Attentato a Mosca: l’ISIS-K rivendica la strage

Lo scorso venerdì quattro uomini armati di fucili automatici, coltelli e armi incendiarie hanno fatto irruzione al Crocus City Hall di Mosca, uccidendo più di 130 persone e ferendone centinaia. La sala concerti si preparava ad ospitare una famosa rock band dell’era sovietica e ancora attiva, i Picnic. Non si conosce l’esatto numero di presenti al momento dell’attentato, ma i biglietti venduti sono stati più di seimila. Gli attentatori hanno sparato sulla folla cercando di uccidere quante più persone possibili. Successivamente hanno dato fuoco alla struttura causando il cedimento parziale del tetto.

I responsabili della strage

L’attacco è stato rivendicato nelle ore successive dall’ISIS-K, il braccio afghano dello Stato Islamico della Siria e dell’Iraq (ISIS): attraverso un comunicato rilasciato su diversi canali Telegram della forza jihadista, allegando poi filmati ripresi dalle bodycam indossate dagli attentatori. Nei video si sentono parlare gli uomini in arabo e tagiko, mentre infieriscono con armi da taglio e da fuoco sui corpi dei feriti.

Le forze armate russe hanno arrestato i quattro attentatori e altre sette persone coinvolte probabilmente nell’organizzazione dell’attacco. I quattro esecutori stavano fuggendo su una Renault bianca verso il confine bielorusso. In seguito all’arresto, le forze armate hanno torturato i sospettati con pestaggi e mutilazioni, condividendo i filmati su diversi canali Telegram. Si vedono uomini dai volti tumefatti e sanguinanti, alcuni in sedia a rotelle o con il volto coperto da un sacchetto. Ad alcuni di loro è stato persino tagliato un orecchio.

L’attentato è avvenuto due settimane dopo l’allarme lanciato dall’ambasciata statunitense in Russia, che aveva suggerito ai propri connazionali di evitare assembramenti nelle quarantotto ore successive. Il preavviso era stato giudicato da Putin e dalle autorità russe come “allarmismo” da parte dell’Occidente, intento a indebolire la Russia. Quest’ultima inoltre aveva già nelle precedenti settimane neutralizzato alcune cellule terroristiche: una di queste stava progettando un attacco in una sinagoga di Kaluga (vicino Mosca), poi sventato.

Il tetto della sala concerti collassato dopo l’incendio (Wikimedia)

Da dove viene l’ISIS-K

Sebbene l’ISIS sia ormai conosciuto in Occidente, specie a causa dei diversi attentati condotti in Europa (fra cui quelli di Parigi del 2015), la sua costola afghana ISIS-K gode di minor fama. La lettera “K” sta per Khorasan, una provincia compresa fra Afghanistan, Pakistan e Iran, dove il gruppo si è inizialmente strutturato.

Il primo nucleo dell’ISIS-K era composto da alcuni talebani pakistani fuggiti dal Pakistan per rifugiarsi in Afghanistan. Fra questi vi era il fondatore Hafid Saeed Khan, il quale giurò fedeltà all’allora neonato Stato Islamico di Siria e Iraq, ottendendo finanziamenti e uomini. Per anni il gruppo è rimasto all’ombra del suo corrispettivo siriano e iracheno, ma a partire dal 2020 diversi eventi e situazioni ne hanno consentito una notevole crescita. Fra questi spicca il ridimensionamento dell’ISIS in Siria e Iraq, combattuto dalle forze governative di Assad (sostenuto dalla Russia). Inoltre la ritirata degli statunitensi dall’Afghanistan ha lasciato il paese nelle mani dei soli talebani, più deboli nei confronti di uno Stato Islamico sempre più forte.

Forze armate afghane contro l’ISIS-K (DVIDS)

Perché la Russia?

Nonostante l’ISIS-K condivida con alcune organizzazioni terroristiche e paesi islamici la radicale applicazione della sharia, si trova in conflitto con molti dei loro vicini. Sono nemici degli iraniani, poiché quest’ultimi sono sciiti. Ma sono anche nemici dei talebani e al Qaida (protetta dai talebani), sebbene questi siano sunniti. Le aspirazioni jihadiste di questi ultimi due gruppi sono infatti ritenute troppo tiepide dall’ISIS-K. Lo scopo esistenziale dello Stato Islamico è la costituzione di un califfato che vada oltre i confini afghani, per il cui successo qualsiasi metodo è ritenuto accettabile. Non si fa distinzione fra i nemici del califfato, siano essi «ebrei, cristiani, atei, sciiti, apostati e tutti gli infedeli del mondo».

Negli ultimi anni l’ISIS-K ha preso di mira la Russia. I jihadisti stanno cercando di usare la guerra russo-ucraina a scopo propagandistico, descrivendola agli occhi dei loro seguaci come un conflitto di “crociati contro crociati”. In tal modo tentano di attrarre più miliziani incitandoli all’odio e alla violenza contro Mosca, ritenuta responsabile di diverse stragi di musulmani. In particolar modo vogliono vendicare eventi come l’invasione sovietica dell’Afghanistan degli anni ’80, la repressione dei separatisti Ceceni e l’appoggio al regime di Assad in Siria contro le forze ribelli (fra cui l’ISIS).

Soldati russi in Cecenia (Wikimedia)

Le reazioni del Cremlino

Nel suo messaggio alla nazione Putin non ha mai citato lo Stato Islamico. Nei giorni seguenti ha riconosciuto i jihadisti come esecutori, ma sottolineando un presunto coinvolgimento ucraino. Questo si baserebbe su una presunta “finestra sul confine ucraino” attraverso la quale fuggire. Tuttavia non esiste nessuna prova a supporto.

Sembra che il Cremlino cerchi un pretesto per aumentare gli attacchi contro l’Ucraina. Vorrebbe poi distogliere l’attenzione interna dalle falle della sicurezza russa: il governo ha minimizzato l’allarme americano, i soccorsi sono stati disorganizzati secondo alcune fonti e gli attentatori sono stati persino in grado di fuggire dal luogo della strage.

Vladimir Putin durante il discorso alla nazione (Wikimedia)

Francesco D’Anna

Ucciso dai talebani il leader dell’Isis-K che pianificò l’attentato all’aeroporto di Kabul

I talebani hanno ucciso il leader dell’Isis-k, fazione dell’Isis attiva in Afghanistan, che ideò e pianificò l’attentato terroristico suicida all’aeroporto di Kabul del 26 agosto 2021. Talebani e Isis sono in guerra da tempo e spesso si scontrano, soprattutto da quando le forze armate americane hanno lasciato l’Afghanistan.

È ciò che riporta il New York Times, che attraverso diverse fonti ha dichiarato che l’Intelligence americana afferma senza dubbio che la mente dietro l’attacco all’aeroporto di Kabul è stata uccisa.

Uccisione del leader dell’Isis-k

Secondo l’Intelligence americana l’uccisione sarebbe avvenuta nei primi di aprile durante un’operazione dei talebani in Afghanistan. L’addetto stampa del Pentagono, il generale Patrick Ryder, ha voluto precisare che gli Stati Uniti non sono stati coinvolti, in alcun modo, in questa operazione.

Le autorità americane però, non hanno comunicato il nome del leader. Il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale, John Kirby lo ha definito “solo” come: “La mente dell’orribile attacco” dichiarando in un comunicato:

Era un leader chiave dello Stato islamico che non sarà più in grado di pianificare o compiere attentati

Si ricorda che fra le vittime dell’attentato c’erano 13 militari americani.

Non sono stati forniti neanche i dettagli dell’operazione.  Infatti, non si conoscono le dinamiche del fatto, in particolare: se è stato ucciso in un attacco mirato o se è morto in uno scontro armato tra i due gruppi.

L’Amministrazione Biden sta chiamando le famiglie delle 13 vittime americane, uccise nell’attentato suicida a Kabul, per comunicare loro ciò che è avvenuto.

