Dallas Buyers Club: quando l’amicizia vince sui pregiudizi

Un film che spiega il dramma dell’Aids tra autenticità e amicizia– Voto UVM: 5/5

 

Gli anni ’80 li conosciamo grazie a film come Flashdance, Stand By Me, Karate Kid e tanti altri che ci hanno fatto sognare e desiderare di vivere in quell’epoca fatta di capigliature voluminose, palette fluo, e sale giochi che si riempivano di bambini e ragazzi dopo il suono della campanella.

I mitici anni ’80, però, avevano un’altra faccia: quella dei pregiudizi e delle “malelingue”. Per il mondo si diffondeva per la prima volta la malattia dell’Aids, e con essa false credenze alimentate dall’ignoranza, tra chi pensava che fosse un virus che potevano contrarre solo gli  omosessuali e chi aveva paura di stringere anche solo la mano di un sieropositivo.

Dallas Buyers Club è un film uscito nel 2013 diretto da Jean-Marc Vallée, che vede come attori protagonisti i due premi Oscar Matthew McConaughey  e Jared Leto, che, grazie alle loro interpretazioni in questa pellicola, si sono portati a casa rispettivamente l’ambita statuetta di “miglior attore protagonista” e  quella di “miglior attore non protagonista”.

Qui i due attori racconteranno la vera storia del cowboy Ron Woodroof, malato di AIDS, costretto a curarsi da solo per via dei costi esorbitanti dei farmaci.

Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

L’amicizia che sfida i pregiudizi

Tra il 1985 e il 1986, nel sud del Texas si svolge la vicenda di un cowboy di nome Ron Woodroof (Matthew McConaughey), che conduce una vita allo sbaraglio tra droga, alcool e sesso non protetto. Infatti per via della sua incoscienza, (o della mancanza di conoscenza), contrae il virus dell’HIV e successivamente si ammala d’AIDS. Durante quegli anni, i malati di AIDS erano considerati dei veri e propri appestati, anche per la scarsità di informazioni che giravano attorno a questo nuovo virus. La sanità negli Stati Uniti – come sappiamo – è accessibile solo per coloro che hanno una buona assicurazione, perciò il cowboy deciderà di contrabbandare farmaci non approvati in Texas, per curarsi da solo, ma anche per aiutare le persone con la sua stessa malattia. Dopo poco tempo aprirà  il “Dallas Buyers Club” , sfidando l’opposizione della Food and Drug Administration.

“Avvocato, voglio un’ordinanza restrittiva contro il Governo e la FDA.”

Ron, all’inizio pensa che la diagnosi sia sbagliata: essendo omofobo, crede che l’AIDS sia una malattia che contagi solo i gay. Col passare del tempo, però, i suoi sintomi peggiorano: Ron finalmente accetterà  la sua malattia, ma perderà il proprio lavoro e tutti i suoi amici, giacché quest’ultimi pensano che sia gay.

Durante una delle proprie visite in ospedale, Ron conoscerà Rayon (Jared Leto), una transgender tossicodipendente e sieropositiva.

A sinistra Rayon ( Jared Leto) a destra Ron ( Matthew McConaughey) in una scena del film. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Rayon è un uomo, che ha sempre desiderato nascere in un corpo femminile, ma a causa della sua vita difficile non ha mai potuto cambiare il proprio sesso e così si sente imprigionato dentro un corpo che non riconosce.

Rayon: Signore, quando ci incontreremo voglio essere molto bella. Fosse l’ultima cosa che faccio. Sarò un bellissimo angelo.”

Nonostante all’inizio tra i due non corra buon sangue, per via dell’omofobia che condiziona il protagonista, da lì in poi nascerà un’amicizia senza confini, pura e vera. Col tempo Ron vedrà in Rayon l’unica vera amica che abbia mai avuto, la sola che gli è rimasta vicina mentre tutti gli avevano voltato le spalle. Assieme affronteranno l’atroce sofferenza dell’Aids, abbattendo i pregiudizi e aiutando le persone malate e abbandonate dal proprio Paese.

