“La guerra dei vaccini”: l’UE contesta le dichiarazioni del Ceo di AstraZeneca

È in corso una vera e propria “guerra dei vaccini’’, che vede impegnate le potenze mondiali in una frenetica corsa per l’accaparramento delle forniture di antidoti contro il Covid. Di recente è stata inasprita dalle accuse, fatte negli ultimi giorni dalla Commissione Europea, contestate da Pascal Soriot, amministratore delegato (CEO) dell’azienda farmaceutica britannico-svedese AstraZeneca, in un’intervista a Repubblica.

Azienda farmaceutica AstraZeneca. Fonte: Sky TG24

Bruxelles lo rimprovera per i ritardi annunciati e le insufficienti consegne del vaccino prodotto dalla sua azienda;  chiede, inoltre, lo svincolo dalla clausola di segretezza per la pubblicazione del contratto.

Alle 18.30 di questo pomeriggio era prevista una riunione del comitato direttivo sui vaccini Ue con AstraZeneca, in cui si sarebbe insistito sulla consegna delle dosi, ma la società ha fatto slittare l’incontro a domani.

AstraZeneca non è all’altezza della celerità pretesa dall’Ue 

Lo scorso venerdì, l’azienda aveva annunciato tagli alle consegne delle dosi vaccinali del 60% nel primo trimestre di quest’anno, riconoscendo di non poter produrre le dosi richieste dalla Commissione nei tempi concordati. In Italia, dunque, si prospetta un ritardo di almeno un mese nella campagna vaccinale: entro marzo dovrebbero arrivare circa 3,4 milioni di dosi, contro le 16 milioni previste inizialmente.

Le autorità europee, di fronte ad un simile scenario, hanno accusato i dirigenti dell’azienda farmaceutica di privilegiamento delle consegne ad altri Paesi, ai quali avrebbero venduto il vaccino, anche a prezzi più alti. Il principale indiziato sembra essere il Regno Unito, che ha già autorizzato la produzione delle dosi vaccinali.

Soriot nega le accuse 

Il CEO di AstraZeneca, Pascal Soriot. Fonte: Il Post

Durante l’intervista ai giornali del consorzio Leading European Newspaper Alliance – tra cui Repubblica – Soriot ha fornito la sua versione sulle circostanze, ricordando che il Regno Unito aveva stretto accordi tre mesi prima dell’Unione Europea. Uno scarto di tempo significativo per consentire all’azienda un’adeguata organizzazione per la disposizione della produzione nei propri impianti britannici. Ha inoltre ribadito che AstraZeneca ha promesso di non trarre profitti dal proprio vaccino nella prima fase di distribuzione:

‘’Come detto, Regno Unito e Unione Europea hanno due catene produttive diverse e al momento quelle britanniche sono più efficienti perché sono partite prima. In ogni caso, sia chiaro: non c’è alcun obbligo verso l’Unione Europea. Nel nostro contratto c’è scritto chiaramente: “best effort”, ossia “faremo del nostro meglio”. In quella sede abbiamo deciso di utilizzare questa formula nel contratto perché all’epoca l’Unione Europea voleva avere la stessa capacità produttiva del Regno Unito, nonostante il contratto fosse stato firmato tre mesi dopo. Così noi di AstraZeneca abbiamo detto: “OK, faremo del nostro meglio, faremo il possibile, ma non possiamo impegnarci contrattualmente perché abbiamo tre mesi di ritardo rispetto al Regno Unito”. Non è dunque un obbligo contrattuale, ma un impegno a fare il massimo. Perché sapevamo che sarebbe stato difficile e difatti ora abbiamo un po’ di ritardo.’’

La versione non è parsa tuttavia convincente agli occhi delle autorità europee, data la mancanza di prove e ulteriori dettagli che dimostrerebbero i problemi produttivi riscontrati dalla società, giustificandone il ritardo.

Mamer ribadisce i doveri di AstraZeneca

Il portavoce della Commissione Europea, Eric Mamer è intervenuto, in risposta all’intervista, ribadendo che l’azienda deve rispettare gli obblighi contrattuali e ha il dovere di fornire dettagliate spiegazioni circa l’impedimento nella consegna delle quote vaccinali promesse:

“Quando hanno firmato l’accordo, lo hanno fatto sulla base della capacità di produrre” ha detto.

Fonte: Repubblica.it

Mamer aveva anche ricordato che, in precedenza, negli accordi si parlava di una capacità di produzione che avrebbe consentito di poter rispettare gli impegni presi, senza alcun riferimento ad eventuali tagli alle forniture o ad un sito produttivo nello specifico. L’Europa reclama, quindi, una produzione delle dosi richieste anche nel Regno Unito (fino ad ora non impiegate altrove), oltre quella che viene fatta nell’impianto in Belgio.

Gaia Cautela

Ecco come l’Italia oggi ricorda la Shoah

Nonostante il trambusto e la baraonda della crisi di governo, oggi l’Italia non manca di celebrare la Giornata della Memoria. A sottolineare l’importanza di questo momento, la decisione del presidente della Repubblica di dare avvio alle consultazioni solo nel pomeriggio per non rinunciare ai suoi impegni di commemorazione.

Quando è stata istituita? Perché proprio il 27 gennaio?

Fu una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, l’ 1 Novembre del 2005, scelse il 27 gennaio come giornata internazionale per ricordare le vittime dell’olocausto. In Italia, in realtà, già qualche anno prima si era giunti all’istituzione formale di una giornata commemorativa attraverso la legge 211 del 20 luglio 2000.

È stata scelta questa data perché il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa arrivarono nei pressi della città polacca di Auschwitz scoprendo il campo di concentramento e di sterminio maggiormente rappresentativo degli orrori compiuti dal Nazismo.

Campo di Auschwitz – Fonte: lilyrianitravelholic.blogspot.com

La Giornata della Memoria negli anni

Historia magistra vitae: è questa l’idea che ha guidato le celebrazioni per la Giornata della Memoria negli anni. Evocare il passato è sempre stato considerato un dovere necessario a ricordare alle generazioni presenti chi è stato l’uomo e chi potrebbe ancora essere. Nella Giornata della Memoria si sono sempre coniugate allerta e speranza per il futuro.

Il ricordo delle vittime dell’olocausto è stato tenuto vivo attraverso concerti, conferenze, incontri, racconti di testimoni. Un’iniziativa importante è da anni quella del treno della memoria: un treno che ha offerto a ragazzi di diverse regioni di Italia un viaggio lungo i sentieri della Memoria europea attraverso varie tappe, come la città di Cracovia, il Ghetto ebraico, i campi di Auschwitz e Birkenau. Forte impatto ha avuto l’incontro commemorativo, tenutosi l’anno scorso ad Auschwitz, tra duecento sopravvissuti e 50 delegazioni di più Stati. Alcuni tra gli ospiti importanti sono stati il presidente israeliano Reuven Rivlin, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, il re spagnolo Filippo VI, il re dei Paesi Bassi Willem Alexander, la viceministra degli Esteri italiana Marina Sereni.

