.

Vari Paesi dei Balcani occidentali hanno annunciato la propria disponibilità e cooperazione.  La Serbia ha assicurato una squadra di 21 uomini specializzata nel salvataggio di persone sepolte sotto le macerie. Un gruppo di 40 soccorritori, con dieci cani da ricerca, partirà dalla Croazia, mentre saranno una cinquantina i soccorritori annunciati dalla Bosnia-Erzegovina. Il Montenegro invierà un gruppo di vigili del fuoco di varie città, in particolare da Kotolr , che è gemellata con Gaziantep, la località turca compresa nella regione maggiormente colpita dal sisma. Anche il governo brasiliano ha annunciato che manderà aiuti umanitari in Turchia e Siria.

Le parole del presidente Erdogan

In un incontro con la protezione civile turca, il presidente, ha espresso dolore e cordoglio per le vittime dicendo:

“La stagione è l’inverno, il clima è freddo e il terremoto è avvenuto nel cuore della notte, rendendo le cose difficili, ma tutti stanno lavorando sodo e hanno reagito nel modo più veloce possibile. Spero che ci lasceremo alle spalle questi giorni disastrosi. Oggi è il giorno di 85 milioni di cuori in un solo battito”

Inoltre ha proclamato 7 giorni di lutto nazionale nel Paese. Lo ha riferito l’agenzia di stampa Anadolu, secondo cui le bandiere saranno esposte a mezz’asta in Turchia e nelle sedi delle rappresentanze straniere fino a domenica 12 febbraio. Anche le scuole rimarranno chiuse e le competizioni sportive sono sospese fino a nuovo avviso.

Le testimonianze dei sopravvissuti

Fonte : Chronist

Una volta in strada, abbiamo visto decine di famiglie in preda a terrore e shock. Alcuni cadevano in ginocchio piangendo o pregando, come se fosse il Giorno del Giudizio. E’ molto più difficile di cannonate e pallottole. Non ho mai avuto questa sensazione nemmeno nei lunghi anni della guerra” sono le parole di un siriano fuggito dal proprio appartamento.

Gökce Bay , dell’ospedale di Gaziantep, che ha subito un trapianto di rene domenica, ha raccontato alla Bbc: “Ero al secondo piano dell’ospedale quando è iniziato il terremoto. Non ricordo nemmeno come ho tolto la flebo dal mio braccio per fuggire. Tutti si sono aggrappati l’un l’altro per aiutarsi, pensavamo che non ce l’avremmo fatta e saremmo morti. Quando siamo arrivati in strada, tutti abbiamo iniziato a piangere”. 

“Dormivamo profondamente quando abbiamo sentito un terremoto pazzesco. Mi sono svegliato e con i miei bambini e mia moglie sono uscito dalla porta di casa. Un attimo dopo che ho aperto la porta l’intero edificio è venuto giù. Le mura ci sono cadute addosso, ma mio figlio è riuscito a uscire. I nostri vicini sono tutti morti, ma la mia famiglia si è salvata” sono le parole di un superstite che racconta di quanto abbia urlato prima che i soccorsi lo trovassero sotto le macerie.

Distrutto anche il Castello di Gaziantep, patrimonio mondiale dell’Unesco

Prima e dopo il terremoto, Fonte: il Riformista

Anche la fortezza edificata tra il II e il III secolo dopo Cristo è stata danneggiata dal violento terremoto. Monumento antichissimo che, nonostante i suoi quasi duemila anni di esistenza, ha perso dinanzi alla furia di Madre Natura.  La prima costruzione, infatti, risale addirittura agli ittiti che edificarono un osservatorio militare migliaia di anni fa, ma la vera fortezza venne poi costruita dai romani. E nel sesto secolo subì ulteriori ampliamenti sotto l’imperatore Giustiniano che fece erigere 36 torri a difesa di un bastione circolare con una circonferenza di circa 1200 metri. A crollare proprio diversi bastioni sul fianco est ed ovest e delle porzioni del muro di protezione riversatesi in strada.

