Il sincretismo. Quando le affinità uniscono popoli e religioni

Quando nel corso della storia si origina una collisione tra due realtà culturali diverse, sono due le possibilità che si presentano come ipotetico futuro: che una delle due collassi o che esse si fondano.

Il sincretismo è un concetto profondamente complesso dell’antropologia e della geografia antropica. Esso è il processo di assimilazione di ciò che è nuovo e inconsueto. L’appropriazione di ciò che è “tuo” e che, unito a ciò che è “mio”, diventa dunque “nostro”.  Usi, costumi, lingua.

Il sincretismo annienta la frammistione culturale, mandando in scena un’unica, meravigliosa, commedia fatta di diversità che nel corso dell’opera si fondono ed emergono come forme di vita ibride.

Il significato etimologico del termine è “unione dei Cretesi”.

La domanda sorge spontanea: che legame ha l’unione dei Cretesi con la fusione di tratti  conciliabili di due civiltà?

Presto detto nessuno, ma il significato del termine “sincretismo” nel corso della storia assunse questa accezione. Dapprima, fu utilizzato da Plutarco per indicare l’unificazione delle varie comunità dell’isola di Creta, nel Mediterraneo Orientale, per far fronte ai pericoli incombenti. Col tempo, questo termine indicò, in senso lato, due realtà che, condividendo elementi ideologici affini, si fondono.

Ecco alcuni esempi per comprendere meglio il fenomeno.

Quando nel II millennio a.C. Babilonia si espanse, diventando una potenza regionale sotto il comando del famosissimo Hammurabi, il re babilonese capì ben presto che la sua terra non si sarebbe stabilizzata solo con la promulgazione di leggi (il famoso codice di Hammurabi, ricordate?).

Egli decise di unire tutti i vari culti del proprio impero, ponendo a capo di questo nuovo pantheon il dio sovrano di Babilonia, Marduk. Una riunificazione politica, ma soprattutto religiosa.

Spostiamo le lancette di qualche anno più avanti.

Con l’avvento delle colonizzazioni e delle campagne di conquista di Alessandro Magno, la cultura ellenica si espanse per gran parte del Mar Mediterraneo e del mondo orientale, entrando in contatto con decine di culture diverse.

I greci che seguirono Alessandro nella marcia verso Oriente finirono per essere sedotti dal lusso e dalle meraviglie di quella terra così affascinante, ma al tempo stesso così diversa dalla madrepatria Grecia. La cultura greca fu così esportata nei regni orientali, originando nuove ed affascinanti realtà.

I regni ellenistici nati dalle ceneri dell’impero macedone presentavano caratteristiche sia della cultura greca sia del mondo orientale.

Si venerava il sovrano, proprio come nei regni orientali, ma si combatteva alla greca. Serrati in falange. Seppur con qualche piccola modifica, come gli elefanti seleucidi.

All’incirca sempre negli stessi luoghi, ma a distanza di quasi mille anni, l’intera produzione filosofica, artistica e letteraria occidentale e orientale confluì nella cultura islamica. Con l’espansione islamica che raggiunse il continente europeo e il subcontinente indiano, i seguaci di Maometto incontrarono realtà molto diverse dalla propria. Gli arabi si fecero portavoce delle teorie pitagoriche, della diffusione della carta, dell’astronomia medio-orientale e della filosofia indiana.

Tre sfumature diverse dello stesso concetto: sincretismo religioso, sincretismo sociopolitico, sincretismo culturale.

Questo fenomeno rappresenta un forza generatrice che rimescola le carte dell’umanità. Dà vita a nuove religioni, nuove correnti politiche, nuove culture.
Le sue intricate dinamiche ci permettono di comprendere l’unicità e, al tempo stesso, la dinamicità della nostra identità culturale. Perchè, spesso, le affinità sono ben più grandi delle differenze.

Fortunato Nunnari

 

 

La Kefiah, un simbolo tra resistenza, radici e tradizioni

La kefiah è il simbolo del popolo palestinese e della lotta per la liberazione della Palestina.