Non ci hanno dato il suo nome, non mi hanno riferito i dettagli dell’operazione

Ha dichiarato Darin Hoover, padre del marine Taylor Hoover, vittima dell’attentato. Molto amareggiato ha inoltre dichiarato che la morte dell’assassino di suo figlio porta poco conforto e che lui e sua moglie hanno trascorso l’ultimo anno e mezzo piangendo, pregando e chiedendo giustizia sottolineando la responsabilità dell’amministrazione Biden nella gestione del ritiro.

Ma cosa era accaduto nell’agosto del 2021?

Attentato Terroristico suicida del 26 agosto 2021

 

Immagine tratta da un video rilasciato dal Dipartimento della Difesa che mostra i marines statunitensi all’aeroporto di Kabul prima dell’attentato. Fonte: New York Times

Nell’attacco suicida compiuto il 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul alle 17:50 ora locale, furono uccise più di 180 persone, fra cui : civili, militari statunitensi e membri dei talebani.

L’attentato avvenne dopo pochi giorni dalla riconquista del potere da parte dei Talebani in Afghanistan. Proprio per questo l’aeroporto era pieno di persone che cercavano di scappare dal paese dopo il ritiro delle forze armate americane. Stati Uniti e Regno Unito avevano cercato di avvertire i propri cittadini di stare lontano dall’aeroporto perché alto era il pericolo di attentati ma la disperazione, delusione e paura per quanto stava accadendo era troppa. L’attacco fu compiuto da un attentatore che si fece esplodere accanto a Abbey Gate, l’accesso dell’aeroporto del lato orientale. L’attentatore venne poi identificato: Abdul Rahman Al-Logari. L’atto venne subito rivendicato dall’Isis-K.

Qui il video con le immagini dei momenti successivi all’esplosione:

https://www.rainews.it/video/2023/04/casa-bianca-la-mente-dell-attacco-aeroporto-kabul-ucciso-dai-talebani-e0d11e75-ee57-4dd8-bf13-e179c6619c38.html

Critiche all’Amministrazione Biden

Molte sono le critiche mosse nei confronti dell’Amministrazione Biden a seguito del ritiro delle truppe americane. Nell’agosto del 2021, dopo tale decisione, il Presidente USA ha dichiarato:

 “La nostra missione in Afghanistan non è mai stata pensata per costruire una nazione“ rispondendo alle critiche sul ritiro delle forze armate americane dopo vent’anni in Afghanistan. Ha inoltre riconosciuto che l’Afghanistan è caduto “ più rapidamente del previsto” ma dichiara di non essersi pentito della sua scelta.

  “Sono profondamente rattristato da ciò che stiamo affrontando, ma non sono pentito della decisione. Io non posso e non chiederò ai nostri soldati di combattere una infinita guerra civile in un altro Paese”.

Ciò che è stato criticato non riguarda solo la decisione in quanto tale, affermando come siano stati sottovalutati tutti i rischi ad essa connessi ma anche la gestione e le modalità del ritiro.

Dopo pochi giorni da queste dichiarazioni si è verificato l’attentato all’aeroporto di Kabul.

A seguito del ritiro delle truppe americane tutto il mondo assiste ad una continua violazione, repressione, soppressione dei diritti umani. Le donne afgane, la popolazione afgana vive un incubo senza fine.

 

Marta Zanghì

Attacco terroristico a Instanbul. Erdogan: “Vile attentato”

Domenica di terrore nel cuore di Istanbul: attorno alle 16:20 (le 14:20 in Italia) una forte esplosione in Istiklal Avenue – trafficata via dello shopping del centro città – ha causato almeno 6 morti e 81 feriti, di cui 2 in gravi condizioni. Tuttavia, si dice che il bilancio dell’accaduto sia destinato ad aggravarsi e che, nonostante non siano ancora ben chiare le dinamiche, le autorità di Ankara abbiano confermato la pista terroristica: probabilmente una bomba lasciata a terra in una borsa da una donna, oppure un vero e proprio attacco kamikaze. D’altronde il 13 novembre è da diversi anni una data difficile da dimenticare.

Istiklal Caddesi, la strada dell’attentato. Fonte: Corriere

Ad ogni modo, il ministro della Giustizia Bekir Bozdağ ha annunciato che la Procura nazionale ha già aperto un’indagine, mentre la via dove si è verificata l’esplosione è stata chiusa. Oltre ai soccorritori, alla polizia e ai vigili del fuoco, è arrivato sul posto anche il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu.

L’esito delle prime indagini

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha definito quanto accaduto «un vile attentato»:

«Forse sarebbe sbagliato dire che si tratta di terrorismo, ma i primi sviluppi, le prime informazioni che il mio governatore ci ha fornito, mi dicono che c’è odore di terrorismo qui».

Fonte: Sicilia Report

Il sito web di notizie turco Mynet ha riferito che le forze di sicurezza stanno analizzando i filmati delle telecamere di sicurezza per determinare dove sarebbe stata collocata la borsa piena di esplosivo.
Secondo il vicepresidente Fuat Oktay, a compiere l’attentato è stata una donna kamikaze. «Lo consideriamo», ha detto, «un attacco terroristico provocato da una bomba fatta esplodere da un assalitore che, secondo le informazioni preliminari, sarebbe una donna». I media turchi hanno già pubblicato una foto della sospettata, anche se il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha spiegato che la borsa che trasportava sarebbe potuta esplodere anche a distanza con un telecomando. In ogni caso, una donna è di per certo rimasta seduta in panchina per 40 minuti e poi si è alzata in piedi; l’esplosione è avvenuta 1 o 2 minuti dopo.

Una donna kamikaze dietro l’attentato. Fonte: ANSA

Diversi sono i video che stanno circolando nelle ultime ore sui social: uno in particolare, ripreso da una telecamera di sicurezza, mostra l’esplosione e gli istanti successivi da molto vicino, con forti botti, fiamme divampanti e centinaia di persone che fuggono. Dopo l’esplosione e poco prima di partire per il G20 di Bali, il presidente Erdoğan ha dunque parlato di un «attentato dinamitardo», aggiungendo che i tentativi di conquistare la Turchia con il terrorismo «non avranno buon fine né oggi né domani, come non lo hanno avuto ieri».

In Turchia torna il terrore

C’è un motivo se si è subito pensato al terrorismo come causa dell’esplosione, giacché la Turchia ha un precedente sanguinoso: tra il 2015 e il 2017 il Paese, situato a metà strada tra Europa e Asia, è stato infatti teatro di attentati, ad opera dell’Isis e di altri gruppi terroristici.

Ritenuti i più sanguinosi mai avvenuti nella storia della Turchia, la serie di attentati di Ankara del 10 ottobre 2015 sono stati compiuti da terroristi affiliati all’autoproclamato Stato Islamico. La mattina di sabato 10 ottobre, alle 10:04, due kamikaze, vicini all’Isis, si sono fatti esplodere nella piazza centrale di Ankara, antistante la stazione, dove si stava tenendo un corteo per la pace con i curdi, in opposizione alle politiche del presidente Tayyip Erdogan. Allora l’attacco aveva ucciso ben 103 persone, oltre a ferirne più di 245. Dopo gli attentati, la città di Ankara ribattezzò la piazza della stazione, dandole il nome di piazza della Democrazia.

La gente guarda mentre la sicurezza e i medici esaminano la scena in seguito all’esplosione alla stazione ferroviaria principale della capitale turca Ankara, il 10 ottobre 2015. Fonte: Internazionale.it

Ma la scia di sangue proseguì anche dopo di allora. Qui di seguito è riportata una lista degli attentati più gravi in Turchia:
12 gennaio 2016 – Sultanahmet, Istanbul: kamikaze contro i turisti. Dodici i morti tra cui 11 tedeschi e un peruviano;

19 marzo 2016 – Via Istiklal, Istanbul: un attentatore suicida, un turco che si era unito all’Isis in Siria, si fa esplodere nella via dello shopping. Muoiono cinque civili, tutti stranieri;

20 giugno 2016 – Gaziantep (est): un ragazzino con un giubbotto riempito di esplosivo si fa esplodere ad un matrimonio di curdi uccidendo 57 persone;

28 giugno 2016 – Istanbul: tre uomini armati (due russi e un kirghizo) con addosso cinture esplosive attaccano il terminal internazionale dell’aeroporto Ataturk. Due di loro si fanno esplodere, l’altro viene ucciso dalla polizia prima di azionare il detonatore. I morti sono 44, per lo più stranieri;

1° gennaio 2017 – Istanbul, Ortakoy: un uomo armato apre il fuoco contro i frequentatori del nightclub Reina, dove si celebra il Capodanno. Trentanove persone muoiono. Questo è il solo attacco rivendicato ufficialmente dall’Isis.