Eventi in programma per oggi

Nonostante l’emergenza Covid, seppur con limiti e difficoltà, sono stati organizzati molti eventi per oggi, soprattutto grazie all’aiuto del web.

Il treno della memoria si trasferisce su binari virtuali: studenti di alcune scuole della Toscana, della Lombardia e del Piemonte potranno visitare, mediante un tour digitale, i campi di Auschwitz e Birkenau.

Nella pagina Facebook del Conservatorio di Milano alle ore 21:00 sarà trasmesso il concerto “Note per la Shoah”. Registrato a porte chiuse nella Sala Verdi del conservatorio di Milano, proporrà delle colonne sonore di film dedicati all’olocausto scritte dal maestro Ennio Morricone. Inoltre, nella giornata di oggi, dalla pagina Facebook del Memoriale della Shoah milanese sarà possibile partecipare ad un tour virtuale nella storia del Memoriale.

La comunità ebraica di Roma questa mattina ha tenuto sulla sua pagina Facebook un incontro con Sami Modiano, sopravvissuto ad Auschwitz, intervistato dalla presidente Ruth Dureghello: un evento indirizzato a tutte le scuole d’Italia che non potranno partecipare a iniziative in presenza.

A Torino, stamattina ha avuto luogo la posa delle pietre d’inciampo, a cura del Museo Diffuso della Resistenza. Si troverà un video riassuntivo dell’evento sui canali social del Museo e del Polo del ‘900. Inoltre, alle 18 alcuni ragazzi saranno protagonisti di “Adotta un negazionista”, diretta radiofonica su Tradi Radio organizzata dalla Rete Italiana di Cultura Popolare alla ricerca del significato della parola negazionista ieri e oggi.

Il Memoriale italiano di Auschwitz propone un evento digitale: alle 17 si terrà una conferenza dedicata all’opera custodita a Firenze e a ciò che essa ha rappresentato e rappresenta per l’intera comunità.

Firenze, il memoriale italiano di Auschwitz – Fonte: www.ansa.it

La Giornata della Memoria a Messina

Anche la nostra città si è preparata alla celebrazione della Giornata della Memoria. Ad essere ricordati sono stati in particolare Giovanni Grasso e Salvatore Franchina, deportati e internati nei lager nazisti. Alle loro famiglie, durante una cerimonia che avuto luogo questa mattina nel rispetto delle norme Covid presso il palazzo del governo, sono state consegnate le medaglie d’oro dal prefetto Maria Carmela Librizzi. Ad essere premiato anche l’ufficiale dell’Arma dei Carabinieri Salvatore Patorniti, vittima di un atto terroristico mentre prestava servizio.

La stessa Università di Messina, grazie alla collaborazione tra il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne, il Centro di Ricerca internazionale per gli Studi sull’Antisemitismo ed il Centro Italiano femminile, si è fatta promotrice di un evento. Alle ore 9:00, sulla piattaforma Microsoft Teams, dopo il saluto del direttore del DiCAM, il professore Giuseppe Giordano, ha avuto inizio un webinar intitolato “Persecutori, Perseguitati. Biografie” con l’intervento di docenti ed esperti. L’iniziativa continuerà anche nel pomeriggio con approfondimenti sulle biografie di importanti personaggi della storia, come Marc Bloch, Claudio Pavone, Teresa Noce, Agnes Heller e Edith Stein.

Inneggi a Hitler anche nella Giornata della Memoria

Quello di oggi è un paese che si impegna a tenere vivo il ricordo del passato riconoscendolo come un atto doveroso. Infatti, sono molti gli avvenimenti che testimoniano che, ancora oggi, i principi che guidarono le terribili azioni del XX secolo fanno presa su molti. Proprio ieri, nel bel mezzo di una conferenza online organizzata dalla scuola di Monteverde Federico Caffè per ricordare l’olocausto, la chat Meet in cui si è svolta l’iniziativa è stata presa d’assalto da bestemmie, inneggi a Hitler e offese antisemite: “Riaprite i forni”, “Posaceneri”, “Viva Hitler”, “Vi ammazzo tutti bastardi”. Il sospetto è che qualcuno dei partecipanti alla riunione Meet abbia passato il link d’invito a gruppi esterni estremisti.

Chiara Vita

‘Ndrangheta, maxi blitz in Calabria: 48 persone coinvolte e indagini sul leader Udc Cesa

All’alba di giovedì 21 gennaio è scattata su tutto il territorio nazionale la maxi-operazione ”basso profilo”, durante la quale sono state arrestate 13 persone e disposti i domiciliari per altre 35.
L’indagine ha visto coinvolti boss di primo livello della ‘ndrangheta (organizzazione criminale calabrese), imprenditori e funzionari pubblici, tutti accusati a vario titolo di intestazione fittizia di beni, riciclaggio, turbativa d’asta ed associazione mafiosa.

Il blitz scattato all’alba. Fonte: repubblica.it

La procura antimafia mette in luce affari illegali da 300 milioni

L’operazione si è svolta su richiesta della procura antimafia di Catanzaro e per ordine del giudice, vedendo congiuntamente impegnati Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza, con il supporto di quattro unità cinofile ed un elicottero.

La procura ha disposto – oltre alle misure cautelari – l’esecuzione di numerosi sequestri di beni dall’<<ingente>> valore, tra cui immobili, auto e conti correnti bancari, non prima di aver accertato movimenti illegali di denaro per più di 300 milioni di euro.
Il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra ha affermato che il patrimonio sequestrato ‘’torna alle casse dello Stato ed è un reale recovery fund che deve essere sempre attivo”, mostrando la sua gratitudine verso tutti coloro che sono stati coinvolti nello sforzo investigativo e sottolineando la tenacia dello Stato.

‘Ndrine in manette e shock al senato per l’accusa su Lorenzo Cesa

Sono finiti in manette diversi maggiori esponenti delle cosche malavitose – dette <<‘ndrine>> – di Isola Capo Rizzuto, Crotone e Cutro come “Bonaventura”, “Aracri”, “Arena” e “Grande Aracri”.