La forza dei legami umani

Matthew McConaughey e Jared Leto al momento sono tra gli attori più bravi in circolazione e, grazie al loro talento, riescono a dare dignità ai propri  personaggi, rendendoli unici, storici. Come hanno fatto con Ron e Rayon, due soggetti non facili da interpretare. Come fanno due attori a colpire così profondamente nell’anima rendendo il telespettatore partecipe del dolore dei due protagonisti?

Ci mostrano le sofferenze e la crudeltà dietro cui si nasconde l’ignoranza con un realismo che parla di dolori e di gioie, che trasmette il messaggio che, per quanto possa essere difficile una situazione, se hai qualcuno accanto a te sembrerà meno dolorosa. Questa è la meravigliosa forza intrinseca degli sforzi  umani, che si riaccende quando meno te l’aspetti, restituendo valore a ciò in cui non credevi più.

L’abbraccio fraterno tra Rayon e Ron. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Alessia Orsa

Le caratteristiche di cinque tra i più grandi “caratteristi”

Quello di attore caratterista è  – nonostante non esista un unico modo per definirlo – un termine riferito a tutti gli interpreti di personaggi singolari, che devono avere la capacità di rimanere impressi nella mente di chi guarda, anche se comparsi per poco tempo sulla scena.

Importantissimi per la riuscita di un buon film, gli attori caratteristi hanno sicuramente contribuito, sin dagli inizio, all’evoluzione del cinema.

Noi di UniVersoMe vogliamo farveli conoscere, e lo faremo analizzando l’operato dei cinque tra i più grandi attori caratteristi degli ultimi anni. Dalla top five è stato escluso Harvey Keitel, uno dei maggiori esponenti, ma solo perché ne abbiamo già parlato (giusto qualche articolo fa).

1) Steve Buscemi

Lo strambo per eccellenza.

Fonte: memecult.it – Steve Buscemi nel film Il grande Lebowski 

Generalmente, Steve Buscemi interpreta soggetti esuberanti e dalla battuta sempre pronta che conquistano immediatamente la simpatia del pubblico.

Ha dimostrato di essere un attore talentuoso e tecnicamente eccellente in diversi capolavori come Le Iene (1992), Armageddon (1998), Fargo (1996). Una delle sue migliori performance però, è sicuramente quella ne Il grande Lebowski (1998) dei fratelli Coen.

Nel film interpreta Donny, uno dei due più cari amici di Jeffrey Lebowski: personaggio fuori dagli schemi tipici di Steve, ma che ci dimostra quanto sia importante essere un bravo attore per fare il caratterista. Donny è taciturno e timido, eppure Buscemi riesce a donargli una presenza scenica mastodontica,  grazie alle sue doti attoriali.

In quanti altri film abbiamo visto personaggi simili a Donny, che magari parlano raramente o sono particolarmente introversi? Moltissimi, ma non abbiamo nessun ricordo di loro. Il personaggio di Buscemi invece lascia il segno e questo significa essere caratterista.

2) Cristopher Lloyd

Chi non conosce il Doc di Ritorno al futuro?

Fonte: ilpost.it – Christopher Lloyd, Doc

Christopher Lloyd è entrato nell’immaginario collettivo come l’eccentrico scienziato della famosissima saga di Robert Zemeckis. Non ha bisogno di presentazioni: con quegli occhi costantemente aperti e vispi  ed il suo consueto “Grande Giove” è certamente uno dei personaggi più apprezzati dal pubblico di ogni età e nazione.

Ma non finisce qui: è stato anche “autore” della profonda e celebre interpretazione in Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), dove, al fianco di Jack Nicholson,  ha ricoperto il ruolo di un uomo affetto da seri disturbi mentali.  Quindi, lo ritroviamo in un contesto drammatico e ben diverso dal clima di Ritorno al futuro, ed è questo il modo con cui  Chistopher  dimostra la sua versatilità, mettendo a segno una performance di altissimo livello.

