Si conclude il processo tra Johnny Depp e Amber Heard: è vittoria per l’attore

Arrivato ieri l’esito finale del processo, seguito a livello internazionale, tra Johnny Depp e Amber Heard: la Heard, accusata di diffamazione nei confronti dell’ex marito, è stata condannata a pagare un risarcimento complessivo di 15 milioni di dollari.

Il processo

Dopo sei lunghe settimane di processo, iniziato l’11 aprile, presso Fairfax in Virginia, e conclusosi ieri, veniamo a sapere con certezza che il protagonista di “Pirati dei Caraibi” è stato realmente diffamato dall’ex moglie. Adesso, lei deve risarcire a Depp 15 milioni di dollari di cui 5 sono danni punitivi che vengono ridotti a 350mila dollari secondo la legge della Virginia. L’attore, però, non ne rimane esente: anche lui dovrà versare all’ex moglie un corrispettivo, seppur minore, pari a 2 milioni di dollari poiché l’avvocato di Depp aveva definito le accuse della Heard “una bufala”.

Durante il processo, si sono susseguite diverse testimonianze tra audio, video, messaggi. Tra queste vi erano degli audio in cui lei ammetteva di aver colpito Depp. Inoltre alla Heard sono stati diagnosticati il disturbo istrionico della personalità, il quale porta ad assumere un atteggiamento drammatico e a voler stare al centro dell’attenzione, e quello borderline per cui si hanno stati d’animo instabili.

Johnny Depp e Amber Heard durante il processo (Fonte: cosmopolitan.com)

L’articolo sul Washington Post

L’attore ha accusato di diffamazione l’ex moglie per aver affermato sul Washington Post di essere “un personaggio pubblico che rappresenta abusi domestici“. Nonostante il nome di Depp non sia mai comparso nell’articolo, è chiaro il riferimento a lui. Per lo stesso articolo Johnny Depp chiedeva 50 milioni di dollari per essere stato diffamato e aver avuto la carriera rovinata. Effettivamente, proprio a causa dell’articolo in questione, l’attore fu immediatamente cacciato dal cast di “Animali Fantastici“.

La Heard, dal canto suo, ha accusato l’ex marito di diffamazione per aver definito le sue accuse di abusi come “una bufala”. Per questo chiedeva 100 milioni di dollari.

La storia tra Johnny Depp e Amber Heard

Johnny Depp e Amber Heard si sono ritrovati insieme per la prima volta nel 2009 sul set del film “The Rum Diary”. Non è chiaro il periodo esatto in cui cominciarono a frequentarsi, ma nel 2012 si venne a sapere che la storia dell’attore con Vanessa Paradis si era conclusa. Due anni dopo, Amber Heard indossava un anello di fidanzamento durante un’intervista. Nel 2015 i due attori si sposarono prima nella casa di Depp a Los Angeles e successivamente alle Bahamas.

Il loro matrimonio, però, non fu affatto duraturo, al contrario viene descritto come uno dei più brevi  tra quelli delle star. Dopo 15 mesi, la Heard chiese il divorzio. Nello stesso periodo si presentò in tribunale mostrando un livido, sostenendo di aver subìto violenze fisiche da parte del marito. Così fece emanare un ordine restrittivo nei suoi confronti. Le pratiche del divorzio si sono concluse nel 2017 e da queste la Heard ha ottenuto 7 milioni di dollari che ha giurato avrebbe dato in beneficenza, cosa che poi non ha fatto. Due anni dopo è stato l’attore a denunciarla per diffamazione, adulterio e violenza domestica.

Johnny Depp e Amber Heard (Fonte: harisewell.com)

Il passato della Heard

Il passato della Heard non è esattamente “pulito”. L’attrice infatti venne accusata di violenza domestica nei confronti della sua ex compagna, la fotografa Tasya van Ree. Le due si trovavano in aeroporto e l’attrice avrebbe strattonato e colpito la ragazza, la quale, successivamente si sarebbe rivolta ad un agente. Amber Heard fu poi arrestata, ma l’accusa non ebbe lunga durata. L’attrice fu solo avvisata che se avesse fatto altro nei due anni successivi, il caso sarebbe stato riaperto.

Le testimonianze

Le testimonianze sono state fondamentali. L’ex compagna Vanessa Paradis ha preso le difese dell’attore:

“Johnny Depp è il padre dei miei due figli, è una persona sensibile, affettuosa e molto amata. E io credo con tutto il mio cuore che queste recenti accuse che gli vengono fatte sono oltraggiose. In tutti questi anni, da quando conosco Johnny, non è mai stato fisicamente violento nei miei confronti. Quello di cui si parla non sembra affatto lo stesso con cui ho convissuto per 14 meravigliosi anni.”

Anche la figlia, Lily Rose, nata dall’unione con Vanessa, si esprime a favore del padre:

“Mio padre è la persona più dolce che io conosca, è stato un meraviglioso papà per me e il mio fratellino e chiunque lo conosca dirà la stessa cosa.”

Anche la prima moglie di Depp, Lori Anne Allison, lo aveva difeso affermando di non credere minimamente a quanto detto dalla Heard.

Inoltre, Amber Heard aveva affermato che l’attore avesse spinto giù dalle scale anche l’ex fidanzata, Kate Moss, la quale ha subito smentito l’accusa.

Vanessa Paradis e Lily Rose (Fonte: pinterest.com)

Eleonora Bonarrigo

 

 

Don’t Look Up: un film che ci prende in giro (e a buon diritto)

Un film che critica la nostra società in maniera brillante. Adam McKay non smette di stupire – Voto UVM: 4/5

 

Le potenzialità di un film alle volte non incontrano limiti. È incredibile come la stessa pellicola possa essere guardata e giudicata con occhio diametralmente opposto in base alla forma mentis di persone appartenenti ad orientamenti politici o culturali diversi.

Tra chi “a sinistra” l’ha elogiato quale capolavoro sulla crisi climatica e chi invece, tra i repubblicani, no ne ha digerito i riferimenti alla politica di Trump, Don’t Look  Up, si è rivelato un film che ha letteralmente spaccato in due l’opinione pubblica, soprattutto quella americana. Proprio per questo noi di UniVersoMe, non potevamo rinunciare ad analizzarlo.

Trama

Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), una specializzanda di astrofisica, scopre un’enorme cometa, la cui traiettoria impatterà molto presto con la Terra causando l’estinzione di ogni forma di vita. La dottoressa. assieme al professor Randall Mindy, (Leonardo Di Caprio) sarà convocata immediatamente nello studio ovale del Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep).

Da qui in poi ha inizio il teatro dell’assurdo: le istituzioni ed i media non si preoccuperanno minimamente dell’imminente catastrofe, anzi non faranno altro che sminuire la vicenda e trattarla come se fosse una qualunque questione all’ordine del giorno.

Cast

Il cast della pellicola è di primissima qualità.

Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence danno vita ad un duo che funziona perfettamente. I loro personaggi sono gli unici a rendersi conto della terribile minaccia che incombe sulla Terra. Gli attori, calati interamente nei rispettivi ruoli, riescono perfettamente ad incarnare due scienziati impauriti che cercano con ogni mezzo di informare l’intera razza umana anche mettendo a nudo tutte le sue debolezze. Nonostante tutto, continueranno imperterriti nel proprio intento.

Il professor Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) e la dottoressa Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) in una scena del film

Allo stesso tempo, confusi e impacciati, i due personaggi riusciranno a conquistarsi l’empatia dello spettatore che per tutta la durata del film dovrà convivere con lo stato di nervosismo e di ansia provato dai protagonisti.

Meryl Streep interpreta il Presidente degli USA mettendo a segno – come sempre – un’interpretazione magistrale. Dà vita ad una creatura che si ciba di consensi, populista oltre ogni misura, insomma una vera e propria macchina politica. Si può quasi definire una rivalsa personale per l’attrice nei confronti di un noto presidente che l’aveva definita “sopravvalutata”.

Da segnalare anche le ottime interpretazioni di Jonah Hill nei panni di Jason Orlean (figlio della presidentessa) e del premio Oscar Mark Rylance in quelli di Peter Isherwell (una sorta di Steve Jobs o Elon Musk).

Stile Mckay

Il regista Adam Mckay, in passato, non si è fatto problemi ad affrontare con i suoi film tematiche delicate. Con La grande scommessa (2015) ha ripercorso le origini della crisi finanziaria del 2008, mentre con Vice – L’uomo nell’ombra (2018) ha raccontato la vita di Dick Cheney, il vice presidente di George W. Bush, uno degli individui più loschi della storia americana.

Rappresentare ed affrontare problematiche odierne quindi non lo intimorisce per nulla.

Il presidente degli USA Janie Orlean (Meryl Streep) in una scena del film

Come già fatto in passato, il regista è riuscito a identificare quale sia la causa di fenomeni negativi che interessano il mondo intero: l’operato umano.

I politici, i programmi Tv ed i cittadini stessi sono gli artefici di tutto ciò che accade in Don’t Look Up.

Ripudiamo la scienza per ascoltare  – e ammirare come pecorelle – chi sproloquia per soddisfare esclusivamente un interesse personale.

Una delle scene più emblematiche, a questo proposito, è quella in cui i due scienziati sono invitati in uno studio televisivo. Tanto per cominciare, il loro intervento viene messo in scaletta dopo l’apparizione di una famosa cantante (interpretata da Ariana Grande) che dà vita ad uno spettacolo super trash con il proprio ex compagno, spettacolo che tuttavia raccoglierà il picco massimo di spettatori della trasmissione. Solo dopo viene dato spazio alla questione della cometa, problematica affrontata con molta leggerezza, scherzandoci su e ridicolizzando la povera Kate Dibiasky. Quest’ultima, dopo aver provato a spiegare i pericoli cui la Terra sarebbe andata incontro, sclera divenendo lo zimbello del mondo di Internet.

Una storia raccontata in perfetto stile Mckay, unico nel suo genere: l’autore mira diretto al problema e lo mostra per quello che è senza usufruire di metafore o riferimenti esterni e raccontandone le conseguenze con un ritmo incalzante.

La locandina del film

 

Un film che va visto per ciò che è: un film. Non un attacco a una specifica frangia politica o una satira esagerata sui complottisti.

E’ solo una pellicola che ci apre gli occhi su cosa sia oggi la nostra società e lo fa in maniera brillante. Ci prende in giro ed è normale e giusto che sia così. Guardatelo, godetevi lo spettacolo e distogliete l’attenzione dalle guerre mediatiche condotte per accalappiare consensi inutili.

Vincenzo Barbera

 

Sam Raimi: una favola di regia

Nel corso della storia del cinema possiamo contare diversi esempi di uomini e donne capaci di imporre le proprie idee e farsi amare dal pubblico internazionale partendo da zero.

Compie oggi 62 anni Sam Raimi, regista che ha fatto la storia della settima arte imponendosi autonomamente in un settore estremamente ostico verso chi non possiede le conoscenza necessarie per poterci lavorare.

Noi di UniVersoMe vogliamo celebrarlo andando a ripercorrere le tappe più significative della sua carriera.

Le origini e la trilogia de La Casa

Alla base del successo del regista gioca un ruolo fondamentale l’amicizia con Bruce Campbell. I due si conoscono dai tempi della scuola e fin da adolescenti iniziano a girare dei cortometraggi con una cinepresa regalata a Sam dal padre.

Trascorrono gli anni e la passione per il cinema porta i due a fondare una propria società insieme a Robert Tapert (l’allora compagno di stanza d’università di Raimi): la Renaissance Pictures. Il primo film della nuova casa di produzione fu La Casa (1981).

La pellicola racconta di cinque ragazzi che si recano in uno chalet sito all’interno di un bosco per divertirsi. Qui vi trovano un libro scritto in sumero (il Necronomicon), mediante il quale involontariamente evocano un’entità maligna che li perseguiterà. Toccherà ad Ash Williams (Bruce Campbell) cercare di salvare se stesso e i suoi amici.

Una scena del film – Fonte: Renaissance Pictures

La Casa inizialmente venne accolto da pareri discordanti della critica e non ottenne particolare successo al botteghino. Nel corso degli anni però, grazie alla redistribuzione in home video, venne ampiamente rivalutato fino ad essere considerato uno dei cult movie a basso costo più amati della storia. A causa del budget bassissimo, Raimi dovette arrangiarsi parecchio durante le riprese: molti effetti speciali vennero creati con mezzi di fortuna sul set stesso.

Ciò che colpisce enormemente della regia è sicuramente l’utilizzo della telecamera nei momenti in cui l’entità si muove tra i boschi: il regista ha deciso di effettuare delle riprese in soggettiva del demone mentre insegue i ragazzi. Gli inseguimenti vengono mostrati dal punto di vista dell’entità grazie a una sorta di steadicam (creata dal regista stesso), montata su un supporto mobile che garantisce un movimento fluido e veloce della cinepresa. Il risultato è un effetto tremolante senza alcuna perdita di qualità dell’immagine.

Nel 1987 il regista gira una sorta di sequel/remake, intitolato La Casa 2, con Bruce Campbell nuovamente nei panni  di Ash Williams. Grazie alla distribuzione di Dino De Laurentis e ad un budget 10 volte superiore al film precedente, Raimi riesce a riproporre ciò che aveva già realizzato ne La Casa, innalzando esponenzialmente la qualità della pellicola.

Un elemento estremamente importante della pellicola è certamente l’aspetto del protagonista: Ash ad un certo punto del film è costretto ad amputarsi una mano e poi ad autoimpiantarsi una motosega per sostituirla. Con una mano-motosega da un lato ed un fucile dall’altro, diviene a tutti gli effetti un personaggio iconico nel panorama del genere horror. Un esempio di come Raimi riesca ad aggiungere particolari significativi alla trama che restano impressi in maniera indelebile nella mente dello spettatore.

