L’obelisco egizio del Duomo di Messina

Messina è una città antichissima: la tradizione (per calcolo del grande Francesco Maurolico attraverso la cronologia di Eusebio da Cesarea) pone la sua nascita nell’anno 1765 a.C. (!), una datazione confermata dall’odierna ricerca archeologica (alla quale per la prima volta appunto in tema di preistoria diedero grande impulso i membri del Circolo Archeologico Codreanu tra cui Franz Riccobono). Eppure, a Messina scarseggiano lasciti dell’antichità, monumenti che riportino al tempo più lontano della sua esistenza, e quelli che ci sono sono praticamente nascosti o poco valorizzati o non divulgàti.

Un pezzo importantissimo e antichissimo, nonché misteriosissimo, della nostra storia si trova proprio sotto i nostri occhi, ma forse l’avremo visto innumerevoli volte senza accorgercene (assurdo per quanto sia!): avete mai guardato sopra le colonne angolari oltre le quali si apre l’abside, nel nostro Duomo? Se non l’avete fatto, fatelo: troverete due “pietre egizie”.

L’abside del Duomo di Messina e le due pietre egizie – Fonte: colapisci.it

Pietre egizie a Messina?

L’occhio sano e dotato, e un buono zoom d’una macchina fotografica, possono facilmente osservare due piccoli obelischi che si ergono proprio al di sopra di quelle colonne, sorreggendo l’arco a sesto leggermente acuto dell’abside.

Delle due, solamente una reca scolpite figure di chiarissimo stile egizio, e ben visibili, oltre a dimostrare una perfetta levigazione del materiale; l’altra, meno precisa nella fattura ma comunque aggraziata, è ornata da figure di stile chiaramente diverso, somiglianti più vagamente a quelle dell’arte egizia.

Leggere queste cose può risultare impressionante, sono parole difficili da credere, ma si tratta della verità. Se vi capitasse d’osservare da vicino, vi accorgereste che c’è una figura d’Iside o Hathor con le corna di mucca, un’altra forse di Maat con le ali spiegate, e che i riquadri sono tutti circondati da geroglifici.

È risaputo che molti materiali con cui fu eretto il Duomo in principio furono recuperati dall’area dei laghi del Peloro, presumibilmente smontando l’antico tempio che si ergeva nel “terzo lago”; la diffusa consapevolezza di questo fatto ha dato da pensare che dunque questi pezzi d’“arte egizia” possano provenire proprio dai laghi, e che dunque lo stesso edificio dedicato all’ignota deità acquatica o ctonia (di cui parlava Solino) fosse allora un tempio egizio. Se questo fosse vero, la storia di quell’area s’infittirebbe.

Ora che avete letto e probabilmente la vostra curiosità è stata fomentata, vi svelo un’altra cosa: quelle che ci sono dentro il Duomo non sono gli originali, ma due copie, là collocate in sostituzione degli originali, che ora si trovano al Museo Regionale di Messina.

©Daniele Ferrara – Uno dei due obelischi, Museo Regionale di Messina 2021

Sconosciute anche ai sapienti

Rincresce estremamente e profondamente dovere dire che la posizione in cui si trovano non è lontanamente adeguata a reperti di tale importanza: si ergono nei giardini, a sinistra rispetto all’ingresso principale, davanti alle porte dei magazzini. In poche parole, le due pietre egizie sono poco accessibili all’attenzione di chi visita il riposo della nostra storia, e per giunta esposte alle intemperie, che a lungo andare deteriorano e deterioreranno la fine e antica opera scultorea di quegli obelischi. È una posizione, occorre dirlo, che riflette perfettamente e fedelmente lo scarsissimo interesse dei nostri organi ufficiali di cultura per questi due monumenti, o meglio residuo di monumento. Una curiosità: accanto, nel medesimo luogo, c’è forse l’unica statua esistente di Madonna della Lettera, che non a caso gode d’egualmente povera attenzione.

Oltretutto, questa, è la condizione generale in cui versa il patrimonio storico di Messina in troppi casi: abbandonato dalle istituzioni che possono salvarla, ma costantemente indicato e trattato da altri studiosi, che poi però vengono sistematicamente attaccati e tacciati di tuttologia.

Sono stati effettuati pochissimi studî su questi importantissimi reperti; tra questi occorre segnalare quello del noto storico messinese Alessandro Fumia, instancabile autore di molteplici ricerche sulla nostra identità in tutte le direzioni. Conducendo un’attenta analisi, egli ha rilevato elementi accostabili al periodo achemenide dell’Egitto e tracciato ipotesi sul tempio che qui sorgeva.

Finora tuttavia la risposta definitiva (o quasi) sui reperti è ben lontana, probabilmente proprio per l’assenza di un vero confronto sull’argomento tra le menti erudite che possa, a via d’aggiustamenti e compromessi sui varî dati rilevati, mediare fino alla conclusione più probabile di questo enigma storico, del quale trarrebbe giovamento Messina stessa, che languisce per la poca conoscenza che ha di sé stessa la sua popolazione.