I messaggi di cordoglio di Meloni, Tajani e Zelensky

L’Italia, così come anche diverse altri Paesi, non è rimasta indifferente dinanzi a delle terribili immagini che hanno avuto la prontezza di immortalare minuti fatali di panico e morte in una nazione facente parte dell’Unione Europea dal 2005:

«Sono terribili le immagini di Istanbul, voglio esprimere le nostre più sentite condoglianze alla Turchia per l’attentato subito e la morte di cittadini innocenti», ha affermato la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Attentato Istanbul, Tajani. Fonte: Il Messaggero

Più loquace e ardito l’intervento del ministro degli Esteri, Antonio Tajani:

«L’Italia condanna con la massima fermezza il vile attentato che ha sconvolto oggi la città di Istanbul. Nell’esprimere solidarietà alle famiglie delle persone colpite e auguri di pronta guarigione ai feriti, l’Italia riafferma la sua vicinanza alle istituzioni e al popolo turco e ribadisce, nel giorno dell’anniversario della strage del Bataclan, il suo risoluto impegno nella lotta al terrorismo. Il Consolato Generale, in stretto raccordo con l’Unità di Crisi, si è immediatamente attivato per verificare l’eventuale coinvolgimento di connazionali. Al momento non risultano italiani né tra le vittime né tra i feriti».

Su Twitter, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha scritto:

«È con profonda tristezza che ho appreso del numero significativo di morti e feriti durante l’esplosione avvenuta a Istanbul. Esprimo le mie condoglianze ai parenti dei morti e auguro una pronta guarigione ai feriti. Il dolore del cordiale popolo turco è il nostro dolore».

“Divieto di trasmissione” per un terrorismo che non passa

L’emittente statale turca RTÜK ha annunciato che, in seguito all’esplosione, tutti i media del paese sono soggetti a un «divieto di trasmissione» in base a una legge approvata di recente che punisce severamente la diffusione di informazioni false sui giornali e su Internet: per questo le notizie che stanno circolando sull’evento non sono moltissime.

Ma non sono necessarie molte informazioni per proiettare il singolo episodio all’interno di uno scenario tanto ampio quanto avvilente: anche in Turchia c’è un passato che non passa e si accompagna ad antiche vicende e nuovi problemi, dalla questione curda alla guerra di Siria. Il terrorismo costituisce ancora una sanguinosa variabile dell’attualità turca.

Gaia Cautela

Sergio Mattarella, il primo Presidente della Repubblica siciliano

Amato dagli italiani per l’autorevolezza di “pater familias” manifestata al potere e il profilo basso tenuto nella guida della sua altissima carica, Sergio Mattarella chiude il settennato che, a dispetto della sua immagine di uomo restio ai conflitti, è stato tra i più complessi della storia repubblicana.

Tra i personaggi pubblici del nostro tempo è forse il più schivo, probabilmente il meno portato a raccontarsi, a farsi pubblicità; l’Anti-Narciso per eccellenza.

Nel corso della sua vita ha maturato un’esperienza straordinaria come servitore delle istituzioni, eppure dell’uomo Mattarella poco si conosce. In questo articolo ripercorriamo i momenti salienti della vita -precedente alla sua prima elezione alla Camera– del primo Presidente della Repubblica siciliano.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – Fonte: varesenews.it

Gli anni della giovinezza e della formazione

Sergio Mattarella nacque a Palermo il 23 luglio 1941, quarto figlio di Bernardo Mattarella, politico democristiano cinque volte ministro tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e di Maria Buccellato. Nello scegliere il nome per l’ultimogenito i genitori pensarono, forse profeticamente, a Sergio I, un papa santo del VII secolo nato a Palermo e descritto dalle fonti come “uomo di notevole cultura che aveva percorso tutta la carriera e ricomposto molte controversie e discordie”.

Il piccolo Sergio crebbe in un ambiente familiare profondamente stimolante, immerso fin da subito nella politica grazie alla figura del padre. Proprio a causa dei suoi incarichi di governo, nel 1948 la famiglia si trasferì a Roma, dove i fratelli frequentarono dalla terza elementare alla maturità classica l’istituto religioso S. Leone Magno dei Fratelli Maristi.

Ricordando questo periodo Mattarella dirà:

“La scuola credo mi abbia aiutato a non restare una pietra inerte. Vivere insieme un’esperienza di comunità, di studio, mi ha insegnato a comprendere le esigenze, i problemi, le attese degli altri. Questo mi ha fatto capire che si cresce se si cresce insieme, che si è davvero liberi –liberi dall’ignoranza, liberi dal bisogno, liberi dalla violenza- se liberi sono anche gli altri”.

Nel quinquennio 1960-1964 si consolidarono le radici della formazione professionale e sociale del giovane Sergio che conseguì la laurea in Giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma, con il massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi su La funzione dell’indirizzo politico.

Il giovane Sergio Mattarella con il padre Bernardo – Fonte: rainews.it

L’incontro con Marisa Chiazzese

All’inizio del 1958 a Palermo, il sedicenne Sergio conobbe Marisa Chiazzese, la sorella tredicenne di Irma, fidanzata di Piersanti, e figlia di Lauro Chiazzese, ex rettore dell’Università di Palermo e docente di Diritto Romano.

I due si fidanzarono nel 1964 e l’anno dopo Sergio tornò a vivere in Sicilia per starle vicino.

Il 21 marzo 1966, giorno dell’equinozio di primavera, si sposarono nella chiesa barocca di S. Caterina di Palermo. Dal matrimonio nacquero tre figli: Laura, Bernardo Giorgio e Francesco.

Di personalità mite, analitica, riservata, Marisa non ha mai avuto l’attenzione mediatica di cui, troppo spesso, godono le compagne o i compagni dei Capi di Stato, in quanto il primo marzo 2012, tre anni prima dell’inizio del mandato del marito come Presidente della Repubblica, è venuta a mancare a Castellammare del Golfo.

Il profondo attaccamento di Sergio Mattarella alla moglie è testimoniato dall’assidua presenza con cui l’ha affiancata nell’affrontare il calvario della malattia che l’ha portata via.

Nel 2015 il presidente la ricordò in un discorso al Quirinale in occasione della Giornata internazionale della ricerca sul cancro:

“Per seguire la persona a me più cara al mondo, ho trascorso a più riprese numerose settimane in ospedali oncologici. Sarebbe auspicabile che ogni tanto le persone in buona salute trascorressero qualche giorno in visita negli ospedali, perché il contatto con la sofferenza aiuterebbe chiunque a dare a ogni cosa il giusto posto nella vita”.

Sergio Mattarella e la moglie Marisa Chiazzese – Fonte: urbanpost.it

Il ritorno a Palermo e la carriera accademica

Una volta rientrato a Palermo si unì a un gruppo di giovani studiosi che seguivano il giurista Pietro Virga, professore di diritto costituzionale e poi amministrativo presso l’Istituto di Diritto Pubblico dell’Università.

Nel 1965 intraprese la carriera accademica come assistente di diritto costituzionale. Nel 1969 divenne professore incaricato di diritto parlamentare presso la facoltà di Scienze politiche, dedicandosi all’insegnamento fino al 1983, quando si mise in aspettativa per le elezioni alla Camera.

L’attività scientifica e le pubblicazioni di questo periodo riguardarono in prevalenza argomenti di diritto costituzionale: intervento della Regione siciliana nell’economia, attività ispettiva del Parlamento, procedimento legislativo, bicameralismo, indennità di espropriazione. L’attività accademica lo portò a svolgere relazioni e interventi in convegni di studi giuridici e a tenere lezioni in corsi di master e specializzazione in varie università.