Ad essere indagato anche Lorenzo Cesa, il segretario nazionale dell’UDC (Unione di Centro), la cui casa romana è stata perquisita e setacciata proprio questa mattina. La stazione televisiva ‘’La 7’’ scrive in un tweet che l’accusa per Cesa sarebbe di associazione a delinquere, anche se il leader si ritiene estraneo ai fatti e ha subito annunciato le sue dimissioni, lasciando senza guida il partito centrista. Queste le sue parole:

“Mi ritengo totalmente estraneo, chiederò attraverso i miei legali di essere ascoltato quanto prima dalla procura competente. Come sempre ho piena e totale fiducia nell’operato della magistratura. E data la particolare fase in cui vive il nostro Paese rassegno le mie dimissioni da segretario nazionale come effetto immediato”

Sono stati invece disposti i domiciliari per il suo braccio destro Francesco Talarico, assessore al Bilancio della Calabria, oltre che membro dell’UDC.
La notizia ha suscitato reazioni di shock tra ministri e parlamentari e potrebbe rischiare di complicare le già tumultuose trattative che sono in corso al Senato per rafforzare il governo.

Lorenzo Cesa. Fonte: ilfattoquotidiano.it

Gaia Cautela

Dimissioni De Luca: o me o La Paglia. E denuncia un commerciante

(fonte: messinatoday.it)

Si apre un nuovo capitolo della lotta tra Cateno De Luca e l’ASP di Messina, il servizio locale adibito alla lotta contro il Coronavirus.

Infatti, già settimane fa il sindaco metropolitano aveva richiesto la rimozione del direttore generale dell’ASP Paolo La Paglia “a fonte di gravi e reiterate omissioni” che avrebbero comportato la cattiva gestione dell’emergenza.

De Luca ha così annunciato, tramite una diretta Facebook avvenuta nel pomeriggio del 14 gennaio, di volersi dimettere. Lo fa leggendo il testo integrale della lettera da lui redatta, ma avvisa: saranno valide tra 20 giorni. Tre settimane per ritirarle, a patto che La Paglia venga rimosso dal proprio incarico e l’ordinanza (ritirata alcuni giorni fa) rientri in vigore.

È questo l’ultimatum offerto dal sindaco alla fine di una battaglia che egli dichiara come persa. Sulla pagina Facebook del primo cittadino, su uno sfondo con immagine del generale Che Guevara, si legge:

Ho lottato ed ho perso! Ma chi ha vinto?

(fonte: facebook.com, Cateno De Luca Sindaco di Messina)

Una diretta piena di contenuti

Tuttavia, il sindaco non si è limitato a rassegnare le dimissioni. Nelle quasi due ore di trasmissione, ha trattato alcuni post di Facebook dell’ex deputato regionale Pd Franco De Domenico e del sindacalista della Uil Michele Barresi, indicandoli come propri avversari.

Poi l’attacco a Ferdinando Croce, sostenitore dell’ex avversario Dino Bramanti, e che secondo il sindaco potrebbe candidarsi per il centro destra. “A Croce non consento di fare il depistatore. Domenica ci ha depistato sull’apertura dei barbieri e parrucchieri. Oggi si dice fiducioso sulla gestione dei rifiuti da parte del Comune. Peccato che Messina servizi ha avuto ieri l’elenco dei soggetti in isolamento A1, mentre ancora aspettiamo dall’ASP quelli della categoria A” (Tempostretto)

Da pochi giorni, il servizio di raccolta dei rifiuti Covid è passato nelle mani di Messinaservizi. L’avv. Croce ha dichiarato che l’ASP non riesce a gestire la situazione rifiuti per via dell’aumento dei contagi, ma garantirà un rimborso al Comune e la vaccinazione dei suoi dipendenti, secondo quanto disposto dall’Ufficio straordinario per l’emergenza Covid diretto dalla Dott.ssa Marzia Furnari.

Il primo cittadino lamenta la mancanza dei dati delle utenze dei rifiuti Covid, dei contagiati e dei vaccini che dovrebbero giungere direttamente dall’ASP.

Non manca, infine, l’attacco al Consiglio Comunale diretto dal presidente Cardile:

Hanno concordato una riunione contro di me, ma non mi sottraggo al confronto

(il sindaco De Luca e Ferdinando Croce – fonte: messinatoday.it, vocedipopolo.it)

La denuncia al commerciante di Facebook

Nella medesima diretta, De Luca ha dichiarato di essere intenzionato a denunciare il commerciante Campanella, reo di aver pubblicato su Facebook un proprio sfogo contro le restrizioni imposte dall’ordinanza del sindaco.

Ho dato mandato di denunciare chiunque mi minacci o attacchi me.

Dichiara il sindaco, giustificando la propria denuncia in base all’odio nei suoi confronti che quel video avrebbe suscitato: il commerciante avrebbe invitato chi come lui a scendere in piazza per protestare contro le misure di restrizione.

Ma non indietreggia di un solo passo: infatti la sua ordinanza rientrerà in vigore con misure ancor più drastiche, tra cui la chiusura totale.

“Io chiuderò il mio mandato prendendomi la responsabilità d’interrompere questa catena di contagi. Io non ho paura e farò l’ordinanza e farò di tutto per farla rispettare. Lego il mio destino al risultato del provvedimento. Se la mia ordinanza fallirà io tolgo il disturbo”. (Tempostretto)

I due volti di Messina

Intanto, l’intera città è divisa in due grandi schieramenti: chi offre la totale fiducia al sindaco e chi si ritiene molto più scettico al riguardo. I commenti alle sue dirette, ma anche ad altri tipi di post, evidenziano due atteggiamenti totalmente polarizzati. In tutto ciò, il sindaco sembra fare particolare affidamento sui propri sostenitori.

Lo «scarica barile» tra ASP Messina ed il sindaco De Luca è tutt’altro che concluso e rimane senza esclusione di colpi, lasciando aperto un grande interrogativo: in quali mani giace il futuro dei messinesi? 

Valeria Bonaccorso

Cosa c’è da sapere sull’attacco a Washington e sui motivi dell’assalto al Congresso dei sostenitori di Trump

(fonte: rollingstone.com, inquirer.net)

Tra la sera del 6 e la notte del 7 gennaio (orario italiano), mentre l’Italia si preparava a terminare il periodo di vacanze natalizie, dall’altra parte del mondo – e precisamente negli Stati Uniti – migliaia di persone hanno fatto irruzione a Capitol Hill, sede del Congresso, per interrompere la seduta del Senato che dovrebbe confermare l’elezione di Joe Biden.

Si tratta di un evento che ha scosso gli animi di tutto il mondo, tenendo milioni di persone attaccate ai giornali di cronaca: un vero tentativo di colpo di stato mosso dai sostenitori di destra, repubblicani, che non hanno ancora accettato la sconfitta del presidente uscente Donald Trump.

Diversi sono gli esponenti mediatici – compreso il New York Times – che accusano quest’ultimo di aver infiammato, per lunghi mesi, l’animo degli assaltatori.

Ma cosa è successo? E soprattutto, perché?

Un passo indietro

Novembre 2020. Arrivano i primi risultati delle elezioni presidenziali che vedono un ribaltamento della situazione, con Trump che passa in svantaggio rispetto a Biden in vari stati. Col senno di poi arrivano i primi tweet allarmanti del Presidente: essi accusano i democratici di frode elettorale e vengono prontamente censurati dal creatore di Twitter.