  Serena Previti

La morte dell’afroamericano Tyre Nichols, colpevoli 5 agenti di polizia

Il ventinovenne Tyre Nichols è l’ennesimo membro della comunità afroamericana a pagare con la propria vita gli effetti di una sconcertante cultura di disumanizzazione delle persone di colore che continua ad imperversare tra le forze dell’ordine in negli Stati Uniti. Dopo le innumerevoli battaglie civili sostenute, e a quasi 3 anni dall’omicidio di George Floyd, si apre così un nuovo capitolo nel dibattito su polizia e razzismo.
La triste novità è data dal fatto che il giovane padre afroamericano è stato picchiato a morte da una pattuglia composta da cinque agenti di polizia tutti di colore, accusati di omicidio di secondo grado dopo che la città ha rilasciato i filmati incriminanti del tragico episodio.

I membri della famiglia e diversi attivisti hanno tenuto una manifestazione per Tyre Nichols la scorsa settimana al National Civil Rights Museum di Memphis. Fonte: Nytimes.com

I video brutali dei 5 agenti

Tyre Nichols era stato fermato dai poliziotti per un controllo serale dopo avere commesso una violazione del codice stradale, morendo tre giorni dopo in ospedale, a causa degli “abusi fisici” che il capo della polizia di Memphis – una donna afroamericana – ha definito “atroci, sconsiderati e disumani”.

In effetti venerdì scorso, la città di Memphis ha pubblicato un video che mostra gli agenti prendere a pugni, calci e usare un manganello per picchiare il signor Nichols mentre questi li implora di fermarsi. Quasi un’ora di filmato che, compilato dalla polizia e dalle telecamere di strada, mostra parte di un ingorgo stradale, Nichols che fugge, l’inseguimento e infine gli agenti che lo picchiano. La polizia di Memphis ha detto in una sua dichiarazione iniziale che c’è stato uno “scontro” quando gli agenti di polizia hanno fermato l’auto in fuga di Nichols, e “un altro scontro” successivamente, quando lo hanno arrestato. Scontri che, secondo i risultati preliminari (rilasciati dagli avvocati della famiglia di Nichols) di un’autopsia indipendente, hanno provocato alla vittima “un’emorragia estesa causata da un duro pestaggio”.

Fonte: Gazzetta del Sud

L’assalto da parte di afroamericani – e non di agenti bianchi – contro un membro della loro stessa comunità è la “prova che questa violenza è qualcosa di più profondo e difficile da estirpare nella cultura della polizia”, hanno commentato i pastori di diverse chiese evangeliche afroamericane. E non può esistere alcun tipo di parentela immaginaria che possa restituire una benché minima umanità a dei carnefici addestrati a vedere le vite dei neri come completamente prive di valore.

Anche il presidente degli Stati Uniti Biden si è detto “indignato e profondamente addolorato nel vedere l’orribile video del pestaggio” e ha invitato il Congresso a votare la legge George Floyd sulla responsabilità delle forze di polizia, bloccata da mesi dai senatori repubblicani.

Il George Floyd Justice in Policing Act

La legge di riforma della polizia americana, ancora in esame al Congresso, prende il nome da George Floyd, l’uomo afroamericano ucciso da un agente di polizia il 25 maggio 2020. Questa legge cambierebbe in modo significativo l’attuale modello di polizia statunitense e si aprirebbe maggiormente verso le comunità etniche e il riconoscimento dei diritti civili: un progetto articolato di misure che si propone di contrastare quello che lo stesso presidente Biden ha condannato come “razzismo sistemico”, difficile da sradicare nella società americana, dove ancora prevalgono logiche di esclusione nei confronti delle comunità afroamericane, asiatiche, ispaniche e indo americane.

La seguente riforma è accompagnata da dibattiti di lunga data che coinvolgono profili di diritto penale e sociologia della sicurezza, per lo più incentrati sulla modifica della dottrina dell’immunità qualificata. Le norme sono quindi destinate a disciplinare specifiche rilevazioni sugli standard operativi dei controlli di polizia e a prevedere attività di inchiesta sistematiche condotte dai Prosecutor e dalla Divisione per i diritti civili del Dipartimento di Giustizia. Sono state inoltre predisposte linee guida sulle attività formative con meccanismi di consultazione con i rappresentanti dei movimenti dei diritti civili molto attivi e presenti nella società americana.

Sciolta l’unità speciale

I cinque agenti accusati facevano tutti parte dell’unità specializzata “Scorpion“, che il dipartimento di polizia di Memphis ha dichiarato di aver sciolto sabato, in seguito alle continue sollecitazioni della famiglia di Nichols e degli attivisti cittadini.