Di quello che considerava il suo “vero lavoro” sentì sempre la mancanza:

“Quando mi chiamano a partecipare a dibattiti accademici vado molto volentieri, perché i giovani che guardano alle cose con un’altra ottica mi costringono a riflettere”.

Il professore Sergio Mattarella durante un esame – Fonte: castelvetranoselinunte.it

La morte del fratello Piersanti e l’impegno politico

L’avvenimento che determinò l’allontanamento dall’attività accademica fu la morte del fratello, avvenuta il 6 gennaio 1980. Piersanti Mattarella aveva seguito le orme del padre, passando dalle file della Democrazia Cristiana al consiglio comunale della città di Palermo, fino ad essere eletto, nel 1978, Presidente della Regione Sicilia.

Il giorno dell’Epifania Piersanti si recò a messa con la famiglia senza scorta, non utilizzata nelle uscite private. Improvvisamente un giovane a volto scoperto si avvicinò al suo finestrino e colpì il presidente con una prima raffica di colpi, ferendo anche la moglie Irma. Durante la sparatoria il revolver si inceppò e il killer si diresse con calma verso una 127 bianca, per farsi consegnare dal complice un secondo revolver con cui tornò a colpire Mattarella dal finestrino posteriore.

Fu il nipote Bernardo ad avvertire dell’accaduto Sergio Mattarella, immortalato al suo arrivo nel celebre scatto di Letizia Battaglia, che lo ritrae chino sul corpo del fratello nell’attesa dei soccorsi. Piersanti Mattarella morì sette minuti dopo l’arrivo in ospedale.

Inizialmente considerato un attentato terroristico, il delitto fu indicato dal collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta come delitto di mafia.

La morte del fratello sconvolse profondamente Sergio Mattarella, che raccolse l’eredità politica e “il patrimonio di energie” del fratello, aumentando progressivamente il proprio impegno politico e dando inizio a una lunga e illustre carriera che lo vide ricoprire le più importanti cariche politiche e istituzionali (Vice-Presidente del Consiglio, più volte deputato e ministro, membro della Corte costituzionale), dedicando particolare attenzione alla lotta contro la mafia e il rispetto della legalità.

Sergio con in braccio il fratello Piersanti Mattarella dopo l’attentato – ©Letizia Battaglia, Palermo 1980

 

Santa Talia

Fonti: 

Angelo Gallippi – Sergio Mattarella, 40 anni di storia italiana, Paesi Edizioni, 2022

https://www.quirinale.it/page/biografia

https://www.treccani.it/enciclopedia/sergio-mattarella

https://biografieonline.it/biografia-sergio-mattarella

https://www.ilpost.it/2022/01/16/sergio-mattarella-fine-mandato/

Immagine in evidenza:

Il Presidente Sergio Mattarella alla cerimonia della deposizione di una corona d’alloro sulla Tomba del Milite Ignoto, nella ricorrenza del 75° anniversario della Liberazione, Roma 2020 – Fonte: quirinale.it

La Gran Bretagna è in allarme per l’omicidio di David Amess, il deputato conservatore inglese

Venerdì 15, la Gran Bretagna assiste ad un nuovo tragico fatto di sangue : il parlamentare conservatore inglese David Amess viene accoltellato ripetute volte e ucciso durante un incontro con gli elettori, tenutosi presso una chiesa metodista di Leigh-on-Sea, in Essex, nel sud-est dell’Inghilterra. Secondo la polizia britannica, si è trattato di un attentato terroristico, forse legato all’estremismo islamico.

Fonte: Rai News

L’accaduto – l’ultimo di una serie di attacchi contro i politici britannici – ha confermato una crescente aggressività nei confronti della democrazia inglese e rafforzato il dibattito sul tema della sicurezza dei parlamentari, oramai all’ordine del giorno nel Paese.

Le dinamiche dell’attacco

Secondo le dinamiche emerse in questi giorni, l’uomo che ha ucciso Amess si trovava allinterno della chiesa, ad aspettare l’arrivo del deputato per l’incontro periodico con i suoi elettori del luogo.

Per partecipare, era sufficiente lasciare nome e cognome agli addetti, venendo così a mancare la protezione armata della polizia presente, invece, in Parlamento: «Qui sono tutti benvenuti», recitava il cartello scritto fuori dalla porta della chiesa.

Fonte: remocontro.it

Una volta prenotatosi per l’incontro, l’uomo avrebbe dunque atteso pazientemente il suo turno prima di assalire Sir David, nel mentre che questi si stava trattenendo con i concittadini, accompagnato da suoi due assistenti. Il parlamentare è stato assalito e pugnalato ben 17 volte e a nulla sono serviti i benché immediati soccorsi: Amess è morto prima che potesse essere trasportato in ospedale.

“Mi hanno detto che dopo aver colpito sir David ha semplicemente atteso l’arrivo della polizia nella sala parrocchiale” della chiesa metodista dove si teneva l’incontro , ha raccontato al Telegraph il Vicepresidente dell’associazione di circoscrizione Kevin Buck.

L’attentatore, giovane figlio di un ex consigliere somalo

L’uomo arrestato per l’assassinio del deputato Amess è un cittadino britannico venticinquenne di origini somale, del quale è stata prolungata la custodia cautelare – almeno fino al 22 ottobre – su autorizzazione del giudice, per violazione della legge sul terrorismo (Terrorism Act). Il provvedimento è stato reso noto dalla polizia: secondo le prime indagini l’uomo avrebbe avuto «un possibile movente legato all’estremismo islamico».

Ali Harbi Ali, l’attentatore. Fonte: The Mirror

Il giovane in questione è Ali Harbi Ali, figlio di un ex consigliere della comunicazione del primo ministro della Somalia. Il ragazzo avrebbe pianificato l’omicidio con oltre una settimana di anticipo. Il padre Harbi Ali Kullane si dicetraumatizzatoai microfoni della Bbc: “Non è qualcosa che mi aspettavo o avrei mai sognato e immaginato”.

Il legame con il jihadismo

Ali avrebbe vissuto, in passato, nel collegio elettorale di Sir David, Southend West, nell’Essex, per poi trasferirsi, più di recente, in un quartiere residenziale di Londra.

Nella mattinata di sabato, la polizia ha fatto delle perquisizioni in due abitazioni di Londra, ma per gli inquirenti è da accantonare l’ipotesi che abbia collaborato con altri soggetti; più probabile che si tratti di un lupo solitario che lo scorso venerdì avrebbe agito da solo, ispirato dai jihadisti di al-Shabaab (gruppo terroristico che opera tra Somalia e Kenya, nato da una costola di al-Qaeda e radicalizzatosi online durante il lockdown).

Stando ad alcune fonti del Guardian, il ragazzo era già in qualche misura noto alle forze dell’ordine, considerato che il suo nome potrebbe essere contenuto nel database del Prevent scheme, un programma che raccoglie informazioni su soggetti a rischio radicalizzazione.

Chi era David Amess

Amess, parlamentare dal 1983, era un fervente cattolico di 69 anni, sposato e padre di 5 figli. Aveva buone possibilità di diventare il “padre della Camera dei Comuni”, vale a dire il membro più longevo.

La fede e la fedeltà alla dottrina sociale della chiesa sono state le principali fonti del suo agire politico, fa notare in un suo intervento un caro amico di Amess, Chris Whitehouse, ex parlamentare e cofondatore del network dei parlamentari cattolici assieme a lui.

Fonte: SkyTG24

Nonostante non avesse mai avuto ruoli di governo, Amess è stato un volto familiare della politica britannica, sostenitore della Brexit e dei diritti degli animali, antiabortista. Per Sir David era molto importante l’incontro periodico dei suoi elettori:

«A volte la gente andava per parlare di politica, ma la maggior parte delle volte le persone chiedevano aiuto per trovare una casa adeguata o per capire le complesse regole del welfare oppure per far entrare un figlio con bisogni speciali in una scuola adeguata alle sue esigenze. È per questi incontri che Amess era così popolare, migliaia di persone possono testimoniare quanto fosse attento e amorevole», evidenziano le parole dell’amico.