Dopo giorni di estenuante attesa, si ottiene un vincitore. È Joe Biden, il quale passa da un margine sottile di distacco ad una vittoria schiacciante. Ma tale realtà non verrà mai accettata dal presidente uscente, che dichiarerà in più occasioni di non voler concedere al neo-eletto la vittoria. I nervi sembrano tendersi incredibilmente all’interno degli States, con divisioni che appaiono inconciliabili.

Al 6 gennaio è fissata la votazione del Senato che necessita di confermare i 270 elettori di Biden per concedergli la Casa Bianca. S’inizia a nutrire il sospetto che le elezioni possano venire sabotate, ma nessuno sembra apprestare ulteriori misure di sicurezza.

Nel frattempo, le elezioni senatoriali in Georgia consegnano ai dem altri due seggi: si tratta di Jon Ossoff e Raphael Warnock. Così, il bilancio dei senatori raggiunge un perfetto 50-50 tra democratici e repubblicani. In tali condizioni, la legge americana prevede che voti anche il vicepresidente degli Stati Uniti (in tal caso, la neo-eletta Kamala Harris).

Si verifica la conquista da parte dei democratici dei tre punti politici essenziali: Casa Bianca, Senato, Camera (con elezioni che si sono verificate contestualmente a quelle presidenziali).

La simpatia per i suprematisti bianchi

Tutto questo cumulo di eventi ha condotto a quello che molti stanno definendo come “la naturale evoluzione della supremazia bianca“.

Il binomio Trump-Supremazia bianca ha sempre avuto senso dal punto di vista degli oppositori, ma a partire dagli eventi di giugno che hanno visto la sanguinolenta repressione del movimento Black Lives Matter molte più persone si sono convinte della correlazione esistente tra i due soggetti. Specie dopo l’esplicito appoggio di Trump ai Proud Boys, gruppo dichiaratamente suprematista.

(fonte: euractiv.com)

 

Uno sguardo su Capitol Hill

I rivoltosi che questa notte hanno fatto irruzione al Congresso sono riusciti a travolgere le esigue forze di polizia stanziate, costringendo chiunque si trovasse all’interno a barricarsi nei locali per sfuggire alla furia repubblicana. Una donna ha perso la vita durante uno scontro con le forze armate per via di una grave ferita da arma da fuoco.

Dopo essere riusciti a penetrare nella sede, il vicepresidente Mike Pence ha da solo disposto che intervenisse la Guardia Nazionale (la stessa che contribuì a sedare gli eventi di giugno) dopo un iniziale rifiuto di dispiegare tale forza.

La situazione si è attenuata attorno alle due di notte (ora italiana) con l’evacuazione dei civili e la ripresa della seduta di conferma elettorale. Al momento, sono stati certificati 306 voti al collegio elettorale di Joe Biden e la sua vittoria alle elezioni presidenziali. L’insediamento avverrà il 20 gennaio 2021.

(le guardie difendono l’entrata barricata dell’aula del Congresso, fonte: mercurynews.com)

La reazione del web e le critiche alle forze armate

Hanno commentato la vicenda in diretta milioni di utenti che hanno espresso il proprio ripudio nei confronti di un tale gesto, da Joe Biden allo stesso Mike Pence.

La violenza e la distruzione che stanno avendo luogo al Congresso Devono Fermarsi e devono fermarsi Ora. Chiunque sia coinvolto deve rispettare le forze dell’ordine ed abbandonare il palazzo immediatamente.

Una delle critiche più aspre mosse nei confronti delle forze di polizia consisterebbe nel trattamento di favore ricevuto dai rivoltosi di gennaio rispetto a quelli di giugno, poiché non neri o comunque non a favore del movimento Black Lives Matter. La docilità delle forze armate nei confronti di tali soggetti ha insospettito gran parte dei seguaci della vicenda.

A ciò si aggiunga un video incriminante di due individui intenti a riprodurre, sulle scale del Congresso, l’orribile scena dell’omicidio di George Floyd avvenuta a giugno.

La reazione di Trump, benché non espressamente di approvazione, sarebbe stata invece molto più di supporto:

Si tratta di un livello di comprensione insolito per il presidente uscente, il quale a giugno non perse attimo per denunciare i manifestanti a favore del BLM come dei vandali e terroristi. Il social ha prontamente censurato i successivi messaggi ed ha anche espressamente disposto la sospensione dell’account del presidente uscente nel caso in cui non li cancelli tempestivamente.

Ma le rogne di Trump non terminano qui: nei giorni scorsi è stato infatti emesso un altro mandato di arresto da parte dell’Iran, ancora profondamente scosso per l’uccisione del generale Soleimani.

Infine, tra le tendenze mondiali spicca l’hashtag #25thAmendmentNow, un invito ad applicare il venticinquesimo emendamento della Costituzione statunitense che prevede la procedura d’impeachment.

Una prospettiva europea

A condannare un evento del genere si sono devoluti pure esponenti politici europei come il presidente Pedro Sánchez. Anche l’Italia ha reagito a tale evento, rinvenendo immediatamente una somiglianza di tali gesti con la Marcia su Roma compiuta dai fascisti il secolo scorso.

Intanto, le parole dei nostri politici non si sono fatte attendere. Tra i molti che sono intervenuti ricordiamo Nicola Zingaretti, Matteo Renzi ed il premier Giuseppe Conte.

 

Valeria Bonaccorso

Rosario Livatino verso la beatificazione, la Chiesa: “È martirio”

(fonte: grandangoloagrigento.it, it.wikipedia.org)

Si apre la strada alla beatificazione del magistrato Rosario Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990 ad Agrigento a soli 38 anni.

A confermarlo il decreto riguardante “il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino”, approvato da Papa Francesco ed emanato in data 21 dicembre 2020. Tale decreto accerta che l’assassinio sia avvenuto in odium fidei, cioè per via di un disprezzo della forte fede del magistrato, e che per questo debba ritenersi un martirio.

Ciò, nel moderno processo di beatificazione, apre una seconda via rispetto al procedimento che prevede la dimostrazione di miracoli avvenuti in vita.

La vita e l’attività contro la mafia

Rosario Livatino nacque nel 1952 a Canicattì, provincia di Agrigento, e studiò Giurisprudenza laureandosi col massimo dei voti. Durante la giovinezza visse attivamente in parrocchia e neanche da adulto perse la propria dedizione, fermandosi ogni giorno a visitare il Santissimo Sacramento mentre si recava a lavoro.

La sua perspicacia, l’ingegno e la capacità di comprendere le sottili logiche della Stidda (organizzazione criminale in azione nel territorio agrigentino, in contrasto con Cosa Nostra) gli permisero di arrivare ben presto a ricoprire il ruolo di Giudice della sezione penale del Tribunale di Agrigento.