I cinque agenti coinvolti nel pestaggio. Fonte: Nytimes,com

L’unità, il cui nome intero è “Operazione sui crimini di strada per ripristinare la pace nei nostri quartieri”, era stata creata poco più di un anno fa per contrastare un’ondata di violenza in città (il tasso di omicidi era in aumento), ed era già molto disprezzata tra le comunità marginalizzate di Memphis anche prima della morte di Nichols.

In una dichiarazione di sabato il dipartimento di polizia ha detto: “mentre le azioni atroci di pochi gettano una nuvola di disonore sull’unità, è imperativo che noi, il dipartimento di polizia di Memphis, adottiamo misure proattive nel processo di guarigione per tutte le persone colpite”.

Diffondere video non basta

Quello che è successo a Nichols viene in questi giorni mostrato al mondo intero in un video destinato ad alimentare il dibattito sulla brutalità della polizia, scatenando polemiche e indignazione sull’ennesimo episodio di furia insensata. Ci si chiede se è davvero questo il modo di porre fine alla violenza razziale, attribuendo un ulteriore fardello di prove video alla comunità discriminata, condannata a subire l’umiliazione di vedere i propri momenti di morte trasmessi ad una società che, talmente abituata a vedere immagini violente, gli è quasi del tutto indifferente.

Dal 1980 ad oggi sono oltre 17.000 le morti causate “accidentalmente” dalla polizia: tra i numeri figurerà adesso anche quella di Tyre Nichols, il cui nome si affianca pure nelle pagine di storia della città di Memphis a quello di Larry Payne, un sedicenne ucciso per aver partecipato ad uno sciopero nel marzo del 1968, e di Martin Luther King, il più visibile leader del movimento per i diritti degli afroamericani e assassinato da un colpo di fucile di un criminale il 4 aprile dello stesso anno.

Perché riportare il semplice fatto di questi incidenti continua a non essere sufficiente per porre fine alle violenze? Perché tutti gli anni trascorsi a guardare tali filmati si sono dimostrati insufficienti a spingere i legislatori verso un’azione reale? È evidente che sono necessari cambiamenti nelle politiche e nelle procedure delle forze dell’ordine in modo che nessun altro debba sperimentare ciò che sta attraversando la famiglia di Nichols oggi.

Gaia Cautela

Canada: depenalizzare le droghe per ridurne il consumo

Era il 17 Ottobre del 2018, quando, in Canada, entrava in vigore il Cannabis Act, la legge con la quale il Paese diveniva il secondo al mondo a consentire la vendita, il possesso e l’uso a scopo ricreativo dei prodotti a base di cannabis. Ad oggi, dopo più di quattro anni, il governo canadese ha deciso di spingersi ancora oltre e di compiere una mossa tanto rischiosa quanto socialmente progressista: depenalizzare l’uso personale di alcune droghe “pesanti” quali eroina, morfina, cocaina, metanfetamina, ecstasy, e fentanyl.

 

Tre anni di test prima della decisione definitiva

Da oggi 1 Febbraio, nella provincia della British Columbia, sarà possibile possedere al massimo 2,5 grammi di sostanze stupefacenti senza essere puniti.

«Chi verrà trovato in possesso di questa modica quantità di droghe pesanti non sarà arrestato e incarcerato, gli verranno invece offerte informazioni sui programmi sociali e sul trattamento da fare per disintossicarsi, se lo richiederà. Resterà invece illegale e punibile penalmente il traffico di droga, indipendentemente dalla quantità posseduta»

Queste le dichiarazioni del ministro della Salute mentale e delle dipendenze della Columbia Britannica, Jennifer Whiteside.

Alla base di questo provvedimento vi è l’idea di poter contrastare l’uso di determinate sostanze combattendo il giudizio nei confronti di chi ne fa uso perché, citando la stessa Whiteside, la dipendenza è «un problema di salute, non un problema penale». Il governo canadese si è visto quasi costretto a prendere una decisione decisa a fronte di un drastico aumento delle morti per overdose negli ultimi due anni. Si pensi infatti che in una zona di Vancouver, detta Zombieland a causa della presenza massiva di zone di spaccio e di gente che fa uso di stupefacenti, il numero di decessi per overdose (circa 4400) è paragonabile a quello di morti a causa del Covid (circa 5000).

 

Il Cannabis Act del 2018

La strada della depenalizzazione era stata già intrapresa in Canada circa quattro anni fa quando, come detto ad inizio articolo, si era reso legale il consumo di prodotti a base di cannabis. Quella scelta ad oggi sembra aver ripagato lo stato canadese che, contrariamente a quanto si possa pensare, ha visto l’utilizzo abituale delle droghe “leggere” rimanere stabile.