Fonte: strettoweb.com

Un obelisco egizio… ellenistico

Senza la presunzione d’avere il parere risolutivo ma con l’assoluta sicurezza di quanto affermo, voglio fornire anch’io una teoria su questi due obelischi, che ho potuti osservare entrambi da vicino durante una visita. Uno solo degli obelischi è veramente antico, ma non bisogna farsi ingannare: non è veramente egizio, o almeno non appartiene ai secoli dell’Egitto “classico”, ma è di periodo ellenistico (fra 323 a.C. e 500 d.C.). Questo mi sento di dirlo per un dettaglio inequivocabile: tra le figure ce n’è una maschile rappresentata frontalmente nell’atto dell’anasyrma, ossia la sollevazione della veste che in questo caso scopre i genitali, tipico del dio Afrodito o Ermafrodito, maschio dall’aspetto femmineo, che si accompagna ad Afrodite, non certo un dio egizio bensì greco e diffusosi in età ellenistica. Quanto ai geroglifici, finora mai interpretati, sono forse quelli l’elemento che più di tutti urge studiare, per comprendere se contengano davvero concetti di senso compiuto o se siano invece semplici ornamenti scolpiti in un tempo in cui nessuno più capiva gli originali; ma senza uno studio egittologico, e senza porre al riparo questi manufatti dalle intemperie, la verità non verrà mai raggiunta. Probabilmente, questo piccolo obelisco è stato direttamente intagliato in questa città o nelle vicinanze per ornare un tempio adibito a qualche culto egizio (ce n’erano in tutto l’Impero Romano) oppure è stato scolpito in Egitto ma sempre in epoca ellenistica e poi è stato trasportato qui; l’altro pezzo, invece, è probabilmente una copia modellata da un ottimo scalpellino in periodo normanno, forse nella fabbrica del Duomo, per fare coppia con l’altro e a sua immagine.

©Daniele Ferrara – L’obelisco ellenistico, in cui è raffigutato l’atto dell’anasyrma, Museo Regionale di Messina 2021

Se effettivamente quel piccolo obelisco provenisse dal tempio dei laghi non è facile dirlo, per essere così bisognerebbe porre che esso sia stato costruito direttamente in periodo ellenistico o che in tal epoca il nume adorato sia stato egittizzato e quindi onorato attraverso l’arte egizia, ma prima di quelle di Giulio Solino (III secolo d.C.) non abbiamo altre notizie sul luogo sacro. Dicerie, meno fondate, si sono tramandate anche sull’esistenza d’un antico culto egizio a Santa Maria Alemanna, ma ancòra ce n’è di strada da fare verso la verità.

Che aspettate? Andate a vedere sia le copie nel Duomo che gli originali al Museo!

 

Daniele Ferrara

 

Immagine in evidenza:

Fonte: colapisci.it

Le ultime scoperte a Pompei gettano luce sulla quotidianità del tempo

Rinvenuto un pilentum con l’utilizzo di tecniche di precisione

Il pilentum (fonte: avvenire.it)

Pompei stupisce ancora e, sicuramente, continuerà a farlo, considerando i 20 ettari di terreno ancora da indagare. Qualche giorno fa è stato rinvenuto quello che secondo il parere degli archeologi è un pilentum, un carro da parata. Questo si potrebbe dire esser simile a una moderna macchina di rappresentanza. Non se ne era ancora mai rinvenuto uno in Italia, ma nelle fonti antiche molte erano le citazioni al riguardo.

Il ritrovamento è avvenuto nei pressi della villa suburbana di Civita Giuliana, una dimora 700 metri a nord di Pompei, fuori dalle mura dell’antica città, dove recentemente si stanno concentrando gli scavi. In un punto adiacente, nel 2018, erano stati ritrovati dei resti di cavalli e pochi mesi fa i anche quelli di due uomini, probabilmente un aristocratico e un servo. Il carro si trovava all’interno di un porticato a due piani della villa. A rendere eccezionale il ritrovamento, oltre la rarità, è l’ottimo stato di conservazione, che permette agli esperti di scoprire altri dettagli della quotidianità dei pompeiani del 79 d. C..

A comunicare la scoperta è stata la Sovrintendenza archeologica, attraverso la propria pagina Facebook:

“Sin dal momento della sua individuazione, lo scavo del carro si è rivelato particolarmente complesso per la fragilità dei materiali e le difficili condizioni di lavoro; si è quindi dovuto procedere con un vero e proprio microscavo condotto dalle restauratrici del Parco, specializzate nel trattamento del legno e dei metalli. Parallelamente, ogni volta che si rinveniva un vuoto, è stato colato del gesso per tentare di preservare l’impronta del materiale organico non più presente. Così si è potuto conservare il timone e il panchetto del carro, ma anche impronte di funi e cordami, restituendo così il carro nella sua complessità.”.