Durante questo incarico si occupò, con varie sentenze, di colpire la Stidda tramite restrizioni di libertà e confische dei beni. Per tali motivi divenne un elemento scomodo, ma risultò determinante alla sua eliminazione il fatto che fosse «inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante». Difatti, la forte incorruttibilità dovuta alla fede cattolica rappresenta il movente dell’omicidio.

Ciò che si legge nel decreto da poco emanato trova conferma anche nelle testimonianze degli assassini, in particolare quella di Gaetano Puzzangaro, uno dei killer mafiosi. È stato confermato l’odium fidei anche in base alle ricostruzioni dell’originale piano, che prevedeva che Livatino venisse ucciso davanti alla chiesa in cui era praticante.

(fonte:sikelianews.it)

Il martirio e le parole del Papa

Livatino venne invece ucciso il 21 settembre 1990 sulla strada statale 640 mentre si recava a lavoro, ad Agrigento, del tutto consapevole di quale sarebbe stato il suo destino. Il decreto sopracitato afferma che il magistrato sia giunto all’accettazione del possibile martirio tramite un percorso di maturazione nella fede. Ciò lo indusse a rifiutare la scorta e, come sostiene il decreto, forse anche le nozze.

L’acquisizione del titolo di Martire, così come di quello di Servo di Dio, sono il frutto di un lavoro lungo quasi trent’anni; un processo diocesano iniziato pochi anni dopo la morte del magistrato, nel 1993, con la raccolta di testimonianze e documenti che ne garantissero le fondamenta, e terminato nel 2018.

Già il Papa Giovanni Paolo II, durante il suo celebre discorso di condanna alla mafia del 1993, lo definì «martire della giustizia e indirettamente della fede». Papa Francesco (che già nel 2014 aveva scomunicato i mafiosi) affermerà nel 2019 che

Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni.

(fonte:pinterest.it, ansa.it, it.wikipedia.org)

Oggi possiamo dire con certezza che Livatino fu senz’altro diretto martire della giustizia e della fede, due elementi che provò per tutta la vita a coniugare e praticare assieme. Così recita una sua riflessione, quotata anche da Papa Francesco:

Decidere è scegliere; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto, per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione.

 

Valeria Bonaccorso

In Francia proteste contro la nuova legge sulla sicurezza. Si riaccende la questione del razzismo della polizia

Negli ultimi giorni la Francia è stata sotto i riflettori. Manifestazioni e proteste contro la nuova proposta di legge sulla sicurezza, presentata dal partito di Macron, hanno messo a soqquadro strade e piazze riaprendo vecchie ferite, quelle causate dalla violenza e dal razzismo della polizia.

Che cosa prevede la legge contestata

Ad essere messo in questione in particolare l’articolo 24 che considera reato, punibile con 45.000 euro di ammenda e un anno di carcere, la diffusione di immagini di poliziotti in servizio che possano danneggiare la loro integrità fisica e psicologica. L’ intento del governo sarebbe quello di proteggere la polizia, divenuta spesso vittima di odio e di minacce sui social network.

Si tratta di una norma assolutamente non innocua che, secondo molti critici, rischia di ostacolare la libertà di stampa. Il sindacato nazionale dei giornalisti ha dichiarato con un post su Twitter:

Affermiamo che la violazione del diritto di informazione dei cittadini e della stampa è sproporzionata e che la legislazione esistente è ampiamente sufficiente per proteggere le forze dell’ordine da possibili attacchi a seguito della diffusione di immagini”.

Il timore più grande è che questa legge possa impedire la denuncia degli atti violenti e prevaricatori perpetrati spesso dagli organi della polizia. Fortemente sentito è dunque il rischio che queste azioni illegali, passando sotto silenzio, dilaghino sempre di più.

Contestati sono anche l’articolo 20, che aumenta la videosorveglianza e l’articolo 21, che legalizza l’uso dei droni per il controllo dell’ordine pubblico. Tutte le norme sembrano rientrare in una politica repressiva, giustificata, a detta di Macron, dalla necessità di tutelare la polizia contro il pericolo di insorgenza sociale, particolarmente elevato a causa della crisi pandemica.

Lo sgombro dei migranti e il pestaggio di Michel Zecler

La tensione, già tangibile, è stata portata all’esasperazione da due avvenimenti: lo sgombro dei migranti e il pestaggio di Michel Zecler.

Il 23 novembre dei profughi, circa un centinaio, accampatisi a Place de la Republique, a Parigi, per chiedere un alloggio, sono stati mandati via violentemente. Ad attestarlo vi è un video che, tra le tante cose, mostra un poliziotto fare lo sgambetto ad un migrante in fuga. Accusato il prefetto Didier Lallement, già criticato per alcuni eccessi durante le proteste dei gilet gialli.

Michel zecler – Fonte: ma7.sk

Il 21 novembre, il produttore discografico proprietario della società Black Gold Studios, Michel Zecler, è stato arrestato. Gli agenti della polizia hanno dichiarato di essere stati aggrediti e insultati dopo averlo fermato perché non indossava la mascherina. Un video, registrato dalle telecamere di videosorveglianza e diffuso qualche giorno dopo dal sito di informazione Loopsider, ha smentito le parole dei poliziotti: Michel Zecler è stato vittima di azioni brutali. Come mostrato dal filmato, l’uomo è stato picchiato con calci, botte e manganellate per 15 minuti nel suo studio di registrazione e poi portato in carcere. Ma non è tutto. Si tratta non solo di un caso di violenza ma anche di razzismo. Gli agenti della polizia si sono lasciati andare a pesanti insulti:

Sporco negro”.

Le proteste e gli scontri

 Di fronte a questi avvenimenti, il malcontento dell’opinione pubblica, già forte a causa della legge sulla sicurezza, non poteva non esplodere in manifestazioni e proteste.

A Parigi, come riportato dal Ministero degli Interni, 46000 persone hanno partecipato alla Marcia per la libertà, il corteo che ha avuto come centro Piazza della Bastiglia.  Secondo il giornale Le Monde la manifestazione è stata in gran parte pacifica, fatta eccezione per qualche episodio: alcuni dimostranti hanno dato fuoco a un chiosco, ad una caffetteria e alla facciata della Banque de France. In molti casi la polizia è stata costretta a ricorrere all’uso dei lacrimogeni.

Le proteste hanno avuto luogo anche a Strasburgo, Marsiglia, Lione e Bordeaux. In particolare, a Bordeaux sono stati incendiati diversi arredi urbani, mentre a Lione è stato segnalato il ferimento di un poliziotto e di alcuni manifestanti.