Ash ed il suo amato braccio-motosega

Nel 1992 esce il seguito diretto de La Casa 2 intitolato L’armata delle tenebre, film visceralmente diverso dai precedenti.  Non ci troviamo più di fronte ad un horror con sprazzi di comicità, ma più propriamente davanti ad un fantasy che vede sempre Ash Williams catapultato nel medioevo dove dovrà fronteggiare le forze del male.

La trilogia di Spider-Man: rinascita del cinecomic

Dopo il successo della trilogia de La casa, arriva un’occasione più unica che rara per il regista: nel 2000 la Sony gli affida il compito di dirigere Spider-Man. Un momento significativo per la carriera di Raimi: se prima il regista aveva tutta la libertà del mondo per esprimere la sua creatività da cineasta senza particolari pressioni, ora si ritrova su un livello estremamente più elevato.

Impostando la pellicola come una sorta di commedia d’azione con spruzzi di romanticismo d’alta classe (il bacio tra Peter Parker e Mary Jane meriterebbe un intero articolo a parte!) e gag esilaranti, il regista gira un film che incassa 800 milioni di dollari.

Il famoso bacio tra Peter Parker (Tobey Maguire) e Mary Jane (Kirsten Dunst) – Fonte: Columbia Pictures/ Sony Pictures

Fino ad allora i film sui supereroi erano considerati B-movies e le grandi case di produzione – a parte rarissime eccezioni- non investivano in tali progetti. Spider-Man (2002) fu un salto nel buio per la Sony, che grazie a Raimi decise poi di girarne due seguiti dal medesimo stile (in Spider-Man 3 però non sono presenti gag degne di questo nome). Da lodare anche le brillanti interpretazioni di tutto il cast (presente anche l’amico Bruce Campbell in un cameo).

La trilogia di Spider Man trascina una mole gigantesca di persone in sala ad assistere a un film di supereroi, segnando la rinascita del cinecomic e l’inizio di un periodo d’oro per il genere che arriverà fino ai giorni nostri con le pellicole del Marvel Cinematic Universe.

Sam Raimi – Fonte: horrorstab.com

Raimi è un esempio lampante non solo di come si fa cinema, ma di come si possa creare qualcosa che abbia qualità in qualsiasi condizione. Senza soldi gira una pietra miliare del genere horror, con i soldi dà linfa vitale al genere cinematografico più redditizio di sempre. Chapeau Mr Raimi.

Vincenzo Barbera

 

 

Il genio della comicità

La comicità nel corso dei secoli ha assunto molteplici forme, ma da quella più spicciola a quella magari più ricercata, è sempre comunque capace di risollevare gli animi di ciascun individuo.

Uno dei suoi maestri e massimi esponenti, che ha creato uno stile che lo contraddistingue, è sicuramente Mel Brooks. In suo onore, noi di UniVersoMe andremo ad analizzare tre dei suoi film più divertenti.

Mel Brooks. Fonte: ilquotidiano.net

Frankenstein Junior (1974)

La parodia dei film horror per eccellenza. Con questa pellicola il regista ha voluto creare una sorta di “sequel parodistico” dell’originale Frankenstein di Mary Shelley.

Mel Brooks ha scelto di utilizzare le stesse locations ed i medesimi arnesi presenti negli storici film Frankenstein (1931) di James Whale ed Il figlio di Frankenstein (1939) di Rowland V. Lee, decidendo inoltre di girare il film interamente in bianco e nero così da ricrearne un’atmosfera dettagliatamente identica, in cui però raccontare la storia in chiave comica.

Le ambientazioni cupe, infatti, ci calano all’interno di quello che sembrerebbe essere un horror vecchio stile in piena regola, ma i dialoghi e le performances degli attori trasformano la pellicola in un gotico spettacolo che trasuda ironia da ogni poro.

Igor (Marty Feldman) ed il dottor Frederick von Frankenstein (Gene Wilder) – Fonte: medicinaonline.co

Gene Wilder nei panni del dottor Frederick von Frankenstein e Marty Feldman in quelli dell’aiutante Igor risultano fondamentali per la riuscita del progetto.

Wilder probabilmente è riuscito a mettere a segno la miglior interpretazione della sua carriera. Calatosi profondamente nella parte, dà vita ad un giovane dottore che inizialmente rinnega le sue radici, per poi seguire meticolosamente le orme del suo antenato e riuscire nell’impossibile; il tutto è condito da sguardi fulminanti e battute pronunciate seguendo una perfetta armonia nata grazie alla chimica instauratasi con un monumentale Marty Feldman.

Igor è ciò che resta indelebilmente impresso nella mente di chi guarda Frankenstein Junior. L’attore ha sfruttato a pieno ed in maniera estremamente intelligente alcune sue caratteristiche fisiche capaci di arricchire straordinariamente il personaggio. Le enormi palle degli occhi da un punto di vista macroscopico catturano l’attenzione dello spettatore; muovendole sapientemente e accompagnandole con delle microespressioni facciali, l’attore riesce ad interloquire con il proprio partner, creando costantemente un clima di assurdità anche nelle piccole cose e facendoci ridere a crepapelle. Per non parlare poi della gobba, che in alcune scene tende verso destra mentre in altre dalla parte opposta (ciò venne improvvisato dallo stesso Feldman ed approvato immediatamente dal regista).

La pazza storia del mondo (1981)

Il film descrive alcune tra le più significative epoche della storia dell’uomo in chiave profondamente parodistica.

La pellicola, a differenza di Frankenstein Junior ,venne disprezzata dalla critica, la quale rimproverò a Brooks di aver creato storie superficiali segnate da una scarsa comicità, basata esclusivamente sulla volgarità.

Tuttavia le ambientazioni vengono riprodotte fedelmente ed i dialoghi, seppur non allo stesso livello dei precedenti lavori del regista, presentano comunque una struttura ben solida anche se non risultano essere esilaranti.

Lo sketch dell’Inquisizione spagnola, dove Torquemada (interpretato da Mel Brooks stesso) si esibisce in un piccolo musical, è degno di essere considerato agli stessi livelli di uno spettacolo di Broadway.

Dracula morto e contento (1995)

Dopo Frankenstein, Mel Brooks decide di revisionare anche la storia del conte Dracula, in quello che è l’ultimo film della sua carriera cinematografica. Il risultato non è lontanamente paragonabile a quello del film del 1974, ma l’impronta del regista è tangibile per tutta la durata della pellicola.

Leslie Nielsen in una scena del film – Fonte: cultfollowingmedia.wordpress.com

Dialoghi ben scritti capaci di coinvolgere lo spettatore e di suscitare ilarità, gag esilaranti poste in essere soprattutto da un impacciato Dracula (interpretato egregiamente da Leslie Nielsen) ed ancora una volta l’impeccabile scenografia fanno da cornice ad un film tutto sommato divertente.