Inoltre, si è alzata l’età media del primo approccio alla sostanza e si è, di conseguenza, abbassato l’uso da parte di persone di età inferiore ai 18 anni. E’ plausibile dunque che sia stato questo quadro positivo a convincere della validità e dell’utilità dell’approccio anti-proibizionista.

Fonte: centromedicomanzanera.com

La situazione in Italia

Nella nostra amata penisola la situazione è ben diversa. Dal 2016, è legale la vendita della cosiddetta “cannabis light“, cannabis con una percentuale di THCtetraidrocannabinolo, da cui dipende l’effetto psicoattivo – che va dallo 0,2% allo 0,5%. La legge in tal senso afferma:

«Non potrà essere punibile, ex art.75, il consumatore trovato in possesso di cannabis light dal momento che si tratta della posizione di un soggetto che fruisce liberamente di un bene lecito, risultando il limite dello 0,5% di THC la soglia sotto la quale la cannabis non ha effetti psicotropi rilevanti giuridicamente ai sensi del DPR 309/1990.»

Per chi invece dovesse essere trovato in possesso di sostanze con una percentuale di THC maggiore la situazione si complica. Tuttavia non viene considerato un reato penale bensì un illecito amministrativo il possesso di tali sostanze se non si supera la soglia massima di quantità consentita, ovvero 500 milligrammi.

Nel nostro paese il dibattito se vogliamo è ancora più acceso se si considera che il mercato illegale degli stupefacenti è parte integrante del business delle organizzazioni criminali. Anche questa evidenza tuttavia non basta a convincere il governo nell’attuare la liberalizzazione quantomeno delle droghe “leggere”. Uno dei rappresentanti più illustri della lotta alla malavita, Roberto Saviano, nel 2017 ha pubblicato un vero e proprio “innoalla legalizzazione:

«Legalizzare non significa invitare tutti al consumo, legalizzare non significa spingere tutti a farsi le canne. Al contrario, regolamentare, sottrarre all’illegalità. Se lo stato imponesse alla cannabis la stessa imposta che impone al tabacco incasserebbe in un anno dai 6 agli 8 miliardi di euro.
Direi agli scettici Legalizzate! Perché legalizzare significa sottrarre un mercato immenso alle organizzazioni criminali, toglieremmo dagli 8 agli 11 miliardi di euro alle organizzazioni. Questo danaro è usato dalle organizzazioni mafiose per corrompere la politica, l’amministrazione pubblica e a far collassare le nostre democrazie; tutto questo significa che ci sottraggono diritti.»

Queste le forti parole, contenute all’interno della traccia “Skit-considerazioni” del rapper Fabri Fibra.

Non tutti però sembrerebbero pensarla allo stesso modo. Il procuratore presso il tribunale di Catanzaro Nicola Gratteri, che da una vita si occupa in prima persona della lotta alle mafie, ha di recente dichiarato in un’intervista nella trasmissione televisiva “Piazza Pulita”:

«Non si devono assolutamente legalizzare le droghe leggere. Bisognerebbe andare nelle comunità per chiedere ai tossicodipendenti se sono favorevoli o no»

E sulla possibilità di ridurre il potere economico della criminalità organizzata:

«Un grammo di cocaina costa mediamente 50 euro, un grammo di marijuana costa mediamente 4 euro. Quale sarebbe il mancato guadagno da parte delle mafie?».

Nicola Gratteri. Fonte: quotidianodelsud.it

Nonostante sia chiaro che la legalizzazione abbia sia lati positivi sia lati negativi appare comunque singolare che ci siano paesi in cui liberalizzare è una possibile soluzione e altri in cui se fai uso di sostanze stupefacenti vieni stigmatizzato ed emarginato dalla società.

Francesco Pullella

Il caso Cospito torna a far discutere su 41-bis ed ergastolo ostativo

Cospito oggi. Fonte: Open

Negli ultimi giorni, la questione dello sciopero della fame intrapreso dall’anarchico Alfredo Cospito, al 41-bis (“carcere duro”) ormai dallo scorso maggio, ha rianimato il dibattito sulla legittimità del cosiddetto “ergastolo ostativo”, previsto dall’articolo 4-bis della Legge sull’ordinamento penitenziario del 1975.