Il ministro degli Interni Gérald Darmanin ha condannato le violenze contro la polizia definendole inaccettabili. Duro anche il commento di Marine Le Pen, leader di Rassemblement national: “I francesi ne hanno abbastanza di queste immagini di saccheggi permanenti”.

La risposta del governo

Il governo ha tentato di correre ai ripari compiendo un passo indietro. Christophe Castaner, capogruppo all’Assemblea Nazionale di En Marche, il partito del presidente Emmanuel Macron, ha dichiarato che l’articolo 24, sebbene non venga eliminato, così come richiesto dai manifestanti, verrà tuttavia riscritto. L’ obiettivo da seguire, a detta di Castaner, è quello di coniugare il rafforzamento della sicurezza delle forze dell’ordine e la difesa del diritto fondamentale alla libera informazione.

Cristophe Castaner – Fonte: www.lejdd.fr

Più radicale la proposta dell’ex presidente Hollande: “Se oggi c’è una cosa da fare per salvare l’onore non è mantenere questo testo, ma ritirarlo”.

Il razzismo della polizia

La manovra del governo, sebbene temporaneamente possa allentare la tensione, tuttavia non risolve la grave questione sulla quale gli avvenimenti degli ultimi giorni fanno riflettere: il razzismo della polizia.

Proteste contro la morte di George Floyd – Fonte: www.ibtimes.co.uk

Qualche mese fa le piazze gremite urlavano a gran voce: “Black Lives Matter” in occasione dell’uccisione di George Floyd, afroamericano morto soffocato per mano dell’agente Derek Chauvin. Oggi anche la Francia ha il suo George. Il caso di Michel Zecler prova che il razzismo della polizia non è un fenomeno diffuso soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Europa.

Tra l’altro, in Francia non è la prima volta che accade un caso del genere: risale al 2016 la morte di Adama Traorè, giovane che aveva tentato di fuggire ad un controllo di identità. Purtroppo, la Francia non è la sola. Nel 2015, Mitch Henriquez, un turista proveniente da Aruba, durante una rissa nata a un concerto a L’Aia, Paesi Bassi, venne immobilizzato a terra da un poliziotto e morì per asfissia. Ad Anderlecht durante il lockdown, Adil, diciannovenne di origini marocchine, è stato travolto da un’auto della polizia dopo aver tentato di sfuggire a un controllo di routine. Si indaga per omicidio colposo.

Molti gli avvenimenti che provano l’esistenza di un fenomeno di vasta portata, definito con il termine racial profiling, con cui si indicano tutte quelle azioni della polizia basate, non sul comportamento criminale, piuttosto sull’etnia o sulla nazionalità della persona. Uno studio del 2009 del Centre National de la Recherche Scientifique e Open Society Justice Initiative ha riportato che nelle stazioni di Parigi persone di origine africana vengono fermate per i controlli più frequentemente rispetto alle altre persone. Questo avviene anche in Belgio, dove i giovani di origine marocchina sono controllati dalla polizia tre volte di più del resto della popolazione. Preoccupanti anche i dati del report del 2018 “Being Black in the EU” dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali: tra gli intervistati, tutti persone di origine africana residenti nell’UE, il 24% nell’ultimo anno era stato sottoposto a controlli e, tra questi, il 44% aveva percepito il controllo come motivato da fattori razziali.

Chiara Vita

Accordo tra Emergency di Gino Strada e Protezione Civile, si punta al riscatto della sanità calabrese

(fonte: ilfattoquotidiano.it)

Gino Strada e la sua ONG ‘Emergency’ hanno siglato l’accordo con la Protezione Civile nel pomeriggio del 17 novembre, subito dopo le dimissioni precoci dell’ormai ex-commissario Gaudio.

Eugenio Gaudio, medico ed ex rettore dell’università Sapienza di Roma, ha rassegnato le dimissioni un giorno dopo essere stato designato come commissario per la sanità della Regione Calabria lo scorso 16 novembre. “Per motivi di famiglia”, spiega a Repubblica, “Mia moglie non desidera trasferirsi a Catanzaro e vorrei evitare una crisi familiare”.

L’accordo mira alla gestione dell’emergenza sanitaria che affligge la Calabria ormai da anni, ma che si è intensificata per via del Covid.

Inizieremo domani mattina a lavorare a un progetto da far partire al più presto

ha scritto Strada, fondatore dell’ONG, sul proprio profilo Facebook la sera del 17 novembre.

Sembra che il governo Conte-bis, dopo due buchi nell’acqua (di cui abbiamo parlato qui), sia riuscito a soddisfare i desideri dei cittadini (e di parte della sinistra) che vedevano il filantropo al centro della gestione emergenziale in Calabria.

E’ infatti risaputo che il sistema sanitario della regione si trovi al collasso a causa di debiti e corruzione, per cui la vera sfida del fondatore di Emergency sarà – oltre alla battaglia contro il coronavirus – quella di restituire dignità alla sanità della regione.

Parole dure da destra a sinistra

Di diverso avviso sarebbero gli esponenti di destra profondamente critici della figura di Gino Strada, tra cui spicca il presidente della regione Nino Spirlì, che nella trasmissione di Radio 24 ‘La Zanzara’ ha rivolto parole durissime nei confronti della possibilità di un nuovo commissario: “Non arriva la nomina di Strada perché dovranno passare sul mio corpo per fare le nomine, non abbiamo più bisogno di commissari”.

Anche Matteo Salvini, leader di Lega Nord, ha espresso la propria opinione su Twitter, incoraggiando che la scelta ricadesse sul professor Pellegrino Mancini, responsabile per i trapianti della regione Calabria.

Diamo ai calabresi la dignità di gestire il loro presente, la loro salute e il loro futuro.

Successivamente ha richiesto le dimissioni del Ministro Speranza tramite Twitter.

Via Cotticelli, via Zuccatelli, ora via anche Gaudio. Attendiamo se ne vada anche Speranza.

Tra lo scetticismo degli esponenti di destra e le proteste dei sindaci calabresi – che hanno manifestato la volontà di recarsi a Roma per mettere fine ad un commissariamento lungo più di dieci anni -, altri hanno invece espresso tutto il proprio sostegno al progetto di Strada.

Andrea Scanzi, giornalista, ha definito sulla propria pagina Facebook il filantropo come “una delle persone più oneste, appassionate e competenti di questo Paese”, tessendone le lodi in un lungo post e non perdendo l’occasione per sbugiardare alcune voci sul suo conto che lo ritrarrebbero come un “comunista” (in senso dispregiativo).

Chi è davvero Gino Strada

Originario di Milano, è un medico, filantropo ed attivista fondatore dell’ONG ‘Emergency’ che dal 1994 si occupa della riabilitazione delle vittime della guerra e delle mine antiuomo.