Da segnalare anche la presenza di Ezio Greggio all’interno del cast (in pochi sanno che ha avuto dei trascorsi ad Hollywood ed era un grande amico di Mel Brooks)

Non solo Frankenstein …

Film di Mel Brooks precedenti a Frankenstein Junior come: Per favore non toccate le vecchiette (pellicola del 1968 con la quale vinse anche un Oscar per la miglior sceneggiatura originale), Il mistero delle dodici sedie (1970) e Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) furono un successo sia a livello di pubblico che di critica.

Con Frankenstein il regista ha raggiunto il suo apice, per poi percorrere una parabola discendente con i film successivi. In realtà il pubblico è sempre rimasto legatissimo al regista, considerato un vero e proprio pioniere della comicità e, nonostante i pareri estremamente negativi – forse anche eccessividella critica nella seconda parte della sua carriera, ha continuato ad amarlo e a ridere con lui.

Qualche tempo fa venne organizzata una serata in onore di Mel Brooks, con l’esibizione di diversi attori che misero in scena alcuni dei suoi sketch più famosi. Al termine dell’esibizione, avvenne una lunghissima standing ovation per il regista e si alzò in piedi persino l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

Vincenzo Barbera

Lucifer: 48 ore alla nuova stagione

Finalmente ci siamo. Dopo quasi ormai un anno di attesa, la seconda parte della quinta stagione di Lucifer è alle porte.

Dobbiamo resistere 48h per gustarci i tanto desiderati nuovi episodi di una delle serie più avvincenti di Netflix.Nel frattempo, noi di Universome vogliamo rendere omaggio a Lucifer andando ad analizzare quelli che a nostro avviso sono i suoi punti di forza.

Il protagonista Lucifer Morningstar (Tom Ellis) – Fonte: nerdlog.it

Tom Ellis

L’attore britannico è l’elemento fondamentale su cui si articola quella macchina perfetta che è questa serie.

Ogni volta che appare Lucifer Morningstar (Tom Ellis) sullo schermo, tutto diventa secondario: lo spettatore volente o nolente viene letteralmente rapito dall’interprete grazie principalmente al suo incommensurabile charme ed al suo impagabile carisma.

Per ottenere questo risultato, Tom ha svolto un lavoro da attore di top di gamma.

Innanzitutto l’immedesimazione nel personaggio ovviamente è di primaria importanza ed è percepibile anche durante i “piani d’ascolto” (in gergo cinematografico, si ha un piano d’ascolto quando un interprete per l’appunto “ascolta” le battute del proprio partner). L’attore non recita solo quando parla, ma da quando parte il motore fino a tre secondi dopo la chiamata dello stop.

Nel corso di queste stagioni sono innumerevoli le scene girate tra Lucifer e la detective Chloe Decker (Lauren German).Prendete come esempio una di queste ed osservate costantemente Tom Ellis anche quando parla la collega: potrete notare sguardi, microespressioni e sorrisetti, emblematici del livello d’immedesimazione dell’attore.

Lucifer e Chloe – Fonte: telefilm-central.org

Altra caratteristica che rende il protagonista uno dei personaggi più amati dal pubblico internazionale è sicuramente il suo accento inglese.Ora, sentire Satana parlare come la regina Elisabetta è alquanto singolare, ma anche divertente. Specificatamente, la scelta del british aggiunge un tocco in più alla figura di Lucifer, donandogli quella classe necessaria per potersi porre continuamente in una condizione di superiorità con qualunque interlocutore.

Nella versione italiana logicamente questo discorso non vale a causa del doppiaggio, il quale comunque – come sempre – è di primissimo livello.

Tom Ellis ci ha regalato un personaggio straordinario, capace di far ridere, commuovere ed entusiasmare senza calare mai d’intensità. Certamente alcune stagioni sonoforse  meno avvincenti di altre, ma ciò non è di certo imputabile alle performances dell’attore.

Gli altri interpreti del cast hanno svolto fino ad oggi un lavoro encomiabile. E’ del tutto normale che dinnanzi ad un’interpretazione sontuosa come quella del protagonista si faccia fatica a spiccare singolarmente, ma recitare nel migliore dei modi, anche solo per favorire un collega, è sinonimo di grande professionalità.

Senza i coprotagonisti infatti, Tom Ellis non avrebbe potuto mostrare in toto il suo talento!

Sceneggiatura

La serie è ispirata ad un fumetto del 1989. Fin dalla prima stagione, la storia di Lucifer coinvolge profondamente lo spettatore. Ogni episodio racconta un caso diverso, portando avanti contemporaneamente la trama principale: ciò che affascina di più sono sicuramente le vicende personali e gli scontri celestiali tra i vari personaggi.

Lucifer ed il fratello Amenadiel (David Bryan Woodside) – Fonte: lucifer.fandom.com

Gli sceneggiatori sono stati estremamente abili soprattutto nel plasmare gradualmente la figura del diavolo, facendolo evolvere da un’entità maligna e terrificante ad un essere che è fortemente sensibile e sostanzialmente buono, ma eccessivamente vendicativo.

Viene ribaltata quindi la concezione biblica di Satana come l’incarnazione di ogni male che affligge la Terra, perché in Lucifer viene rappresentato come una vera e propria vittima traumatizzata dal suo passato, che cerca nel proprio inconscio una redenzione personale mediante l’aiuto della psicologa Linda Martin (Rachael Harris).

Lo spettatore arriverà addirittura ad empatizzare con il diavolo in persona!

Produzione

Pensare che Lucifer teoricamente doveva finire con l’ultimo episodio della terza stagione fa rabbrividire, considerando che tale stagione terminava con un cliffhanger ( un finale di stagione aperto e tale da lasciare i fan con il fiato sospeso) molto emozionante.

Le prime 3 stagioni erano prodotte dalla Fox, la quale, dato il calo di ascolti della terza stagione, a causa dell’eccessivo numero di episodi e quindi di una sceneggiatura inutilmente prolissa, aveva deciso di interrompere la serie.

La reazione dei fan era un po’ come quella di Lucifer e Mazikeen (Lesley-Ann Brandt) in foto – Fonte: tvline.com

Si scatenò una delle rivolte social più famose di sempre: il pubblico, accompagnato dall’intero cast capitanato da Tom Ellis in persona, fece partire l’hastag #savelucifer. Mamma Netflix decise di acquistare i diritti della serie e di produrre una nuova stagione riducendo la quantità di episodi per puntare maggiormente sulla qualità. Scelta vincente considerando che il pubblico ha richiesto a gran voce anche una quinta ed una sesta stagione che Netflix ha immediatamente prodotto.

Le aspettative sono altissime per questa prossima stagione. Molti nodi probabilmente verranno sciolti, mentre per altri dovremo aspettare l’ultimo capitolo (già le riprese sono state ultimate).

Gustiamoci lo show e speriamo di assistere nuovamente ad uno spettacolo mozzafiato.