Il riempimento di vuoti con gesso per i calchi, è stato, dunque, sfruttato per ricostruire l’impronta di materiali organici sepolti dalla cenere dell’eruzione e non più rinvenibili, quali le funi, le tracce dei cuscini della seduta e persino di due spighe di grano.

Il lavoro di precisione sul pilentum (fonte:napolitoday.it)

Proprio quest’ultime, secondo Massimo Osanna, potrebbero far capire molto sull’uso del pilentum; dovrebbero far riferimento al culto di Cerere, dea romana del raccolto venerata a Pompei insieme a Venere. È stata, quindi, avanzata l’ipotesi che lì potesse vivere una sacerdotessa di questi culti, o che il riferimento possa essere al tema dell’eros, per fare un augurio di fertilità per una coppia di neosposi, poiché le spighe sul sedile potrebbero essere l’indizio di un matrimonio celebrato da poco o che era pronto per essere celebrato.

Contrastare l’attività dei tombaroli

Il Parco Archeologico di Pompei ha collaborato con la Procura della Repubblica di Torre Annunziata per questa campagna di scavo, avviata nel 2017, in seguito a un protocollo di intesa sottoscritto nel 2019, finalizzato al contrasto delle attività illecite nell’area. Dunque, lo scavo in corso ha un duplice intento. L’intenzione di rinvenire importanti reperti è stata accompagnata dalla cooperazione alle indagini della Procura, per bloccare le azioni di depredamento del patrimonio culturale da parte di persone – “tombaroli” – che nella zona hanno scavato diversi cunicoli per intercettare i tesori archeologici.

Il carro è scampato al furto per poco: due passaggi sotterranei erano stati scavati proprio adiacenti ai bordi del reperto, ma fortunatamente non è stato toccato.

Gli scavi, quindi, hanno permesso di verificare anche l’estensione dei cunicoli e i danni perpetrati al patrimonio. Nel mentre è stata costantemente effettuata un’attività di messa in sicurezza e restauro di quanto emergeva di volta in volta. Notevole la complessità del lavoro tecnico da effettuare, in quanto gli ambienti da indagare sono in parte al di sotto e a ridosso delle abitazioni moderne, con conseguenti difficoltà sia di tipo strutturale che logistico.

I dettagli del pilentum

Il pilentum – come già detto – un grande carro su quattro alte ruote, è stato portato alla luce nella sua quasi integrità, con i suoi elementi in ferro, le bellissime decorazioni in bronzo e stagno, i resti lignei mineralizzati, ma anche con le impronte degli elementi organici, come corde e resti di decorazioni vegetali. Un ritrovamento eccezionale, non solo perché aggiunge nuove informazioni sulla storia di questa dimora, al racconto degli ultimi istanti di vita di chi la abitava, e, più in generale, alla conoscenza del mondo antico, ma soprattutto perché restituisce un reperto unico per il contesto italiano e per di più in ottimo stato di conservazione, capace di restituire le tracce anche degli elementi organici, i più facili ad andar presto perduti.

Nello specifico, la struttura del carro si presenta così: le ruote sostengono un leggero cassone, con una seduta per una o due persone, contornata da braccioli e schienale in metallo. Le fiancate del carro sono decorate con pannelli lignei, dipinti di rosso e nero, e lamine bronzee intagliate; sul retro vi sono medaglioni in bronzo con figurine in stagno applicate – ritraenti satiri, ninfe, amorini, a tema erotico. Analisi di archeologia botanica hanno decretato che per il carro sono stati usati almeno due tipi di legname, frassino – elastico e leggero – per la struttura e le ruote, e faggio come supporto alle decorazioni.

L’ultima grande scoperta era stata quella dell’antico fastfood

In ottimo stato di conservazione è anche il termopolio (thermopolium in latino) finito di scavare pochi mesi fa, individuato nel 2019. Questo potrebbe esser definito come una sorta di tavola calda o fastfood del tempo. Si affacciava su una piazzetta della Regio V – una delle nove zone in cui era divisa Pompei – poco distante dal “vicolo dei Balconi” e dalla “via della Casa delle Nozze d’Argento”, di fronte alla cosiddetta “Locanda dei gladiatori”.

Sulla parte frontale del bancone da lavoro, vi erano le raffigurazioni di un cane al guinzaglio, di un gallo, di due anatre germane a testa in giù – pronte per essere consumate – di nature morte e anfore. Per gli archeologi non ci sarebbero dubbi: si tratta di un menù, raffigurato sul bancone per essere sempre a disposizione degli avventori. Qui si legge anche un insulto, probabilmente inciso da un cliente e rivolto a un certo Nicia, definito come un “invertito cacatore“. Forse si tratta del padrone del negozio, un liberto di cui il nome lascia presuppore l’origine greca.

