Intervista a Francesca Matteucci: Verso l’infinito e oltre

Nella nostra Galassia ci sono quattrocento miliardi di stelle e nell’ Universo più di cento miliardi di galassie. Pensare di essere unici è molto improbabile.

È proprio dalla citazione dell’astrofisica Margherita Hack e in ricordo del suo centenario ricorso lo scorso 12 giugno, che abbiamo preso spunto per un dialogo con la sua erede, Francesca Matteucci, professore ordinario dell’Università di Trieste, specializzata nel campo dell’evoluzione chimica di stelle e galassie.
Laureata in fisica a Roma all’Università la Sapienza con 110 su 110 e lode/, dal 2000 al 2003 ha svolto il ruolo di coordinatore del collegio di dottorato di Fisica dall’Università di Trieste. Non solo, è stata anche direttore dipartimento di Astronomia dell’Università e presidente del consiglio scientifico dell’INAF.

Indice delle domande

Vorrebbe intanto spiegare ai nostri lettori di cosa si occupa? 

Mi occupo di studiare l’evoluzione chimica delle galassie, delle stelle e di come si sono formati tutti gli elementi chimici dentro esse. Durante il Big Bang si sono  formati l’idrogeno, l’elio, una spruzzatina di litio e tutti gli altri elementi della tavola di Mendelev.
Margherita Hack diceva “siamo figli delle stelle”. E, in effetti, siamo figli di alcune supernovae che hanno contribuito alla formazione di elementi pesanti, che rappresentano soltanto il 2% della massa. Il mio lavoro si concentra su questa percentuale. Bisogna anche dire che questo 2% è anche presente in altre parti dell’Universo.
Per ottenere delle informazioni siamo come degli ”archeologi galattici”. Infatti cerchiamo di risalire a come la galassia si è formata e in che tempi, mettendo in atto dei modelli in cui si simula quello che può essere successo.
Le variabili da considerare sono molte: è necessario tener contro di quante stelle si sono formate per unità di tempo (tasso di formazione stellare), delle loro masse  e soprattutto della  nucleosintesi. Infatti ogni stella nasce, vive e muore. Durante la vita trasforma l’idrogeno e l’elio in elementi più pesanti e poi li rimette nel mezzo interstellare da dove ne nasceranno di nuove.

Rappresentazione grafica dello scenario evolutivo ©Jacopo Burgio

Io mi sono occupata di calcolare l’evoluzione chimica del mezzo l’intergalattico e intra cluster, di studiare galassie di tutti i tipi morfologici, in particolare della  nostra Via Lattea, anche detta Milk Way.

Quali sono, da docente, le prospettive per il futuro della ricerca nel campo che lei indaga?

Il futuro che ci aspetta è molto roseo. Il telescopio James Webb Space Telescope, lanciato a Natale del 2021, ha una risoluzione eccezionale anche rispetto al telescopio Hubble poichè, a differenza di questo, vede nell’infrarosso. Misurare le abbondanze chimiche con estrema precisione sta diventando un fatto reale.
Una grande innovazione sarà l’utilizzo dell’ Extreme Large Telescope, telescopio ottico da posizionare a terra nel deserto di Atacama e che avrà uno specchio del diametro di 39 metri. Più grande è il diametro del telescopio, più indietro nel tempo riusciamo a vedere.
Misurando le abbondanze chimiche con sempre maggior risoluzione e precisione, sia nella nostra galassia che in altre, riusciremo a capire molto meglio cosa sia successo anche nei primi istanti di formazione dell’Universo. In questo modo verificheremo le nostre teorie e vedremo se sono giuste o sbagliate.

Confronto tra il telescopio Hubble (sinistra) e il telescopio James Webb (destra). Sono raffigurati i pilastri della creazione. ©NASA

Quali sono i risvolti sulla vita di tutti i giorni?

L’astrofisica potrebbe avere influenza nella vita di tutti i giorni, anche se non in modo immediato. Questo perché le stelle vivono di fusione nucleare che permetterebbe produzione  di energia pulita ed eccezionalmente potente, per cui si sta tentando di riprodurre queste condizioni sulla terra. Infatti, se avessimo dei motori a fusione nucleare (già a fissione sarebbe un sogno), basterebbe mezzo bicchiere d’acqua per andare e tornare da Marte.
In questo momento, con la crisi energetica, sicuramente sarebbero stati molto comodi.

Nel suo periodo impressionista Van Gogh scrisse in una lettera al fratello ”non so perchè, ma la vista delle stelle mi fa sempre sognare”. Mi rivolgo a lei,  alla luce di questa bellissima citazione, cosa l’ha spinta a volgere lo sguardo e la vita alle stelle?

Beh, sicuramente le stelle fanno sognare tutti noi.
Io sono cresciuta in campagna e lì è più facile vedere le stelle perché non c’è inquinamento luminoso.  Come tutti i bambini mi sono chiesta cosa ci fosse oltre la Terra  e vedere tutti quegli altri mondi che mi guardavano è qualcosa che mi ha spinta a voler conoscere, voler sapere di più.
In realtà ho frequentato il Liceo Classico. Non me ne pento affatto, perché era l’unica occasione per studiare il latino e greco. Però devo confessare che la mia attitudine era più le scienze esatte e, soprattutto, per la fisica.
Questo pensiero che lei ha citato è assolutamente insito in tutti noi. Quindi, quello che mi ha spinto a rivolgere lo sguardo alle stelle è proprio la curiosità di conoscere il mondo, quello che ci circonda che adesso chiamiamo Universo.

Lei è stata collega della celeberrima astrofisica Margherita Hack. In che rapporto eravate?

Quando sono arrivata a Trieste conoscevo Margherita per fama.
Ero allieva del professor Franco Pacini, un suo grande amico e, tra noi, è subito scattata simpatia reciproca.
Margherita Hack era una di una schiettezza e di una simpatia uniche che, talvolta, potevano non piacere. Era una persona molto buona di cuore oltre ad essere una grande scienziata.
E’ stata la prima donna a vincere una cattedra di professore ordinario in astrofisica in Italia nel 1964. Si è ritrovata direttrice dell’osservatorio e ha creato il dipartimento astronomia che ho avuto l’onore anche di dirigere.
Quando sono arrivata si era già dedicata alla divulgazione, campo in cui è stata maestra.

Quali sono stati i lavori più significativi svolti insieme?

Io ho avuto l’onore di collaborare con lei sulla parte divulgativa. Quando lei è andata in pensione ho fatto un discorso col cuore e, commossa, disse “La Francesca sarà la mia successora” il che mi ha onorato. Ricordo ancora che insieme abbiamo fatto una conferenza con la gente stessa a terra come ai concerti rock.
I giovani erano attratti da lei, perché sapeva spiegare le cose in modo semplice e rispondere alle domande più strampalate.
Dai 60 anni in su ha cominciato a fare divulgazione full time anche senza voler essere pagata. Noi tutti le dobbiamo molto, perché è riuscita a portare al grosso pubblico argomenti quasi proibiti.
Io credo che lei rimarrà unica per parecchio.

E su questo penso che siamo sulla stessa linea d’onda. Infatti lei ha occupato per meriti e professionalità la cattedra di Margherita Hack, la quale la definì per l’appunto ”sua erede”. Che emozioni ha suscitato in lei aver preso in qualche modo il suo posto?  Durante il primo periodo sentiva sulle spalle una grande responsabilità?