La kefiah è un copricapo tradizionale, diffuso anche tra le altre popolazioni dell’Asia Occidentale, le quali hanno prodotto la propria variante. In Giordania, ad esempio, la kefiah viene chiamata “hatta”. La si può trovare anche in Siria e in Iraq, dove la chiamano “shemagh”. Nei paesi del Golfo Persico, come il Qatar o l’Arabia Saudita, viene chiamata “gutrah”.

La kefiah è un indumento distintivo del mondo arabo, sia storicamente che per l’immaginario collettivo. Essa però non porta con nessun significato religioso. Da sempre è indossata da arabi di fede cristiana e drusa, oltre che da chi professa la fede islamica.

Nel corso dei decenni è divenuto il vessillo non solo del popolo palestinese, ma anche di tutte le donne e uomini liberi nel mondo che si oppongono alle guerre, e all’imperialismo occidentale.

 

Da indumento tradizionale a simbolo di autodeterminazione e resistenza

Tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso, con lo scoppio della guerra del Vietnam, negli Stati Uniti e in tutto il mondo occidentale emerse il movimento pacifista. Un’onda internazionale che si mosse dal basso, un movimento che diventò il ”megafono” che rappresentò le istanze di tutti i popoli oppressi del mondo. Dal Vietnam alla Palestina, dall’embargo di Cuba da parte statunitense al colpo di stato fascista in Cile. Dall’Angola al Mozambico che lottavano per l’indipendenza, dal Portogallo fino al Sud Africa dell’apartheid. Il movimento pacifista, tra marce di folle oceaniche e azioni dimostrative, si mostrò come l’impersonificazione della vera opinione pubblica che denunciava le barbarie dei nostri tempi. 

Così la kefiah oltrepassò i confini levantini per divenire un simbolo di solidarietà internazionale. Il simbolo di chi ha a cuore la libertà dei popoli.

Nessuno è libero fino a che non siamo tutti liberi

recitavano i cartelloni tra le mani dei manifestanti.

Nelson Mandela con la kefiah in segno di solidarietà al popolo palestineseFonte: https://www.aljazeera.com/wp-content/uploads/2023/12/afp.com-20060304-PH-PAR-ARP1559147-highres-1701775047-e1701777815420.jpg?resize=770%2C513&quality=80
Nelson Mandela con la kefiah in segno di solidarietà al popolo palestinese

La kefiah fu indossata sia dalle persone comuni che protestavano per la pace sia dai leaders dei popoli in rivolta. Da Fidel Castro a Nelson Mandela In particolare, tutti i leaders di sinistra nel mondo indossarono la kefiah. Indossarla era già di per sè un’azione politica. La chiara espressione del sostegno alla causa palestinese. Nei decenni, anche Che Guevara si recò in visita a Gaza varie volte, prima del suo assassinio.  

 

La forza di un popolo e i suoi simboli  

Originariamente, la kefiah in Palestina non era indossata indistintamente da tutta la comunità palestinese. Storicamente, infatti, indossavano la kefiah coloro che vivevano nelle zone rurali, contadini, e beduini.

Nelle città palestinesi, per via dell’influenza della dominazione ottomana, era diffuso il “tarbouchè ottomano“, un copricapo di forma conica di colore rosso.

Nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, con la sconfitta ottomana, la Palestina passò dall’occupazione ottomana a quella britannica, durata fino al 1948.

L’occupazione britannica portò alla grande rivolta araba del 1936, conseguenza della brutalità coloniale che assecondava l’insediamento di coloni sionisti provenienti da tutto il mondo.

Il susseguirsi di attacchi alle comunità palestinesi rurali provocò la rivolta delle classi contadine. Gli insorti erano facilmente identificabili. I partigiani palestinesi, per non farsi identificare, durante le rivolte iniziarono a coprirsi tutto il volto con la kefiah. Di conseguenza, chiunque indossava una kefiah divenne sospetto e passibile di arresto da parte delle autorità coloniali. 