Il “menù” del termopolio (fonte: avvenire.it)

 

Dettaglio di una ninfa (fonte: napoli.repubblica.it)

Quest’ultime scoperte ci permettono di ricordare quanto importante sia la ricerca archeologica, spesso costretta ad esser effettuata in condizioni di lavoro difficilissime e con pochi strumenti, rallentando la ricostruzione del passato. E’ spesso lasciata all’ultimo posto tra gli interessi del nostro Paese, il “Bel Paese”, per far spazio ad altre esigenze irrinunciabili. L’inestimabilità del nostro patrimonio artistico-culturale, meriterebbe più possibilità, vista l’importanza che nei secoli ha avuto la nostra penisola, casa di molti popoli e culla di fiorenti movimenti culturali e artistici. il centro del mondo per moltissimo tempo.

Dal quel tragico 79 d. C. di tempo ne è passato, ma i rinvenimenti come quelli del pilentum e del termopolio ci ricordano che, in realtà, quelle persone sono molto più simili a noi di quanto ci aspetteremmo e che sono soprattutto le “piccole” cose quotidiane a definirci e lasciare traccia del nostro passaggio nel mondo.

 

Rita Bonaccurso

 

Ercolano, neuroni di duemila anni fa in un cervello di vetro. La scoperta tutta italiana

Parco archeologico di Ercolano

Nuove spettacolari scoperte a Ercolano

Un cervello di vetro. Non stiamo parlando di un film di fantascienza, ma di una scoperta sensazionale avvenuta ad Ercolano, sito unico nel suo genere insieme alla vicina Pompei. Una scoperta fatta grazie alla ricerca condotta in sinergia tra l’Università Federico II di Napoli e altre università italiane, la Statale di Milano e Roma Tre, e alcuni istituti di ricerca nazionali, come il Cnr e il Ceinge. Un gruppo di ricercatori di alto profilo, costituito non solo da archeologi, ma anche da geologi, biologi, medici legali, neuro genetisti e matematici, guidato dall’antropologo forense Pier Paolo Petrone della sezione dipartimentale di medicina legale della Federico II. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla celebre rivista di settore Plos One a gennaio scorso, ma ora, ulteriori scoperte sono state fatte.

Scheletri nel sito di Ercolano

L’inizio della ricerca tutta italiana

Tutto ha avuto inizio alla fine del 2018, quando un team di ricercatori italiani effettuò un sopralluogo nel Parco archeologico di Ercolano. Tra i resti di una vittima della più famosa eruzione della storia, quella del Vesuvio del 79 d.C., sono stati ritrovate, incredibilmente, minuscoli brandelli di cervello, nei quali sono rimasti integri dei neuroni  e dunque visibili tramite la microscopia elettronica a scansione (SEM) e strumenti avanzati di elaborazione delle immagini. I resti studiati appartengono a quello che doveva esser stato il “custode” del Collegio consacrato al culto di Augusto, un edificio religioso dell’antica Ercolano, il quale probabilmente è stato colto dall’eruzione mentre dormiva. Il ritrovamento di tessuti celebrali di uomini antichi è un avvenimento molto raro, ma in questo caso siamo di fronte a qualcosa di unico. Uno shock termico avrebbe causato la morte dell’uomo (dunque non per soffocamento) e la trasformazione in vetro di quel che è rimasto del suo sistema nervoso centrale. Proprio così: parti del sistema nervoso dell’uomo si sono conservate fino ad oggi sotto forma di vetro.

Il Collegio degli Augustali

La lava, la causa dello strano fenomeno

Il calore estremo della lava del Vesuvio avrebbe vaporizzato i tessuti molli del corpo e il successivo, netto abbassamento delle temperature avrebbe permesso al cervello di “vetrificare” come avviene talvolta con i resti delle piante. Il dottor Petrone a tal proposito spiegato che un vero e proprio processo di “vetrificazione”, innescato dall’eruzione, ha “congelato” le strutture cellulari, dunque i neuroni, del sistema nervoso centrale di questa vittima, preservandole intatte. La “vetrificazione” è una tecnica che viene usata in medicina per la conservazione di cellule, poiché permette di preservarle nel tempo senza danni strutturali. In questo caso ci ha pensato la natura. I tessuti che subiscono tal processo diventano scuri, lucidi e duri come ossidiana, un vetro vulcanico che si forma per il rapidissimo raffreddamento della lava. È con questo aspetto che li ha trovati il gruppo di lavoro di Petrone. Non solo frammenti di cervello, ma anche di midollo spinale, che hanno rivelato l’impensabile.

“Un intero sistema nervoso centrale umano di duemila anni fa, un mondo ultra microscopico fatto di neuroni e di assoni – ha detto il professore – trovati ad un livello di dettaglio incredibile.”.