La sua morte ha rappresentato una dura perdita per tutti: per il Parlamento, la Chiesa, la vita pubblica, il partito Conservatore, per la società inglese e per la vita democratica nel suo complesso. Quanto accaduto non può essere derubricato a un attacco a un individuo, poiché si tratta di molto di più: è un attentato allo stile di vita democratico e aperto.

Il Dibattito sulla ”costituency surgery”

L’assassinio di Amess non è un caso isolato: nel 2016 venne uccisa la deputata laburista Jo Cox, mentre si dirigeva verso un incontro pubblico, e 6 anni prima il suo collega conservatore Stephen Timms venne accoltellato, sempre durante un incontro pubblico.

La sequenzialità delle aggressioni comincia pertanto a preoccupare il Regno Unito, in lutto per un omicidio che, nel suo significato, riunisce maggioranza e opposizione: a rischio è la secolare tradizione della politica britannica, basata su stretti contatti tra elettori e politici.

Il primo ministro Boris Johnson (destra) e il leader dell’opposizione Keir Starmer (sinistra). Fonte: La Repubblica

Il dibattito sulla sicurezza dei parlamentari dilaga nel Paese: l’interrogativo riguarda la possibilità o meno di continuare a esercitare, in un clima del genere, la cosiddetta attività di costituency surgery, ovvero i periodici incontri faccia a faccia con i cittadini del proprio collegio elettorale.

In tanti sono i parlamentari che nonostante tutto desiderano portare avanti il tradizionale modo di fare politica britannico, come i deputati conservatori Robert Largan e Alec Shelbrooke. Quest’ultimo ha, infatti, twittato:

“Non possiamo lasciare che eventi come questo riducano la profonda relazione che abbiamo con i nostri elettori. È una relazione veramente importante e desidero che i miei concittadini, che mi abbiano votato o meno, possano avvicinarmi per le strade, nei pub, al supermercato o in una delle mie surgery”.

Gaia Cautela

Ventinove 19 luglio fa, l’attentato in Via d’Amelio, la cui esplosione riecheggiò in tutto il Paese

Un’immagine d’archivio dell’attentato in via D’Amelio nel quale rimase ucciso il magistrato Paolo Borsellino nel 1992. (fonte: ansa.it)

Ventinove anniversari, ben ventinove lunghi anni e ancora sembra esser passato solo qualche giorno, dalla strage di Via D’Amelio, nella quale perse la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Un attentato messo in atto dalla mafia, minacciata dal lavoro del giudice, capace di colpire nei punti più sensibili.

Ogni anno, per quanto ricordare sia dolorosissimo non solo per le famiglie delle vittime, si celebra il ricordo di Borsellino, che insieme a suo fedele collega Giovanni Falcone, è stato e continua ad essere più che un uomo di Stato.

Tutti noi sappiamo ormai bene cosa successe quel 19 luglio del 1992, ma siamo altrettanto consapevoli di quanto, se pur a caro prezzo, sia necessario ricordare un evento funesto come questo.

Questa sera, alle ore 21, a Palermo, proprio nel luogo dell’attentato, si accenderà il nuovo impianto di illuminazione con i colori del tricolore italiano, proposto dal fratello del magistrato, Salvatore Borsellino, e voluto anche dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando, dopo un’intensa giornata di commemorazioni.

Il giudice Paolo Borsellino (fonte: palermo.italiani.it)

Quel terribile giorno

51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, quel 19 luglio 1992, Borsellino pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi, si diresse con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella.

Una Fiat 126 con circa cento chili di tritolo a bordo, parcheggiata press l’abitazione della madre esplose al quando il giudice si avvicinò, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58.

Una foto dei momenti dopo la strage (fonte: ansa.it)

 

L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città e uccise il magistrato e gli agenti della scorta, tra cui, ricordiamo, Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte. Unico superstite Antonino Vullo.

 

Gli agenti della scorta di Borsellino che persero la vita (fonte: ansa.it)

Tanti, troppi misteri irrisolti riguardo la strage, un sospettato e inquietante passaggio di informazioni fino agli assassini mafiosi a partire da non identificati soggetti, forse appartenenti proprio allo Stato, per cui Borsellino ha sacrificato la propria vita.

“Uno Stato che non merita fiducia perché a 29 anni di distanza ancora non si è indagato a sufficienza su molti punti rimasti oscuri, a partire dalla presenza dei servizi nella strage e su chi veramente ha ordito certe mistificazioni.”. A lasciare andare parole tanto pesanti è stato il fratello del magistrato, Salvator Borsellino.

In un certo senso a rispondere è stato il procuratore generale di Caltanissetta, Lia Sava: “le indagini sulle stragi non si sono mai fermate e non si fermano” ha assicurato. Sapere che vi sono donne e uomini che continuano o, quantomeno, provano a riprendere la strada tracciata dai due magistrati eroi, rassicura tutti noi italiani.

Oggi, tante le iniziative in programma, proprio per portare avanti l’intento di sensibilizzare i cittadini tramite il ricordo della strage. Interverranno anche, ancora una volta, i familiari delle vittime, per poi concludere con la suddetta accensione delle luci tricolori alle 21.

 

Le parole del presidente Mattarella e dell’ex procuratore generale di Palermo

Non è mancato, stamattina, l’intervento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, le cui parole, considerando la sua personale storia di vita, toccano il cuore e la coscienza:

“L’attentato di via D’Amelio, ventinove anni or sono, venne concepito e messo in atto con brutale disumanità. Paolo Borsellino pagò con la vita la propria rettitudine e la coerenza di uomo delle Istituzioni. Con lui morirono gli agenti della scorta. La memoria di quella strage, che ha segnato così profondamente la storia repubblicana, suscita tuttora una immutata commozione, e insieme rinnova la consapevolezza della necessità dell’impegno comune per sradicare le mafie, per contrastare l’illegalità, per spezzare connivenze e complicità che favoriscono la presenza criminale.”.

Poi, ancora, le parole dell’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, intervenuto nel capoluogo siciliano alla conferenza di “Antimafia Duemila”, organizzata in occasione dell’anniversario, sono parole fortissime, che si inseriscono nel contesto di sospetti assai inquietanti e condivisi da molti.

“Più trascorrono gli anni e più si comprende che la strage di via D’Amelio non è solo un caso giudiziario, ma è molto di più. È un capitolo della storia della lotta al potere in Italia, una cartina di tornasole del reale funzionamento del potere in Italia, il segreto ritratto di Dorian Gray nel volto feroce e criminale in alcuni settori della classe dirigente. E la strage di via d’Amelio è ancora tra noi, non è finita”.

Spesso si sono riaccese le luci sui i vari tentativi di depistaggio nelle indagini sulla strage, a cominciare dalla scomparsa dell’agenda rossa del magistrato: “C’è stato un perfetto coordinamento operativo tra i mafiosi che fanno esplodere l’autobomba e gli uomini dei servizi che pochi minuti dopo completano il lavoro prendendo l’agenda rossa. Era essenziale prendere quell’agenda, non bastava uccidere Borsellino – ha spiegato l’ex procuratore – perché se l’agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, sarebbe saltato tutto.

Questo “tutto” si riferisce a una sospettata e terrificante rete che avrebbe legato e continuerebbe ancora a legare, la mafia e alcuni soggetti esterni, forse nascostisi sotto il nome dello Stato. “Lo stesso Borsellino che lo aveva capito, come disse a sua moglie espressamente: ‘Sarà la mafia a uccidermi, ma quando altri lo decideranno’.” ha detto Scarpinato.

Leggere gli “appunti” di Borsellino, avrebbe significato avere le chiavi di lettura per dare un volto ai mandanti e ai registi esterni della sua uccisione, ma anche quella di Falcone.