3) Rowan Atkinson

Sì, non si chiama Mr Bean nella vita reale.

Fonte: indianaexpress.com – Rowan Atkinson nei panni di Mr Bean 

Genio assoluto della comicità inglese, Rowan Atkinson non è solo un grande caratterista, ma è anche inventore di uno stile recitativo del tutto innovativo.

Infatti, i film o i mediometraggi in cui appare non seguono gli schemi dei film tradizionali: le scene che si susseguono, rappresentano momenti di vita quotidiana nei quali l’attore interagisce goffamente con gli oggetti o con altri individui, farfugliando parole poco chiare e accentuando buffe espressioni facciali.

Risultato? Uno dei comici inglesi più famosi del mondo che è riuscito a lavorare – ed in pochi ce l’hanno fatta – anche con l’irraggiungibile gruppo comico Monty Python.

4) Mario Brega

Anche il cinema italiano, vanta una lunga lista di attori caratteristi degni di nota e Mario Brega è sicuramente uno dei più apprezzati dal pubblico.

Mario, “lanciato” da Sergio Leone come attore nei suoi western – in cui interpretava  lo scagnozzo dell’antagonista – verrà poi “rimodellato” da Carlo Verdone che lo ripropone come il tipico romano d’estrazione popolare.

Passano alla storia alcune sue battute come “Arzate a cornuto arzateee” in Borotalco (1982) o “So comunista così!” in Un sacco bello (1980).

Fonte: ilmattino.it – Mario Brega nel film Borotalco 

A livello tecnico però, Mario Brega non era un interprete di alto calibro.

Il punto di forza, che lo rende uno dei migliori caratteristi di sempre, risiede nella sua “spontaneitàdurante le riprese: la battuta di Un sacco bello (precedentemente citata) è frutto di un’improvvisazione dell’attore durante un ciak. Verdone ha deciso di lasciarla nel film, proprio perché rappresenta il personaggio: un uomo rude ma bonaccione, che, allargando le braccia, pronuncia quelle parole; trasmetterà così tutta la sensibilità e la bonaria ignoranza del personaggio.

5) Franco “Bombolo” Lechner

Franco Lechner, in arte Bombolo, è stato uno dei migliori caratteristi di sempre.

Fonte: spettacolo.periodicodaily.com – Franco “Bombolo” Lechner

Lo ricordiamo insieme a Tomas Milian nei panni di er Monnezza, con il quale ha preso parte a diversi film che li hanno resi celebri come “coppia del cinema” nel panorama italiano.

Solitamente, Bombolo interpreta lo stesso personaggio, le cui caratteristiche sono: la particolare mimica facciale e l’uso del dialetto romanesco. Esorbitante la quantità di schiaffi che il povero Franco ha ricevuto nel corso della sua carriera!

Ma pur di far ridere era pronto a tutto.

 

Quindi, come abbiamo visto, gli attori caratteristi costituiscono una parte fondamentale del cinema. Sono grandi interpreti che, nei pochi minuti a disposizione, devono dare qualcosa di significativo al proprio personaggio così da essere ricordati.

Ad oggi non ne esistono – almeno non più come un tempo – e la loro figura è mutata così come è mutato il cinema stesso; ma ciò che non cambia e che probabilmente non cambierà mai è il concetto di  essere attore e di farlo bene: come Mr Wolf (Harvey Keitel) ci insegna

Just because you are a character doesn’t mean that you have character”.

Vincenzo Barbera

RiDE – il drammatico leggero della sensibilità di Valerio Mastandrea

 

L’opera prima è sempre un’emozione grande. Molti non sanno descriverla, altri pensano di aver fatto una stronzata – passatemi il termine, bonariamente – e Valerio Mastandrea, uno degli attori di punta della recitazione italiana contemporanea, ha sentimenti ingarbugliati tra loro riguardo la sua opera prima da regista: RiDE (si legge con pronuncia italiana per chi avesse il dubbio). UniVersoMe ha avuto l’ opportunità di incontrarlo al Multisala Iris di Messina, durante una tappa del suo tour per i cinema italiani “Esco in tour”.