Importanti informazioni sono state ottenute anche grazie all’osservazione delle proteine individuate nei resti, e lo studio dei geni che codificano per quelle proteine, ottenendo ulteriore conferma che, quel vetro scuro ritrovato tra i resti, era, in realtà, materiale cerebrale, come chiarito dalla neuro genetista presso l’Istituto di Genetica e Biofisica del CNR di Napoli, Maria Pia Miano.

Uno dei neuroni ritrovati

Non solo archeologia

Gli studi hanno fornito importanti informazioni anche sulle dinamiche della stessa eruzione, come spiegato dal docente ordinario di Vulcanologia della Federico II, Guido Giordano:

“Le strutture neuronali perfettamente preservate sono state rese possibili grazie alla conversione del tessuto umano in vetro, che dà chiare indicazioni del rapido raffreddamento delle ceneri vulcaniche roventi che investirono Ercolano nelle prime fasi dell’eruzione.”.

La cooperazione tra vari esperti è stato un contributo importantissimo per la ricerca che sta riportando alla luce particolari inaspettati sugli ultimi istanti di vita degli antichi abitanti dell’area vesuviana, utili per capire di più sul futuro della stessa e su come prevenire o limitare i danni di una eventuale nuova eruzione del vulcano, a cui sarebbero esposte circa tre milioni di persone.

Il Vesuvio

 

Rita Bonaccurso

Il mito sepolto dei laghi di Ganzirri. Il tempio, la mitilicoltura e la flora selvatica

In questa nuova tappa di Messina da scoprire vogliamo raccontarvi di come i fili che tessono le trame di leggende remote si intreccino alle vicende storiche di pescatori, regnanti Borboni e altri uomini di mare, in un paesaggio unico che si staglia tra le acque dei laghi di Capo Peloro e il litorale di Torre Faro.

Una palude. L’etimologia più accreditata fa risalire il nome dell’area alla parola ghadir, cioè stagno, zona acquitrinosa. I laghi che scorgiamo una volta attraversata tutta la costa del litorale settentrionale della città sono oggi il Pantano Grande (o Lago di Ganzirri) e il Pantano Piccolo (o Lago di Faro). Questo complesso lagunare venne unito attraverso il canale di Margi fatto costruire nella prima metà del 1800 dagli inglesi. Nello stesso periodo furono anche realizzati altri condotti per mettere in comunicazione i due laghi con i mari Tirreno e Ionio, che ancora vengono occasionalmente aperti, soprattutto in estate, per rifornire di ossigeno le acque salmastre. Ma in origine, e fino a poco più di un secolo fa, i laghi erano quattro: esistevano, come fonti storiografiche, a partire da Diodoro Siculo, riportano, anche il Lago di Margi e il Lago Madonna di Trapani, poi affluito nel Pantano Grande. Originati da progressivi insabbiamenti di un’area delimitata da cordoni litorali e plasmata dal moto ondoso marino e dai venti dello stretto, i bacini d’acqua presentano differenti caratteristiche fisico-chimiche. A detenere il primato di salinità e di varietà di specie è il lago di Faro dove vivono orate e anguille e un tempo oltre alle cozze, erano allevate anche ostriche.

La lingua di sabbia. Capo Peloro, punta nord orientale estrema della Sicilia. Da millenni culla delle divinità della mitologia pagana, antica custode di templi, circondata e protetta dai mostri implacabili di Scilla e Cariddi. Ulisse nel XII canto dell’Odissea per sfuggire a Cariddi (colei che “gloriosamente l’acqua livida assorbe”) e al vortice terribile che imperversava nel punto instabile di congiunzione tra i due mari dello stretto, preferì far naufragare la sua imbarcazione sul versante calabro e finire imprigionato nel giogo di Scilla, tra le cui fauci tuttavia alcuni suoi compagni persero la vita. Altre leggende che circondano questo lembo di terra parlano di Pelorias, una sorta di dea madre che risiedeva nel pantano e che personificava lo spirito della natura. La ninfa compare su monete coniate nell’antica città di Messana almeno dalla fine del V sec. a.C. A Pelorias erano associate nella simbologia mitili e conchiglie come la pinna nobilis, ritenuta preziosa e che venne importata dai fenici. E’ l’origine stessa della parola Peloro che in greco (pèloron) significa infatti mostruoso, fuori dal comune a rievocare la stratificazione di leggende che fin dall’antichità hanno influenzato i naviganti di quelle feroci e prodigiose acque. Più in prossimità di Capo Peloro sorge il lago di Faro che, in base a testimonianze, deve il suo nome alle fortificazioni fatte costruire dagli antichi abitanti di Zancle che lo dotarono di un faro a fiaccole per l’orientamento notturno delle navi.