Vincenzo Barbera

 

 

 

Oscar 2021: ecco cosa è successo nella notte più attesa dagli amanti del cinema

Gli Oscar di quest’anno sono stati senza dubbio inusuali rispetto agli standard soliti dell’Accademy: la cerimonia si è infatti svolta in differenti location, data l’impossibilità per molti dei protagonisti di viaggiare o anche solo di potersi riunire nella normale location del Dolby Theatre.

L’evento

La cerimonia si è infatti svolta in diverse sedi: il Dolby Theatre e la Union Station a Los Angeles, più svariati altri luoghi da cui gli attori hanno ricevuto i loro premi. Tutto ovviamente per assicurare il rispetto delle norme anti Covid e garantire allo stesso tempo la presenza fisica degli invitati alla cerimonia: la loro assenza è infatti costata cara ad altri eventi come i Golden Globe, che hanno visto più che dimezzato il proprio pubblico.

Il Dolby Theatre, tradizionale scenario della magica notte degli Oscar. Fonte: flickr.com, © 2016 American Broadcasting Companies

Un’altra innovazione rispetto ai precedenti anni è stato anche il ritmo dell’evento stesso, che si è rivelato essere molto più incentrato sui premi stessi: si è scelto infatti di eliminare le gag tra un premio e l’altro che costituivano prima parte integrante dello show, così come si è scelto anche di rivedere l’ordine delle premiazioni in sé: il miglior film è stato infatti eletto quasi all’inizio della serata in contrasto con la convenzione che lo vede come “portata finale”, persino in eventi che prendono gli Oscar ad esempio.

I film

I lungometraggi più importanti quest’anno sono senza alcun dubbio quelli candidati come miglior film: Nomadland racconta la storia dei nuovi nomadi americani, che colpiti dalla grave crisi economica del 2008 si ritrovano ad affrontare una nuova vita senza fissa dimora; The sound of metal racconta poi il tema della sordità di un musicista, Minari quello del pregiudizio razziale, mentre Mank e Una donna promettente raccontano rispettivamente la storia dello sceneggiatore di Quarto Potere e di una donna che porta avanti una vendetta per la violenza di cui è stata testimone.

I premi

Questa edizione ha visto come maggiori contendenti al più alto numero di statuette Netflix e Disney, che si sono alla fine spartiti tra loro due un totale di 12 premi, con Netflix che ha prevalso con  7 premi.

Importante caratteristica delle premiazioni di quest’anno è stata la grande inclusività: Chloé Zhao, regista di nazionalità cinese,  è stata la seconda donna nella storia dell’evento a vincere il premio come miglior regista; sono stati premiati anche Daniel Kaluuya come miglior attore non protagonista e il film Ma Rainey’s Black Bottom per miglior trucco e costumi, girato con un cast di personaggi interamente di colore. Ci si sarebbe aspettati anche un premio al compianto Chadwick Boseman, che è invece andato ad Anthony Hopkins eletto miglior attore protagonista per il film The Father. Anche il film Soul è stato eletto come miglior lungometraggio d’animazione avendo un protagonista di colore.

Anthony Hopkins, vincitore dell’Oscar come miglior attore protagonista per la sua interpretazione in “The father”. Fonte: flickr.com

Il premio più importante come miglior film è stato poi dato a Nomadland, come tra l’altro molti pronosticavano. Il film ha anche raccolto il premio alla miglior attrice, donato a Frances McDormand.

A completare i premi i due alla miglior sceneggiatura, Una donna promettente e The Father, quello ai miglior effetti special per Tenet, e quello per la miglior attrice non protagonista dato a Yoon Yeo-jeong per la sua performance nel film Minari. Nulla da fare invece per Laura Pausini, con il trionfo di Fight for You.

I protagonisti

Un altro elemento di rottura rispetto alle edizioni precedenti è stata la presenza di più conduttori della serata, diversamente dal singolo che di solito presenta sul palco: la cerimonia è stata fatta partire da Regina King e proseguita poi da attori come Brad Pitt e Harrison Ford, in continuazione della tradizione che vede i precedenti premi Oscar premiare i nuovi vincitori.

Chloe Zhao, vincitrice dell’Oscar “miglior regia” per “Nomadland”. Fonte: Vegafi, wikimedia.org

Oltre ciò però la serata ha sicuramente sancito per l’industria un ritorno che si speri continui con la riapertura delle sale, perché come ha anche detto Chloé Zhao questo medium vive nei cinema e sul grande schermo. Quella che stiamo vivendo deve limitarsi ad essere solo, per quanto lunga e dolorosa, una parentesi.

 

                   Matteo Mangano

Mank, affari da vecchia Hollywood

Un elegante “metafilm” che mette – forse – una pietra sopra le controversie legate al capolavoro “Quarto Potere” – Voto UVM: 4/5

Le vicende di Hollywood spesso nascondono delle storie avvincenti che soprattutto negli ultimi anni molti registi hanno deciso di raccontare.

Basta pensare a Once Upon a Time … in Hollywood (2019), L’ultima parola: la vera storia di Dalton Trumbo (2015) o Ave, Cesare! (2016) dove vengono rappresentati i meccanismi della vecchia Hollywood.

Il regista David Fincher ha deciso di entrare a far parte di questa lista con Mank (2020) ricostruendo la genesi di uno dei migliori film della storia del cinema: Quarto potere (1941). Proprio questa pellicola è stato inserito dall’American Film Institute al primo posto della AFI’s 100 Years… 100 Movies, ovvero la lista dei cento film americani più importanti di sempre, resistendo anche ai successivi aggiornamenti della classifica con film più recenti.

Oltre alle varie controversie legate alla genesi di Quarto Potere, ecco perché è valsa la pena girare (e vale la pena guardare) “un film su un film”.

La locandina del film – Fonte: netflix.com

Trama

Nel 1940 al drammaturgo e sceneggiatore Herman Mankiewicz, soprannominato da tutti “Mank” (Gary Oldman), viene commissionata la stesura del copione di Quarto potere direttamente da Orson Welles.

Il protagonista viene spedito in una casa di campagna così da non avere distrazioni durante il lavoro, che dovrà essere ultimato in soli 60 giorni. Oltre all’ostacolo del tempo fortemente limitato, il protagonista deve fare i conti anche con la propria gamba, infortunatasi in seguito ad un incidente stradale avvenuto pochi giorni prima, che lo obbliga a stare a letto.

Mank non è certo privo di compagnia in quanto viene assistito da un’infermiera e dalla propria dattilografa.

Una delle scene più emblematiche di Quarto potere – Fonte: lascimmiapensa.com

Nel corso del film vi sono dei lunghi flashback dove viene mostrata la sua vita durante gli anni 30.

Era un uomo estremamente colto, capace in pochi istanti di riuscire a sorprendere e di farsi apprezzare da personaggi illustri dell’epoca come Irving Thalberg, David O. Selznick, Marion Davies e molti altri.