 

©LauraLaRosa Chiara Martegiani e Valerio Mastandrea, Multisala Iris – Messina, Aprile 2019

 

Il film è il perfetto equilibrio tra un desiderio di svegliare le coscienze ed alleggerirle con il sarcasmo che contraddistingue il regista nelle proprie performance. La denuncia è quella delle morti bianche sul posto di lavoro: una critica sottile sugli atteggiamenti che socialmente riteniamo obbligatori quando subiamo un lutto, ma che Carolina – interpretata egregiamente da Chiara Martegiani – non riesce a rispettare. Il marito è morto da una settimana, e da una settimana lei non riesce a piangere. Neanche il figlio di 12 anni ci riesce. Lei prova in tutti i modi, fino a quando…
No fino a quando niente, qui non faccio spoiler. Vi consiglio di vederlo!

©LauraLaRosa, Valerio Mastandrea – Multisala Iris, Messina Aprile 2019

Intanto come avevo anticipato, Mastandrea e Martegiani erano presenti in sala: c’è stato un dibattito interessante tra il pubblico e i due attori. La sala si è perfettamente prestata per le domande, le foto e per la mia occasione di scambiare con loro qualche parola.

Prima ho incrociato Chiara, tra un complimento e l’altro, mi ha spiegato che la recitazione in Italia, specie per le donne, è una carriera molto precaria: le porte in faccia sono tante ma più per un modo di fare che per concreta mancanza di talento. La domanda mi è sorta spontanea:

Cosa consigli ai giovani aspiranti attori?

Eh… è una passione che si doma difficilmente, il lavoro è sempre una scoperta, bella o brutta che sia. Il mio consiglio è di puntate sui progetti, non bisogna smettere di creare, di informarsi e di continuare a crederci. Non è facile, queste cose non le dicono spesso, non sempre è questa realtà che traspare.

E distrutto dalla giornata becco Mastandrea, lo raggiungo con in mano un taccuino minaccioso che a mezzanotte – ammetto – avrebbe terrorizzato chiunque. Ma, come un cavaliere senza macchia e senza paura si è sorbito le mie domande con tanta gentilezza.

©LauraLaRosa Mastandrea e Giulia con il minaccioso taccuino – Multisala Iris, Aprile 2019

Il tuo debutto da regista esplode con un film ricco di ribellione e presa di coscienza, il cinema riesce a comunicare nella nostra società? Cioè quanto può influire, quanto è forte la sua risonanza?

Dovrebbe essere il compito del cinema raccontare la società e non solo, soprattutto le persone, mostrare la realtà attraverso le persone. Questo non significa che debbano essere girati film gravi, “pesanti” , anche una commedia può raccontare un sacco di cose. I generi cinematografici aiutano molto.

Ridere si può definire un inno alla libertà di soffrire? In un’intervista avevi spiegato che questi sono tempi in cui è difficile soffrire…

Certo, forse più al diritto. Ma non proprio di soffrire, persino stare male, non solo essere felici… male visto il bombardamento che subiamo costantemente di modelli di felicità. Ce l’hai Instagram te? Vedi quanto è felice la gente? D’estate, d’inverno. Se uno sta un po’ giù e vede la foto di un posto in cui non potrà andare, come si sente? Potrebbe soffrire, quindi la libertà di stare come ti pare è compromessa, e anche quella di soffrire. Come racconta la storia, la protagonista è una persona non riesce ad avere un rapporto con il proprio dolore, non ce la fa perché sta sotto i riflettori, perchè è tirata da una parte e dall’altra.

 

Foto del backstage di RiDE

 

Da un punto di vista tecnico la fotografia del film appare curata nei dettagli, a volte pecca nell’identità della stessa, ma sfrutta le inquadrature e i movimenti che accompagnano attori in campo. Quando hai iniziato a girare avevi già in mente le scene o si sono sviluppate durante?