 

Il tempio di Nettuno. Tra Il Pantano Grande e il Pantano Piccolo esisteva, come abbiamo detto all’inizio, il lago Margi o “Maggi”. Le sue esalazioni pestifere non permettevano di raggiungere l’area paludosa che venne bonificata dai Borboni nell’800. Scavi condotti in seguito portarono alla luce una serie di importanti reperti archeologici: vasi, suppellettili e altri antichi resti che rivelarono i gloriosi fasti sepolti di un misterioso tempio pagano. Oltre a Esiodo, lo scrittore romano Gaio Giulio Solino, vissuto nel III sec. d.C nella sua Raccolta di cose memorabili raccontava che su quello stagno melmoso era sorto un imponente tempio dedicato a Poseidone o Nettuno, il dio del mare, protettore ante litteram di Messina, che, stando al mito, separò la Sicilia dal continente con un colpo di tridente. A farlo erigere sarebbe stato niente meno che Orione, suo figlio, che la tradizione volle essere stato il fondatore della città, in onore del quale Angelo Montorsoli nel 1553 costruì la fontana collocata in piazza Duomo. Le colonne dell’antico tempio vennero quindi trasferite in epoca bizantina per permettere la costruzione delle navate del tempio cristiano.
Visioni e città. Al di là del mito, nelle più aleatorie propaggini della fantasia, un’altra storia lega il lago di Faro al folclore locale. Alcuni giurano ancora di scorgere qualcosa in quel fondale. Abbagliati dall’aria immobile del lago c’è chi afferma di sentire qualche volta il suono delle campane e di vedere i muri di un’antica città sepolta dentro le sue acque; Risa, un fiorente centro preellenico che a causa di un cataclisma sprofondò improvvisamente e lasciò al suo posto un fossato dove l’azione protratta delle piogge diede origine al lago. Le immersioni, se non sono riuscite a trovare conferme a questa curiosa leggenda, hanno comunque permesso di recuperare anfore bizantine e i resti di un antica imbarcazione, arrivata forse dal mare dello stretto. Il mare di Messina del resto da secoli confonde, inebria i suoi viaggiatori, e in certe giornate si può incappare nel bizzarro fenomeno ottico della Fata Morgana, quando da Reggio le due coste, siciliana e calabrese, sembrano toccarsi per effetto del riflesso delle abitazioni sull’acqua.

La pesca. Storici ipotizzano che la zona di Ganzirri fosse abitata fin dai tempi del neolitico. Documenti più sicuri testimoniano la presenza di villaggi e insediamenti di pescatori attorno alla laguna almeno a partire dal XVI secolo. Senz’altro la bonifica promossa dai Borboni intensificò l’urbanizzazione, dovuta anche alla necessità di difendere le coste dalle incursioni piratesche, e lo sfruttamento delle risorse offerte dalla varietà di pesci e di molluschi, detti cocciole. L’attività produttiva legata alla mitilicoltura e tellinicoltura caratterizza indissolubilmente il legame dell’uomo con il territorio. La zona, promossa a riserva naturale dal 2001, riveste un notevole interesse sotto questo profilo, tanto da essere annoverata come bene etno-antropologico sottoposto a divieti e restrizioni. L’habitat naturale in ogni caso in seguito al proliferare urbano sempre più massiccio, risulta  oggi compromesso. Recentemente, dopo le proibizioni degli ultimi anni, è ripresa comunque, seppure in misura minore rispetto agli anni ’60-’70, l’attività di allevamento dei frutti di mare. Molti pescatori di Ganzirri inoltre praticano la pesca del pesce spada a bordo delle feluche.

Specie floreali insolite. Nonostante il litorale di Torre faro sia fortemente alterato a causa dell’azione antropica conserva ancora un valore floristico e vegetazionale rilevante, grazie alle numerose specie molto particolari che continuano ad abitarlo, pressoché assenti nel resto della Sicilia, ad esempio la Centaurea deusta subsp. divaricata che cresce solo in questa zona, Anthemis peregrina, e Hypecoum procumbens della quale rimangono pochi esemplari esclusivamente nell’area di Ganzirri. Il sito è attualmente piuttosto degradato per l’intensa urbanizzazione; il lago Grande di Ganzirri e il Pantano piccolo hanno perso gran parte della loro vegetazione naturale, ma si rinvengono ancora specie rare come Cynanchum acutum.

Eulalia Cambria

Ph: Salvatore Cambria

 

Museo di Messina: l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani

Il sabato scorso, dopo mesi e mesi di attesa trepidante, ho finalmente potuto varcare la soglia della sede definitiva del Museo Regionale di Messina, che dalle 20:30 alle 22:30 apriva i suoi battenti gratuitamente al pubblico: la prima apertura completa della struttura museale, a distanza di oltre cento anni dalla sua nascita. Insieme a me una folla notevole (lascio ai contabili del giorno dopo la stima dei numeri, per me erano e resteranno sempre “chio’ssai d’i cani i Brasi”, come si dice a Messina) composta da gente di ogni età, ceto e condizione sociale accorsa da tutta Messina e anche da fuori, anche a seguito della notevole campagna pubblicitaria che questa volta ha coinvolto anche le reti televisive nazionali.