(fonte: globalist.it)

Tra il 1989 e il 1994 vive diverse esperienze come medico di guerra in zone di conflitto come Pakistan, Somalia ed Afghanistan e questo lo spingerà a fondare l’associazione umanitaria assieme alla moglie Teresa (persa nel 2009); ma lo spingerà inoltre a rigettare profondamente il concetto di guerra ed avanzare aspre critiche nei confronti di uomini di politica tendenti ad atteggiamenti belligeranti: entrano nel suo mirino figure come Silvio Berlusconi, Enrico Letta, Matteo Renzi, Mario Monti e Giuseppe Conte.

Tuttavia, per difendersi da attacchi che lo ritraevano come un pacifista radicale e moralista, ha espressamente affermato di non essere pacifista – solo contro la guerra.

In attesa di nuovi sviluppi e con una situazione sempre più incontrollabile, Strada sembra essere l’ultima speranza per molti calabresi, mentre altri rimangono disillusi su un possibile miglioramento della situazione.

 

Valeria Bonaccorso

 

La Cina stringe su Hong Kong, quattro deputati dell’opposizione destituiti

Duro colpo per la democrazia di Hong Kong: nella settimana del 9 novembre quattro deputati democratici dell’opposizione sono stati destituiti con l’accusa di aver praticato un “ostruzionismo” che avrebbe messo a rischio la sicurezza nazionale.

(fonte: ilpost.it)

La motivazione

La colpa dei quattro membri dei parlamento sarebbe di aver richiesto che i governi esteri sanzionassero gli atteggiamenti repressivi delle forze armate di Hong Kong e di Pechino.

L’accusa del “non patriottismo” degli oppositori è stata vista dalla popolazione di Hong Kong (già incredibilmente provata) come una scusa del Comitato Centrale Comunista per sbarazzarsi degli elementi ‘scomodi’ e ‘filo-indipendentisti’ del sistema; un sistema che già da anni risente delle spinte centralizzanti ed autoritarie del governo cinese.

Tuttavia, il tentativo di sfaldare la posizione dei democratici sembra non essere andato a buon fine: a seguito dell’accaduto, i restanti 15 deputati dell’opposizione hanno rassegnato le dimissioni al Legislative Council, l’organo legislativo di Hong Kong composto da 70 seggi di cui ben 29 (un buon numero, se si considera che la metà dei seggi è sempre riservata ad esponenti filo-cinesi) erano stati conquistati dai democratici nelle elezioni del 2016.

Di questi, circa 8 sono stati espulsi già negli scorsi anni per i medesimi motivi.

Da quanto risulta, la governatrice Carrie Lam (fortemente vicina al governo cinese) non prospetta delle elezioni suppletive ed afferma che il LegCo possa perfettamente funzionare anche senza un’opposizione – che, solitamente, nei sistemi democratici rappresenta l’ago della bilancia necessario all’equilibrio dei poteri in campo.

Il provvedimento è stato adottato per via di una risoluzione del C.C.C. che consente di destituire i membri del parlamento ritenuti un pericolo per la sicurezza nazionale senza bisogno di passare da un tribunale.

L’episodio è stato commentato dagli oppositori in protesta:

E’ il giorno più triste, Hong Kong da oggi mostra al mondo che non esiste più il principio Una Cina, Due Sistemi

(Corriere della Sera)

Ma in cosa consiste il principio “Una Cina, Due Sistemi”? Per comprenderlo, è giusto ripercorrere la storia di Hong Kong dai suoi inizi.

(i quattro deputati destituiti – fonte: corriere.it)

Un Paese, Due Sistemi

La regione autonoma è composta dall’isola principale (chiamata appunto Hong Kong), dalla penisola di Kowloon, dai cosiddetti Nuovi Territori e da più di 200 altre isole, di cui la più grande è Lantau. Colonia britannica fino al 1997, passò poi sotto il controllo della Cina pur mantenendo, inizialmente, un forte margine di autonomia in campo economico, amministrativo e giurisdizionale.

Tale autonomia fu sancita dal principio Una Cina, Due Sistemi contenuto nella Dichiarazione congiunta sino-britannica firmata nel 1984: da un lato viene ribadita l’unità nazionale della Cina, dall’altro viene riconosciuta l’autonomia di Hong Kong.

In particolare, la Dichiarazione prevedeva il passaggio di tutti i territori di Hong Kong sotto il potere della Cina a partire dal primo luglio 1997 e l’impegno di quest’ultima a mantenere invariato il sistema economico e politico della città per almeno 50 anni, fino al 2047, per garantire un passaggio tranquillo al sistema comunista cinese.

Tuttavia, la regione autonoma si presenta diversa rispetto alla Cina continentale sotto molti aspetti; questo, assieme agli interventi molesti ed anticipati del regime, ha reso molto difficile l’integrazione dei quasi 7 milioni di abitanti di Hong Kong col resto della popolazione cinese, facendo prospettare più una “colonizzazione” che un’integrazione.

Col passare del tempo, la Cina è riuscita ad infiltrarsi nel sistema economico, politico e giudiziario della regione tramite una serie di atti volti a violarne l’autonomia. Le reazioni non sono mancate.

La protesta degli ombrelli

Nell’estate del 2014 venne approvata una riforma elettorale che prevedeva, a partire dal 2017, la pre-approvazione del Comitato elettorale (un collegio di 1200 persone pesantemente controllato dal governo cinese) di un massimo di tre candidati per il ruolo del Capo dell’esecutivo, che una volta eletto dalla popolazione sarebbe stato formalmente approvato dal governo centrale.

Tale riforma costituiva una forte limitazione della libertà politica ed il malcontento si trasformò presto in reazioni dapprima pacifiche, peraltro comunque represse dalle forze armate tramite l’uso di spray al peperoncino e cannoni ad acqua – da qui l’uso degli emblematici ombrelli, utilizzati come scudi per difendersi dagli attacchi dei poliziotti e che ancora connotano le lotte della popolazione.

Tra i manifestanti, emerse subito la gioventù studentesca rappresentata da Joshua Wong. Ad oggi, allo studente è vietata la possibilità di candidarsi alle elezioni poiché ritenuto pericolo nazionale.

A partire da questa protesta (che terminò con 955 persone arrestate), gli scontri s’intensificarono sempre più fino a giungere alle sedi governative.

Le ultime proteste

A giugno 2019, Hong Kong si è resa protagonista di nuovi scontri civili scoppiati a seguito di una proposta di emendamento a una legge sull’estradizione che, se approvata dal Parlamento locale, avrebbe consentito di processare nella Cina continentale gli accusati di alcuni gravi reati.

Migliaia di persone sono scese in piazza per impedire l’approvazione dell’emendamento che, se strumentalizzato, potrebbe permettere alla Cina di utilizzarlo contro i suoi oppositori.