Solo i grandi registi hanno in mente il film. Io, infatti, non avevo idea di nulla. Tante scene ed inquadrature sono venute naturali, nel cinema comunque ci sono delle immagini che se vogliono trasmettere un determinato significato, una specifica sensazione, vanno sincronizzate al movimento e all’ambiente in cui vengono girate. Io ho avuto una bella squadra con cui mi sono potuto confrontare, e menomale perché è stato il campo su cui mi sono soffermato di meno e mi dispiace adesso, riguardandolo ogni volta spunta qualcosa che avrei potuto fare diversamente, migliorare ecco. 

 

©LauraLaRosa, Multisala Iris – Messina, Aprile 2019

 

Anche se breve è stata un’intensa e divertente intervista – tra risate e sano sarcasmo non vedo l’ora di vedere cosa sfornerà di nuovo l’attore romano. Ha detto che ci vorrà tempo, si farà desiderare… ma per le domande rimaste in sospeso, caro Valerio, se ribeccamo.

 

 

Giulia Greco

 

 

 

Eyes di Maria Laura Moraci: trenta attori recitano ad occhi chiusi

 

Eyes è un cortometraggio della durata di 13 minuti, nel quale la regista ha voluto mettere in luce un tema molto attuale, ovvero l’indifferenza.

La regista e sceneggiatrice Maria Laura Moraci, alla sua prima esperienza, è una ragazza 24enne, attrice, ha lavorato con registi come Pupi Avati e Bernardo Carboni; tratta di un documentario basato su una storia vera di immigrazione e integrazione.

Ha dedicato quest’opera al pestaggio di Niccolò Ciatti, ventiduenne picchiato a morte da tre coetanei nell’indifferenza generale ad agosto 2017 in una discoteca vicino Barcellona.

L’originalità è data dal fatto che 28 attori su 30 hanno recitato ad occhi chiusi per l’intero cortometraggio, con gli occhi dipinti sulle palpebre.

Inizialmente si vedono delle prostitute che parlano tra di loro, una delle quali si allontana, con le cuffie nelle orecchie ascoltando “Mad World”.

Poi si passa alla scena principale, nella quale dei personaggi attendono presso la fermata del bus, un bus che peraltro non arriverà mai, in chiaro riferimento ad “Aspettando Godot”.

Ad un tratto si sentono delle urla provenienti davanti a loro, ma nessuno si alza. Una ragazza ha le cuffie isolandosi dal mondo esterno, una coppia si bacia, due ragazze attendono giudicando i passanti, un uomo intento a disegnare una donna cancella le sue labbra con il rosso, con rabbia, intento a cancellare il rumore fastidioso che sente. Come se non volesse sentirlo.

Nessuno si alza nonostante le grida persistano. Ma passato un po’ di tempo tutti i personaggi aprono gli occhi contemporaneamente, e decidono di alzarsi andando verso la donna che continua ad urlare.

Emozionante e intenso, Eyes ci manda delle immagini di grande impatto e potenti in cui vediamo una società che non vuole vedere, non vuole ascoltare il mondo circostante, una società egocentrica se vogliamo, ma soprattutto incapace di avere empatia verso l’altro.

Solo alla determinazione della donna, che desidera essere salvata, che crede davvero che qualcuno possa venire ad aiutarla, le persone si alzano andando verso di lei.

La fotografia è stata curata da Daniele Ciprì, autore della fotografia che ha lavorato con Bellocchio. Risulta ben fatto, il colore è saturo, caldo, rimane impresso nella mente.

Le opere cinematografiche che vogliono fare denuncia sociale, verso temi delicati ed attuali (qui la violenza sulla donna e l’indifferenza) sono da ammirare e da prendere come modelli d’ispirazione.

Il cortometraggio ha ricevuto parecchi riconoscimenti e premi in festival di tutto il mondo.

Marina Fulco

La 50esima edizione del Fotogramma d’oro si è conclusa: impressioni e vincitori.