Nel mio personale sentire, il Museo Regionale di Messina, fin dalle prime volte in cui lo visitai da piccolo, è sempre stato un luogo speciale, quasi sacro. Uno scrigno della memoria, come ebbi modo di scrivere in un articolo in occasione della apertura parziale di Dicembre. Un grande tempio laico dedicato a Messina. Mi piace pensare che nessun altro museo al mondo possa vantare una storia simile, anche se forse non è così. La sua storia si intreccia indissolubilmente con quella del Terremoto del 1908: prima era poco più che una pinacoteca comunale sorta dal confluire di collezioni private.

Poi accadde il disastro, e secoli interi della storia e del patrimonio artistico di Messina furono cancellati dalla faccia della Terra. Il moderno Museo Regionale nasce da quelle macerie, dal lavoro paziente di tanti messinesi che si misero a frugare in quelle rovine, a tirarvi fuori tutto ciò che potesse avere un qualche valore storico e artistico, ed ad ammucchiarlo, accatastarlo nella antica sede del convento del SS. Salvatore dei Greci, dove si trovava la filanda Barbera-Mellinghoff, che per tanti anni ne è stata la sede provvisoria. Il loro sogno era che un giorno tutto potesse tornare a vivere, che la antica Messina dei secoli d’oro, la Messina che il terremoto aveva sfregiata, distrutta, annichilita, potesse in parte tornare a esistere. Melior de cinere surgo: come l’araba fenice, anche Messina con la sua storia e la sua cultura sarebbe un giorno risorta dalle sue ceneri.

Ci sono voluti oltre cento anni affinché questo sogno divenisse realtà. Oggi, finalmente, Messina ha il suo Museo Regionale. Un percorso espositivo unico, fra i più estesi del Meridione, in grado di raccontarci secoli di storia: dalla Zancle greca al Medioevo arabo-normanno, dal Quattrocento della Scuola fiamminga e di Antonello fino al Rinascimento, Montorsoli, Calamech, Polidoro Caldara, Alibrandi, allievi di Michelangelo e Raffaello. E poi il seicento, Caravaggio e i caravaggeschi, gli splendori del barocco, gli argenti e i marmi a mischio del Settecento, la lenta decadenza dell’Ottocento. Un viaggio nella storia di Messina dalle origini ai giorni nostri attraverso i suoi capolavori più belli e preziosi. 

Insomma, l’Italia è stata fatta (e finalmente, aggiungerei). Adesso, però, si devono fare gli Italiani. L’apertura completa del Museo Regionale è senza dubbio un traguardo: ma deve essere il primo di una lunga serie. Un Museo così grande e importante come quello che ha appena aperto le sue porte rappresenta una risorsa invalutabile per quello che è e che sarà il turismo culturale nella Città dello Stretto e nei suoi dintorni. Non può né deve permettersi di restare confinato al margine della sua vita sociale; deve, al contrario, rivendicare orgogliosamente il ruolo e la posizione di fulcro, di guida e di punto focale per la rinascita culturale della città. 

Questa nuova apertura pone dunque alla direzione grandi responsabilità, apre nuovi orizzonti e offre nuove sfide. Una ad esempio potrebbe essere quella di porre il Museo, da sempre in una posizione periferica rispetto al centro storico, nel posto che si merita all’interno dei già ridotti circuiti turistici della città. La stagione estiva è alle porte, visitatori e croceristi cominciano timidamente ad affollare le vie del centro; se già adesso è difficile che si spingano oltre il “triangolo magico” incluso fra Piazza Duomo, l’Annunziata dei Catalani e Palazzo Zanca, e forse del Museo Regionale ignorano persino l’esistenza, chi li porterà fino al Torrente Annunziata per vederlo?

Insomma, il lavoro è appena cominciato e servirà un rinnovato impegno, e la formazione di nuove sinergie con il Comune e con gli enti pubblici, affinché il nuovo Museo possa sviluppare in pieno le sue potenzialità benefiche per l’intera città di Messina. A noi visitatori resta la speranza che la recente apertura completa si riveli non un comodo letto di allori su cui sdraiarsi a riposare, ma la prima tappa di un lungo percorso di rinascita: un percorso che abbia come obiettivo finale la riscoperta, agli occhi dei messinesi e del mondo intero, di Messina e della sua bellezza. 

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Largo San Giacomo: dalla Storia allo scavo

E’ l’estate del 2000 quando il Comune di Messina finanzia uno scavo con l’intento di svuotare dall’acqua la cripta della Cattedrale. A quest’opera di bonifica, tuttavia, si deve anche un altro merito: l’aver riportato alla luce una cripta settecentesca, edificata sui resti della Chiesa consacrata a San Giacomo Apostolo.