Vengono mostrati anche gli incontri con il suo amato fratello Joseph, anch’egli sceneggiatore, ed il suo ufficio ai tempi in cui lavorava per la Paramount. Una volta concluso il copione Mank inizia a riflettere sul suo operato.

A causa del contratto sottoscritto con la produzione, lo sceneggiatore non potrà comparire nei titoli di coda di Quarto potere. Quando si accorge però di aver creato lo scritto migliore della sua vita si scontrerà con Orson Welles.

Cast

Di Gary Oldman abbiamo già avuto modo di parlare qui.

L’attore in questo film è stato calato in un universo all’interno del quale vige una perfetta armonia: gli impeccabili dialoghi scritti da uno straordinario Jack Fincher (padre del regista David) e le altre interpretazioni del cast hanno permesso a Gary  non solo di poter recitare serenamente ma anche di potersi spingere oltre.

Gary Oldman nei panni di Herman Mankiewicz – Fonte: ddatalent.com

Immedesimato al massimo nella parte, riesce nel dar vita ad un personaggio profondamente complesso.

Un uomo raffinato ed incredibilmente intelligente ma incapace di rinunciare ai vizi, che si sente in una trappola da lui costruita e nella quale ripara egli stesso ogni buco per poter fuggire.

Non a caso l’attore è candidato come miglior attore protagonista agli Oscar 2021.

Di primaria importanza anche la prova dell’attrice di Amanda Seyfried nei panni di Marion Davies la quale ha interpretato in maniera eccelsa la diva del cinema servendosi principalmente di una tecnica d’espressione facciale degna di nota.

Regia

Così come è stato per The Irishman (2019) di Martin Scorsese, ancora una volta è grazie solo ed esclusivamente all’intervento di Netflix se oggi possiamo assistere a questa pellicola.

Il progetto di Mank venne creato dal padre del regista Jack Fincher ed ultimato nel 2003, ma tutte le case di produzione lo rifiutarono (mentre ora è candidato a 10 Oscar).

David Fincher ha deciso di realizzare il film totalmente in bianco e nero e di adottare tecniche di ripresa ed inquadrature tipiche degli anni 30 per dar vita ad un’atmosfera fortemente retrò in cui lo spettatore si immedesima, calandosi maggiormente nella storia.

David Fincher e Gary Oldman sul set di Mank – Fonte: derzweifel.com

La struttura narrativa è fortemente ispirata a quella proprio di Quarto potere in quanto non segue uno schema lineare, bensì è caratterizzata da vari intervalli in cui sono stati montati i flashback del protagonista così da creare dei continui sbalzi temporali.

La storia raccontata in Mank è un misto tra eventi reali e fantasia.

L’assoluta verità sul ruolo che ebbe Orson Welles sulla stesura di Quarto potere non ci è pervenuta, ma ciò che ci è giunto fortunatamente è questa pellicola. Ogni amante del cinema si augura di vederne di simili il prima possibile.

Vincenzo Barbera

 

 

La stella polare del cinema: Stanley Kubrick

Oggi 22 anni fa ci lasciava colui che – dalla maggior parte degli amanti del cinema – è considerato il miglior regista di sempre.

Genio e sregolatezza, gentile ma maniacale, imprevedibile e audace, Stanley Kubrick ha incantato il pubblico e la critica mediante i suoi film.

Noi di UniVersoMe vogliamo rendergli omaggio andando ad analizzare tre dei suoi più grandi lavori.

Stanley Kubrick – Fonte: greenme.it

Arancia Meccanica (1971)

Kubrick in questa pellicola non ha fatto sconti a nessuno, infatti se c’era qualcosa di violento da mostrare lui lo ha enfatizzato.

Concentriamoci ad esempio sull’agghiacciante scena dello stupro.

Una delle azioni di per sé più vili che un individuo possa mai commettere, nel film viene rappresentata con tutta la brutalità tipica di questo malsano gesto e viene resa esponenzialmente ancor più disturbante dalle note di Singing in the rain cantate dal protagonista Alex DeLarge (Malcolm McDowell).

Originariamente l’attrice di questa scena era un’altra, la quale fortemente provata dall’intensità della scena e stremata dagli infiniti ciak girati dal regista (famoso per arrivare a girare una medesima scena anche 150 volte) decise di lasciare il ruolo ad Adrienne Corri.

La maniacalità di Stanley sul set per poter ottenere il massimo anche nei dettagli è una caratteristica che di certo lo contraddistingue dagli altri colleghi.

Dagli antefatti che precedono la scena dello stupro però emerge un altro elemento fondamentale del genio di Kubrick, ovvero il saper ascoltare il proprio istinto. Da copione infatti Alex non doveva cantare nulla inizialmente, poi proprio sul set al regista venne in mente di accompagnare musicalmente la scena dandole una vena maggiormente inquietante.

L’attore iniziò ad improvvisare la prima canzone che gli passò per la testa e così nacque una delle scene più iconiche della storia del cinema: il drugo stupra una donna mentre canticchia con disinvoltura come se fosse un’azione normale della sua quotidianità.

Il capo dei drughi Alex DeLarge (Malcolm McDowell) – Fonte: leitmovie.it

Il regista era solito  avere dei contrasti con gli attori sia perché cambiava continuamente i copioni (come in Shining) sia perché li costringeva ad effettuare gesta particolarmente pericolose.

Durante le sedute della cura Ludovico, Alex era obbligato a guardare scene di film assai violente sotto le note della sua amatissima Nona Sinfonia di Beethoven con gli occhi tenuti dolorosamente aperti da uno strano marchingegno.

L’attore è stato sottoposto realmente a quel trattamento ed il dottore che si vede nel film era un vero e proprio medico incaricato di inumidirgli i bulbi oculari mediante delle gocce, altrimenti sarebbe divenuto cieco (l’interprete comunque si ferì ad un occhio e perse la vista momentaneamente).

Il metodo è discutibile ma il risultato è certo: la sofferenza del personaggio non viene solo rappresentata ma viene anche provata dallo spettatore. Infine il montaggio di Arancia Meccanica, che da un punto di vista tecnico è impeccabile, permette di risaltare la comicità e l’enfasi in alcuni momenti cruciali della pellicola.

Shining (1980)

Alcuni elementi del lavoro di Kubrick in Shining li abbiamo già analizzati qui.

Molto spesso al giorno d’oggi purtroppo la pellicola viene declassata con la semplice motivazione che “non faccia così paura”.

Mettiamo subito in chiaro che non è un film ideato per spaventare, come un qualsiasi horror moderno pieno zeppo di jumpscare disseminati a caso ogni 2 minuti, ma è una pellicola basata sulla pazzia di un uomo che pian piano emerge fuori.

Ci sono certamente elementi paranormali e scene che comunque – tenendo conto dell’epoca in cui uscì la pellicola – hanno traumatizzato il pubblico, ma non è questo il tema centrale.

Jack Torrance (Jack Nicholson) leggermente indispettito – Fonte: lindiependente.it

Il regista con questo film ha creato un’opera d’arte della tensione. Le sequenze mostrate all’interno del film rappresentano perfettamente un’atmosfera carica di ansia e di imminente pericolo che, scena dopo scena, crescono sempre di più fino a culminare con lo sfogo violento del protagonista.

La scelta dei primi piani di un incredibile Jack Nicholson, le musiche ed i campi totali (una tipologia di inquadratura) costituiscono un patrimonio della cinematografia lasciatoci dal regista.

Full Metal Jacket (1987)

Penultima pellicola della breve filmografia di Kubrick.

Il film, basato sulla guerra del Vietnam, si articola in due parti: nella prima assistiamo agli esercizi ed ai metodi adottati dai marines americani per addestrare le truppe; nella seconda, ambientata sul fronte asiatico, viene rappresentata la crudeltà della guerra in sé per sé.

Il celebre sergente Hartman (Ronald Lee Ermey) mentre istruisce le nuove reclute – Fonte: gildavenezia.it

Accanto agli aspetti della vita militare, nel film vengono trattate tematiche psicologiche e viene lasciato ampio spazio a critiche sociali enormemente rilevanti soprattutto per l’epoca in cui venne proiettata la pellicola.

Kubrick tramite il film ha voluto esprimere la propria opinione sulla guerra, comunicandola con forte ironia mediante l’utilizzo del controsenso e proprio questo è uno dei punti di forza della pellicola.

Ad esempio la spilla raffigurante il simbolo della pace indossata dal protagonista Joker (Matthew Modine)  sulla propria uniforme mentre si trova al fronte, e la scelta delle musiche come Surfin Bird, che accompagna una sequenza di scene dopo una battaglia in cui vengono trasportati feriti, o la Marcia di Topolino, che i soldati cantano orgogliosamente alla fine del film.

 

Stanley Kubrick, per quanto possa essere stato particolare nei rapporti interpersonali, è riuscito a lavorare straordinariamente nel cinema basandosi su uno dei principi più rilevanti della civiltà: la libertà individuale.

Quando finiscono le pratiche burocratiche, per dar vita ad un progetto cinematografico bisogna necessariamente lasciare tutto lo spazio al regista senza interferire se non solo per fornire consigli. Solo in questo modo un cineasta può svolgere il suo lavoro e quindi concretamente raccontare una storia dal suo punto di vista.

Kubrick lo ha fatto e si è visto.

Vincenzo Barbera

Walk the line: musica e amore come medicine

“Walk The Line” è un biopic degno di nota. Racconta una storia di lotta contro se stessi e di quanto possa essere importante la musica, andando ad affrontare anche altre tematiche fondamentali per un artista – Voto UVM: 4/5

Oggi 89 anni fa nasceva una delle più celebri star della musica statunitense: Johnny Cash.

Ha conquistato il pubblico americano tramite canzoni che sono entrate a far parte di prestigiose Hall of Fame di generi diversi a testimonianza della sua poliedricità. Nonostante una vita travagliata, è riuscito a imporsi nel panorama musicale divenendo principalmente un’icona della musica country.

Johnny Cash con la sua chitarra- Fonte: arte.sky.it

Il film  Walk The Line ( Quando l’amore brucia l’anima) diretto da James Mangold ripercorre le tappe fondamentali della sua carriera.

Trama

Johnny (Joaquin Phoenix) è un bambino che vive in una fattoria dell’Arkansas. Un giorno mentre è a pesca, il fratello si ferisce con una sega e muore; di lì in avanti i rapporti tra Johnny ed il padre si incrineranno notevolmente.

Nel 1950 si arruola  nell’aviazione prestando servizio nella Germania dell’Ovest dove comincia a suonare la chitarra per diletto per poi tornare in patria qualche anno dopo dove sposa la sua fidanzata ed inizia a lavorare come venditore porta a porta per vivere. Tuttavia sente che gli manca un qualcosa. Infatti, durante una giornata di lavoro , passa davanti ad uno studio di registrazione e colto dall’ispirazione decide di fondare un gruppo.

Dopo un’audizione Johnny conquista Sam Phillips (Dallas Roberts), produttore musicale e proprietario della Sun Records, il quale gli fa sottoscrivere immediatamente un contratto ed incidere il suo primo disco: Cry! Cry! Cry!

Locandina del film – Fonte: tmdb.it-maku.com

Le canzoni iniziano ad essere tramesse in radio ed il cantante parte per un tour di primaria importanza: infatti alla tournée partecipano grandi artisti emergenti del calibro di Elvis Presley e Jerry Lee Lewis e proprio in questo periodo il nostro protagonista conosce la bellissima cantante June Carter (Reese Whiterspoon) della quale si innamora perdutamente.

Tra alti e bassi, droga e carcere, Johnny non perderà mai il suo amore per la musica (e per June) e nonostante tutte le peripezie diventerà una delle più grandi star americane.

Regia

Il regista James Mangold ha voluto raccontare la storia di Johnny Cash improntandola fortemente sul lato umano.

L’amore è sicuramente uno dei temi principali della pellicola oltre- ovviamente- alla musica. E’ infatti proprio grazie a questo sentimento nei confronti di June che il protagonista trova la forza per reagire a qualsiasi problematica e spingersi oltre raggiungendo altissimi livelli.

Johnny Cash (Joaquin Phoenix) e June Carter (Reese Witherspoon) – Fonte: pinterest.it

Mangold stesso ha dichiarato di essersi emozionato quando durante uno dei suoi ultimi incontri con il vero Johnny Cash gli chiese quale fosse il suo film preferito, ed il cantante rispose:

Frankenstein. Perché è la storia di un uomo composto da parti marce. Una specie di oscurità. E contro la sua stessa natura… continuò a lottare per essere buono.

Forse un po’ severo con se stesso, ma sostanzialmente questo concetto si avvicina a quel che era Johnny. Il cantante, come riportato nel film, per un periodo è stato fortemente dipendente dalla droga che gli ha causato gravi problemi sia nelle relazioni sia a livello legale (di fatti è stato in carcere). Un uomo che sicuramente ha sbagliato, ma definirlo un mostro risulterebbe esagerato.

Comunque, la definizione di Frankenstein in parte esprime perfettamente la sua natura: anche se Johnny Cash non si riteneva una brava persona, ha cercato comunque di fare del bene come quando nel 1968 tenne un concerto alla prigione di Folsom per i suoi detenuti e inoltre prese in giro il direttore del carcere che li maltrattava (il regista ha deciso di chiudere il film proprio con questa scena meravigliosa sulle note di una delle sue canzoni più belle, Cocaine Blues).

Cast

Joaquin Phoenix nei panni di Johnny Cash è- come al solito- monumentale ( della sua interpretazione in Joker abbiamo già parlato qui). Fortemente calato all’interno del personaggio, l’attore, mediante lo sguardo, esprime un costante stato di preoccupazione ed ansia con cui il protagonista convive a causa della sua vita tormentata.