In particolare, le disperate condizioni in cui riversa Cospito hanno fatto auspicare per un trasferimento (che è avvenuto nei giorni scorsi) in una struttura carceraria adatta ad affrontare situazioni di emergenza, quale il carcere di Opera in provincia di Milano.

Nel frattempo, numerosissimi appartenenti alla Federazione anarchica informale (FAI), ma anche semplici manifestanti, hanno dato inizio nelle piazze di tutt’Italia a delle proteste più o meno violente richiedendo la fine del regime di 41-bis per il detenuto. Su tale possibilità, in base al reclamo mosso dai difensori di Cospito, il Tribunale di Torino si è già espresso negativamente. Adesso, gli atti giacciono in Cassazione, in attesa che questa si pronunci sul ricorso mosso in seguito al rigetto del Tribunale, in un’udienza fatidica prevista per il 7 marzo.

[divider style=”solid” top=”20″ bottom=”20″]

Le ragioni dello sciopero: 1. Ergastolo ostativo

Cospito, in prigione dal 2013 per diverso reato, rischia di incorrere nella pena dell’ergastolo ostativo per un capo d’imputazione che gli è stato contestato durante la reclusione: un delitto di strage politica commesso in una notte del giugno 2006, quando vennero posizionati due pacchi bomba davanti alla scuola allievi dei carabinieri di Fossano, a Cuneo.

Fonte: Robert Crow

Secondo le ricostruzioni, la prima esplosione sarebbe stata ideata per attirare gli ufficiali e la seconda (contenente anche chiodi ad altro tipo di oggetti offensivi) avrebbe dovuto raggiungere quanti si fossero radunati. Eppure, quella notte non vi furono né morti né feriti.

In primo grado, la condanna era stata per strage semplice che, in assenza di morti, prevede una pena comunque superiore a quindici anni. Tuttavia, i successivi gradi di giudizio hanno ribaltato la decisione, qualificando il reato commesso come delitto di strage politica, la quale, a prescindere dalla presenza di morti, viene punita con la pena dell’ergastolo ostativo.

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]L’ergastolo ostativo comporta che l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione possano essere concesse al detenuto solo nel caso in cui collabori con la giustizia o, a partire dal 2022, nel caso in cui sussistano elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, o la collaborazione sia impossibile o irrilevante.[/box]

L’ultima parola spetta adesso alla Corte d’Appello di Torino che, su sollecitazione della Cassazione, dovrà decidere sull’inasprimento della pena da riservare a Cospito. Queste le parole dell’imputato all’ultima udienza che ha sostenuto:

La magistratura italiana ha deciso che troppo sovversivo non potevo avere più la possibilità di rivedere le stelle, la libertà, si è preferito l’ergastolo ostativo, che non ho dubbio mi darete, con l’assurda accusa di aver commesso una strage politica per due attentati dimostrativi in piena notte, in luoghi deserti, che non dovevano e non potevano ferire o uccidere nessuno.

Le ragioni dello sciopero: 2. Carcere duro

E tuttavia, per applicare il regime previsto dall’articolo 41-bis della Legge sull’ordinamento penitenziario non è necessaria una condanna definitiva. Anzi, in virtù della sua funzione preventiva, esso fu introdotto (come lo conosciamo oggi) dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio per impedire ai vertici delle associazioni mafiose di intrattenere rapporti coi rispettivi membri e di dettare a questi ultimi ordini dal carcere.

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””] Il 41-bis viene applicato con decreto motivato del Ministro della Giustizia e prevede la sospensione delle ordinarie regole di trattamento dei detenuti, con conseguenti limitazioni della sfera sociale del detenuto nonché dei suoi spazi, delle sue corrispondenze, addirittura delle attività di studio o lavorative.[/box]

A tal proposito, afferma a Il Post Carmelo Musumeci (ex detenuto al carcere duro ed oggi scrittore):

Fonte: FE Week

La mia salvezza è stata studiare, ha assorbito tutte le mie forze. Ma al 41-bis è difficile anche quello, che è invece uno strumento unico e fondamentale per il recupero alla vita civile, che poi dovrebbe essere uno degli obiettivi del carcere.

Nel caso di Cospito, l’ex Ministro della Giustizia Marta Cartabia ritenne di applicare tale misura in virtù delle corrispondenze intrattenute da quest’ultimo con permesso, che finivano per essere pubblicate su delle riviste di stampa anarchica. Secondo Cartabia, infatti, Cospito «istigava esplicitamente a continuare la lotta contro il dominio, particolarmente con mezzi violenti ritenuti più efficaci».