Un filo conduttore che continuerebbe ancora oggi, secondo l’ex procuratore, che lega gli atti orribili di vari soggetti, le cui azioni hanno cambiato per sempre il volto del nostro Paese, interrompendo bruscamente e definitivamente la via della resilienza tracciata e intrapresa da Borsellino e Falcone, strappando a tutti gli italiani la più grande possibilità presentatasi finora di metter già fine una volta per tutte a questo incubo chiamato mafia.

Una foto da una delle manifestazioni per l’anniversario (fonte: ansa.it)

 

Rita Bonaccurso

 

Strage a Kabul, più di 68 morti tra giovani studentesse liceali e residenti

Fonte: Il Post

Sabato pomeriggio tre esplosioni ravvicinate in un quartiere occidentale di Kabul, capitale dell’Afghanistan, hanno causato la morte di almeno 60 persone e centinaia di feriti, seppure il bilancio ufficiale delle vittime non sia stato ancora confermato. Si tratterebbe soprattutto di giovani studentesse corse fuori in preda al panico dal liceo Sayed Ul Shuhada che frequentavano. 

Nemmeno la natura delle esplosioni è stata ancora chiarita, anche se l’attacco – il più sanguinoso dell’ultimo anno – sembrerebbe in qualche modo collegato al ritiro delle ultime truppe americane nel Paese, ordinato diversi mesi fa dall’ex presidente statunitense Donald Trump. L’azione non è stata per il momento rivendicata.

Le dinamiche dell’attentato

A detta di Al Jazeera (rete televisiva satellitare con sede in Qatar) l’attacco è avvenuto alle 17:30 ora locale, proprio nel momento in cui le studentesse lasciavano le loro aule della scuola superiore, situata nel distretto di Dasht-e-Barchi. La scuola prevede tre diverse fasce orarie per maschi e femmine e la seconda delle quali, quella in cui è avvenuto l’attacco, era riservata alle ragazze.

L’obiettivo e l’orario non sono stati frutto di una scelta casuale, bensì meditata e finalizzata a massimizzare il numero di vittime. Le giovani ragazze si apprestavano infatti ad uscire da scuola, mentre i residenti erano in strada a fare acquisti per la festa musulmana di Eid al-Fitr, che segnerà la fine del mese di digiuno del Ramadan la settimana prossima. Considerato l’accaduto, il presidente afghano Ashraf Ghani ha parlato di «crimine contro l’umanità e i principi islamici» e ha ordinato alle forze di sicurezza di “rispondere” con forza.

La stima più recente citata dall’agenzia di stampa britannica Reuters attesta che siano morte almeno 68 persone, e che altre 165 siano rimaste ferite a causa delle esplosioni. Tuttavia, bisogna specificare che le cifre sono state fornite informalmente dai funzionari afghani ai giornali internazionali, senza ancora alcuna ufficialità. Il portavoce del ministero degli Interni afghano Tariq Arian ha inoltre avvertito che il tragico numero delle vittime potrebbe aumentare ulteriormente.

Su Twitter, la denuncia dell’attivista afghana Wazhma Frogh: «I nostri bambini non meritano tutto questo. Nessun bambino lo merita, questo è terrorismo internazionale».

https://twitter.com/FroghWazhma/status/1391059454129577987

L’accusa del presidente afghano ai Talebani

Secondo la versione più accreditata dai media locali, a causare le esplosioni sarebbe stata un’autobomba a cui sono seguiti due ordigni rudimentali. Un portavoce dei Talebani (gruppo islamista ramificato in Afghanistan) di nome Zabihullah Mujahid ha negato il coinvolgimento nella strage del gruppo, sostenendo che un simile massacro di civili può essere solamente opera del Daesh:

«i circoli sinistri che, per conto dello Stato Islamico, operano sotto le ali e la copertura dei servizi di intelligence dell’amministrazione di Kabul»,

hanno accusato i Talebani in un comunicato, prendendo le distanze dalla strage.

Autobomba esplosa a Kabul. Fonte: Avvenire

Ma il presidente afghano non si lascia convincere da tali argomentazioni e continua ad accusare – senza fornire però alcuna prova – i Talebani dell’escalation di violenza che sta attraversando il Paese in questo momento:

«hanno dimostrato ancora una volta che non solo non sono disposti a porre fine alla crisi attuale con mezzi pacifici, ma complicano la situazione per sabotare le opportunità di pace», ha detto.

Diversi analisti ritengono plausibile l’accusa, dal momento che la zona in cui sono avvenute le esplosioni è abitata per la maggior parte dagli Hazara, musulmani di minoranza sciita con i quali i Talebani non sono mai stati in buoni rapporti e che, pertanto, sono stati più volte presi di mira dallo stesso gruppo politico-terrorista. L’ultima volta lo scorso ottobre, quando in un’altra scuola ci furono ben 24 morti e 57 feriti. E ancora un anno fa, sempre nello stesso quartiere, fu attaccato un ospedale di maternità: allora morirono 16 persone, tra cui due neonati, neo mamme e ostetriche.

La ripresa degli attacchi dopo gli accordi

Si continua a combattere in Afghanistan, dove da mesi avvengono quotidianamente violenze e azioni collegate agli scontri tra forze governative e il gruppo estremamente radicale dei Talebani.

Gli attacchi sono ripresi dopo che, all’inizio del 2020, gli Stati Uniti avevano finalmente trovato un accordo – dopo faticosi negoziati – con il gruppo di fondamentalisti islamici, che prevedeva che gli americani lasciassero il Paese entro il 2021. Quanto ai Talebani, invece, essi si sarebbero dovuti impegnare a prendere le distanze da Al Qaeda, uno dei più noti gruppi terroristici al mondo e loro alleati, e a condurre trattative di pace col governo centrale afghano.

Gruppo di Talebani in Afghanistan. Fonte: Notizie Geopolitiche

Se inizialmente i Talebani avevano rispettato l’accordo avviando le trattative con il governo, negli ultimi mesi hanno ripreso gli attacchi nei confronti di quest’ultimo. Probabilmente complice il progressivo ritiro delle truppe dell’esercito statunitense stabilito dall’ex presidente americano Donald Trump.

A sostegno di tale ipotesi le parole del New York Times:

«Oggi, in molti – compresi i talebani, secondo i funzionari governativi afghani – ritengono che il frettoloso ritiro americano sia il segnale che gli Stati Uniti se ne andranno a prescindere dalle violenze compiute dagli estremisti».

Un Paese in allerta massima

 I livelli di violenza sono già aumentati considerevolmente – specialmente nell’ultima settimana – per via della scadenza della data concordata lo scorso febbraio a Doha dai Talebani con gli Usa perché le truppe straniere lasciassero l’Afghanistan: dal primo maggio Kabul e tutto l’Afghanistan sono infatti in massima allerta.

La data del ritiro è stata consapevolmente posticipata dall’amministrazione Biden all’11 settembre prossimo, quando saranno trascorsi ben due decenni dagli attacchi jihadisti alle Torri Gemelle, innescati poco dopo l’invasione americana dell’Afghanistan che portò al rovescio del regime talebano.

Fonte: AGI

Solamente nelle ultime 48 ore sono morti almeno 250 Talebani e altri 106 sono rimasti feriti durante i combattimenti con le truppe afghane in nove delle 34 province del Paese. In Afghanistan non si registrava un numero tanto alto di estremisti morti in così poche ore da due anni, a dimostrazione di come – nonostante i vari tentativi di far avanzare i colloqui di pace ormai da tempo in stallo – è in corso una diffusa intensificazione del conflitto nel Paese.

Gaia Cautela

L’ISIS rivendica l’attentato di Baghdad. Tutto ciò che c’è da sapere sulla situazione in Iraq

(fonte: ansa.it)

Giunge a pochissime ore dall’attentato di Baghdad la rivendicazione da parte dell’IS (Stato Islamico).

Il doppio attentato suicida avvenuto ieri in piazza Tayaran, affollatissima sede di un mercato di vestiti usati, ha mietuto almeno 35 vittime lasciandone ferite un centinaio. Diverse sono in condizioni gravi, ha dichiarato il ministro della Salute iracheno Hassan Mohammed Al-Tamimi, prospettando la possibilità che il conteggio aumenti.