Credo di essere stata la seconda dopo di lei ad aver avuto una cattedra di professore ordinario in astrofisica. Ho avuto la responsabilità di fare il mio dovere con gli studenti, di riuscire ad essere una brava professoressa come lo era stata lei. Ecco, questo è quello che mi ha guidato di guida ancora.
La via maestra deve essere quella della dedizione al proprio mestiere e, a me, piace molto farlo.
Non pretendevo di essere famosa come Margherita.
Dal punto di vista scientifico ho fatto del mio meglio, come lei e come tanti altri, ma il carisma non è qualcosa di riproducibile.

Il 12 giugno Margherita avrebbe compiuto 100 anni e, in sua memoria, è stata inaugurata la prima scultura in Italia rappresentante una scienziata. Come la ricorda? Qual è il suo augurio per nuove generazioni?

Cominciare a dare visibilità alle scienziate è stato molto importante e, la statua dedicata a Margherita per il suo centesimo compleanno, è stato un gesto che ho apprezzato. Di donne brave ce ne sono state tantissime anche prima, ma sono sotto la cenere e nessuno sa nulla.
Noi donne abbiamo bisogno di esempi come lei, perché l’incoraggiamento a fare le scienziate nei secoli non ce l’abbiamo certo avuto e, ancora oggi, si incontrano resistenze.
Quando faccio le conferenze, alle ragazze dico “dovete crederci” e, come disse Obama,  “yes we can!”Lo possiamo fare!” perché Margherita è riuscita a realizzarsi in un’epoca che sicuramente era diversa dalla nostra.
Ricordo che i suoi 90 furono festeggiati a Trieste in prefettura ma forse lei, con la sua semplicità, avrebbe preferito farlo in giardino. Quando eravamo lì mi disse “meno male che non è la questura!” col suo accento toscano, come dire “ma dove ci hanno fatto venire?”. Purtroppo l’anno dopo è venuta a mancare a causa di problemi a cuore. Le avevano suggerito di operarsi, ma non voleva stare ad insistere andando contro la natura.
Abbiamo avuto una grande perdita, è stata un grande esempio per le donne.

Immagine raffigurante la scultura di Margherita Hack. Fonte: www.rainews.it

Sicuramente la perdita è stata importante, ma quello che ha lasciato a tutti noi lo è stato ancora di più. Adesso ho il piacere di rifarmi ad una citazione dello scrittore e biochimico russo Asimov che affermò: “se fossimo soli l’immensità sarebbe davvero uno spreco”. Secondo lei, è plausibile altra vita all’infuori della nostra?

È più che plausibile che ci sia altra vita nello spazio mentre è bassa la probabilità di scoprirla. Però non mettiamo limiti alla scienza e alla tecnologia, magari avremo sorprese.
Si sono scoperti sistemi esoplanetari al di fuori del nostro sistema solare. Con i telescopi di ultima generazione avremo la possibilità di studiare le loro atmosfere e vedere se sono compatibili col nostro tipo di vita.
Insieme ad un mio ex studente ho fatto un lavoro sulle zone di abitabilità nella galassia e abbiamo trovato che, esattamente dove ci troviamo noi, è il punto di massima probabilità.
La vita la immaginiamo come la nostra, ma non è detto che sia esattamente identica. Non riuscire a trovarla immediatamente è ovvio, perché le distanze sono abnormi. Basti considerare che la stella più vicina a noi è Proxima Centauri, a 4 anni luce,  che sembra avere un pianetino, Proxima B, simile alla Terra.
Tutti gli altri sono decine di migliaia di milioni di anni luce lontani da noi e i tempi sono troppo lunghi per la vita umana.
L’unica cosa da sperare è che se esistono esseri come noi, non siano troppo evoluti e non tentino di distruggerci. Dall’altra parte la vita potrebbe essere ancora agli albori.

Inoltre, cos’è per lei la vita?

A questa domanda invece non so dare una risposta puntuale, è molto difficile rispondere. È qualcosa di incompreso, perché così come tanti sono i misteri del cosmo lo è anche quello dell’esistenza.
Quello che cerchiamo è un pianeta simile alla Terra, che sia roccioso, con acqua allo stato liquido e che abbia una distanza dalla stella madre tale che non sia troppo caldo o freddo.
La vita sulla Terra si basa sulla chimica del carbonio e tanti altri elementi, quali il ferro del sangue o il calcio delle ossa e studiare come si formano aiuta a trovarla nello spazio.
Quindi, io penso che la vita sia qualcosa di molto bello perché noi ci siamo e non riesco a immaginare qualcosa di diverso o di migliore. Ma questo è per la mia limitatezza di essere umano.’’

Conclusioni

L’essere umano senza dubbio è limitato, ma ciò che contraddistingue l’uomo dal non uomo è la curiositas, quel desiderio innato di vedere, conoscere e amare la verità. Questa è incarnata nei personaggi di Margherita Hack, Francesca Matteucci e di tante altre scienziate che, come Buzz Lightyear, hanno avuto il coraggio di guardare oltre i propri occhi, superando le colonne dell’incertezza e provando a volare ‘’Verso l’infinito ed oltre’’.

Francesca Umina

Gabriele Galletta

I segreti di Sagittarius A*: Fotografato il buco nero al centro della via lattea

Gli scienziati sono riusciti a fotografare per la prima volta il buco nero Sagittarius A* al centro della Via Lattea, la nostra galassia. Una scoperta sensazionale, che conferma la teoria della relatività generale di Einstein.

Indice dei contenuti:

Cos’è un buco nero?

La scoperta

Differenze con M87

L’immagine

Metodologie della scoperta

Futuro

Conclusione

Cos’è un buco nero

Il buco nero è un luogo nello spazio in cui la gravità è talmente attrattiva che nemmeno la luce può uscirne. Questo perché la materia è stata schiacciata in uno spazio minuscolo e ciò può accadere quando una stella sta morendo. Abbiamo già affrontato una spiegazione più dettagliata in un precedente articolo.

Fonte https://tg24.sky.it/

La scoperta

Durante le cinque notti nell’aprile 2017, la collaborazione EHT, ha utilizzato otto osservatori in tutto il mondo per raccogliere dati sia dal buco nero della Via Lattea sia da M87*. Le posizioni dell’osservatorio andavano dalla Spagna al Polo Sud e dal Cile alle Hawaii. Hanno raccolto quasi 4 petabyte (4.000 terabyte) di dati che, essendo troppi per poter viaggiare su internet, sono stati trasportati in aereo su dischi rigidi.

Differenze con il precedente buco nero della galassia M87

I dati di Sagittarius A* erano più difficili da analizzare. I due buchi neri hanno all’incirca la stessa dimensione apparente nel cielo, perché M87* è quasi 2.000 volte più lontano ma circa 1.600 volte più grande. Qualsiasi massa di materia che ruota attorno a M87* copre distanze molto maggiori, più grandi dell’orbita di Plutone attorno al Sole, e la radiazione che emettono è essenzialmente costante su scale temporali brevi. Ma Sagittarius A* può variare rapidamente, anche in poche ore. “In M87*, abbiamo visto pochissime variazioni in una settimana […] Sagittarius A* varia su scale temporali da 5 a 15 minuti”, afferma Heino Falcke, co-fondatore della collaborazione EHT ed astrofisico della Radboud University di Nijmegen, nei Paesi Bassi.

Fonte:
https://www.focus.it/scienza

L’immagine

A causa di questa variabilità, il team EHT ha generato non un’immagine del Sagittarius A*, ma migliaia, la cui immagine svelata qualche giorno fa, è la risultante di molte elaborazioni. Oltre a mostrare un anello di radiazione attorno a un disco più scuro, l’immagine elaborata conteneva tre “nodi” più luminosi. “Vediamo nodi in tutte le immagini che abbiamo creato”, dice Issaoun, astrofisico dell’Harvard and Smithsonian Center for Astrophysics a Cambridge, Massachusetts “ma ognuna aveva i nodi in punti diversi. I nodi mediati che appaiono nell’immagine sono probabilmente artefatti della tecnica di interferometria utilizzata dall’EHT”.

Ricostruisce le immagini da una parabola radiofonica idealizzata delle dimensioni della Terra, ma in cui solo minuscoli frammenti della parabola sono in grado di acquisire dati in un determinato momento. L’aspetto è diverso da quello di M87*, per il quale la regione più luminosa nell’immagine aveva una forma più a mezzaluna, il che potrebbe indicare una massa di materia più densa che viene accelerata lungo la direzione della linea di vista. Come affermato da Gomez, il team EHT ha condotto simulazioni di supercomputer per confrontare i propri dati. Ha così concluso che il Sagittarius A* sta probabilmente ruotando in senso antiorario lungo un asse che punta all’incirca lungo la linea di vista della Terra.

FONTE: https://tech.ifeng.com/

“Quello che mi fa impazzire è che lo stiamo vedendo di fronte”, dice Regina Caputo, astrofisica al Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland.

Il telescopio spaziale Fermi Gamma-ray della NASA, con cui Caputo lavora, aveva precedentemente rilevato gigantesche caratteristiche luminose sopra e sotto il centro della galassia, che potrebbero essere state prodotte dal Sagittarius A* durante periodi di intensa attività in passato. Ma quelle caratteristiche, note come bolle di Fermi, sembrano richiedere che la materia ruoti attorno al buco nero di taglio, piuttosto che di fronte, come si vede dalla Terra.

Metodologie della scoperta

Il Sagittarius A* è praticamente invisibile ai telescopi ottici a causa della polvere e del gas sul disco galattico. Ma a partire dalla fine degli anni ’90, Falcke e altri, si sono resi conto che l’ombra del buco nero poteva essere abbastanza grande da essere ripresa con brevi onde radio in grado di perforare il velo. Ma i ricercatori hanno calcolato che ciò avrebbe richiesto un telescopio delle dimensioni della Terra. Fortunatamente, la tecnica  dellinterferometria, che  implica il puntamento simultaneo di più telescopi lontani sullo stesso oggetto, potrebbe rivelarsi utile perchè, in effetti, i telescopi funzionano come frammenti di una grande parabola (vedi immagine di seguito).

Mappa illustrativa della costituzione dell’EHT ©Jacopo Burgio

I primi tentativi di osservare il Sagittarius A* con l’interferometria, hanno utilizzato onde radio di 7 millimetri relativamente lunghe e osservatori a poche migliaia di chilometri di distanza. Tutti gli astronomi potevano vedere un punto sfocato. I team di tutto il mondo hanno quindi perfezionato le loro tecniche e adattato i principali osservatori che sono stati aggiunti alla rete. In particolare, i ricercatori hanno adattato il South Pole Telescope e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array in Cile da 1,4 miliardi di dollari per svolgere il lavoro. Nel 2015, i gruppi hanno unito le forze come collaborazione EHT. La loro campagna di osservazione del 2017 è stata la prima a coprire distanze abbastanza lunghe da risolvere dettagli come le dimensioni del Sagittarius A*.

Futuro

Feryal Özel, astrofisico dell’Università dell’Arizona a Tucson, in una intervista svoltasi a Washington, ha affermato che il prossimo obiettivo del progetto è generare un filmato del buco nero per saperne di più sulle sue proprietà fisiche.

I ricercatori sperano di scoprire se Sagittarius A* ha i getti astrofisici. Molti buchi neri, incluso M87*, mostrano due fasci di materia che escono rapidamente in direzioni opposte. Essi sono ritenuti il ​​risultato dell’intenso riscaldamento del gas in caduta e alimentati dalla rotazione del buco nero. Il Sagittarius A* potrebbe aver avuto grandi getti in passato, come suggeriscono nubi di materia riscaldate sopra e sotto il centro galattico. I suoi getti sarebbero ora molto più deboli, ma la loro presenza potrebbe rivelare dettagli importanti sulla storia della nostra Galassia. “Questi getti possono inibire o indurre la formazione stellare, possono spostare gli elementi chimici in giro” e influenzare l’evoluzione di un’intera galassia […] e ora stiamo guardando dove sta succedendo.” afferma Falcke.

Conclusione

Ciò che abbiamo osservato non è una scoperta fine a se stessa, poichè avrà certamente implicazioni nel domani e nelle tecnologie future della vita di tutti i giorni. Quindi non ci resta che aspettare con il naso puntato all’insù.

Livio Milazzo & Gabriele Galletta

Fonti: Nature,   Eso

Tempeste geomagnetiche: il sistema Sole-Terra tra incanto e tragedia.

Il sistema che porta alla formazione di una tempesta geomagnetica è ricco di dettagli e, con essi, si realizzano alcuni dei fenomeni di cui sempre più spesso sentiamo discutere.

La scoperta da cui tutto prende forma

Secondo alcuni studiosi, una delle caratteristiche peculiari del Sole è il suo campo magnetico, il denominatore comune di molti degli eventi riguardanti la sua attività.
Fu George Hale, nei primi del Novecento, a comprenderne per la prima volta l’esistenza. Egli osservò che il Sole era permeato a tutte le scale da tale campo e che la sua manifestazione più evidente risiedeva nelle macchie solari. Esse erano note per la loro forte attività magnetica e per la diversa emissività termica rispetto alle regioni che le circondano, giungendo alla conclusione che il Sole fosse una stella magnetica
È l’osservazione delle macchie solari che permette di fare previsioni sull’arrivo o meno di una tempesta geomagnetica.

Fonte: conoscenzalconfine.it

Cos’è una macchia solare?

Le macchie solari sono gigantesche strutture magnetiche che appaiono sul disco solare come regioni scure. La loro costituzione è molto particolare.
La parte più interna e più scura è caratterizzata da temperature più basse rispetto a quelle raggiunte nelle regioni più esterne che risultano essere più luminose (6000 K).  Sono varie le situazioni a cui il campo può essere soggetto. Ad esempio, in alcuni casi potrebbe essere influenzato da accumuli di plasma caldo che prendono il nome di “light bridges”, e che si pensa rappresentino segnali di decadimento della macchia. E ancora, potremmo osservare intrusioni di “umbral dots”, anche questi luoghi dove il plasma emerge per poi ricadere in basso.