I leaders palestinesi dell’epoca, come risposta, invitarono tutta la popolazione ad abbandonare il tarbouchè ottomano, divenuto “il copricapo dei traditori”.  Esortarono tutta la popolazione a indossare la kefiah.

Questa strategia rese impossibile l’individuazione dei ribelli da parte delle autorità coloniali.

L’apice della kefiah, adottata come simbolo della Palestina per antonomasia, si ebbe però solo nel 1967. Dopo la sconfitta degli Stati Arabi contro il neo Stato sionista nella guerra dei sei giorni, e l’occupazione anche di Gaza e di tutta la Cisgiordania da parte del nuovo stato coloniale.

Il fallimento della repressione e la censura della bandiera della Palestina e i suoi colori

Una delle prime conseguenze della totale occupazione della Palestina fu che la bandiera palestinese venne vietata da una legge varata dall’occupante israeliano.

Nel 1980, Israele varò un’ulteriore legge che vietava le opere d’arte di “significato politico”; altresì vietava le opere d’arte composte dai quattro colori della bandiera palestinese. I palestinesi vennero arrestati per aver esposto tali opere d’arte.

Fu così che la kefiah sostituì la bandiera palestinese, equivalendosi nel suo significato di resistenza al colonialismo.

Oltre alla kefiah, per sfidare la legge imposta dagli israeliani ai palestinesi, iniziò a diffondersi la pratica tra chi protestava di portare  con alle manifestazioni delle angurie, frutto che contiene i quattro colori della bandiera palestinese.

Il divieto di esporre la bandiera della Palestina verrà abolito solo nel 1993, con gli accordi di Oslo firmati dal leader della resistenza palestinese dell’epoca, Yasser Arafat, anch’egli uno dei maggiori sponsor della kefiah. Questi non si è mai mostrato in pubblico senza indossarla.  

 

Anguria simbolo di protesta e diritto all'autodeterminazioneFonte: https://www.bing.com/images/search?view=detailV2&ccid=lMP3TQyP&id=370A6588D30BB16F932B5DF4AC0EC44D9D779096&thid=OIP.lMP3TQyPP-2ZmlmQTejhMwHaE8&mediaurl=https%3a%2f%2fwww.indy100.com%2fmedia-library%2fpalestinian-farmers-in-the-northern-gaza-strip-in-2021.jpg%3fid%3d50420812%26width%3d1200%26height%3d800%26quality%3d85%26coordinates%3d0%252C0%252C0%252C0&cdnurl=https%3a%2f%2fth.bing.com%2fth%2fid%2fR.94c3f74d0c8f3fed999a59904de8e133%3frik%3dlpB3nU3EDqz0XQ%26pid%3dImgRaw%26r%3d0&exph=800&expw=1200&q=watermelon+protest+palestine&simid=608045122402729502&FORM=IRPRST&ck=1B5D1F658A32DC2443C2933507EA3E33&selectedIndex=83&itb=0&ajaxhist=0&ajaxserp=0
Manifestanti palestinesi che hanno reso anche il frutto un simbolo del loro diritto all’autodeterminazione

 

La mercificazione della grande industria della moda ha decostruito il significato di lotta della kefiah

Negli anni 2000, la kefiah ha vissuto un momento di appropriazione e mercificazione da parte del mercato della moda mondiale. Questo, tendendo a spogliarla del suo profondo significato storico, culturale e di lotta, decostruì l’implicazione simbolica di chi la indossava e la trasformò in un indumento comune, l’ennesimo prodotto fashion.

Il mercato fu esondato da svariati tipi di kefiah, che differivano per forma colore e dimensione. Marchi come Balenciaga arrivarono a produrre la propria versione nel 2007, al prezzo di tremila euro al pezzo e anche Chanel e Fendi proposero la loro variante.

Ciò nonostante, la kefiah ha continuato a essere il simbolo della Palestina e della sua lotta per la liberazione.