Le carte storiche di Messina, come la planimetria effettuata da Gianfrancesco Arena dopo il terremoto del 1783, confermano l’esistenza della struttura dietro al Duomo, e la vedono inglobata in un caseggiato alle sue spalle verso Est.

A causa della falda acquifera affiorante, non è stato possibile approfondire gli studi sullo scavo, ma si ipotizza l’edificazione dell’opera normanna intorno alla seconda metà dell’ XI e XII secolo; a sostegno di questa ipotesi, troviamo alcuni particolari stilistici, quali i pilastri che separano la navata, la tecnica di costruzione delle mura e la pavimentazione povera, aspetti che la avvicinano molto ad altre opere di periodo normanno, come la Chiesa di Santa Maria della Valle, comunemente conosciuta come “ ‘a Badiazza”.

Nel corso della sua storia, la Chiesa subì numerosi restauri dovuti anche ai frequenti straripamenti del torrente San Giacomo, scorrente in quella zona della città fino al 1548, anno in cui gli Spagnoli eressero una nuova cinta di mura. Tra il XV e il XVIII secolo, possono essere collocate le numerose sepolture rinvenute sotto i pavimenti: secondo i dati fornitici da Gallo, solo nel 1753 verrà costruita una vera e propria cripta per i defunti, identificabile in quella rinvenuta nel 2000.

 

Di questa cripta, grazie agli scavi odierni, è possibile distinguere chiaramente alcune parti restanti, fra cui dei particolari sedili forati: sono i cosiddetti colatoi. Per capire la loro funzione, dobbiamo rifarci all’usanza, diffusissima in Sicilia e in tutto il Meridione in generale, in particolare lungo il XVIII sec., della scheletrizzazione naturale dei cadaveri. Questa pratica antica, che oggi non potremmo fare a meno di definire decisamente macabra, bene si inquadra nel solco delle tradizioni tipicamente meridionali legate al culto dei defunti, come ad esempio la mummificazione, anch’essa praticatissima in Sicilia (si pensi al cimitero dei Cappuccini di Palermo o alle, più vicine, mummie di Savoca).

Nel caso della scheletrizzazione, però, i cadaveri venivano rivestiti con i loro abiti migliori e lasciati, in posizione seduta (grazie all’aiuto dei fori che tutt’ora è possibile vedere), a decomporsi naturalmente nelle apposite nicchie, finchè non ne rimanevano solo le ossa, che venivano a quel punto raccolte e messe in appositi ossari. Questo rituale, che agli occhi del lettore moderno potrà sembrare persino ripugnante, era all’epoca ammantato di un preciso significato religioso, legato al tema della caducità delle cose terrene, tanto che in alcuni luoghi era previsto che dei membri del clero, o anche i parenti stessi del defunto, si recassero periodicamente a visitare i colatoi per pregare e meditare sulla morte; come si può intuire, si trattava di una usanza tutt’altro che salutare, tanto che in vari modi nel corso degli anni le autorità provarono, spesso invano, a scardinarla. 

 

 

 

La primitiva Chiesa medievale era completamente sotto terra, proprio per questo se ne perse la memoria. Tuttavia, al suo interno, era contenuto qualcosa che ne conferma l’esistenza: un antichissimo marmo, oggi custodito nel Museo Regionale di Messina, che si pensa rappresenti l’apoteosi di un eroe o il mito di Icaro.

Sappiamo con certezza che, nella prima metà dell’Ottocento, la chiesa era ancora aperta al culto. Solo dopo, la sede parrocchiale fu trasferita nella chiesa della Madonna dell’Indirizzo e poi nella chiesa Santa Caterina Valverde. L’antica chiesa non esisteva più dal 1902, al suo posto si trovava la casa del Cav. Ruggero Anzà.

Con il terremoto del 1908 la Chiesa della Madonna dell’Indirizzo e la Chiesa di Santa Caterina furono distrutte. Vent’anni dopo, oltre il Torrente Zaera, fu edificata una chiesa in nome di San Giacomo Apostolo, la prima in muratura aperta al culto. Il nuovo complesso parrocchiale, in stile neoromanico, sorge sul primo comparto dell’isolato 54, delimitato dalle vie Reggio Calabria, Buganza, Napoli e Lombardia ed occupa un superficie di mq 1345 circa. Tra i tanti restauri, l’ultimo venne effettuato negli anni 1977-1978.

Fino a poco tempo fa godere dello spettacolo che questo scavo offre, era praticamente impossibile a causa di una distesa di verde dalla crescita incontrollata e di montagne di spazzatura. Oggi, fortunatamente, grazie ai volontari di “PuliAMO Messina” con l’affiancamento della Soprintendenza ai beni culturali e della direttrice dell’Orto Botanico, è stato restituito al monumento il proprio valore storico-culturale.

Erika Santoddì

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco