Neuroestetica: la scienza dietro l’arte

La disciplina che concilia le neuroscienze e l’estetica, intesa come sfera del sensibile in riferimento all’arte, e che si promette di studiare con metodo scientifico i processi neurofisiologici coinvolti nel godimento dell’opera d’arte.

Origini della Neuroestetica

Si tratta di un ambito di ricerca relativamente nuovo, proposto dal neurobiologo Semir Zeki nei primi anni del Duemila e formalmente definita come “studio scientifico delle basi neurali per la contemplazione e creazione di un’opera d’arte” in occasione della fondazione dell’Istituto di Neuroestetica (2002).
Il significato della disciplina è sostenuto dal suo fondatore con l’argomentazione che non può esistere una teoria estetica completa senza la totale comprensione dei fondamenti neuronali.
Zeki inoltre sostiene che vi sia un percorso parallelo per artisti e neuroscienziati della vista e un fine comune di scoprire le distinzioni del mondo visivo e, simultaneamente, i meccanismi cerebrali coinvolti.

Meccanismi cerebrali

Si può quindi comprendere per quale ragione molte volte i dipinti violano le leggi della fisica del mondo reale nell’ambito di ombre, colori e contorni: l’obiettivo dell’artista non sarebbe tanto la rappresentazione fedele al mondo esterno, quanto ricreare le scorciatoie percettive usate dal cervello.

La “manipolazione” cerebrale sfruttata dagli artisti risiede nel percorso compiuto dall’informazione visiva. Tutto inizia a livello della corteccia visiva primaria, dove i neuroni registrano informazioni come linee e curve del campo visivo.

L’informazione poi procede secondo due percorsi, distinti ma collegati, verso l’area ventrale e dorsale del cervello, coinvolte nell’elaborazione visiva: la corrente ventrale, o “via del Cosa”, si estende dalla corteccia visiva primaria alla corteccia temporale inferiore ed è associata al riconoscimento di forme, colori e in generale della rappresentazione degli oggetti.

La seconda è la corrente dorsale, anche detta “via del Dove” o “via del Come”, e ha inizio nella corteccia primaria visiva (V1) con termine nella corteccia parietale posteriore. La sua funzione è di localizzare l’oggetto all’interno del campo visivo grazie anche ad informazioni complementari come luce e movimento, oltre ad essere un’importante componente per afferrare oggetti.

Da cosa è costituita l’opera d’arte?

Gli elementi che compongo l’opera d’arte sono colore, forma, texture e disegno, ma ancora più semplicemente distinguiamo colore e luce: il primo esprime emozioni e simboli, la seconda descrive le forme, il tratto e la texture.

Mentre il colore è un aspetto dell’opera costantemente analizzato e approfondito, la luce, nonostante possieda un ruolo chiave nella composizione artistica, è ancora poco sfruttata dagli artisti stessi.
Un perfetto esempio di ciò è rappresentato dalla corrente impressionista; si affaccia sul mondo dell’arte figurativa verso la fine del XIX secolo a seguito della diffusione del neoclassicismo, avvenuta qualche decennio prima, da cui prende le distanze, facendo dell’uso sperimentale di luce e colore un manifesto.

Un esempio di studio

Si prenda in esame il quadro di Claude Monet “Impressione, levar del sole” (1872), da cui derivò il nome della corrente.
Lo si confronti con una versione monocroma della stessa opera e si rimuova uno dei due elementi chiave, il colore. E’ possibile così soffermarsi maggiormente sulla luce del dipinto e in particolare su come il sole e le nuvole siano stati rappresentati con la stessa luce dall’artista e volutamente.

Se, infatti, Monet fosse rimasto fedele alla realtà raffigurando quindi un sole più chiaro e luminoso dello sfondo su cui si staglia, paradossalmente sarebbe risultato meno brillante rispetto alla versione definitiva.

Tre versioni del dipinto di Monet “Impressione, levar del sole”: originale (in alto), monocromatico (centro), con la luminosità del sole resa realistica (in basso). Fonte: Light Vision

Il fenomeno pittorico appena illustrato si può spiegare a livello cerebrale prendendo in esame l’elaborazione separata dell’informazione visiva convogliata dalle due correnti.

Laddove la via del Cosa trasmette informazioni riguardo al colore, la via del Dove è insensibile al colore.
La seconda è tra i due il sistema più antico e in grado di rilevare con maggiore precisione la luce e le sue variazioni. Come conseguenza, registra anche il movimento e la profondità degli oggetti rispetto allo sfondo.

L’opera impressionista riesce dunque ad ingannare la via del Dove. Davanti agli oggetti isoluminanti (come il sole e il mare, con intensità luminosa uniforme), non potendo contare sull’aspetto cromatico, non riesce a registrarne la posizione o la profondità.  Il risultato di questo fenomeno è quella sensazione di apparente movimento delle onde e dello scintillio del sole riflesso sull’acqua.

Rafforza l’illusione la tecnica pittorica scelta da Monet: tante pennellature brevi sulla tela, che richiedono all’osservatore di essere unite in tratti unici.

L’antitesi classicista

Una controprova della teoria si ha osservando un’opera che rappresenta una scena d’azione, ottenuta facendo uso di luce a diverse intensità: ne “Il ratto delle Sabine” di Nicolas Poussin (1638), l’eccesso di movimento e dettagli raffigurati dall’autore finiscono per avere un effetto paralizzante. 
Il cervello dell’osservatore si sofferma a studiare il maggior numero possibile di particolari. Esso, però, ontemporaneamente fissa le figure sullo sfondo, perdendo così la sensazione di slancio delle figure.

La Neuroestetica non si ferma qui

la Neuroestetica si dimostra promettente verso future applicazioni, specie nella comprensione dell’impatto dell’opera sull’osservatore nel campo dell’arte visiva; ma anche nel mondo architettonico per la costruzione di edifici abitativi e in ambito clinico riguardo gli effetti di malattie neurodegenerative sulla percezione artistica.

Eleonora Calleri

FONTI:

Neurobiology of sensation and reward, Chapter 18, A. Chatterjee: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK92788/#ch18_r52
Light vision, M. Livingstone: https://switkes.chemistry.ucsc.edu/teaching/CROWN85/literature/lightvision.pdf
Neuroaesthetics: an introduction to visual art, T.S. McClure, J.A. Siegel: https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/1745691615621274
The neuroaesthetics of architectural spaces, A. Chatterjee, A. Couburn, A. Weinberger: https://doi.org/10.1007/s10339-021-01043-4
Art produced by a patient with Parkinson’s disease, A. Chatterjee, R.H. Hamilton, P.X. Amorapanth: https://doi.org/10.1155/2006/901832

Messina cum laude: la rigenerazione dell’area della Fiera di Messina

Si dice spesso che il futuro sia in mano alle nuove generazioni. Noi di UniVersoMe, da giovani redattori, crediamo fermamente in quest’assunto, a tal punto da voler dare spazio ai giovani talenti della nostra città. Oltre al campo artistico, però, è di fondamentale importanza – per la comunità cittadina – l’innovazione scientifica, apportata dai giovani studenti universitari. Mossi da questa premessa, abbiamo deciso di lanciare una nuova rubrica, denominata “Messina cum laude”.  La rubrica si concentrerà sulle tesi di laurea che hanno come oggetto un aspetto specifico della nostra città.

Iniziamo oggi con una tesi di laurea magistrale concernete l’area della Fiera di Messina, negli ultimi mesi al centro del dibattito cittadino – prevalentemente sui social – per la demolizione dell’ex Teatro in Fiera.

Gli autori

L’elaborato, dal titolo “Rigenerare il patrimonio storico del mediterraneo. Il caso studio della Fiera di Messina” è stato redatto dal dottor Giandomenico Crisarà – nato a Reggio Calabria – e dalla dottoressa messinese Antonina Sturniolo. Entrambi hanno conseguito la laurea triennale in Scienza dell’Architettura presso l’Università degli Studi di Reggio Calabria e, lo scorso febbraio, si sono laureati in Architettura per il restauro e la valorizzazione del patrimonio presso il Politecnico di Torino.

Il dottor Giandomenico Crisarà e la dottoressa Antonina Sturniolo, dopo un sopralluogo nell’area della Fiera

L’indagine storico-sociale e lo stile architettonico

La tesi si basa sulla rigenerazione urbana di un bene di un certo valore nelle coste del Mediterraneo. L’analisi di alcuni esempi di rigenerazione ha dimostrato che esistono buone – e funzionali – e cattive pratiche, con spreco di soldi.

Da qui è stata condotta un’indagine storica e sociale su un caso particolare: l’area della Fiera di Messina. La prima problematicità è stata capire a chi appartiene la titolarità del bene e a chi compete la gestione, a causa dei numerosi contenziosi. Probabilmente molti non sanno che l’area della Fiera è un bene demaniale marittimo – quindi appartiene allo Stato -, la cui titolarità attualmente è dell’Autorità Portuale dello Stretto.

Prima del collocamento dell’istituzione fieristica messinese – tra le più antiche del mondo -, nell’area in questione sorgeva il giardino Umberto I, un giardino ottocentesco di una bellezza peculiare. Il terremoto e i bombardamenti del Novecento, però, hanno distrutto il cosiddetto “giardino a mare”, mai più recuperato.

Scorcio del “giardino a mare” Umberto I

Nel 1938 l’area accolse per la prima volta la Fiera – istituita nuovamente nel 1934 con la denominazione “Fiera delle attività economiche siciliane” e giunta alla sua quinta edizione –, precedentemente ospitata dai locali del Liceo classico “Maurolico”.

Il primo progetto del complesso è degli architetti romani Libera (il padre del razionalismo) e De Renzi; gli architetti successivi, invece, sono tutti messinesi e hanno operato – a parte qualche eccezione – in continuità con l’architettura razionalista. L’idea principale di Libera e De Renzi si basava sulla realizzazione di una porta affacciata allo Stretto; inizialmente si sarebbe voluto preservare il verde della villa ottocentesca, però, con il passare degli anni l’area è diventata un cantiere di cemento. Dagli anni ’50, infatti, si sono susseguiti tanti interventi affrettati e poco consoni, probabilmente per esigenze funzionali e a breve termine.

Timeline degli architetti e dei rispettivi interventi

Linee guida per il progetto

Per tutta la seconda metà del Novecento e nel primo decennio dell’attuale secolo, l’area era affidata in gestione all’Ente autonomo della Fiera, istituito nel 1946. Dal 2012 – dopo lo scioglimento dell’Ente autonomo – l’area è in gestione all’Autorità Portuale, che nel 2016 ha indetto un bando di concessione, andato deserto.

Guidati dal bando, i due dottori hanno elaborato un progetto molto realistico, perché considera i vincoli sugli edifici protetti, la tutela della vegetazione e la promozione socioculturale del rapporto con il mare.

Il progetto parte dal concetto di pianificazione strategica e considera di primaria importanza il ruolo degli stakeholder -i soggetti interessati al progetto -, dalla cittadinanza ai possibili investitori; inoltre, è improntato su una visione globale e non su interventi sconnessi sui singoli edifici.

 

Mappa degli stakeholder

Il progetto originale della tesi

L’idea di base del progetto è quello di aprire e far vivere questo luogo ai cittadini; un luogo dinamico, pronto a rispondere alle diverse esigenze della nostra città.

Gli edifici abbandonati potrebbero ospitare aule studio universitarie, capaci di trasformarsi di sera in luoghi di aggregazione per giovani – e non solo -.

La mappatura dei potenziali stakeholder – che hanno espresso interesse in passato – ha permesso di elaborare una proposta reale; non mancano infatti le associazioni giovanili pronte a creare dinamiche di aggregazione e organizzare eventi socioculturali.

Centrale sarebbe anche la valorizzazione dello sport, sia all’aperto che all’interno di uno dei padiglioni.

In un edificio potrebbe essere allestita – in chiave turistica – una galleria enogastronomica, con stand in microgestione.

Si darebbe ampio spazio al verde, riprendendo le caratteristiche del meraviglioso giardino Umberto I.

L’aspetto più importante, però, riguarda la valorizzazione del waterfront, attraverso la creazione di un complesso unico con la Passeggiata, anche se bisognerebbe andare oltre la proposta della demolizione dell’edificio dell’ex Bar Irrera, bene vincolato per la sua importanza architettonica.

Schema tridimensionale delle nuove destinazioni d’uso

Una grande occasione per la rigenerazione

La tesi di Crisarà e Sturniolo, caratterizzata da uno scrupoloso studio e da un impeccabile approccio metodologico, nasce con l’intento di denunciare le cattive pratiche che hanno contribuito alla decadenza di un’area di grande potenzialità del nostro territorio.

La denuncia però non è fine a sé stessa, ma è accompagnata da una proposta organica, ben strutturata e ampiamente motivata.

La crisi generata dalla pandemia ha colpito molti paradigmi della nostra società; eppure, proprio dalle macerie emergono opportunità di rigenerazione. È dunque necessario dare spazio ai giovani cittadini, pronti a mettere al servizio della comunità le proprie idee e – soprattutto – le proprie competenze.

Mario Antonio Spiritosanto

 

Gli autori sui social:

Giandomenico Crisarà:

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Antonina Sturniolo:

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facebook.com/antonella.sturniolo

 

Fonti:

Tutte le immagini presenti nell’articolo sono state fornite dai due autori

Alla scoperta di un meraviglioso luogo di Messina: peccato che sia chiuso

©Alessio Gugliotta – Galleria INPS, esterno, 2020

La provocazione insita nel titolo di questo breve articolo nasce spontaneamente, sul finire delle vacanze natalizie, più precisamente il 4 gennaio. Apprendo la notizia della riapertura straordinaria della celebre Galleria INPS-INA, situata tra il Municipio della città e il Duomo, isolato n.318. L’occasione è tra le più meritevoli: si è svolta l’iniziativa benefica, promossa dalla Direzione provinciale INPS e dall’Assessore alle Politiche sociali del Comune di Messina, Alessandra Calafiore, a favore di bambini e ragazzi in situazioni di disagio. L’evento ha visto la partecipazione della banda della Brigata meccanizzata “Aosta”, del Conservatorio “Arcangelo Corelli” e del Coro “Note colorate”.

©Alessio Gugliotta – Galleria INPS, interno, 2020

Desideroso di conoscere una parte inaccessibile della mia città, chiamo un amico per scattare qualche foto e mi reco sul posto, forse spinto anche dal mio ruolo di direttore della rubrica “Cultura locale”, all’interno di UniVersoMe. Ciò che immediatamente mi colpisce è lo stato di abbandono nel quale versa la Galleria, che denuncia una certa aria di “temporaneità”. Mi spiego meglio: nessuna parte di essa, dal soffitto a vetri ampiamente danneggiato, alle due facciate interne, fino al pavimento dissestato, lascia intendere che questo spazio sarà nuovamente aperto al pubblico.

Consapevole di non conoscere affatto la storia della Galleria, un po’ perché l’ho sempre vista chiusa, un po’ per noncuranza, decido di informarmi a riguardo una volta tornato a casa. L’architetto Gino Peressutti, progettista dell’opera, non è certo il cosiddetto primo che passa: al suo operato dobbiamo infatti la realizzazione di Cinecittà a Roma. Ma né i nobili natali, né la centralissima posizione, né tantomeno l’ormai consumata bellezza dell’opera, sono stai sufficienti a mantenerla aperta. Oserei aggiungere – se me lo permettete – a mantenerla in vita. Perché, e questo possiamo affermarlo con certezza, nelle intenzioni di qualsiasi architetto non c’è sicuramente la perenne chiusura della propria opera, sottratta alla fruizione da pesanti catene e lucchetti.

Ma in mezzo a tanta disillusione, una speranza: un accordo per la ristrutturazione e messa in sicurezza, siglato da INPS, ordine Architetti e Fondazione Architetti nel Mediterraneo. Poco importa se la data risale al 28 settembre 2018, quando gli unici lavori tangibili – ahimè – consistono nell’incauta sovrapposizione di uno strato di intonaco su una delle due facciate interne (quella di competenza privata).

©Alessio Gugliotta – Galleria INPS, interno, 2020

Preoccupato dal fatto che Peressutti possa non stare riposando in pace, mi chiedo: come è possibile che un’opera di tale importanza, rimanga costantemente chiusa e in bella vista, sotto gli occhi di cittadini, istituzioni e parti in causa? Riuscirà l’accordo siglato, seppur con qualche ritardo, a restituirci questo “nobile sottopassaggio”?

Memore degli anni in cui, da giovane liceale, osservavo una buia ed abbandonata Galleria Vittorio Emanuele, sono fiducioso in un come risposta, nonostante le dovute differenze. Pertanto mi auguro di raccontare, in un nuovo articolo, una storia diversa da quella di oggi, magari – e sopratutto – con un titolo diverso.

Emanuele Chiara

 

Questo articolo è già stato pubblicato come inserto sulla Gazzetta del Sud. Il nostro giornale lo ripropone su autorizzazione dell’autore.

L’articolo su Noi Magazine, Gazzetta Del Sud – pubblicata giorno 16/01/2020

Immagine in evidenza: © tutelabenistorici.it – Tutela beni storici Onlus

 

Il Palazzo Reale di Messina: una grande storia durata sette secoli

All’incrocio tra la via I Settembre e il Viale San Martino oggi sorge il Palazzo della Dogana, costruito in stile Liberty, nel 1914, su progetto di Giuseppe Lo Cascio.
Vi è da sapere, però, che in quella stessa area in antichità si trovava una delle più maestose regge della Sicilia: il Palazzo Reale, voluto dai Normanni nella seconda metà dell’XI secolo e rimasto una delle principali residenze reali dei re e vicerè di Sicilia fino alla fine del XVIII secolo.