Scena del film in cui Johnny si esibisce per i detenuti – Fonte: themacguffin.it

Le canzoni sono interpretate da Joaquin stesso, così come quelle di June Carter da Reese Whiterspoon. Incredibile la chimica instauratasi tra i due attori, in particolare quando si esibiscono sul palcoscenico: nella realtà ciò era scontato dato che i cantanti si amavano; nel film i due interpreti sono riusciti perfettamente a rappresentare quella stessa armonia.

A livello di critica la pellicola fu un successo enorme, tanto che riuscì ad aggiudicarsi 3 Golden Globes e ben 5 nomination agli Oscar del 2006 (vincendone solo uno con Reese Whiterspoon per la Miglior Attrice Protagonista).

Un film veramente piacevole da guardare che rende onore ad un grande artista e ci comunica la forza reale dell’amore e della perseveranza, perché senza quest’ultime Johnny non avrebbe mai e poi mai sfondato nella musica.

Vincenzo Barbera

 

 

Hammamet: quando Favino supera sé stesso

Un film su un politico che non è assolutamente politico. Pregi e difetti per la pellicola sugli ultimi anni di Craxi – Voto UVM: 3/5

Ci sono uomini che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia del nostro Paese.

Chiunque ha diritto di dedicarli un libro, un quadro o un film. Fondamentale è però giudicare l’opera in sé e per sé, senza farsi condizionare da ciò che il protagonista ha fatto nel corso della sua vita.

In occasione dell’anniversario della morte di Bettino Craxi, recensiamo il film Hammamet (2020) di Gianni Amelio.

La locandina del film – Fonte: screenweek.it

Trama

La pellicola narra gli ultimi mesi di vita di Craxi. Il segretario del PSI (Partito socialista italiano) in seguito allo scandalo di Mani Pulite si è rifugiato con la famiglia in Tunisia, dove vive all’interno di una lussuosa villa sotto la protezione del dittatore Ben Ali.

L’ex presidente del consiglio conduce una vita normale: si preoccupa di badare al nipotino, riflette sul difficile rapporto che da sempre ha avuto con il figlio e fa trascrivere le sue memorie. Nonostante l’età che avanza ed una forma grave di diabete, continua a seguire con molta attenzione tutto ciò che accade in Italia.

Una notte un ragazzo si introduce furtivamente nella villa, ma viene tempestivamente catturato. Craxi riconosce che costui era Fausto, il figlio di Vincenzo Sartori (uno sei suoi uomini più fidati ai tempi della politica e morto in seguito a tangentopoli). Tra i due si instaura un profondo legame: infatti, trascorrono gran parte delle giornate a fare delle passeggiate per le strade tunisine, durante le quali il ragazzo filma Craxi mentre racconta aneddoti ed esprime i suoi pensieri.

La volontà reale di Fausto è però quella di uccidere Craxi: infatti, compra una pistola che nasconde nel proprio zaino.

Craxi (Pierfrancesco Favino) e Fausto (Luca Filippi) in una scena del film – Fonte: panorama.it

Un giorno Bettino gli rivela di essere sempre stato a conoscenza dell’arma e gli propone un patto: se lo avesse lasciato in vita, lui gli avrebbe comunicato informazioni talmente importanti da poter far venir meno l’assetto politico del Paese. Fausto accetta e dopo averlo ripreso per un’ultima volta sparisce.

In seguito l’ex Presidente riceverà altre due visite: quella di un ex amante e quella di uno dei suoi più grandi rivali politici, mentre il diabete  nel frattempo si è aggravato e la sua salute viene ulteriormente ostacolata dalla comparsa di un tumore ad un rene. Difficilmente operabile in Tunisia, la famiglia decide di tornare in Italia nonostante il forte rischio di essere scoperti e quindi di far arrestare Bettino.

Tuttavia al momento di prende l’aereo Craxi ci ripensa e si fa operare in Africa. Pochi giorni dopo l’operazione viene colto da un infarto che si rivelerà fatale.

Il film si chiude con Anita (la figlia di Craxi) che va a trovare Fausto in una clinica psichiatrica, il quale le consegnerà le registrazioni effettuate in Tunisia.

Regia

Qualsiasi critica socio-politica che si possa avanzare nei confronti di Hammamet, la lasciamo a chi non si occupa di cinema. Il regista ha scelto di raccontare la storia di Craxi da un punto di vista prettamente umano.

Il film si sofferma sugli aspetti della vita quotidiana di un uomo anziano, mostrando tutte le difficoltà causate dall’età che avanza e dal progredire della malattia.

Vengono messe a nudo tutte le paure ed i rimorsi dell’ex Presidente che, per quanto possa essere stato incredibilmente potente, è semplicemente un essere umano.

Pierfrancesco Favino ed il regista Gianni Amelio sul set – Fonte: ilriformista.it

Punto di forza della pellicola sono sicuramente le inquadrature scelte dal regista durante i dialoghi: il continuo alternarsi tra i primi piani rende partecipe lo spettatore alle acute ed articolate discussioni tra gli attori.

Tuttavia il film presenta dei momenti di vuoto puro che rallentano il racconto in maniera del tutto insensata e a tratti il film risulta essere profondamente noioso.

Favino

Ciò che rende Hammamet uno dei film italiani migliori del 2020 è obiettivamente la sontuosa interpretazione di Pierfrancesco Favino.

La voce è il primo elemento a rendere la prova d’attore encomiabile, anche se la prima cosa che effettivamente stupisce è la strabiliante somiglianza tra Favino e Craxi, ma di ciò se ne deve dare atto giustamente ai truccatori.

Pierfrancesco riesce a riprodurre fedelmente ogni singola lettera esattamente come veniva pronunciata dal Presidente, riproponendone anche l’autorità e la dialettica – caratteristiche che contraddistinguevano Craxi nei suoi interventi – in modo impeccabile.

Pierfrancesco Favino e Bettino Craxi – Fonte: faige.it

Da un punto di vista tecnico l’interprete è riuscito inoltre a rappresentare le movenze tipiche di un uomo anziano. Questi due elementi sono di per sé sufficienti a provare la realisticità dell’interpretazione.

Favino però va oltre questo concetto facendo uso dello strumento che più di tutti è capace di distinguere un fuoriclasse da un attore medio. Gli occhi di Pierfrancesco rispecchiano l’anima del personaggio e ci permettono di capire quanto sia stato elevato il suo livello di immedesimazione.

Favino non ci fa vedere un attore che interpreta Craxi, ma semplicemente, Craxi.

 

In conclusione, il film ha ricevuto critiche miste: come abbiamo potuto osservare anche noi, la pellicola presenta infatti pregi e difetti.

L’importante nel cinema, come in qualsiasi altra forma d’arte, è giudicare il prodotto per come è fatto (oggettivamente) e per quello che suscita in noi (soggettivamente). Politicamente? In separata sede.

Vincenzo Barbera