Sin dai primi momenti le modalità dell’attentato, avvenuto tramite esplosioni provocate da due kamikaze, hanno fatto pensare che si trattasse di cellule appartenenti al gruppo terroristico dell’ISIS, ma adesso non vi è più alcun dubbio dopo la conferma ottenuta tramite l’app di messaggistica Telegram.

La BBC ha constatato che si tratterebbe del più grande attentato terroristico avvenuto a Baghdad dal 2017, anno della sconfitta militare subita dallo Stato Islamico.

Nel frattempo, l’account Twitter della Farnesina ha dichiarato che l’Italia è

Indignata dalla notizia dell’attentato che ha colpito #Baghdad, porge le sue condoglianze ai familiari delle vittime e augura una pronta guarigione ai feriti. Condanniamo fermamente la violenza contro i civili e sosteniamo il popolo di #Iraq per costruire un futuro pacifico e sicuro.

https://twitter.com/thestevennabil/status/1352184239966486533?s=20

@thestevennabil Il momento del secondo attacco suicida a Baghdad #Iraq

 

Un passo indietro sullo scenario geo-poilitico

Baghdad è la capitale dell’Iraq, uno dei territori che dal 2014 s’impegnano nella lotta contro lo Stato Islamico.

L’Iraq è stato governato per circa 25 anni dal dittatore (così ritenuto) Saddam Hussein, alla caduta del quale – avvenuta ad opera della coalizione anglo-americana durante la seconda guerra del Golfo – è stata istituita una repubblica parlamentare federale.

Dal 2014 al 2017  l’ISIS governa la parte occidentale del suo territorio, fino alla liberazione dalle truppe jihadiste.

Dal 7 maggio 2020 il paese si trova sotto la guida del Primo Ministro Mustafa Al-Kadhimi, fortemente critico del regime di Saddam Hussein ed appoggiato dagli Stati Uniti, che ha dichiarato di voler promuovere la coordinazione e la stabilità politica dello stato.

(fonte: ansa.it)

Gli ultimi anni di Baghdad

Nonostante la dichiarata sconfitta militare del gruppo terroristico, gli attentati a Baghdad continuano.

Già nel 2018 il mercato di Tayaran era stato colpito da un kamikaze, un attacco che era costato la vita a 31 persone.

Il 29 dicembre 2019 l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump opera un raid sulle milizie sciite di Iraq e Siria, le medesime che pochi giorni prima avevano effettuato un attacco alla base aerea irachena K-1 nella provincia di Kirkuk che aveva tolto la vita ad un mercenario statunitense.

A tali eventi, la popolazione irachena risponde assaltando l’ambasciata americana di Baghdad nella giornata del 31 dicembre 2019.

Il 3 gennaio 2020 il presidente USA ordina l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani tramite un attacco con drone statunitense sull’aeroporto di Baghdad.

Il 4 gennaio 2020 si tiene a Baghdad una processione funebre con una forte presenza delle milizie sciite irachene, che manifestavano al motto di «morte all’America, morte a Israele!».

Tra i vari eventi e le successive tensioni militari, attenuatesi poi con l’esplosione della pandemia da COVID-19, il 7 maggio 2020 avvengono le elezioni per il nuovo Primo Ministro iracheno e la scelta ricade su al-Kadhimi, al termine di sei estenuanti mesi di ricerca per un candidato disponibile.

Nella giornata del 20 gennaio 2021, il neo-presidente Joe Biden ha firmato uno dei suoi primi atti esecutivi sollevando il cosiddetto Muslim Ban, l’ordine esecutivo emesso dall’ex presidente Trump nel 2017 che impediva ai cittadini di paesi come la Somalia, Sudan, Iran, Siria, Yemen, Libia e lo stesso Iraq l’ingresso negli Stati Uniti.

 

Valeria Bonaccorso 

Notte di paura nel centro di Vienna: ennesimo atto di terrorismo

Sono state ore di paura a Vienna nella scorsa notte, dove si è verificato un attentato nel centro nella capitale austriaca. I primi spari sono stati avvertiti intorno alle ore 20 vicino alla sinagoga Stadttempel; centinaia i video messi in circolo sui social network e sulle piattaforme online, dove, tra l’altro, si nota l’attività delle forze di sicurezza austriache alla ricerca di presunti assalitori in fuga. Si tratterebbe, infatti, di attentato coordinato in sei diverse zone della capitale. La polizia, tuttavia, ha chiesto di non condividere video o immagini delle indagini, per ovvie ragioni di sicurezza.

https://www.youtube.com/watch?v=ct0NaCUvnkc

L’attentato

Vienna è piombata nel terrore nell’ultima serata prima del lockdown, annunciato per oggi dalle autorità dove un gruppo di assalitori ha iniziato a sparare sulla folla con fucili.

L’agenzia di stampa austriaca APA ha riferito che il ministro dell’Interno, Karl Nehammer, ha parlato di «apparente attacco terroristico».

Varie sparatorie sarebbero avvenute in diverse zone nei pressi della sinagoga. La polizia ha consigliato di evitare il centro della capitale, definito zona rossa, e di rimanere in casa: «Non appena avremo maggiori informazioni ve le riporteremo». Il centro solo gradualmente e parzialmente è stato, riaperto dopo molte ore dall’inizio dell’attentato, quando la polizia ha permesso alle persone rimaste bloccate nei bar e nei ristoranti di tornare verso casa attraversando dei corridoi di sicurezza, resta comunque presidiato da centinaia di agenti, tra cui agenti dei corpi speciali.

(fonte: Geopoliticia.info)

Inizialmente si presumeva fosse la sinagoga il centro dell’attentato, ma il presidente della comunità ebraica di Vienna, Oskar Deutsch, ha affermato che non vi sarebbero delle vittime tra i rappresentanti della sua comunità:

“Al momento non si può dire se il tempio della città fosse uno degli obiettivi”, comunicando che sia la sinagoga di Seitenstettengasse che l’edificio per uffici allo stesso indirizzo non erano più in funzione e chiusi al momento dei primi spari. Facendo poi appello ai fedeli di non uscire in strada e rimanere al sicuro fino a quando le autorità non avranno chiarito i fatti, chiedendo a tutti gli uomini di non indossare la kippah, il tipico copricapo ebraico.

Oggi a Vienna le scuole rimarranno chiuse.

Il Bilancio

Ammonta a quattro il numero dei civili uccisi, due uomini e due donne, tra cui una cameriera, diciassette i feriti, cinque persone sono ricoverate in ospedale in pericolo di vita, come comunicato questa mattina dal ministro degli Interni austriaco Karl Nehammer durante di una conferenza stampa.

Ferito anche un poliziotto in uno scontro a fuoco con un attentatore, poi sottoposto ad intervento chirurgico. Uno dei killer «pesantemente armato», definito «islamista» dal ministro dell’Interno, è stato ucciso dalla polizia, mentre «almeno uno è ancora in fuga». Gli inquirenti austriaci ritengono che gli attentatori di Vienna potrebbero essere almeno quattro, ancora ricercati.

A seguito della perquisizione dell’appartamento dell’attentatore morto, Nehammer lo ha identificato come “simpatizzante” dello Stato Islamico: un giovane di origini albanesi ma nato e cresciuto in Austria, con una cintura esplosiva attorno al corpo – rivelatasi poi un falso-  il quale in passato aveva provato ad andare a combattere in Siria.

Secondo quanto scrive su Twitter Florian Klenk, giornalista di Falter, l’attentatore si chiamava Kurtin S., i suoi genitori provengono dalla Macedonia del Nord ma non si sarebbero mai fatti notare dal punto di vista di eventuali tendenze islamiste.

Tuttavia, si ritiene che uomo fosse conosciuto ai servizi segreti austriaci: l’uomo faceva parte di un gruppo di circa 90 islamisti austriaci che aveva manifestato l’intenzione di recarsi in Siria.

Secondo, poi, le informazioni del Kronen Zeitung, che pubblica una foto del volto pixellato, si tratta di un rifugiato che aveva prestato giuramento di fedeltà al nuovo leader dell’Isis.

Secondo quanto scrive la Bild avrebbe annunciato su Instagram il suo gesto, postando alcune foto, lunedì.

(fonte: la Repubblica)

La Solidarietà Europea

Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha confermato che ieri sera a Vienna si è trattato di un attentato islamista, «dettato dell’odio, dall’odio per il nostro modello di vita, dall’odio per la nostra democrazia».

Milioni i tweet di supporto morale e sociale alla tragedia austriaca dai massimi esponenti europei:

«L’Europa condanna con forza questo atto codardo che viola la vita e i nostri valori umani. I miei pensieri sono con le vittime e la gente di Vienna sulla scia dell’orribile attacco di stasera. Siamo con l’Austria», scrive il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.

«Ferma condanna dell’attentato che questa sera ha colpito la città di Vienna. Non c’è spazio per l’odio e la violenza nella nostra casa comune europea. Vicinanza al popolo austriaco, ai familiari delle vittime e ai feriti» ha twittato il premier Giuseppe Conte.

«Noi francesi condividiamo lo choc e il dolore del popolo austriaco colpito stasera da un attentato nel cuore della sua capitale, Vienna. Dopo la Francia, è un Paese amico ad essere attaccato. È la nostra Europa. I nostri nemici devono sapere con chi hanno a che fare. Non ci arrenderemo» condivide Macron.

«In queste ore terribili in cui Vienna è diventata il bersaglio della violenza terroristica, i miei pensieri sono con le persone presenti e le forze di sicurezza che affrontano il pericolo» ha detto la Merkel.

«Le nostre preghiere per i viennesi dopo l’ennesimo vile atto terroristico in Europa. Questi attacchi malvagi contro persone innocenti devono cessare. Gli Stati Uniti sono a fianco di Austria, Francia e di tutta Europa nella lotta contro i terroristi, compresi i terroristi islamici radicali» afferma Donald Trump.

«Dopo l’orribile attacco terroristico a Vienna , in Austria, Jill e io prego per le vittime e le loro famiglie. Dobbiamo essere tutti uniti contro l’odio e la violenza», condanna anche dal candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden.

Condoglianze, anche dal presidente russo Vladimir Putin, al presidente e al cancelliere austriaco.

Manuel de Vita

Paura a Parigi come nel 2015. I tre motivi che avrebbero scatenato l’ultimo attacco terroristico

La targa in memoria delle vittime di Charlie Hebdo

Un altro Charlie Hebdo

È avvenuto ieri in strada, poco prima delle 13, fuori alla sede della società di produzione televisiva Premières Lignes Television, tra Rue Nicolas Appert e Rue Gaby Sylvia, nel cuore di Parigi. Un tentato omicidio, che riaccende la paura del terrorismo in Francia. Terrificante coincidenza, che per le autorità coincidenza non è, poiché il luogo è lo stesso dell’attentato del 7 gennaio 2015 ai danni di Charlie Hebdo, la cui redazione prima aveva la propria sede proprio al civico 6, mentre la società televisiva sta al numero 10. Due uomini hanno assalito un uomo e una donna, due dipendenti di Premier Lignes, che in quel momento si trovavano fuori l’edificio, proprio davanti alla targa in memoria delle vittime dell’attentato del 2015, per una pausa dal lavoro, per fumare una sigaretta.

Uno dei fattori scatenanti potrebbe risalire al fatto che il 2 settembre Charlie Hebdo ha ripubblicato le vignette su Maometto che avevano scatenato la reazione dei seguaci di Al Qaeda cinque anni fa. Ma non solo.

“Charlie Hebdo è nuovamente minacciato da organizzazioni terroristiche. Minacce che costituiscono una vera provocazione nel mezzo del processo degli attentati del gennaio 2015. Minacce che vanno ben oltre Charlie, poiché prendono di mira anche tutti i media e persino il presidente della Repubblica.” recita un tweet del direttore Riss, il quale ha anche espresso la vicinanza di Charlie Hebdo a Premières Lignes Television.

Un 18enne il principale sospettato

Prima l’inseguimento di un diciottenne di origini pachistane, conosciuto dalla polizia per reati comuni, senza precedenti per radicalismo islamico. E’ lui il principale autore dell’attentato, poiché è stato lui a colpire le due vittime con una mannaia, poi ritrovata poco più distante, nei pressi della fermata della metro Richard Lenoir. Poi la caccia a un 33enne, fermato poco dopo. I due si erano diretti all’interno del quartiere nei pressi della Bastiglia.

La fermata della metro Richard Lenoir

L’arma usata contro le vittime

Un intero quartiere blindato. La paura per gli studenti

La polizia, la quale aveva lanciato un tweet per intimare la popolazione di non avvicinarsi alla metro, ha poi blindato l’intero quartiere accanto alla Bastiglia. Nelle ore precedenti, vicino al luogo dell’attentato era stato anche trovato un pacco sospetto che alla fine non conteneva alcun esplosivo. Migliaia di ragazzi e i bambini sono rimasti chiusi nelle scuole, mentre i genitori, in preda al panico, sono stati tenuti lontani per evitare che cercassero di andarli a prendere, fin quando non è poi cessata l’allerta.

I testimoni dell’accaduto

La Premières Lignes Television è un’agenzia di stampa e società di produzione creata nel 2006 e specializzata nel giornalismo di inchiesta televisiva. Diretta dai giornalisti Luc Hermann e Paul Moreira, la quale, tempo fa, ha prodotto un documentario sui jihadisti. I giornalisti di Première Lignes furono anche i primi a diffondere, subito dopo l’attentato del 2015, le immagini dei due killer, i fratelli Kouachi, mentre erano in fuga.
Il direttore Moreira ha dichiarato di non aver, comunque, mai ricevuto prima minacce per quella produzione sull’estremismo islamico. Quest’ultimo è anche uno dei testimoni che ha assistito alla terrificante scena dell’assalto ai suoi due dipendenti.”Sono stati colpiti davanti al palazzo della nostra sede, l’attentatore poi è scappato, non è entrato nel palazzo. – ha rivelato a BFMtv – Non è un caso, c’è il processo in corso per l’attentato a Charlie“. Altro testimone è stato un dipendente: “Due colleghi erano scesi a fumare una sigaretta fuori dal palazzo, in strada. Ho sentito delle grida e mi sono affacciato alla finestra e ho visto una di loro ricoperta di sangue, aggredita da un uomo con un machete.”.

Gli strani eventi dei giorni precedenti

Nei giorni precedenti, però, qualcosa era successo. La direttrice delle risorse umane del settimanale satirico, Marika Bret è stata costretta a lasciare la propria abitazione a causa di minacce considerate gravi. “Dieci minuti per preparare una borsa e lasciare il mio domicilio” – ha rivelato Bret – “Mi hanno spiegato che probabilmente non tornerò mai più a casa mia”.

Le autorità aprono l’inchiesta: si tratta di terrorismo. Di nuovo

Il terribile episodio avviene, tra l’altro, proprio nei giorni in cui è in corso il processo per l’attacco a Charlie Hebdo. Questo è uno dei tre motivi che hanno spinto le autorità a seguire subito la pista di attentato terroristico, a cui il procuratore Remi Heitz ha aggiunto la coincidenza del luogo e la manifesta volontà del diciottenne di uccidere due persone di cui non conosceva nulla. Aperta, quindi, l’inchiesta per “tentato omicidio in relazione a un’azione terroristica”. Attorno alle 14.30 sono arrivati sul posto il premier Jean Castex, il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, e la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo. Una volta cessata l’allerta, dalla stessa Rue Nicolas Appert, Castex ha ribadito la “ferma volontà di lottare con tutti i mezzi contro il terrorismo”. Ricade, dunque, l’ombra del terrorismo sulla Francia. Ancora una volta la libertà di espressione, valore fondamentale dell’Occidente, è stata minacciata dall’estremismo islamico. Eppure, nonostante la paura sia tanta, in quel “Je suis Charlie Hebdo” sembra che i francesi ancora si riconoscano, a distanza di cinque anni.

 

Le autorità sul luogo dell’attentato

 

Rita Bonaccurso