Il Sole: una fonte di variabilità

Il moto del Sole attorno al suo asse di rotazione non è uniforme. Conosce diverse velocità a seconda di quale punto si consideri. Questo fa sì che il campo magnetico si avvolga con più rapidità attorno all’equatore, raggiungendo un momento in cui, per la forte intensità, il plasma che lo circonda viene “espulso”, formando così una sotto-densità. Il plasma in questa zona avrà una densità più bassa di quello che la ricopre: esso galleggerà sino alla fotosfera. È qui che creerà le macchie solari. Le variazioni che coinvolgono il campo magnetico solare si ripercuotono sull’intero sistema, il quale lega ciò che avviene sul Sole a ciò che potrebbe avvenire sulla Terra.

 

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Fonte: focus.it

Oltre le macchie solari: altri cambiamenti osservati

Ulteriore conseguenza delle variazioni è osservabile nella forma della corona solare, che passa dall’essere regolare nei periodi di minima attività solare, all’essere irregolare e abbastanza estesa in quelli di massima. Questa  instabilità porta al rilascio di grandi quantità di energia. È ciò che avviene attraverso i “flares” (brillamenti), seguiti da un eventuale espulsione della massa coronale nello spazio interplanetario.
Questo evento avviene durante un massimo solare, e in prossimità delle macchie solari. Un ciclo solare comincia con un numero minimo di macchie, che aumenteranno sino al massimo, per poi ridiminuire.
Se teniamo conto del numero delle macchie presenti possiamo comprendere quanto sia possibile che si realizzi una nuova espulsione.

 

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Fonte: kasi.re.kr 
Fonte:blueplanetheart.it

Verso la formazione della tempesta geomagnetica

Il flusso di particelle cariche prodotto dal Sole (“vento solare”)  riesce ad annullare la “schermata” magnetica della Terra. Penetra nell’atmosfera terrestre e si producono le GIC, le correnti elettriche indotte geomagneticamente.
Queste fluiranno nelle zone con conducibilità elevata e ad alta latitudine.
Ma le conseguenze di una tempesta geomagnetica potrebbero essere talmente dannose che anche i Paesi localizzati a latitudini medio-basse hanno ormai iniziato a seguire gli studi in merito.

Fonte: geoscienze.blogspot.com

Gli impatti sulla natura e sulla quotidianità

L’impatto che la tempesta geomagnetica può avere su alcuni animali interessa il loro senso dell’orientamento.
Lo scorso 19 giugno è stata osservata la scomparsa di alcune centinaia di Columbidi dal Sud del Galles e dal Nord-Est dell’Inghilterra. Non sono mancati coloro che hanno ricondotto tale fenomeno a una tempesta geomagnetica.
Una situazione simile si ebbe nel 2015, quando due tempeste disorientarono alcuni cetacei del Mare del Nord, facendoli arenare.

Recente è poi la notizia di una tempesta abbattutasi sull’America Latina lo scorso 29 ottobre, causando un potente black-out radio. Per il giorno seguente era stata annunciata la cosiddetta “tempesta di Halloween”, che si sarebbe abbattuta sull’Europa alla velocità di 1.260 km/s.

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Fonte: meteoweb.eu

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Fonte: meteo.com

Le grandi tempeste geomagnetiche del passato

Nel 1859 la tempesta di Carrington portò a un guasto dei telegrafi durato 14 ore e alla produzione di un’aurora boreale che fu visibile in aree inusuali, come a Roma e a Cuba.
Altra tempesta molto forte fu quella del 1989, in Québec: la popolazione restò al buio per giorni.
Ancora, nella notte tra il 18 e il 19 settembre 1941, si registrò una delle tempeste geomagnetiche più violente a basse latitudini. Nel clima teso della Seconda Guerra Mondiale, in cielo apparvero aurore in diversi luoghi del mondo. Molte navi, illuminate dalle aurore, furono scoperte, e si pensa che per tale motivo un sommergibile tedesco riuscì ad affondare la nave canadese SC44 Corvette HMC Levis.

 

Riproduzione artistica delle macchie solari sull’Illinois State Journal,21 settembre 1941. Fonte: blueplanetheart.it

L’aurora boreale

L’ aurora boreale, australe o polare,  è un fenomeno ottico dell’atmosfera terrestre. Esso è caratterizzato principalmente da bande luminose di diverse forme e colori rapidamente mutevoli, che suscitano nello spettatore stupore e meraviglia. Si formano dall’interazione tra le particelle cariche di origine solare con gli strati più esterni dell’atmosfera; una tempesta geomagnetica rappresenta quindi il momento perfetto per la loro comparsa.
Alcuni studiosi pensano che proprio la presenza di un’aurora boreale sia stato uno dei motivi per cui il Titanic affondò.

«Non c’era la Luna, ma l’aurora boreale risplendeva come raggi lunari sparati all’impazzata dall’orizzonte settentrionale»

Queste furono le parole scritte da James Bisset, ufficiale della RMS Carpathia, una delle navi giunte in aiuto.
La ricercatrice Mila Zinkova  ritiene inoltre che la tempesta di cui si discute potrebbe aver interferito con la bussola della nave.

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Fonte: viagginews.com

Conclusioni

Oggi si sta provando ad approfondire il più possibile le dinamiche delle tempeste geomagnetiche, a tutte le latitudini. Si sta capendo come a esserne coinvolto sia tutto il mondo. Studiarne più a fondo gli effetti rappresenta il solo modo per proteggere la Terra.

 

Giada Gangemi

Andromeda e la Via Lattea iniziano a sfiorarsi in vista del loro futuro scontro

Le galassie rappresentano il cuore del nostro Universo. Si tratta di enormi conglomerati di stelle e materia interstellare. La loro vita è segnata da turbolenti moti intestini e continui scontri con altre simili. Ciò le porta ad accrescere le loro dimensioni. La collisione, infatti, le spinge a riassemblarsi in ammassi celesti nuovi. È il caso della nostra stessa galassia, la Via Lattea, che è destinata a scontrarsi con la vicina Andromeda e, forse, la loro collisione è già iniziata.

Conosciamo meglio la Via Lattea, la nostra casa

Oggi sappiamo che la Via Lattea è solo una delle tante galassie che popolano l’Universo.

È soggetta a due moti: uno rotatorio su se stessa, compiendo un giro completo in circa 2,4×108 anni (si tratta di una rotazione differenziale: le stelle interne, cioè, ruotano più velocemente di quelle esterne); uno rispetto all’Universo in espansione, alla velocità di due milioni di chilometri orari.

Stimiamo che la Via Lattea abbia una forma a disco schiacciato che raggiunge il massimo spessore al centro diminuendo nella periferia. La nostra galassia, quindi, vista da fuori e da una posizione di taglio (edge on), risulta piatta e allungata, a parte un rigonfiamento centrale. Vista di fronte, invece, assume la forma di una grande spirale.

Il centro della Via Lattea dista da noi circa 25800 anni luce. La zona centrale è occupata da un buco nero super massiccio chiamato “Sagittarius A star” e indicato con SgrA*. Si tratta di una sorgente di onde radio compatta e luminosa. Sagittarius A* avrebbe una massa di circa 4 milioni di volte quella del Sole. Trovandosi, inoltre, nel centro della nostra galassia, rappresenterebbe il fulcro attorno cui le stelle della Via Lattea, compresa la nostra, compiono il loro moto di rivoluzione.

La Via Lattea, vista in posizione di taglio e frontalmente – Fonte: AstronomiAmo

Andromeda: una vicina particolare

Andromeda è, per noi terrestri, una galassia speciale. Si tratta, infatti, dell’oggetto celeste più lontano visibile ad occhio nudo; in nessun altro punto del cielo il nostro sguardo, privato di strumenti, penetra così in profondità.

Andromeda vista dalla terra. Si può notare, anche a così grande distanza, la sua forma ellittica – Fonte: Media INAF

La vera natura di Andromeda è stata scoperta in tempi recenti, con la nascita, cioè, di telescopi che permettessero di studiarne forma, dimensioni e movimento. Sappiamo oggi che la nostra vicina è un maestoso sistema in rotazione.

Il suo diametro è stimato in circa 160.000 anni luce e contiene dai 200 ai 300 miliardi di stelle. Andromeda è, quindi, più grande della Via Lattea: si tratta, infatti, della galassia più importante del cosiddetto Gruppo Locale, l’ ammasso di sistemi di stelle (più di 70) comprendete anche la nostra.

Andromeda e le sue galassie satelliti – Fonte: Gruppo Astrofili di Piacenza

La distanza tra la nostra galassia e Andromeda è, in realtà, notevole. La luce che da essa arriva sulla Terra è partita circa 2.300.000 anni fa, un’epoca in cui il nostro pianeta aveva un aspetto differente da quello odierno. Si tratta del periodo in cui ebbe inizio l’Età della Pietra. L’intelligenza dei nostri antenati cominciava, allora, ad affermarsi. Tutta la storia dell’uomo si è svolta in questo intervallo di tempo.

Il misterioso alone che circonda Andromeda

La Via Lattea e Andromeda si stanno avvicinando sempre di più. Si stima che si scontreranno tra circa 4 miliardi di anni, ma si stanno già sfiorando. Ne sono la prova gli immensi aloni di gas che si estendono per circa 1,5 milioni di anni luce attorno ad Andromeda. Questo ambiente si studia sfruttando la luce dei quasar. Si tratta di sorgenti lontanissime che presentano righe spettrali spostate verso il rosso, ciò le rende facilmente distinguibile dalle altre.

Gli studi si stanno concentrando sulla composizione dell’alone, poiché conserva memoria degli eventi passati, oltre a essere il serbatoio da cui attingere il gas che formerà le future stelle.

“Comprendere gli enormi aloni di gas che circondano le galassie è immensamente importante”, ha spiegato Samantha Berek della Yale University di New Haven. “Questo serbatoio di gas contiene carburante per la futura formazione stellare all’interno della galassia, oltre a deflussi di eventi come le supernove. È pieno di indizi riguardanti l’evoluzione passata e futura della galassia, e siamo finalmente in grado di studiarla in grande dettaglio nel nostro vicino galattico più vicino”.

È emerso che il guscio più interno dell’alone si estende per circa mezzo milione di anni luce, popolato da ammassi globulari, galassie nane, satelliti e stelle isolate. Il guscio esterno è più esteso, rarefatto e caldo.

Poiché viviamo all’interno della Via Lattea, gli scienziati non sono in grado di osservarne l’alone. Credono, tuttavia, sia simile a quello di Andromeda visto che lo sono anche le due galassie.

Il “non scontro”

Inizierà, al momento dell’urto, una tumultuosa fase di fusione da cui nascerà una grande galassia ellittica. Si chiamerà Milkomeda, un mix tra Milky Way e Andromeda. L’evento non darà luogo a scontri frontali tra stelle ma sarà caratterizzato da incontri ravvicinati gradualmente più vicini fino alla fusione dei nuclei.

Anche se non ci saranno urti, l’evento non sarà privo di rischi, a causa delle forze gravitazionali in gioco e del buco nero super massiccio al centro delle galassie. La loro interazione potrebbe far espellere interi sistemi stellari nello spazio profondo.

Una rappresentazione artistica di come potrebbe apparire la progressiva fusione tra Andromeda e la Via Lattea a un ipotetico osservatore in grado di sopravvivere per molti miliardi di anni, cioè il tempo necessario perché si plachino le turbolenze della collisione ed emerga il risultato finale: una gigantesca galassia ellittica – Fonte: NASA, ESA, Z. Levay, R. van der Marel, T. Hallas, A. Mellinger

Immaginare questo scontro ci proietta in un domani incerto, in cui la sicurezza data dal guardare vicino ci abbandona. I moti galattici sono così potenti e maestosi da lasciarci stupiti. Seppur difficile da vedere, però, il loro caotico movimento sottende un ordine. È lo stesso che ritroviamo nel Sistema Solare o nel moto dei satelliti attorno al loro pianeta, una danza rotazionale in cui ogni corpo è mosso.

Quell’interruzione che lo scontro tra questi due giganti celesti pare portare farà nascere un nuovo caotico ordine.

Alessia Sturniolo

Progetto Cosinus: a caccia di Materia Oscura

Materia Oscura: l’Universo ne è colmo, ma la sua natura resta ancora profondamente misteriosa. Tema molto discusso nella fisica astro-particellare contemporanea, la ricerca sulla Materia Oscura non è ancora stata in grado, ad oggi, di concludere nulla sull’argomento.

Ed ecco quindi che nasce il nuovo esperimento italiano, Cosinus, posizionato presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, che ci propone un vero e proprio viaggio alla scoperta del lato misterioso del nostro Universo.

Ma che cos’è la Materia Oscura?

Per definizione, la Materia Oscura è un ipotetico tipo di materia che, diversamente dalla quella conosciuta, non emette radiazione elettromagnetica (da qui il termine “oscura”). Essa, pertanto, è rilevabile soltanto in maniera indiretto attraverso i suoi effetti gravitazionali.

La sua esistenza è stata teorizzata per spiegare, nel modello standard della cosmologia, la formazione delle galassie e l’addensamento di ammassi di galassie nel tempo calcolato dall’evento del Big Bang. Inoltre, la presenza di Materia Oscura nell’Universo chiarirebbe come, sotto l’azione della forza di gravità, le galassie possano rimanere integre, nonostante la materia visibile non sia in grado di sviluppare sufficiente attrazione gravitazionale.

Ammasso di galassie – fonte: Inaf 

Ad oggi non vi sono altro che potenziali prove che certifichino l’effettiva esistenza della Materia Oscura. Ricordiamo, ad esempio, uno studio del 2008 condotto da un gruppo di astrofisici coordinati dall’Istituto di Astrofisica di Parigi, in cui sono state scattate ed esaminate alcune foto di galassie nelle quali si è visto come la luce subisse deviazioni in punti in cui non era visibile alcuna massa.

In passato è già stato ideato un progetto, denominato ‘Dama-Libra’ ed anch’esso posizionato presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, volto a rilevare ciclicamente flussi di particelle di materia oscura. A causa del moto di rivoluzione della Terra attorno al Sole, e del Sole nella Via Lattea, è stato previsto un flusso massimo di particelle che investono il nostro pianeta attorno al 2 Giugno, ed un minimo intorno al 2 Dicembre. Questo esperimento ha già, in effetti, riportato alcuni dati che segnalano la presenza di materia oscura. La natura dei segnali registrati da Dama-Libra, tuttavia, è ancora misteriosa: ecco quindi che nasce il progetto Cosinus.

Il progetto Cosinus

Germania, Italia, Austria e Cina si uniscono per trovare risposte sul lato oscuro dell’Universo: nasce così il progetto Cosinus, realizzato nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Lngs-Infn). Il luogo scelto non è affatto casuale: la protezione naturale dalle radiazioni, offerta dai 1.400 metri di roccia del massiccio appenninico, è perfetta per lo studio dell’universo. Esperimento recentissimo, la sua effettiva costruzione avverrà nel corso del 2021, mentre si prospetta l’inizio dell’attività scientifica nel 2022, ed i primi risultati nel 2023.

 

Laboratori Nazionali del Gran Sasso – fonte: INFS

 

L’idea nasce dai fisici Karoline Schaeffner, del Max Planck Institute di Monaco, e Florian Reindl, dell’Università tecnica di Vienna per studiare l’interazione di una particella di materia oscura con un cristallo scintillante di ioduro di sodio (NaI). L’obiettivo è quello di rendere la temperatura del cristallo scelto prossima allo zero assoluto (-273 °C) per poter osservare il comportamento assunto dall’apparato sperimentale quando investito dalle particelle. L’energia rilasciata da una particella all’interno del cristallo ne determina un lievissimo aumento di temperatura. Combinando i dati ottenuti di luce e calore, si è in grado di distinguere particelle di materia ordinaria da quelle di Materia Oscura. Come infatti spiega Andrei Puiu, ricercatore al GSSI :“La quantità di luce di scintillazione prodotta dal passaggio di particelle all’interno del cristallo differisce a seconda dalla natura della particella stessa”.

L’apparato sperimentale è un calorimetro scintillante criogenico, e consiste di un cilindro di sette metri d’altezza e sette di diametro, riempito di acqua ultra-pura e contenente al centro un criostato che mantiene la temperatura del cristallo di NaI a circa -273 °C. La scelta del cristallo non è fortuita: anche l’apparato Dama si serve dello stesso materiale di rivelazione, e pertanto sarà possibile effettuare un confronto con tale esperimento.

Cristallo scintillante di ioduro di sodio – fonte: INFS

Il principio di funzionamento di questi rivelatori si basa sulla proprietà di alcuni materiali, detti scintillanti, in grado di produrre lampi di luce quando attraversati da radiazioni. E’ possibile quindi ottenere un rivelatore di particelle che fornisce informazioni sul passaggio di una radiazione al suo interno mediante la produzione di luce visibile e la successiva conversione di essa in segnale elettrico.

Sull’interessante progetto si esprime Natalia Di Marco, ricercatrice presso il GSSI e responsabile italiana del progetto, affermando come COSINUS stia “offrendo un’incredibile opportunità di ricerca interdisciplinare. Utilizzare i cristalli di ioduro di sodio a temperatura criogenica è infatti una sfida tecnologica che richiede competenze trasversali a quelle di noi fisici astro-particellari”.

Riuscirà Cosinus a fornire una conferma sperimentale sulla natura misteriosa della Materia Oscura? Una sfida tutt’altro che banale quella lanciata dall’ambizioso progetto, che tuttavia potrebbe, in futuro, contribuire ad aggiungere un ulteriore tassello per la comprensione del misterioso Universo che ci circonda.

Giulia Accetta

The Martian: la fisica strampalata di Hollywood

Un’analisi scientifica del film di Ridley Scott, tra buffe imprecisioni e trovate (poco) geniali.

Avere una laurea in fisica ha diverse ripercussioni. La perdita della sanità mentale? Certo, soprattutto quella. Ma anche guardare un film con occhio critico (anzi, ipercritico). Così è stato quando ho avuto la felice idea di guardare “The Martian – Il sopravvissuto”, prodotto e diretto da Ridley Scott.

Siamo su Marte. L’equipaggio della missione Ares 3 della NASA raccoglie campioni da analizzare. Ancora non ho fatto in tempo a trovare la mia sedia al multisala che noto il primo errore: la camminata degli astronauti. Essendo la gravità marziana, infatti, circa un terzo di quella terrestre, gli astronauti avrebbero dovuto procedere per piccoli balzelli.

L’equipaggio ad un certo punto è costretto a partire a causa di una violenta tempesta. Domanda: ci sono tempeste così violente su Marte?  Parecchio improbabile, quasi impossibile. Questo perché la densità dell’atmosfera marziana è circa 1/100 di quella terrestre. Ma vabbè, partono.

L’astronauta Mark Watney (Matt Damon) viene colpito da dei detriti e trafitto da un palo di metallo; creduto morto a causa dei danni elettronici riportati nella tuta, viene lasciato sul pianeta rosso. Ovviamente, da buon americano, si toglie il palo ben inserito nel suo intestino con estrema facilità, per poi chiudersi la ferita con una spillatrice, senza nemmeno imprecare un po’ per il dolore. Se fossi un medico mi indisporrei un po’, ma sono un fisico, dunque glisso su questa parte e vado avanti.

A questo punto il nostro Superman marziano, conscio che nel breve periodo non c’è nessuna possibilità che la NASA possa tornare a riprenderlo, è costretto ad affidarsi al suo ingegno e alle sue conoscenze scientifiche per sopravvivere all’angusto territorio marziano. Da buon botanico (ma anche ingegnere, fisico, chimico, biologo, Iron man e uomo ragno) pianta delle patate, presenti nella base che avevano costruito, nella notoriamente fertile terra marziana, che concima con un po’ di escrementi dei suoi colleghi et voilà, ecco una coltivazione intensiva di patate!

Watney: passione agricoltore.

“Oh cavolo, manca l’acqua”. Così prende l’idrazina, elemento fondamentale nei carburanti liquidi per i razzi, e la unisce all’ossigeno per creare dell’acqua. Il tutto andrebbe fatto in un ambiente completamente isolato. È interessante sottolineare come, se proprio voleva dell’acqua, poteva riscaldare della terra marziana! Infatti, per ogni metro cubo di terra marziana ci sono circa 35 litri di acqua sotto forma di ghiaccio. Ma effettivamente fa meno figo.

Le patate crescono, Watney balla e se la spassa nella sua beata solitudine, trova anche il modo di mettersi in contatto con la Terra. Qui il regista sottolinea come la comunicazione fra i due pianeti sia un po’ problematica, e questo è più che giusto. Infatti, i segnali che trasportano le informazioni, per percorrere il tragitto Terra-Marte possono impiegare dai 6 ai 40 minuti. Finalmente una cosa fisicamente corretta, direte. Si, è vero. Ero contento.

La gioia di Watney sapendo che su Marte non c’era la suocera.

A questo punto Ridley Scott si è accorto che il suo capolavoro stava diventando un film della Disney e inserisce di prepotenza un colpo di scena. A causa di un malfunzionamento, si stacca il portellone che manteneva la base spaziale pressurizzata e con una temperatura umanamente accettabile. Infatti, la temperatura di Marte può andare da un minimo di -140 °C in “inverno” fino ad un massimo di 20 °C in “estate”. Ora, ammesso che fosse estate, comunque il nostro astronauta sfortunato si ritrovava a dover risolvere il problema della forte differenza di pressione (pari circa ad una atmosfera) tra il dentro e il fuori della base spaziale. E lui ci riesce! Come? Con un telo di plastica e un po’ di scotch. È una cosa possibile? Manco per scherzo. Con una tale differenza di pressione nemmeno la colla di Giovanni Mucciaccia poteva tenere il telo ancorato alla base.

“Cos’altro potrebbe andare storto?” e si stacca il portellone.

Ah, nel frattempo si vede un bellissimo tramonto così simile a quello terrestre. Anzi, aspetta, troppo simile: il tramonto sulla Terra è rosso perché i raggi solari vengono deviati in un certo modo dalle particelle presenti nell’atmosfera, ma avendo l’atmosfera marziana densità e composizione molto differenti da quella terrestre il tramonto sarebbe dovuto apparire di colore blu-indaco.

I compagni di avventura del buon Watney vengono poi informati del fatto che lo hanno lasciato solo a marcire su Marte. Dato che si sentivano più in colpa di me quando mangio la pizza al primo giorno di dieta, allora decidono di tornare a prenderlo. Atterrare sulla Terra e ripartire costerebbe troppo e gli farebbe perdere troppo tempo, così sfruttano l’effetto fionda per prendere velocità e tornare su Marte. Questa manovra è corretta e spesso usata nei viaggi spaziali per far prendere velocità alle navicelle: in poche parole, ci si avvicina abbastanza al pianeta per essere attirati dal suo campo gravitazionale, ma non troppo da caderci dentro e schiantarsi al suolo. In questo modo, come suggerisce il nome, si viene catapultati a velocità maggiore, proprio come funzionerebbe con una fionda. Nel frattempo gli astronauti, per alcune riparazioni, si avventurano in passeggiate spaziali senza nessun tipo di imbracatura o sostegno. Tanto, se sbagli di un millimetro puoi solo fluttuare per l’eternità nello spazio, che sarà mai.

Watney è estasiato (e giustamente direi, dopo tutti quei mesi a mangiare patate). Per poter effettivamente ricongiungersi al resto dell’equipaggio, Watney necessitava, ovviamente, di una navicella: fortuna che su Marte c’era già quella destinata alla missione successiva ad Ares 3, che riesce a raggiungere grazie ad un Rover marziano vicino alla sua base. Dalla NASA, però, gli dicono che deve alleggerirlo parecchio per far sì che parta. Bene, praticamente lo smonta tutto, e la parte finale del razzo, smontata anche quella, la copre con un telo di plastica attaccato con dello scotch (si, lo so, la fantasia non è il suo forte).

Rover marziano.

Gli altri astronauti nel frattempo arrivano in soccorso e Watney parte. Piccola parentesi: sapete cosa sono quelle stelle cadenti che vedete la notte di San Lorenzo? Sono piccoli detriti che entrano nell’atmosfera terrestre e, viaggiando ad alta velocità a causa dell’attrazione gravitazionale, prendono fuoco a causa dell’attrito con l’aria. Ora, va bene che l’atmosfera marziana è molto più rarefatta di quella terrestre, ma può un telo di plastica sopportare la velocità e il calore prodotto dall’attrito dovuto dal contatto telo-atmosfera? No. Lo scotch non avrebbe retto e il telo avrebbe preso fuoco.

Il signor Scott ha voluto inserire un ultimo colpo di scena. I fisici della NASA hanno sbagliato i calcoli di 200 metri. Possono sembrare pochi, ma a quelle velocità, anche solo qualche metro può risultare decisivo. Watney non sa come raggiungere i suoi compagni. Allora gli viene l’idea: “Buchiamo la tuta, in modo da sfruttare il getto d’aria come propulsore”. Dopo essermi ripreso dallo shock, con la mia ragazza che mi assicurava che presto sarebbe finito tutto, ho analizzato la situazione. Le tute spaziali sono pressurizzate e isolanti. Se fai un buco nella tuta, oltre a morire subito di freddo, a causa della fortissima differenza di pressione i polmoni collasserebbero. Quindi, in effetti, non gli rimane che scegliere come morire.

Inoltre, ci sono due piccole e insignificanti leggi della fisica che cozzano con questa genialata: i principi di conservazione della quantità di moto e del momento angolare. Infatti, una volta bucata la tuta, Watney doveva calcolare l’angolo di uscita del getto con elevatissima precisione, perché una volta stabilita la direzione del getto d’aria (e quindi una certa direzione del moto in un sistema isolato, come lo spazio) non la si può più cambiare in virtù del fatto che la quantità di moto si conserva. La stessa cosa vale per la conservazione del momento angolare: sempre se non fosse morto subito, una volta bucata la tuta molto probabilmente avrebbe cominciato a girare intorno ad un asse del tutto casuale. Anche se avesse raggiunto il comandante della missione, che nel frattempo si era fiondata a prenderlo, avrebbero cominciato a girare insieme senza riuscire a fermarsi, come nel tagadà della fiera. Tutto ciò perché lo spazio è vuoto e non si ha l’attrito.

Alla fine il nostro eroe, dopo mille peripezie, torna sano e salvo a casa ad insegnare come sopravvivere mangiando patate su Marte.

Nonostante i continui mancamenti durante la visione del film, devo dire che tutto sommato mi è piaciuto. Pieno di errori, certo, ma da un film di Hollywood non pretendo l’accuratezza scientifica dei documentari di Alberto Angela. Quindi gustatevelo, ma con occhio critico… da fisico.

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

Come finirà l’universo?

Ammettiamolo: fin da piccoli siamo a conoscenza della teoria del Big Bang sull’origine dell’universo, ma sconosciamo del tutto quale possa essere il destino ultimo del cosmo.

In realtà, nemmeno la scienza è in grado di darci una risposta univoca, anzi: sono nate nel corso degli anni una notevole quantità di teorie, dalle più intuitive alle più bizzarre.

Fino a non molto tempo fa si riteneva che l’universo fosse statico, ovvero sempre uguale a se stesso, non in moto. Persino Albert Einstein inserì del tutto arbitrariamente un valore, la costante cosmologica, nella relatività generale per impedire che venisse confutata questa teoria, della quale era un grande sostenitore.

Di parere opposto erano sia Lemaître che Hubble: entrambi osservarono che la radiazione emessa dalle galassie vicine alla terra andava nel corso del tempo ad assumere sempre più un colore rosso. A meno che questa variazione cromatica non fosse dovuta a un capriccio astrofisico, questo fenomeno richiedeva una spiegazione: è il moto di allontanamento delle galassie a causarlo, dunque l’universo è in espansione. Questa prova, insieme a molte altre, ha di fatto eliminato definitivamente il modello di universo statico, con buona pace di Einstein.

Ma quali sono le forze in gioco in grado di spiegare questa espansione?

Intuitivamente verrebbe da pensare che la forza di gravità, responsabile dell’attrazione tra i corpi celesti, li avvicini sempre più tra loro, causando una contrazione dell’universo, piuttosto che un’espansione. Proprio per questo motivo Einstein inserì la costante cosmologica, che però secondo il fisico controbilanciava esattamente la gravità, rendendo l’universo statico.

Ovviamente la gravità agisce, ma deve essere presente una qualche forma di energia in grado di spiegare la tendenza all’espansione: questa energia, per via della sua origine sconosciuta, è stata chiamata energia oscura e la sua caratterizzazione rappresenta una delle maggiori sfide della fisica moderna.

Avrete sicuramente capito che il destino dell’universo dipenderà quindi dalla quantità di energia oscura, che si oppone alla tendenza “collassante” della gravità.

A ciò va aggiunto un altro parametro fondamentale: la forma dell’universo.

Abbiamo 3 possibilità, in base al valore della densità critica dell’universo stesso (Ω).

  1. Ω>1: universo sferico, chiuso.
  2. Ω<1: universo aperto a curvatura negativa, forma simile a una sella.
  3. Ω=1: universo piatto, come un foglio di carta.

In un universo chiuso, appare intuitivo che prima o poi la gravità prenda il sopravvento causando prima l’arresto dell’espansione, poi la contrazione fino a uno stato di estrema condensazione di tutta la materia (singolarità), il Big Crunch.

Da qui in poi è impossibile stabilire cosa accadrà. Un’ipotesi suggestiva prevede che essendo il Big Crunch di fatto uno stato identico al Big Bang, dopo esso l’universo possa nuovamente riformarsi, in un ciclo infinito. Da ciò nascono due teorie simili: l’universo oscillante di Penrose e il Big Bounce (grande rimbalzo), che stanno tuttavia perdendo importanza, in quanto oggi si ritiene che l’energia oscura sia talmente abbondante da mantenere l’espansione indefinitamente, anche in un universo chiuso.

Schema dell’ipotetico Big Bounce

Anzi, l’espansione si starebbe verificando sempre con velocità maggiore. Inoltre, la maggior parte dei dati indica che Ω=1.

Sono nate dunque altre due teorie (valide anche per Ω<1): il Big Freeze (“morte termica”) e il Big Rip.

La prima rappresenta una diretta conseguenza del secondo principio della termodinamica: l’entropia, ovvero il “disordine” che per definizione è in costante crescita, aumenta al punto tale da rendere impossibile l’esistenza di una qualsiasi forma di materia “ordinata”, dall’essere umano a una stella, dall’acqua a un cuscino. Alla fine di tale processo, la materia così come la conosciamo (composta da protoni, elettroni ecc.), verrebbe disgregata a tal punto da essere sostituita da una “nuvola” di fotoni, particelle prive di massa con vita infinita.

Ancora più “catastrofico” è il Big Rip (grande strappo): la velocità di espansione crescerebbe al punto tale da determinare un improvviso “strappo” dello spazio-tempo, con il venir meno della capacità delle forze gravitazionale, elettromagnetica e nucleare di tenere unita la materia. Le conseguenze sono simili al Big Freeze: un universo freddo e inerte, incompatibile con la vita. Oggi si ritiene che non ci sia tuttavia una quantità tale di energia oscura da giustificare questa ipotesi.

Concludiamo con la teoria forse più affascinante: il multiverso.

Quanti di voi hanno visto almeno un film o una serie tv che parla di universi paralleli?

Il fascino di questo argomento non ha risparmiato nemmeno la comunità scientifica, da Stephen Hawking ad Andrej Linde. Secondo alcuni fisici, l’esistenza di più universi sarebbe giustificata dalla cosiddetta inflazione caotica, sostenuta persino da conferme sperimentali (link a fondo pagina). Secondo la fisica quantistica, in realtà, il vuoto, inteso come “il nulla”, non esiste: esso è formato da una “schiuma quantistica”, nella quale c’è un continuo “ribollire” dello spazio dovuto a fluttuazioni energetiche del tutto casuali (da cui il termine “caotica”). Un po’ come in una coppa di spumante, nella quale si formano continuamente bolle in modo casuale. Questa teoria prende il nome di teoria delle bolle.

Se una di queste bolle possiede un’energia sufficiente, può avere origine un universo a sé stante dall’universo di partenza.

I due universi sarebbero inizialmente collegati da un wormhole (ponte di Einstein-Rosen, figura in basso), per poi diventare indipendenti.

Pur essendo questo un modello di universo senza fine, in quanto si formano infiniti universi, ogni singolo universo può andare incontro a un Big Freeze o un’altra sorte.

Ad ogni modo, se vi state preoccupando per la fine del cosmo, non disperate: nessun lettore di questo articolo vivrà tanto a lungo da poterla testimoniare.

Emanuele Chiara

Per approfondire:

https://www.cfa.harvard.edu/CMB/bicep2/papers.html

Buchi neri, grande passo avanti della scienza

Oggi per la prima volta nella storia vedremo le foto di un buco nero.
Un evento di portata storica.
È lo straordinario successo di un gruppo di ricerca formato da scienziati internazionali che ha riunito una rete di telescopi sparsi su tutta la Terra per raggiungere la risoluzione necessaria a “fotografare” il misterioso fenomeno.

La diretta della conferenza dell’Eso (European Southern Observatory) avrà inizio alle ore 15 e sarà trasmessa su Youtube nel canale della Commissione europea.
Su Focus lo speciale sarà trasmesso dalle ore 14:30 fino alle 16:00, e ancora in seconda serata questa sera alle 23:15.

I risultati del progetto, dal nome Event Horizon Telescope, segneranno una pietra miliare nell’astrofisica, che potrebbe confermare ma anche smentire alcune delle principali teorie che costituiscono la base della nostra comprensione del cosmo, inclusa la teoria della relatività di Albert Einstein.

 

 

 

I buchi neri si generano quando le stelle muoiono, collassano su se stesse e creano una “regione” dove la forza di gravità è così forte che nulla può sfuggire venendo risucchiati per sempre.

Fino ad oggi gli scienziati non sono mai stati in grado di fotografarli, ma sono riusciti solo ad ascoltarli: quando i buchi neri si scontrano l’uno con l’altro, rilasciano infatti enormi onde gravitazionali che sono state rilevate da appositi strumenti negli osservatori degli Usa e anche dell’Italia.

L’impossibilità di fotografare questi fenomeni è dovuta ad una serie di motivi.

La loro attrazione gravitazionale rende impossibile la fuga della luce.

Inoltre i buchi neri si trovano molto distanti dalla Terra.

Ciò che gli scienziati stanno cercando di catturare è “l’orizzonte degli eventi”, il confine di un buco nero e il punto di non ritorno oltre il quale tutto viene risucchiato per sempre.

 

 

 

Sebbene sia uno dei luoghi più violenti dell’universo, gli scienziati ritengono che i radiotelescopi possano catturare i fotogrammi dell’orizzonte degli eventi.

Oltre a mostrare l’immagine, gli scienziati sperano di fare chiarezza su alcuni dei temi più dibattuti in astronomia e fisica teorica. Uno di questi è la forma dei buchi neri: secondo la teoria della relatività, essi sono circolari, ma altri scienziati ritengono sia ‘prolata’, ovvero schiacciata lungo l’asse verticale, o ‘oblata’, schiacciata lungo l’asse orizzontale.

Se non fossero circolari, questo – secondo gli scienziati di Event Horizon Telescope – non vorrebbe dire che la teoria della relatività è sbagliata, ma che semplicemente “nella fisica c’è ancora molto da capire”.

Un evento di portata astronomica, proprio per restare in tema, che traccia un solco nello studio dell’astrofisica e che rischia di porre in discussione perfino il buon vecchio caro Albert Einstein.

Antonio Mulone