Ma secondo i difensori, sarebbe bastato attuare un controllo più stretto sulla corrispondenza o emettere uno specifico provvedimento per quello specifico reato. Avrebbe rilievo anche la struttura organizzativa della FAI: trattandosi di un’organizzazione orizzontale dotata di diverse cellule eversive che agiscono autonomamente, sarebbe una forzatura vedere Cospito come “vertice” dell’associazione stessa.

A questo punto, ammessa e non concessa l’offensività dei suoi interventi in stampa nei confronti dell’ordine pubblico, risulterebbe comunque difficile giustificare le ragioni di un tale trattamento che, di solito, viene riservato ai soli elementi di spicco dei clan mafiosi.

41-bis ed ergastolo ostativo: male necessario o strumenti di ubbidienza?

Se la funzione principale della sanzione penale (come immaginata dai Padri costituenti) mira ancora, nell’immaginario collettivo, ad una qualsivoglia rieducazione del condannato, dobbiamo ammettere che nessuna delle due misure risulta compatibile con un tale obiettivo: vuoi perché il totale isolamento risulta antitetico al fine di reinserimento sociale; vuoi perché in alcuni casi la rieducazione non risulta possibile a causa delle circostanze.

E allora bisogna chiedersi se i due istituti rappresentino un “male necessario” di cui la società non può fare a meno o se, piuttosto, (come anche ipotizzato da chi auspica ad un uso limitato di questi strumenti), non rispondano più ad un’esigenza di ritorsioneintimidazione da parte dello Stato nei confronti di chi lo metta in discussione. Se però così fosse, non possiamo escludere la futura possibilità di una configurazione di alcuni istituti penali ispirati al principio dell’ubbidienza, all’adesione (sanzionata) a modelli comportamentali.

E, dopotutto, legare la libertà personale di un soggetto – per quanto colpevole – al solo atteggiamento psicologico della collaborazione, della redenzione nei confronti dello Stato, senza tener conto (com’è stato prima del 2022) delle possibili circostanze che spingano eventualmente il soggetto a non collaborare, rischia di rendere la funzione rieducativa una mera comodità nelle mani di tutti quei pentiti che hanno scelto di collaborare per mere ragioni utilitaristiche, anziché per sincero ravvedimento.

Valeria Bonaccorso

Netanyahu rieletto: il popolo israeliano non ci sta, continuano le proteste

Siamo giunti ormai alla terza settimana consecutiva in cui il popolo israeliano scende in piazza contro il governo di Benjamin Netanyahu, Primo ministro di Israele dal 29 dicembre 2022 e precedentemente dal 2009 al 2021 e tra il 1996 e il 1999. Da quel giorno, oltre centomila manifestanti hanno riempito le strade di Tel Aviv senza sosta.

Le ragioni della protesta

Le manifestazioni sarebbero nate da un progetto di riforma del sistema giudiziario promosso dall’attuale governo. Riforma che, secondo gli oppositori, metterebbe in pericolo la democrazia del paese.

Alla tanto discussa protesta è intervenuto anche l’ex primo ministro Yair Lapid, ora leader del principale partito di opposizione, Yesh Atid: 

Quella che vedete qui oggi è una manifestazione a sostegno del paese. Persone che amano Israele sono venute qui per difendere la sua democrazia, i suoi tribunali, l’idea di convivenza e di bene comune. Ci sono persone che sono venute a manifestare per uno Stato ebraico democratico secondo i valori della Dichiarazione di Indipendenza. Non ci arrenderemo finché non vinceremo.

Il contenuto della riforma

Nel caso in cui fosse approvata, la riforma della giustizia aumenterà i poteri della Knesset (il Parlamento israeliano), fino a permettere a questo organo di  servirsi di una “clausola di annullamento” per annullare le sentenze della Corte Suprema con una maggioranza semplice di 61 voti (su 120).

Fonte: La Repubblica

Un potere del genere, secondo molti, si presterebbe ad abusi: da parte del governo, perché consentirebbe senza troppi ostacoli di approvare leggi a favore, ad esempio, degli insediamenti, o per favorire ulteriormente le mire espansionistiche israeliane in Cisgiordania; da parte dello stesso Premier Netanyahu, per bloccare eventuali processi a suo carico.