Si è concluso giorno 26 maggio la 50esima edizione del Fotogramma d’oro, rassegna di cortometraggi di registi internazionali.
I cineasti e non hanno potuto godere, con ingresso gratuito, la qualità di una rassegna nata a Torino, che da tre edizioni si svolge nella nostra città.

Ha preceduto il Festival l’inaugurazione della mostra «Fotogrammi – Mostra pittorica e grafica liberamente ispirata a locandine di film» ideata dal pittore messinese Piero Serboli, hanno aderito numerosi artisti tra pittori, grafici ed illustratori con opere inedite, frutto della loro fantasia ed ispirazione. Gli autori hanno scelto e riprodotto, secondo le personali interpretazioni, locandine di film.

Le proiezioni si sono svolte nei pomeriggi e serate di giovedì 24 e venerdì 25. Le mattine hanno visto la Feltrinelli Point come luogo adibito agli incontri con gli autori delle opere in concorso.

Il festival è stato organizzato dalla Federazione Nazionale Cinevideoautori, il cui presidente è Francesco Coglitore con il patrocinio dell’Università degli Studi di Messina, dell’Assessorato alla Cultura e Spettacolo del Comune di Messina, dell’AIRSC (Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema), da AluMnime (Associazione ex allievi dell’Università di Messina) e in collaborazione con COSPECS.

La nota caratteristica di questa edizione è stata la internazionalizzazione sono stati selezionati per il concorso 53 opere su le 244 arrivate agli organizzatori, opere provenienti dalla Germania, Giappone, India, Iran, Spagna, Stati Uniti, Turchia. A selezionarle la commissione composta dal direttore artistico del Festival Francesco Coglitore, Roberta Ainis (Staff FOTORO), Michele Castori (esperto di cinema), Gabriele Celona (attore e videomaker), Ferdinando Costantino (Direttore tecnico del Festival), Aurora De Francesco (studentessa DAMS) e Marcello Mento (giornalista).

L’edizione è stata dedicata a Tano Cimarosa nel decennale della sua morte.
A presiedere la giuria è stato Maurizio Marchetti affiancato da Maria Arena (regista e docente dell’Accademia delle Belle Arti), Nino Genovese (storico del cinema), Donatella Lisciotto (psicologa e psicoterapeuta) e Marco Olivieri (giornalista).
A Maurizio Marchetti è stato anche conferito il premio alla carriera.

Il Fotogramma d’Oro Campus è stato assegnato all’opera giudicata meritevole da una Giuria popolare composta da studenti che frequentano il DAMS e corsi di studio afferenti al COSPECS di Messina.

Il Fotogramma d’Oro è andato ad “Ainhoa” del regista spagnolo Iván Sáinz-Pardo, cortometraggio realizzato a Bilbao, con protagonista Aurelia Schikarski, attrice di soli nove anni, alla quale è stato assegnato il premio speciale della giuria.

Ad un altro cortometraggio spagnolo viene assegnato il Fotogramma d’argento “Hola me llamo Carla” di Gabriel Beitia , a questa opera è andato anche il premio per il miglior montaggio.
Il Fotogramma di bronzo è andato a “Futuro prossimo” di Salvatore Mereu.

A Rocio Calvo, protagonista di “Hola me llamo Carla”, è andato il premio come miglior attrice.

A Giorgio Colangeli il premio miglior attore per “Partenze”.

Migliore fotografia a “2 By 2”, film britannico del regia di Mark Playne.

A “Sisak”, film indiano del regista Faraz Ansari sono andati il premio speciale “Cinema è libertà” e quello assegnato dalla giuria composta dagli studenti COSPECs  “Premio Fotogramma d’Oro Campus”.

Il Premio della Federazione Nazionale Cinevideoautori, è andato a “Skin” del libanese Inaam Attar.

Premio speciale “Cinema come impegno sociale” a “La Giornata” del regista Pippo Mezzasoma.

Diversi componenti della redazione di Universome hanno partecipato alle proiezioni ed incontri rimanendo molto soddisfatti. Lodando l’organizzazione efficace ed efficiente dello staff.

Giusy Boccalatte e Giorgio Muzzupappa hanno reputato tutti i cortometraggi molto interessanti, notando l’attualità delle tematiche affrontate. Hanno sollecitato gli spettatori a riflettere su questi argomenti. I ragazzi augurano, inoltre,  future manifestazioni affini.
Hanno apprezzato le interviste con alcuni registi avvenute dopo le proiezioni e la possibilità che gli spettatori potessero rivolgere domande agli autori. Ci hanno riportato le opere che gli sono rimaste maggiormente impresse.

“Una bellissima bugia” di Lorenzo Santoni si apre con una citazione di Cesare Pavese “l’arte di vivere è l’arte di sapere credere alle menzogne” è un corto incentrato sulla figura di Luca un ragazzo in sedia a rotelle che incontra un uomo misterioso che afferma di essere stato anche lui affetto dalla medesima malattia e con il quale dialoga di questa.
L’uomo misterioso vuole far capire a Luca che è possibile cambiare la propria vita se si vuole, che si riscatterà avrà un futuro migliore. Il twist sta nel finale : l’uomo misterioso è un Luca del futuro.

“Come ieri” di Noemi Aprea, Lorenzo Ballico , Adamo Pedro Bronzoni, Gabriele Ciances, Irene Del Maestro, Dario Grasso, Ilaria Pedoni, Giorgio Raito, Adriano Ricci, Giuliano Tomarchio  e Irene del Maestro.
Tematica molto attuale anche qui, padre e figlio ritrovano in una spiaggia il corpo esanime di una ragazza di colore. Girando tutto intorno al conflitto fra i due per soccorrere o meno la donna.
Sono dieci giovani registi emergenti chiamati mediante un bando da Film making lab 2017 e il cortometraggio è stato girato a Catania. Una esperienza altamente formativa.Momento molto toccante a fine della proiezione che ha visto presenti in sala due registi, Fabio Schifilliti e l’altro attore protagonista Francesco Bernava i quali hanno parlato del cortometraggio e ricordato il messinese Domenico Bisazza protagonista anche lui del corto e scomparso prematuramente questo febbraio.

 

“Black and white” di Mahmoud Sakr il messaggio di questo corto viene specificato al suo termine facendo riferimento ad avvenimenti realmente accaduti, ai cori razzisti negli stadi, la discriminazione dei musulmani, tutti gli atti crudeli perpetrati nei confronti delle donne. Nell’opera si fa riferimento ad una società in cui tutti gli uomini bianchi indossano degli occhiali che fungono da filtro (lo si capisce dal fatto che siano pitturati) non permettendo di far capirequanto una persona di colore non abbia nulla di diverso rispetto a loro stessi. C’è un bambino che al contrario degli altri non ha occhiali pitturati e questo fa intendere la purezza e l’assenza di barriere mentali dei bimbi. L’animo genuino. Nel momento in cui il bambino si avvicina però ad una bimba di colore i genitori lo prendono e gli colorano gli occhiali, lo istruiscono al razzismo e alla violenza.

É un messaggio dirompente e provocatorio.

“La giornata” di Pippo Mezzapesa , ispirato ad una storia vera, tratta della condizione lavorativa della donna. Paola Clemente bracciante morta di fatica mentre stava raccogliendo l’uva in un campo per 2 euro l’ora, in Puglia. La morte di questa donna ha portato l’approvazione della legge contro il caporalato.
La particolarità sta nel fatto che le colleghe di Paola sono le protagoniste e raccontano la giornata tipica, durante la quale vengono sfruttate da un uomo, senza alcun tipo di tutela. Colpisce l’intensità e pathos con il quale le donne raccontano l’esperienza vissuta, hanno visto la loro compagna morire davanti i loro occhi. E la totale assenza di pietà del loro sfruttatore.