Svariate celebrità l’hanno indossata come messaggio di solidarietà per il popolo Palestinese, come Roger Water dei Pink Floyd. Tuttavia, nonostante gli accordi di Oslo siano falliti e benchè dal 2007 la striscia di Gaza sia divenuta il piu grande campo di concentramento della storia dell’umanità, la causa palestinese è caduta nell’ombra. Forse, più che cadere, sono stati i riflettori dei media occidentali ad essersi girati dall’altra parte, contribuendo a far cadere nell’oblio la causa palestinese.

 

Nuovamente attorno al collo di milioni di persone in tutto il mondo

Proteste pro PalestinaFonte: https://www.wlrn.org/government-politics/2023-10-13/palestinian-supporters-speak-out-in-south-florida-as-israel-hamas-conflict-rages-in-middle-east
Protesta pro Palestina
Fonte: Al Diaz Adiaz, @Miamiherald.com

Con l’inizio del genocidio a Gaza, iniziato il 7 ottobre 2023 e vergognosamente ancora in corso, il mondo ha preso nuovamente coscienza della causa palestinese e del paradosso dell’unica colonia occidentale esistente ancora al mondo, ovvero lo stato di Israele.

Le cronache del genocidio del popolo Palestinese hanno fatto che la kefiah tornasse attorno al collo di milioni di persone in tutto il mondo, indossata in solidarietà col popolo palestinese. Di conseguenza, è tornata protagonista negli schermi dei media.

Purtroppo, come nel 1967, assistiamo a tentativi da parte di chi sostiene il regime di appartaheid israeliano di criminalizzare questo indumento, tentando in tutti i modi di far associare la kefiah con il terrorismo nell’immaginario collettivo.

Tristemente assistiamo ad atti di repressione e anche arresti da parte della polizia in Stati democratici, come la Germania e l’Austria, nei confronti di attivisti colpevoli di indossare la kefiah. Svariati sono stati anche i casi di persone allontanate da locali pubblici perché indossavano una kefiahanche una semplice spilletta con la bandiera palestinese. Altri hanno perso il proprio impiego per il sol fatto che indossavano sul posto di lavoro tali simboli.

L’atteggiamento repressivo a cui assistiamo anche fuori dalla Palestina ha incoraggiato la protesta in tutto il mondo. Le piazze delle maggiori metropoli del mondo pretendono la fine del genocidio, il cessate il fuoco e la fine dell’occupazione israeliana, perpetrata impunemente  da oltre settantasei anni.

Non è una questione solo politica, è anche e sopratutto una questione etica, alla base dei valori e dei diritti umani su cui si basa la civiltà moderna.

Come scrisse Vittorio Arrigoni, attivista italiano per i diritti umani e giornalista, ucciso a Gaza nel 2011.:

Restiamo umani.

 

Vittorio ArrigoniFonte: https://www.bing.com/images/search?view=detailV2&ccid=9jgtv5D5&id=AA96DD11936B800EE24B5FA85FD0DE9C4763A275&thid=OIP.9jgtv5D5vQR28dw0pBfvVAHaF-&mediaurl=https%3a%2f%2f3.bp.blogspot.com%2f-6nyTzQE8tk8%2fVT3sColrgFI%2fAAAAAAAADQQ%2ff6-VT2yUDYY%2fs1600%2fVittoro-Arrigoni.jpg&cdnurl=https%3a%2f%2fth.bing.com%2fth%2fid%2fR.f6382dbf90f9bd0476f1dc34a417ef54%3frik%3ddaJjR5ze0F%252boXw%26pid%3dImgRaw%26r%3d0&exph=646&expw=800&q=vittorio+arrigoni&simid=608048511106972670&FORM=IRPRST&ck=6C8E8BF42A7AA283ED10C503D3A71EA4&selectedIndex=72&itb=0&ajaxhist=0&ajaxserp=0
Vittorio Arrigoni 

  