Un altro aspetto che spaventa il popolo  è che, con la riforma, si verificherebbe un indebolimento della magistratura a favore di quello esecutivo detenuto dal Governo. 

Rimosso il Ministro della Salute

Nella giornata di domenica, come chiesto dalla Corte Suprema di Israele, il Primo ministro Netanyahu ha annunciato la rimozione di Arye Dery, leader del partito ultraortodosso Shas, dall’incarico di Ministro dell’Interno e della Salute. Quest’ultimo, è stato processato per evasione fiscale un anno fa, patteggiando con sospensione della pena. 

«Si tratta di una persona che è stata condannata tre volte per reati nel corso della sua vita, che ha violato il suo dovere di servire lealmente e legalmente la collettività mentre ricopriva alte cariche pubbliche», ha dichiarato Esther Hayut, Presidente della Corte Suprema. 

Fonte: La Repubblica

Motivo per cui la Corte ha annullato la nomina con una sentenza che parla di “estrema irragionevolezza” nella scelta di conferirgli il doppio incarico di Ministro della Salute e degli Interni dopo le condanne penali a suo carico.

Non sembra essere d’accordo con questa decisione Netanyahu, il quale si è espresso a riguardo mostrando dispiacere nel rimuovere Arye Dery dal suo incarico, affermando di aver preso questa scelta con  «grande dolore e molta difficoltà». Inoltre, il Premier sembrerebbe voler trovare ad ogni costo, anche per vie legali, un modo affinché il suo alleato continui a collaborare con il governo. 

Federica Lizzio

Parlamento Ue e lobbismo: Metsola corre ai ripari con un piano anticorruzione

Circa un mese dopo lo scandalo del Qatar per la presunta corruzione di alcuni eurodeputati e funzionari, la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ha presentato una riforma delle regole interne su lobbying e trasparenza alla Conferenza dei Presidenti di giovedì scorso (alla presenza di tutti i leader dei gruppi politici rappresentati al Parlamento europeo).

La Presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola. Fonte: Linkiesta

Quello del “Qatargate”, in effetti, è passato alla storia come il più grande scandalo delle istituzioni comunitarie degli ultimi decenni ed è tutt’ora oggetto di una inchiesta della procura federale belga. Quest’ultima già a dicembre aveva convalidato l’arresto per 4 indagati chiave (di cui 3 italiani), mentre dopo una prima convalida del mandato di arresto europeo anche la moglie e la figlia dell’ex eurodeputato Panzeri verranno estradate in Belgio. Una vicenda ignobile che ha sin da subito spinto ai ripari una democrazia europea sotto attacco.

Il piano di riforma non è stato ancora annunciato pubblicamente, ma alcuni suoi punti sono stati resi noti dai siti di testate quali Politico, Euractiv ed EuObserver.

I principali punti del piano di riforma

La proposta principe di Metsola è quella di estendere a tutti i parlamentari europei l’obbligo di registrazione dei loro incontri con i lobbisti in un portale pubblico. A dire il vero possono già farlo, ma l’uso del portale – fino a questo momento – è di fatto obbligatorio solo per i parlamentari con incarichi rilevanti, come i presidenti di commissione o i relatori di un certo provvedimento; tutti gli altri sono invece liberi di scegliere su base volontaria. Inoltre, il piano della Presidente richiede a tutti i membri del Parlamento di dichiarare propri eventuali conflitti di interessi nel momento in cui diventano relatori di un certo provvedimento.

Altri punti del piano includono l’obbligo di registrare i lobbisti che rappresentano gli interessi dei paesi extraeuropei nell’apposito Registro per la trasparenza, un database dell’Unione europea in cui figurano tutti i principali organismi di lobbying (attualmente coloro che rappresentano un paese terzo riescono a schivare la registrazione grazie a diverse scappatoie). Questo funziona più o meno allo stesso modo al Congresso degli Stati Uniti, mentre tanti altri parlamenti, come quello italiano, non consentono attività di lobbying nelle sedi delle istituzioni (con conseguente maggiore opacità).

Sarà inoltre vietato ricoprire incarichi formali all’interno di una ONG agli assistenti parlamentari e ai funzionari del Parlamento: una norma che sembra scritta per evitare casi come quello di Francesco Giorgi, assistente storico di Antonio Panzeri, l’ex parlamentare che secondo la Procura federale belga ha contribuito alla messa in piedi di una rete di corruzione interna a favore del Qatar.