 

Arianna De Arcangelis

Susan Sarandon alla 62° Edizione del Taormina Film Fest

Si apre una porta laterale e una tempesta di flash non permettono di vedere la figura che calca il palco fino a quando non arriva al centro e saluta tutti con le mani in aria e un sorriso splendente : Susan Sarandon è qui davanti a noi, vestita di nero e con un’aria affabile e distesa.

Subito una battuta : afferma di aver scelto di interpretare questo ruolo perché è difficile per donne della sua età trovare una sceneggiatura in cui il personaggio propostole non muore o capita qualche altra disgrazia.
Il film in questione è “The Meddler” che la vede protagonista insieme a Rose Byrne di cui interpreta una mamma vedova che si trasferisce da New York a Los Angeles per seguire la figlia , una mamma che in molti potrebbero definire impicciona (come dice il titolo) ma in realtà è una donna da una gentilezza incondizionata, che ritiene di avere avuto abbastanza nella sua vita quindi non può far altro che pensare agli altri.
Il soggetto è realmente ispirato alla madre della regista Lorene Scafaria che la Sarandon ha conosciuto e ci riferisce essere una donna adorabile e afferma essere un peccato per noi non poter sentire l’accento del New Jersey nel film di questa donna che è un pesce completamente fuori dall’acqua nella glamour LA.
Nel cast troviamo anche J.K. Simmons del quale la Sarandon loda la bravura e molti stand up comedians.
Un film girato con un budget basso (per gli standard americani) e in tempi stretti : 23 giorni.
I problemi di budget non sono nuovi nel cinema americano , secondo la Sarandon perché i finanziatori ragionano come banchieri e non per l’utilità dell’arte.

E da qui passa alla mancanza di diversità nel cinema americano, l’inutilità delle etichette “cinema al femminile” è l’empatia fra le persone che conta , è l’arma più potente e il cinema ne è il tramite proprio qui sprigiona il suo animo da donna interessata alla polis affermando che “Se continuiamo a mostrare che tutto si risolve con le armi, creiamo un clima sbagliato. Nemmeno Internet aiuta, perché ha lasciato spazio a persone cariche di aggressività. Esiste certamente la libertà di parola e non va violata, ma anche la violenza verbale è gravissima”.
Loda il nostro cinema quello degli anni 50’ nel quale l’uomo metteva al centro la donna ed è qui che Monica Guerritore presidente della giuria del festival le suggerisce la visone de “La pazza gioia” di Virzì.

Sull’onda politica uno spettatore le fa una prevedibile domanda su Hillary e lei con una schiettezza quasi impressionante taglia corto dicendo che non si sente rappresentata dalla signora Clinton.

Arriva il momento dell’ultima domanda dal pubblico e fortunatamente non è stata sprecata , tenetevi forte tutti voi appassionati di serie tv e del suo re Ryan Murphy : come era stato preannunciato a maggio nel 2017 vedremo Jessica Lange e Susan Sarandon vestire i panni rispettivamente di Joan Crawford e Bette Davis in “Feud”.
La Sarandon ci racconta che il progetto era nato come film anni addietro e l’aveva rifiutato perché non ne trovava un senso, il genio di Murphy allora ha deciso di renderlo una serie tv incentrata sì sulla faida fra le due iconiche attrici ma il focus sarà anche sui meccanismi degli Studios su come e se Hollywood è veramente cambiata.
Saranno 8 episodi , la metà delle registe saranno donne e vediamo le stesse Lange e Sarandon fra le produttrici.
Inoltre, dice la Sarandon, l’idea di Murphy è quella di creare un ciclo incentrato su queste faide storiche per far luce su queste dinamiche.
Insomma si prospetta un prodotto nuovo, con due grandi interpreti e in tipico stile Murphy pronto a scardinare i meccanismi ed abbattere i muri che ancora affliggono uno dei mezzi di comunicazione di massa più influenti : la tv.

 

Arianna De Arcangelis

 

2016-06-12 12.17.44