Fonti :

https://orientxxi.info/va-comprendre/perche-la-kefiah-e-il-simbolo-della-resistenza-palestinese,7111#:~:text=Uno%20strumento%20della%20Grande%20Rivolta&text=In%20Palestina%2C%20la%20kefiah%20%C3%A8,nero%20che%20circonda%20la%20testa

https://www.middleeasteye.net/discover/palestine-keffiyeh-resistance-traditional-headdress

 

 

 

 

 

Miti e magia delle isole Eolie nell’incontro con l’antropologa Marilena Maffei

Sì è svolto giorno 12 aprile al Dicam l’incontro con l’antropologa Macrina Marilena Maffei, autrice dell’opera La maga e il velo. Incantesimi, riti e poteri del mondo magico eoliano, frutto della ricerca ventennale della studiosa sul fenomeno del magismo nelle isole Eolie. L’incontro ha visto la partecipazione attiva di studenti, dottorandi e cultori della materia, nonché del direttore del dipartimento di civiltà antiche e moderne Giuseppe Giordano, del professore Mario Bolognari e dell’antropologo Sergio Todesco che hanno aperto l’evento con dei brevi saluti.

Locandina dell'evento
Locandina dell’evento. Fonte: unime.it

A Mauro Geraci,  ordinario di Antropologia Culturale è spettato invece l’onore di introdurre l’intervento dell’autrice, di cui ha tracciato un profilo biografico alquanto interessante.

Laureatasi a Roma nel 1978 con una tesi sugli elementi fiabistici in Basilicata, sua terra d’origine, Maffei non è una studiosa inquadrata nei ranghi dell’ambiente accademico, bensì una ricercatrice che tocca con mano il suo ambito di interesse. Lo dimostra il suo approccio che documenta in maniera rigorosa le testimonianze dirette di un mondo contadino che ancora permea la modernità e a cui nelle sue opere è dedicato ampio spazio.

Nell’incontro con gli studenti del Dicam le dissertazioni astratte hanno lasciato il posto alla voce reale degli abitanti delle Eolie: i documenti sonori raccolti dalla studiosa durante il suo periodo di ricerca hanno intervallato più volte il racconto della studiosa su un mondo apparentemente arcaico e lontano. Un mondo che però, contrariamente a quello che siamo portati a credere, esercita ancora una forza di suggestione così potente negli abitanti delle isole che a un certo punto non è più possibile tracciare un confine netto tra mito e realtà talmente il primo permea la seconda e la asservisce ai suoi motivi.

Il professor Mauro Geraci accanto all’autrice Marilena Maffei. © Angelica Rocca

L’autrice, che prende la parola dopo il professor Geraci, ci parla di “figure fantastiche, oniriche, che raggiungono la densità del reale.” E sono proprio quelle che secondo i racconti popolari, abitano le Eolie, locus amoenus in cui terra e cielo si toccano, ma allo stesso tempo realtà costantemente minata dai terremoti, dai vulcani e fino a non molti anni fa dalla fame e dalla miseria.

Eolie e magia: il libro di Maffei unisce due mondi meravigliosi ed enigmatici che la studiosa ha avuto modo di conoscere tramite quei “cunti” della tradizione che ha portato alle orecchie e all’attenzione degli studenti in un incontro vivace e partecipato. 

Porte per l’aldilà, serpi chiomate e streghe volanti: i miti delle Eolie 

Il percorso tracciato dall’intervento di Maffei parte da un’immagine potente nelle credenze eoliane: il tópos del fuoco e del vulcano come porta per l’al di là. A conferma di questa tradizione che affonda le radici nell’antichità, la studiosa cita tra gli altri Jacques Le Goff che racconta nella sua opera famosa “La nascita del Purgatorio” di un crociato che tornando da Gerusalemme volle far tappa nelle Eolie convinto che qui si trovasse l’accesso agli Inferi. Ma immagine certamente più bizzarra e anche questa trais d’union tra mondo dei vivi e mondo dei defunti è quella della “serpe con i capelli”, caratteristica proprio dell’immaginario eoliano e concepita come reincarnazione di qualche “animicedda”.

Una credenza che trova riscontro anche in altre località meridionali ( basti pensare alla vicina Calabria dove anche qui si raccomanda di non uccidere i serpenti), ma che qui assume una forma particolare e insolita. Perché nelle Eolie queste anime imprigionate nei serpenti avrebbero addirittura capelli umani ( e qualche volta anche volto e mani)? Maffei risponde a questo legittimo interrogativo affermando che il contesto eoliano è talmente fragile e precario che qui la credenza nel mito non basta: diventa necessario allora avere prove, certezze concrete, conferme visibili di quanto si tramanda oralmente.

© Angelica Rocca

La discussione entra nel vivo quando ci avviciniamo a un altro personaggio degno delle migliori opere fantasy: quello della strega eoliana. Quali sono le sue peculiarità rispetto ad altre streghe o “befane” che popolano le leggende del Bel Paese? In realtà qui alla strega, non è associato alcun potere malefico, carattere diabolico o tratto mostruoso.

Nei racconti dei pescatori che hanno avuto la “fortuna” di avvistarle, emergono invece figure femminili bellissime, il più delle volte nude, le cosiddette “majare”, accomunate tutte da una caratteristica: la capacità di volare, ora per cielo grazie ad un unguento speciale, ora per mare su delle imbarcazioni.

Ed è proprio qui che la realtà storica delle isole, quella che viene spesso taciuta e rinnegata, trova uno sbocco nel mito di queste donne libere che volando sfidavano le regole di una società rigidamente patriarcale. Nelle Eolie erano proprio le donne ad andare per mare e a conoscere l’arte della pesca e della navigazione, mentre agli uomini era lasciato il lavoro dei campi. Questa consuetudine è taciuta dalla storiografia ufficiale e dalla tradizione popolare, ma si ritrova eco persino in qualche novella del Decameron ed è stata riportata alla luce proprio da Maffei che si è battuta tanto per farla riconoscere.

Oggi nel 2022 arriva finalmente una “grande vittoria per l’antropologia”: Clara Rametta, una sindaca di Salina, ha deciso di finanziare una statua dedicata alle donne che andavano per mare. Donne prostrate dalla fame e dalla miseria, ma capaci con la loro libertà di incutere timore negli uomini e per questo trasfigurate in streghe. Da qui il potere esorcizzante del mito, la sua capacità di farsi valvola di sfogo delle paure e delle speranze inconsce di un popolo che lo custodisce e lo tramanda ai posteri. Un potere così forte che continua ad affascinare e a incuriosire.

L’opera dell’autrice.© Angelica Rocca

Non sono mancate, al termine della giornata, le domande all’autrice sulla magia e il suo desiderio di dominare la realtà. Perché cosa fa un mago se non cercare di piegare la natura al suo volere? E cosa distingue a questo punto l’incantesimo dall’esperimento, la formula chimica da quella magica se entrambe si basano su un rapporto “causa-effetto” tra i fenomeni naturali? La magia con i suoi miti si può quindi definire la “sorella bastarda” della scienza. Conoscerla ( che non significa praticarla!) può aiutare a capire tanto anche della nostra contemporaneità.

Angelica Rocca

Si può predire l’aggressività di un soggetto osservandone il volto?

© Pinterest - psychcentral.com

Il volto è ciò che principalmente ci contraddistingue: piccole differenze nei tratti facciali possono suscitare reazioni diametralmente opposte in un osservatore. L’attrazione, la fiducia o la diffidenza sono influenzate dalle caratteristiche del viso di un’altra persona. Ma il nostro parere corrisponde alla realtà? Sarebbe possibile stimare l’aggressività di un soggetto soltanto guardandolo in faccia?

Negli anni in molti hanno provato a dare una risposta scientifica a queste domande. Sfortunatamente definire associazioni ben precise non è semplice. I tratti fisionomici da analizzare sono tantissimi e difficilmente possono essere esaminati separatamente in quanto si influenzano a vicenda.