Tuttavia, il piano non prevede una norma aggiornata sul lavoro extra-parlamentare degli attuali parlamentari europei, nonostante circa un quarto di essi abbiano mansioni da liberi professionisti che creano conflitto di interessi permanente con il loro mandato politico.

Cosa non va nell’attività di lobbying del Parlamento UE?

Nelle istituzioni europee il lobbismo è un’attività legale e regolamentata, svolta da gruppi di interesse di varia natura che desiderano contribuire al processo democratico. Sia le ONG che gli esperti di trasparenza temono però da tempo che il Parlamento europeo sia eccessivamente vulnerabile alle influenze esterne. Ad esempio, da parte di Paesi non democratici o ostili ai progetti di integrazione europea che vogliono condizionarne le decisioni a proprio vantaggio, come secondo la Procura belga avrebbe fatto negli ultimi mesi il Qatar.

Le campagne di influenza straniera, in particolare, rappresentano una delle forme meno regolamentate di lobbying all’interno dell’Unione Europea e pertanto una delle più problematiche. Non è un caso se gli ex eurodeputati sono sempre particolarmente richiesti come lobbisti: per via dei loro ruoli precedenti, come l’italiano Antonio Panzeri, arrestato in seguito all’inchiesta del Qatar, possono entrare in Parlamento in qualsiasi momento senza doversi registrare come lobbisti.

Fonte: Euronews

«Il diritto internazionale prevede che i paesi possano influenzare i rispettivi processi decisionali», spiega Alberto Alemanno, esperto di trasparenza e fondatore dell’organizzazione The Good Lobby , «ma a livello europeo manca un regime che renda trasparente questa attività».

Nelle istituzioni europee il lavoro di lobbying è disciplinato da un codice di condotta abbastanza generico, e sebbene ogni istituzione europea si sia dotata nel tempo di un proprio codice etico e di trasparenza, storicamente il Parlamento europeo resta quello con le regole «decisamente più ridotte», spiega Alemanno:

«I parlamentari non hanno l’obbligo di dare conto di chi incontrano, né esiste un divieto di avere lavori paralleli: circa un quarto dei parlamentari europei mantiene incarichi da libero professionista, e questo crea un conflitto di interessi permanente».

Anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, è sembrata riferirsi a questo problema quando lunedì 12 dicembre, durante una conferenza stampa, ha detto:

«Per noi è importante non solo avere delle regole nette ma che le stesse regole coprano tutte le istituzioni europee, e che non esistano eccezioni».

L’estradizione di Silvia Panzeri

Sempre nell’ambito dell’inchiesta Qatargate, la Corte d’appello di Brescia ha deciso che Silvia Panzeri, figlia dell’ex eurodeputato Antonio, dovrà essere estradata in Belgio, dando così il via libera alla consegna della donna alle autorità del Paese, in attesa della decisione definitiva della Cassazione. La donna si trovava già ai domiciliari, come sua madre – Maria Colleoni, per la quale è arrivata anche l’autorizzazione all’estradizione – la procura di Bruxelles aveva chiesto l’estradizione dopo essere stata destinataria di un mandato di arresto europeo. Le due donne sono state accusate di associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio di denaro.

Qatargate, ok all’estradizione di Silvia Panzeri. Fonte: tgcom24

Intanto su richiesta dell’autorità giudiziaria di Bruxelles all’Eurocamera è partita la procedura per la revoca dell’immunità di Marc Tarabella, eurodeputato eletto in Belgio, e Andrea Cozzolino, suo collega italiano. Toccherà alla commissione Juri (aiuta il Parlamento a elaborare una posizione informata sulle questioni giuridiche) prendersi carico del dossier nei prossimi giorni, mentre il Parlamento europeo continua a pensare a come evitare casi simili in futuro.

Fonte: Transparency.org

Fra l’altro il gruppo parlamentare dei Socialisti e Democratici, il più colpito dallo scandalo, sta già pensando a regole più severe, sicché non è nemmeno certo che il piano presentato da Metsola venga approvato così com’è. Anche la ONG Transparency International ha diffuso un commento alla proposta alquanto critico:

«Il piano continua a basarsi interamente sull’auto-imposizione. Sappiamo che questa dinamica non funziona: serve un coinvolgimento di enti esterni e indipendenti a tutti i livelli del processo di riforma», a riprova del fatto che il confine fra diplomazia e influenza è sottile, e a volte non così chiaro da tracciare.

Gaia Cautela