Infine, da maggio 2020, in piena pandemia di coronavirus, i manifestanti si sono ritrovati in un centro commerciare per richiedere le dimissioni della governatrice Carrie Lam. Anche in questo caso gli scontri sono terminati in una forte repressione degli agenti di polizia, che hanno arrestato più di 200 persone con l’accusa di assembramento.

(fonte: scmp.com)

Pare che gli ultimi avvenimenti non lascino ad Hong Kong spiraglio di democrazia e la fine del sogno capitalista sembra sempre più vicina: ciò non smentisce, però, la tenacia della popolazione a preservare la propria libertà di autodeterminazione.

 

Valeria Bonaccorso 

Il musicale dell’Ainis in protesta. L’intervista: “Vogliamo quel 25%. La videocamera uccide la musica.”

(fonte: gazzettadelsud.it)

Arrivano nuove reazioni alle misure restrittive imposte, a partire dal 24 ottobre, dall’ultimo DPCM e dalle ordinanze dei vari consigli regionali. Avevamo già parlato qui delle proteste dei lavoratori; oggi sono le scuole a prendere la parola.

In particolare, gli studenti dell’indirizzo musicale del Liceo Emilio Ainis di Messina si sono assentati per due giorni, 26 e 27 ottobre, dalle lezioni in via telematica in segno di protesta contro la D.A.D. (Didattica a Distanza). Hanno inoltre emesso un comunicato, firmato da 87 degli studenti in questione, che è stato pubblicato da diverse testate giornalistiche.

Per approfondire meglio la questione, abbiamo deciso di ascoltare i pareri di alcuni dei diretti interessati.

Come nasce l’iniziativa

“Tengo a sottolineare che è un iniziativa degli studenti del musicale e non sono stati affatto indirizzati dai docenti. Dal punto di vista logistico, ci sono delle discipline che presuppongo il contatto diretto con lo strumento, della presenza dell’insegnante che fa strumento o musica d’insieme, forme laboratoriali per cui hanno delle difficoltà in più.”

Afferma il professore Cesare Natoli, insegnante di storia e filosofia presso l’indirizzo musicale del Liceo Ainis.

“Noi viviamo di musica e fare una lezione di strumento in D.A.D. non è la stessa cosa. In primo luogo perché sarebbe necessaria una strumentazione costosissima, dal momento che le classiche attrezzature tendono a ‘tagliare’ frequenze, sia alte che basse, per comprimere il suono. Dunque, non si sentirebbe allo stesso modo. Le materie che più ne risentono, oltre Strumento, nell’ambito musicale sono – ad esempio – tecnologie musicali. Anche Teoria di analisi e composizione è una materia che necessita di un approccio di presenza.”

Aggiunge lo studente Emanuele Arena, rappresentante degli studenti del Liceo Emilio Ainis.

Le richieste degli studenti

Quando gli abbiamo chiesto a cosa mirasse la loro iniziativa, la risposta è stata secca:

“Noi puntiamo tutto su quel 25%. Uno schermo, una videocamera uccidono la musica.”

Ed in effetti, il 25% è la percentuale che il DPCM aveva concesso per le lezioni in presenza. Gli istituti superiori siciliani si sono tuttavia dovuti conformare all’ordinanza regionale del presidente Musumeci che prevede un 100% di D.A.D. fino al 13 novembre. La richiesta è proprio quella di adeguarsi alla normativa nazionale. D’altro canto, una recente comunicazione del Presidente Regionale prevede che, per motivi logistici di particolare esigenza (e potrebbe rientrarvi il caso del liceo musicale) e per gli studenti con gravi disabilità sia possibile svolgere la didattica in presenza. Sarebbe per loro un risultato già significativo.

Alla protesta dei ragazzi si sono uniti anche molti genitori e professori, che continuano ad accompagnarli in questa situazione di criticità. A tal proposito, il professor Natoli, portavoce del gruppo ‘Scuola in presenza’, assieme ai colleghi intende organizzare una manifestazione di protesta che si svolgerà – nel rispetto delle misure anti-covid – giorno 7 novembre presso Piazza Unione Europea (Municipio). I dettagli sono reperibili sull’omonimo gruppo Facebook. Essa intende coinvolgere il mondo della scuola (docenti, studenti, personale ATA, genitori), dell’università e gli operatori culturali del teatro e della musica (ricordiamo le associazioni concertistiche messinesi come l’Accademia Filarmonica, la Filarmonica Laudamo e l’Associazione Bellini. Questi ultimi settori, colpiti dall’ultimo DPCM, sono stati costretti a chiudere dopo aver compiuto molti sacrifici per adattarsi alle misure anti-virali promosse negli ultimi mesi dal Ministero della Salute e dal comitato tecnico scientifico.

“Il fatto che siano stati minati i centri di cultura come i teatri, per noi che amiamo la musica e lo spettacolo e tutto ciò che è annesso, è stato un colpo. Noi rendiamo di questo, dopotutto.”

Continua Emanuele, tenendo in considerazione anche i risvolti che tali misure potrebbero avere sul futuro lavorativo di questi studenti.

(fonte: tg24.sky.it)

Il futuro della società e l’importanza dell’arte

Il professore si abbandona poi ad una riflessione: “Quale umanità stiamo difendendo?”, si domanda, prendendo spunto dalla riflessione di uno dei maggiori filosofi italiani, Giorgio Agamben.

“Il bios, il restare in vita, è senza dubbio sacrosanto. Tuttavia, non possiamo limitarci solo a questo poiché l’umano eccede il bios, va oltre il semplice restare in vita. Se tutto il resto viene trascurato, allora ci stiamo degradando. Il covid, probabilmente, ha semplicemente scoperchiato la questione. Ma si tratta di un processo che affonda le proprie radici lontano nel tempo.”

(fonte: stateofmind.it)

Nell’esprimere la propria preoccupazione per il futuro della cultura e dell’uomo come animale sociale, il professore ha offerto anche una propria visione di quelli che potranno essere i possibili scenari di una società post-covid. Ad una visione (considerata ‘idilliaca’) del ritorno alla normalità si accosta la possibilità che, da scelte così drastiche e necessarie, derivino conseguenze altrettanto importanti anche per la vita in società.

“Bisogna fare in modo che l’emergenza rimanga emergenza”

Ossia che non si trasformi in normalità. Fondamentale è ben soppesare i rischi derivanti da un non adeguato controllo dell’epidemia ai rischi derivanti da altre cose, come le questioni legate allo sviluppo relazionale dell’individuo.

Ed in tal senso, si sa, l’arte ha la straordinaria capacità di unire oltre ogni barriera.

“L’arte è libertà d’espressione.”

Afferma, infine, Emanuele alla domanda su cosa essa rappresenti per un qualsiasi ragazzo.

Guai a dimenticare il valore dell’arte, linguaggio universale capace di unire i popoli laddove l’incomprensione li divide.

 

Valeria Bonaccorso