Il rapporto tra la larghezza e l’altezza del volto per predire l’aggressività

Nel tentativo di predire l’aggressività, una proposta che possa tenere conto di più caratteristiche è quella del rapporto tra larghezza e altezza del volto (fWHR: facial width to height ratio). La larghezza è misurata tra gli zigomi, l’altezza è misurata dal margine superiore della bocca al margine inferiore dalle sopracciglia.

Uno studio del 2009 ha dato conferma del fatto che gli osservatori reputassero più aggressivi i volti che presentavano un rapporto aumentato. Altri studi successivi hanno poi confermato la stessa evidenza. Ciò può indicarci che stimare la potenziale aggressività di un soggetto sulla base delle caratteristiche del viso potrebbe essere vantaggioso per la sopravvivenza. Quest’analisi ha un razionale comportamentale: chi è arrabbiato o aggressivo tende ad abbassare le sopracciglia e alzare leggermente le labbra, riducendo l’altezza e alzando quindi il rapporto.

fWHR di personaggi famosi
© Youtube – Manlytq – fWHR di personaggi famosi

Una teoria simile venne ipotizzata oltre un secolo fa

Fu un medico e antropologo italiano, Cesare Lombroso, a gettare le basi secondo cui il comportamento e il temperamento potessero essere previsti sulla base della fisionomia. Egli formulò delle osservazioni pseudoscientifiche per cui alcuni uomini possano presentare delle tendenze criminali fin dalla nascita e manifestarlo attraverso delle caratteristiche ben precise. Queste includono, per esempio, delle sopracciglia sporgenti o una mandibola particolarmente pronunciata.

Nel secolo scorso la teoria venne ritenuta quasi un modello in ambito criminologico, pur non essendo suffragata da dati reali. In effetti questi tratti antropometrici possono influenzare il rapporto tra larghezza e altezza del viso. L’attuale analisi di questo rapporto da parte degli studiosi può contribuire a dare il giusto valore alla teoria storica.

Chi ha un rapporto maggiore è davvero più aggressivo?

Si è tentato di trovare una risposta a questa domanda con lo studio di discipline sportive. In particolare l’analisi si è basata su dati come cartellini, penalità e sanzioni che possano in qualche modo essere riflesso dell’aggressività degli atleti.

Un primo studio del 2008 ha analizzato il fWHR nei giocatori di hockey. Il rapporto risultava essere aumentato nei giocatori più irregolari durante le partite, che in particolare passavano più tempo fuori dal campo a causa delle penalità. Nel 2014 è stata osservata un’associazione tra il valore e la performance di combattimento in atleti di uno sport di combattimento (MMA). Ciò è dimostrazione, quindi, che maggiore è la larghezza del loro volto maggiori sono i risultati sportivi in combattimento.

Nel 2018 però un ampio studio su giocatori di calcio mette in dubbio l’associazione tra il fWHR e l’irregolarità nello sport, contraddicendo quanto sostenuto prima. Non c’è alcuna associazione tra la caratteristica del volto e il numero di cartellini gialli o rossi assegnati, né sui falli commessi.

Non sembrano esserci differenze tra donne e uomini

Nonostante alcuni studi affermassero che vi fosse una differenza significativa nell’analisi del rapporto tra donne e uomini, i risultati sono stati contraddetti da un lavoro del 2013. L’esame di una popolazione di 4960 persone non ha trovato alcuna associazione tra il fWHR e il sesso. Inoltre questo studio ha valutato un’eventuale associazione con l’aggressività al di fuori del contesto sportivo. Sono stati messi a paragone un campione di prigionieri condannati per vari crimini con un gruppo di cittadini incensurati, non trovando alcuna differenza significativa della caratteristica del volto.

Anche se, più o meno consapevolmente, sviluppiamo delle opinioni sulla base della fisionomia dei soggetti non c’è una conferma inequivocabile del fatto che possano effettivamente essere fondate, almeno per quanto riguarda la possibilità di valutare l’aggressività dal volto.

Insomma, sulla base delle informazioni scientifiche fin’ora a nostra disposizione, mai giudicare un libro dalla copertina!

Antonino Micari