In realtà, molto probabilmente, il Palazzo aveva un’origine ancora più antica: i normanni, infatti, non avrebbero fatto altro che riedificare un preesistente castello arabo, dimora degli emiri durante la dominazione islamica della Sicilia. Ciò si evince da alcune iscrizioni arabo normanne del XII secolo, che verosimilmente ornavano una delle facciate della reggia e che oggi sono conservate al Museo regionale di Messina.
Ad ogni modo, il Palazzo Reale ebbe grande rilievo in epoca normanna: nel 1061, Messina fu la prima città siciliana conquistata da Roberto il Guiscardo e il fratello minore Ruggero (diventato poi il primo Conte di Sicilia). Proprio nella città dello Stretto, i sovrani normanni si stabilirono e cominciarono ad erigere fortificazioni, fra cui appunto la grandiosa reggia che divenne la loro residenza. Solo dopo la morte di Ruggero, sua moglie Adelasia del Vasto, regina madre e reggente, e l’erede al trono Ruggero II si trasferirono a Palermo.

La reggia messinese continuò comunque ad avere la sua importanza: il sovrano spesso tornava a soggiornarvi, essendo la città peloritana la seconda capitale di quello che divenne, nel 1130, il Regno di Sicilia. A cavallo tra il 1190 e il 1191, il Palazzo ospitó anche re Filippo II di Francia : diretto verso la Terra Santa, per combattere la Terza Crociata, le tempeste invernali lo costrinsero infatti a fermarsi a Messina per diversi mesi.

Nel corso dei secoli, la reggia subì diversi rimaneggiamenti. Nel periodo aragonese, più precisamente sotto il dominio di Federico III, fu eseguito un ampliamento.
Successivamente, dal 1565 al 1589 il Palazzo fu riconfigurato in chiave rinascimentale per volere del vicerè Garcia di Toledo e su progetto dell’architetto toscano Andrea Calamech. Mentre in epoca medievale l’edificio aveva probabilmente sei torri, nella ricostruzione attuata da Calamech si presentava poi con quattro torri, quattro logge e quattro saloni grandi.
Sempre in epoca spagnola ulteriori ampliamenti e rinnovamenti furono eseguiti per volere dei vari vicerè di Sicilia.

Nel 1714, cioè un anno dopo che l’isola era stata ceduta dallo spagnolo Filippo V al duca di Savoia Vittorio Amedeo II, il messinese Filippo Juvarra, architetto reale di casa Savoia, elaborò un progetto di ristrutturazione e ampliamento di quella che sarebbe stata la dimora del nuovo sovrano. L‘intenzione era quella di conferire alla reggia lo status e quindi le caratteristiche di una corte europea. Il progetto di Juvarra, tuttavia, non fu eseguito a causa del rientro della corte sabauda a Torino dopo pochi anni.
Da alcuni rilievi fatti sull’edificio per volere di Carlo IV di Borbone, nel 1751, sappiamo come al tempo era strutturato lo stesso e quindi possiamo anche provare ad immaginare come si svolgeva la vita al suo interno. Nei corpi bassi del palazzo si trovavano le rimesse, il carcere, la chiesa e la casa del custode; al piano terra i locali di servizio, ossia la lavanderia, la cucina, la cavallerizza, ecc.); al piano nobile gli uffici (la Segreteria di Stato, la Tesoreria, l’archivio); al terzo piano gli appartamenti reali, una cappella e un salone per le feste da ballo; al quarto livello, infine, gli alloggi per la servitù.

Buona parte di tutto ciò andò distrutta nel terremoto della Calabria meridionale del 1783. Da lì ebbe inizio la parabola decisamente discendente di quella che un tempo fu un’imponente reggia. Ferdinando I delle Due Sicilie nel 1806 decise di spostare la sede del Palazzo Reale presso il Palazzo del Gran Priorato Gerosolimitano dell’Ordine di Malta. Mentre quel che rimaneva del vecchio edificio reale venne ulteriormente danneggiato nel 1848, durante la rivolta antiborbonica. A partire dall’anno dopo, le strutture che avevano resistito furono adibite a magazzini per il porto.
Il resto lo fece il terremoto di Messina del 1908: l’edificio fu raso al suolo, come del resto gran parte della città peloritana. Nel dopo-terremoto, poi, le parti superstiti vennero distrutte completamente per costruire su quella stessa area strategica, a ridosso del mare e del porto, il Palazzo della Dogana.
Oggi del Palazzo Reale non rimane altro che un nome e qualche testimonianza, perlopiù iconografica (raffigurazioni pittoriche, piante e progetti). Per molti, poi, “Palazzo reale” è solo una fermata del tram… Ma noi ci auguriamo che, dopo aver qui ripercorso la sua storia, ad ognuno, passando da quel luogo o anche solo leggendo o pensando a quelle due paroline, torni in mente che lì si è svolta una parte importante della storia siciliana e che da lì sono passati gli uomini che appunto hanno scritto tale storia.

Francesca Giofré

Il teatro del Mare: il lungomare di Messina e la Palazzata

É difficile descrivere lo spettacolo a cui si assiste quando si raggiunge Messina dal mare. Sicuramente familiare a molti studenti fuori sede (specialmente quelli che vengono dall’altro versante dello Stretto), la vista della baia del Porto con la Madonnina, Cristo Re in alto e il profilo delle coste siciliane a perdita d’occhio accoglie oggi in città le tantissime persone che vi si recano, per i più svariati motivi, dal mare.
Eppure c’è qualcosa che manca, qualcosa che rendeva, ai visitatori di 100 o 200 anni fa, l’arrivo a Messina ancora più suggestivo. Se infatti oggi, girando lo sguardo al lungomare di Messina, si vedono solo grandi palazzoni anonimi (molti dei qual figli della cementificazione selvaggia degli anni ‘70 e ‘80), in passato ad attirare l’attenzione dei visitatori era una ampia e uniforme distesa di palazzi di marmo, che abbracciava a perdita d’occhio l’intera cortina del porto: la Palazzata.

Questo enorme complesso architettonico affonda le sue radici nei secoli d’oro della città di Messina, quando il suo porto era uno dei più grandi e trafficati del Mediterraneo. Si può considerare, come primo nucleo di questa struttura, la Loggia dei Mercanti: un palazzo pubblico destinato ai commercianti, opera di Jacopo del Duca datata 1589, che si trovava all’altezza dell’attuale Municipio, in corrispondenza della via omonima. Accanto al palazzo si trovava una grande porta monumentale, la Porta della Loggia, di fronte a cui era originariamente situata, sul lungomare e con le spalle rivolte allo Stretto, la celebre Fontana del Nettuno di Giovanni Angelo Montorsoli.

Qualche decennio dopo, nel 1622, l’allora viceré Emanuele Filiberto di Savoia diede ordine ad uno dei suoi architetti di fiducia, Simone Gullì, esponente di punta del barocco messinese dell’epoca, di unire in un unico registro stilistico l’intera cortina del porto, attraverso la costruzione di ben 13 edifici con 4 ordini di finestre, intervallati da grandi porte monumentali che mettevano in comunicazione il porto con la città. Il risultato, così come ce lo testimoniano numerosi dipinti d’epoca, era spettacolare: l’intera baia del porto si trovava serrata in un fitto susseguirsi di finestre, archi e porte, che convergevano al centro sulla Loggia dei Mercanti, con la sua Porta e la Fontana di fronte; il tutto unito tanto da potersi considerare un enorme, unico palazzo, con 18 porte e ben 1064 finestre (un numero da Guinness World Record, diremmo oggi!).

Di questa prima Palazzata, purtroppo, nulla è rimasto: seriamente danneggiata dal terremoto del 1783, Goethe, illustre visitatore, la ricorda con parole amare nel suo “Viaggio in Sicilia”, orribilmente scempiata dal sisma.

Fu nel 1803 che si decise per la ricostruzione della Palazzata, stavolta in stile neoclassico, su progetto di Giacomo Minutoli. Il nuovo progetto, ancora più grande e monumentale del precedente, presentava un maestoto prospetto scandito da colonne in ordine gigante. Ebbe purtroppo vita breve; ultimato negli anni successivi, dovette presto confrontarsi con la furia distruttiva del Terremoto del 1908.

Benchè ancora parzialmente recuperabili, i pochi palazzi superstiti furono rasi al suolo a partire dal 1909 in vista di una nuova ricostruzione: il progetto, in stile eclettico-liberty a cura di Luigi Borzì, includeva uno spettacolare colonnato  che avrebbe dovuto chiudere l’attuale piazza del Municipio e un lungo terrazzo percorribile. Purtroppo non fu mai realizzato: per attendere l’inizio dei lavori bisognerà aspettare gli anni ’30 quando, in pieno regime fascista, un nuovo progetto verrà presentato.

É la cosiddetta Palazzata del Samonà, ultimo tentativo di ricostruzione, fedele ai canoni dello stile razionalista. Rimasta incompiuta, passeggiando oggi sul lungomare si può ammirare l’unico palazzo completato: il palazzo dell’INA, con la sua ampia porta sul mare.

Ricordata nelle memorie dei visitatori ed immortalata da innumerevoli dipinti e stampe, la Palazzata, in tempi in cui il porto di Messina contava sul serio ed era la principale fonte di ricchezza della città, rappresentava il biglietto da visita con cui una città fiera, ricca e orgogliosa faceva bella mostra di se agli occhi di chi la raggiungeva dal mare: la sua decadenza attuale rispecchia quindi quella dell’immagine che la Città offre ai suoi visitatori. Non resta che sperare che questa immagine possa tornare ad essere bellissima come è sempre stata, e che una nuova Palazzata possa un domani tornarsi a specchiare nelle acque dello Stretto.

 

Gianpaolo Basile

Image credits:

  1.  https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Simone_Gullì#/media/File%3AAbraham_Casembroot’s_View_of_Messina_Harbor_with_the_Palazzata%2C_designed_by_Simone_Gullì_in_1623.jpg
  2. https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Porta_della_Loggia_(Giacomo_del_Duca)1.jpg
  3. https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Louis_François_Cassas%27s_View_of_Messina_Harbor_with_the_Palazzata,_designed_by_Simone_Gullì_in_1623.jpg
  4. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Giacomo_Minutoli#/media/File%3AMessina%2C_palazzo_del_municipio_e_palazzata_dopo_del_terremoto_del_1908_(1).jpg
  5. https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Messina_Palazzi1900.jpg#mw-jump-to-license
  6. https://it.m.wikipedia.org/wiki/Palazzata_di_Giuseppe_Samonà#/media/File%3AMessina_Other_Monument_34.jpg

Filippo Juvarra: da Messina a Roma e Torino, l’architetto delle capitali

Filippo Juvarra

Nella Messina del lontano 1588, su disegni di Andrea Calamech, fu edificata la Chiesa di San Gregorio, oggi inesistente a causa del terremoto del 1908 che mise in ginocchio l’intera città. Il suo completamento, nel 1703, vide impegnati numerosi professionisti, e non, tra cui il giovane Filippo Juvarra, architetto siciliano. 

Il “nostro” architetto nasce proprio a Messina nel 1678 da una famiglia di artigiani argentieri e sin dalla giovinezza si trova a lavorare con il disegno e l’arte orafa; si possono a lui ricondurre, infatti, alcuni dei candelieri del Duomo di Messina e forse collaborò, assieme al padre e al fratello maggiore, alla realizzazione del meraviglioso paliotto d’argento oggi inglobato nell’altare maggiore. Parallelamente alla sua attività manifatturiera, Juvarra condurrà studi teologici che lo porteranno a pronunciare i voti sacerdotali nel 1703. Data la vocazione per l’architettura, si trasferì a Roma per perfezionare gli studi ma si ritrovò comunque autodidatta e volenteroso di imparare così da riuscire a mettersi in contatto con l’architetto Carlo Fontana che, rimasto entusiasta delle capacità del giovane, riuscì a farlo distogliere dal mito di Michelangelo per farlo approdare al metodo da lui proposto.

Il paliotto d’argento datato 1701, opera della famiglia Juvarra, custodito nell’altare maggiore del Duomo di Messina.

Grazie al trampolino di lancio offertogli dal Fontana, Juvarra debutta, nel 1705, a Roma vincendo il “concorso clementino” con la presentazione di un “palazzo in villa per il diporto di tre illustri personaggi”. Successivamente alla vittoria si ristabilì nella sua città natale, dove ebbe l’onore di occuparsi della ristrutturazione del Palazzo Spadafora e della sistemazione del coretto della chiesa di San Gregorio. Qualche mese dopo, grazie alla proficua attività svolta a Napoli, riuscì ad ottenere la nomina di accademico di merito all’Accademia di San Luca; a testimonianza dell’onore per questa nomina, Juvarra fece dono all’Accademia di un suo progetto, utilizzato poi come soluzione per la Basilica di Superga.

Poco dopo, sul piano accademico, si  ritrovò a ricoprire il ruolo di professore unico di architettura al San Luca; mentre sul piano professionale, si limitò a collaborazioni con i Fontana, ricevendo la commissione per la cappella di famiglia dell’avvocato Antamoro nella chiesa di San Girolamo della carità.

Basilica di Superga

Tuttavia, Juvarra iniziò ad ambire a impieghi di corte: inizialmente per quella di Federico IV di Danimarca; successivamente per Luigi XIV per poi essere chiamato presso la corte Ottoboni come scenografo. Qui troverà un’ambiente stimolante che ne influenzò l’iscrizione all’Accademia dell’Arcadia, con il nome pastorale di Bramanzio Feeseo, dove poté insegnare il proprio mestiere ad un giovane Luigi Vanvitelli.

Con la morte del maestro Fontana,  Juvarra spezza il legame con Ottoboni per tornare a Messina dove incontrerà Vittorio Amedeo II di Savoia, al quale presentò il progetto del palazzo reale di Messina, che lo porterà alla volta di Torino per l’elezione della Basilica intitolata alla Vergine sul colle di Superga, universalmente considerata uno dei suoi capolavori. La sua attività architettonica fu impegnata principalmente nell’ampliamento della città sabauda e nella realizzazione della facciata e dello scalone di Palazzo Madama, ma anche nel completamento della Reggia di Venaria e della Reggia di San Uberto.

Palazzina di caccia di Stupinigi

A questo punto della sua vita, Juvarra si trasferì in Portogallo per la realizzazione di alcune opere architettoniche che

però non avranno buon esito; decise quindi di spostarsi a Londra, poi nei Paesi Bassi e a Parigi per poi ritornare in Italia muovendosi tra Roma e Torino dove costruirà la sua casa studio e, accanto ad altri progetti, porterà avanti la realizzazione ex novo della palazzina di Stupinigi, villa di caccia.

Nella capitale sabauda, divenuta, grazie a lui,  un polo di architettura europea, progettò la chiesa del Carmine; la sua abilità conquistò  Filippo V Re di Spagna che gli commissionò il completamento del Palazzo Reale a  Madrid, dove morì il 31 gennaio del 1736.

Erika Santoddì

Image credits:

  1. Di Agostino Masucci – [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=29317803
  2. Di I, Sailko, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=7420752
  3. Di Geobia – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18987550
  4. Di Ziosteo1982, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20529372

Messina ed il Monastero di Montevergine Santa Eustochia Smeralda

 

DSC_0008“Oppresso da pene ed angustie
vengo a Voi, Santa Madre Eustochia,
per trovare nel vostro cuore
soccorso, conforto e pace.
Voi siete Avvocata, aiutatemi;
siete Protettrice, proteggetemi;
siete stata sempre fedelissima ascoltatrice, esauditemi;
ottenetemi da Gesù, vostro Divino Sposo,
le sospirate grazie e benedizioni celesti.
Amen”
Così recita
una delle preghiere della suora claustrale, che non è solamente un’elevazione della propria persona ma carità e dono d’amore per gli altri. Il sacrificio che compie per restare più vicina a Dio e partecipare della sua luce, si riversa misteriosamente sull’intera comunità degli uomini secondo le leggi della reversibilità nel bene e la Comunione dei Santi.

DSC_0027Ma, chi sono le suore claustrali? Entriamo nella macchina del tempo e configuriamo i parametri del viaggio all’anno 1212 d.C. quando, Santa Chiara fuggì dalla casa del padre, subì da San Francesco d’Assisi il taglio dei capelli e rice
vette il velo monastico. Inizialmente affidata all’ordine delle Benedettine, fu seguita dalla sorella e da altre compagne per poi essere trasferita negli umili locali della chiesa di San Damiano; da qui deriva il nome con il quale erano inizialmente designate: Povere Dame di San Damiano. A partire dal 1218 il cardinale Ugolino dei Conti di Segni iniziò a formulare per loro una nuova regola molto rigida, che prevedeva l’obbligo della clausura: questa regola fu rivista e definitivamente redatta da Chiara (per cui è detta Regola di Santa Chiara) e venne approvata da Papa Innocenzo IV il 9 agosto 1253. Anche a Messina esiste una comunità di clarisse che vive di preghiera e carità, l’unica nella diocesi di Messina ed in Sicilia. Questa realtà esiste grazie ad Eustochia Smeralda Calafato che nel 1464 ha fondato il monastero di Montevergine, oggi conosciuto anche sotto il nome di “Santa Maria degli Angioli”, per far rivivere lo spirito di vera povertà voluto da Chiara d’Assisi e che nei secoli era stato mitigato. In più di cinque secoli, molte donne hanno potuto abbracciare la regola di Chiara seguendo il Signore sulla via della perfezione.

Molto si sa sulla vita di Eustochia grazie ad uno scritto biografico redatto da una consorella. Si tramanda che sin da piccola la sua bellezza non passasse inosservata. Tuttavia, all’età di 15 anni decise di prendere i voti contro il parere della famiglia, ed entrò nel Monastero di Basicò con il nome di suor Eustochia, ove rimase per oltre dieci anni.
Amante della povertà e molto risoluta nei suoi propositi, riteneva che nel monastero non si osservasse alla lettera la regola delle clarisse, decise quindi di fondare un nuovo convento che chiamò “Montevergine“, dove alla sua morte vi erano ben 50 suore. Il suo Monastero ebbe scambi culturali e spirituali con altri monasteri dell’Osservanza. Il suo corpo è ancora incorrotto ed è conservato nel Monastero. Venne canonizzata da Giovanni Paolo II l’11 giugno 1988, durante una sua visita a Messina.

 

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La primitiva Via dei Monasteri, oggi corrispondente grossomodo alla Via XXIV Maggio, ove sorge il santuario di Montevergine, era una delle più importanti arterie urbane. In epoca greco-bizantina essa era denominata “dromo“, ossia corso per eccellenza, per la teoria di monasteri che la fiancheggiavano, spettacolare colpo d’occhio per chi ammirava la città dal basso e per chi proveniva via mare. In epoca contemporanea l’aggregato religioso di Montevergine costituisce l’unica istituzione superstite ai terremoti della Calabria, della Val di Noto, e di Messina del 1908.

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La chiesa era ad unica navata, abbellita con tarsie marmoree e grandi affreschi nel soffitto, opere di Letterio Paladino, come il quadro della Concezione e della Sacra Lettera. Il portale tardo cinquecentesco e la tribuna sono attribuiti agli architetti Maffei. La “basilica nuova”, costruita dopo il terremoto del 1908, è stata eretta dall’architetto romano Florestano di Fausto a partire dal 1952. È un edificio in stile romanico modernizzato, a tre navate. Nella sua semplicità e purezza di linee architettoniche è un vero monumento di fede e di arte. In fondo alla navata centrale, si apre l’ampio Presbiterio, fiancheggiato in alto da due matronei e dal maestoso organo. Sotto, il semplice e moderno coro in legno di noce e radica di olivo. Addossato alla parete di fondo si innalza il monumentale Trono dove è collocata l’ immagine della Madonna, una bellissima pittura, su due tavoloni di pino: una delle più belle immagini di Madonne italiche. Il Trono si compone di marmi pregiati, di statue e bassorilievi di bronzo, su uno sfondo di mosaico monocromo, opera di J. Hainal.

Ad oggi, il Monastero è situato in Via XXIV Maggio, 161 ed è aperto al pubblico per la Santa Messa e per la visita al corpo di Sant’Eustochia.

Erika Santoddì

foto: Erika Santoddì

Dal XIII secolo uno sguardo dall’alto su Messina: il Santuario di Montalto

img_9853Uno dei luoghi più belli e ricchi di storia a Messina è sicuramente il Santuario di Montalto. Bello perché si staglia alto, sul colle della Caperrina, con la sua caratteristica facciata affiancata da due campanili cuspidi e, così, si rende visibile e si fa riconoscere da diversi punti della città. Ricco di storia perché la sua nascita e la sua presenza a Messina sono legate a diversi episodi storici che hanno scandito la vita della città.

 

 

 
Le sue origini, innanzitutto, sono da ricercare secoli addietro: durante i Vespri Siciliani, allorquando anche Messina, il 28 aprile 1282, un mese dopo Palermo, decise di ribellarsi alla dominazione degli Angioini. Tradizione vuole che la Madonna, sotto le vesti di una Signora Bianca, rincuorasse la popolazione messinese, con il suo manto proteggesse le mura della città e, con le mani, deviasse le frecce dei nemici. Fu proprio la Madonna a volere la costruzione del santuario: apparve nel 1294 ad un fraticello, un eremita di nome Nicola, e gli ordinò di radunare sul colle della Caperrina la cittadinanza. Lì, il 12 giugno, a mezzogiorno, una colomba bianca con il suo volo disegnò il perimetro della chiesa da costruire. Alla posa della prima pietra partecipò anche la Casa reale Aragonese, con la Regina Costanza. Nel 1295 la chiesa fu terminata e dedicata a Santa Maria dell’Alto, poi divenuta S. Maria di Montalto. L’8 settembre 1300 giunse a Messina, su una nave proveniente dall’Oriente, un quadro raffigurante la Vergine Maria col Bambino. Doveva essere donato alla Cattedrale, tuttavia divenne così pesante che nessuno riuscì a spostarlo. Una “Signora Bianca” apparve in sogno ad un marinaio e gli confidò di voler vedere quel quadro nella chiesa a lei dedicata. L’icona così, ridiventata leggera, fu portata subito nel Santuario di S. Maria dell’Alto e lì ancora si trova: dopo i danni subiti a causa del terremoto del 1908 (la manta d’argento che ne rivestiva il corpo l’ha in parte protetto, ma i visi sono stati irrimediabilmente rovinati) e il restauro degli anni ’80, è stata posta sull’altare maggiore della chiesa.

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img_9854Durante la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), poi, il popolo messinese si raccolse in preghiera proprio a Montalto. A perpetua memoria dell’aiuto materno dato alla città in quella occasione, il Senato messinese fece scolpire una statua marmorea della Madonna che fu posta su una torre accanto alla chiesa, e ora si trova sulla facciata del nuovo santuario fra le due torri campanarie. Ogni anno, il 12 giugno, in occasione della festa della Colomba, viene issato lo stendardo della città nelle mani della Madonna, come a volersi affidare costantemente a Lei.

Un’altra data storica legata a questo santuario è il 1743: in quell’anno la peste imperversava a Messina, così il Senato si rivolse direttamente alla Vergine perché liberasse la città e fece voto di offrire ogni anno un cero. Un voto, o una semplice tradizione oramai, che ancora oggi viene rispettata: nel giorno della festa della Colomba, infatti, l’Amministrazione comunale offre alla Vergine di Montalto un cero votivo di 25 libbre.

Arriviamo ora alla storia recente, in particolare al terremoto del 1908 che fece con questo santuario quello che fece con la maggior parte degli edifici di Messina: lo ridusse ad un cumulo di macerie. Nel 1911, però, la chiesa era di nuovo in piedi, la prima a risorgere dalle rovine.
Nel 1928 si operò un ampliamento dell’edificio, secondo il progetto dell’architetto Francesco Valenti, che comportò anche qualche modifica alla struttura originaria. Oggi l’architettura della chiesa si presenta come un misto di romanico e gotico.

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Nelle due torri campanarie ci sono ben 27 campane: due sono state salvate dal terremoto; le altre 25 sono state ottenute, nel 1929, fondendo il bronzo dei cannoni tolti ai nemici nella guerra del ‘15/’18 e donati dal Governo al Vescovo di Messina, S.E. Mons. Paino. Le campane sono di grandezza differente (la più grande pesa 19 quintali e ha un diametro di 1,5 m, la più piccola pesa 23 kg e ha un diametro di 36cm) e possono riprodurre qualsiasi melodia; ogni campana ha un nome, la figura del Santo a cui è dedicata, un motto e l’anno di fusione.
Dal piazzale antistante la chiesa si può godere di una vista mozzafiato su Messina e lo Stretto. Un panorama che lasciò estasiato anche papa Wojtyla, quando, nel corso della sua visita nella città peloritana, nel giugno del 1988, ebbe modo di conoscere anche questo luogo. Ed è per tenere viva la memoria di quell’avvenimento che nel 2014 una statua ad altezza naturale di Giovanni Paolo II è stata posta nel punto esatto dove, posando la mano sulla ringhiera, egli espresse il suo stupore dinanzi a cotanta meraviglia.

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In conclusione, possiamo dire che il Santuario di Montalto rappresenta uno dei simboli di Messina, tanto che esso compare anche nello “spettacolo” di musica e automi in bronzo a cui dà vita ogni giorno a mezzogiorno l’orologio astronomico del Campanile del Duomo. In particolare, ad essere rappresentata è la tradizione della fondazione: una colomba sorvola un colle e subito dopo da questo, lentamente, emerge il Santuario. Tutto ciò a riprova del fatto che Montalto è una tappa imprescindibile se si vuole tracciare una storia della città dello Stretto.

Francesca Giofrè

Foto Giulia Greco

Messina Medievale: attraverso la Storia e la “Badiazza”

img_9617Paesaggio mozzafiato: da un lato i monti Peloritani, dall’altro il letto della fiumara San Michele.

Ci troviamo poco fuori Messina, precisamente al monastero di Santa Maria della Valle, conosciuto più comunemente come “La Badiazza”.
La sua fondazione, collocata intorno all’ XI secolo, ad opera di monache Benedettine, è legata ad un fatto leggendario a cui si ispirava un quadro raffigurante una Madonna con accanto una scala. Secondo la leggenda, approdava nella città peloritana una nave di mercanti provenienti dall’oriente che, dopo aver scaricato della merce, avrebbe dovuto proseguire per la rotta. Tuttavia, al momento della partenza, la nave non si staccò da terra; l’accaduto fu subito interpretato dai marinai come una punizione, dovuta al furto, per mano loro, di un’icona raffigurante una Madonna e tenuto nascosto nella nave. Confessato il furto, i marinai riuscirono “miracolosamente” a riprendere il mare, e l’icona fu trainata da un carro di buoi che pose fine alla sua corsa precisamente ai piedi dei colli S. Rizzo, dove fu eretta la chiesa.

img_9601Il monastero e la Chiesa furono intitolati a nome di Santa Maria della Scala. Purtroppo, numerosi documenti ci portano a conoscenza dello sfortunato destino dell’Abbazia.
Quest’ultima, infatti, è stata vittima di molteplici vicissitudini, tra le quali: l’assedio per mano delle truppe di Carlo D’Angiò, le quali la saccheggiarono e incendiarono; la peste del 1347, durante la quale l’icona fu portata in processione per la città al fine di scongiurare la pestilenza, ma che portò al suo abbandono; i numerosi straripamenti e terremoti che hanno contribuito al suo declino.  Successivo alla suddetta peste è l’utilizzo dell’Abbazia come residenza estiva che portò poi alla fondazione di un Monastero ed una Chiesa entro le mura cittadine, che oggi sono intitolate a Santa Maria della Valle. La vecchia chiesa, ormai in avanzato stato di deterioramento, risentì dell’alluvione del 1855 e del terremoto del 1908.

Tutto ciò che ad oggi è rimasto, è un bell’esempio di arte medievale che accomuna vari aspetti dell’architettura siciliana del tempo.

img_9610L’interno si articola in tre navate a pianta quadrata con un ampio transetto sormontato da cupola centrale. Il santuario, richiama lo schema della qubba islamica, divenuta modello per le chiese cristiane di età normanna, la copertura a cupola è di chiara derivazione normanna, mentre le crociere costolonate a sezione rettangolare sono riconducibili a età sveva. Da notare è la somiglianza con la Chiesa cistercense di Santo Spirito del Vespro a Palermo. D’altronde le ipotesi avanzate riguardo l’epoca di costruzione, assegnano la fondazione (quasi) certa ai normanni, ma non si escludono influenze sveve o aragonesi.

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Ad oggi, purtroppo, la Chiesa è chiusa al pubblico. Tuttavia, il Comune di Messina ha avviato un’opera di restauro a cura della Soprintendenza ai Beni Culturali di Messina ed un iter per la riqualificazione della zona; di fatto, la Chiesa è raggiungibile imboccando la Via Palermo e procedendo lungo il letto della fiumara San Michele per un, non troppo lungo, percorso dissestato.

Erika Santoddì

Ph: Giulia Greco