Mostre a Palermo: Vittorio Storaro e Antonello da Messina

A Palermo è stata accolta presso il Palazzo Chiaramonte Steri la mostra dedicata a Vittorio Storaro dal titolo “Scrivere con la luce”. Ha rappresentato un’occasione innovativa per scoprire la maestria di un importante autore della fotografia cinematografica.

Vincitore di numerosi premi tra cui tre premi Oscar per Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore, Vittorio Storaro ha lavorato con diversi registi come Bernardo Bertolucci e Francis Ford Coppola, e curato la fotografia di film rimasti nella storia (“Il Conformista”, “Ultimo tango a Parigi”, “Giordano Bruno”, “Novecento”, “Il tè nel deserto”). 

Innanzitutto, un po’ di chiarezza. Chi è l’autore della fotografia cinematografica? Una figura professionale, fondamentale per un set di un film, che ne cura la resa visiva, cioè l’aspetto dell’immagine in movimentoLa mostra è stata distribuita all’interno della Sala delle Armi e la Sala delle Verifiche, ed è stata allestita partendo dalla trilogia di libri scritti dall’artista per poi fare un confronto tra opere pittoriche (dal ‘700 in poi) e la cinematografia dei vari film.

La speranza è quella che in futuro verranno ideate ulteriori esposizioni riguardo alla settima arte, cercando anche di coinvolgere personalità della realtà cinematografica siciliana, in modo da fare sempre meglio e da espanderne la conoscenza con ampia risonanza.

L’Annunciazione, Antonello da Messina

La mostra di Antonello da Messina al Palazzo Abatellis invece è forse la più frequentata dal pubblico, nella quale sono presenti diverse opere provenienti da musei sparsi in molte città italiane e non solo.

Il percorso è suddiviso in diverse sale e presenta una sequenza cronologica della carriera artistica dell’autore. A partire dalla giovane età con dipinti del periodo fiammingo, per poi arrivare al periodo veneziano, che comprende la collaborazione con il figlio Jacobello nell’opera la Madonna col Bambino. Il tragitto viene seguito da grandi pannelli didattici che mostrano la vita e la storia delle opere dell’artista.

Questa monografica è una prova di come sia possibile realizzare mostre di grandi autori che, anche se spesso considerati minori, non hanno nulla da invidiare a quelli europei. L’unica nota negativa di questa mostra è l’assenza di altri lavori altrettanto rilevanti realizzati dal pittore, che rimangono visionabili solo fuori porta.

Avendo assistito nello stesso giorno a due mostre di impostazione e tipologia diverse, ma ugualmente interessanti, ho maturato alcune riflessioni. Sorge dunque spontaneo proporre il seguente confronto: la mostra di Antonello da Messina è organizzata sulla base di un ordinato orientamento spaziale; quella di Storaro, pur rispecchiando parzialmente questi canoni, risulta a tratti dispersiva, aspetto probabilmente attribuibile all’ampiezza delle sale.

“Scrivere con la luce” Vittorio Storaro, Palazzo Steri

Nonostante sia sicuramente una scelta valida confrontare i vari film con opere pittoriche che risalgono a epoche dal ‘700 in poi, questo aspetto rimane poco comprensibile e accessibile a quella parte di pubblico che non ha già visto preventivamente tutti i film.

Se le stampe dei frame fossero state sostituite con l’installazione di pannelli virtuali proiettanti pochi secondi di film, si sarebbe garantita maggiore dignità al maestro della luce Vittorio Storaro, mostrandola in tutta la sua interezza.

“Il cinema non è un’opera singola. Il cinema è un linguaggio di immagini attraverso cui si esprime un concetto, essendo l’immagine rilevata dal conflitto e dall’armonia dell’ombra e della luce e, come li chiamava Leonardo da Vinci, dei loro diretti figli: i colori. Infatti una diversa impostazione della luce, comporta nel film una differente struttura figurativa.”  Vittorio Storaro

 

Marina Fulco

Le opere di Antonello in una grande mostra a Palermo. Il parere contrario degli esperti

Sarà uno degli appuntamenti più attesi nell’ambito delle iniziative conclusive promosse da Palermo capitale della cultura 2018. Nel capoluogo sta per essere infatti inaugurata una mostra dedicata al famoso artista quattrocentesco. L’esposizione, dal 14 dicembre al 10 febbraio, si svolgerà a Palazzo Abatellis, dove già si trova il celebre dipinto dell’Annunciata.

La rassegna intende celebrare in un unico spazio espositivo la personalità di Antonello da Messina riunendo un percorso inedito tra tavole provenienti da diverse collezioni. Il curatore, Giovanni Carlo Federico Villa aveva promosso nel 2006 di un’iniziativa simile alle Scuderie del Quirinale a Roma.

L’idea di questa mostra antologica non è stata però accolta con eccessivo entusiasmo da parte degli esperti in Storia dell’Arte e Beni Culturali. Dopo Palermo le opere di Antonello contenute nel Museo Regionale di Messina dovrebbero essere spostate anche al Palazzo Reale di Milano; il Polittico di San Gregorio e la Tavoletta bifronte per alcuni mesi verranno quindi trasferite altrove e non saranno più disponibili ai visitatori del rinnovato plesso museale di viale Libertà.

Così un gruppo di docenti e operatori culturali ha redatto e firmato un documento per esporre le ragioni della presa di posizione avversa all’iniziativa. Secondo il parere degli esperti spostare il Polittico rappresenterebbe un rischio per lo stato di conservazione della tavola, sensibile ai cambiamenti di umidità e temperatura. Inoltre privare delle opere di Antonello il Museo Regionale di Messina non porterebbe un ritorno di immagine favorevole all’offerta culturale e turistica della città dello Stretto.

Il Prof. Roberto Cobianchi, docente di Storia dell’Arte al DICAM, si è espresso con queste parole:

Se si tratta di un’occasione di studio nuova va bene, altrimenti non ha senso spostare un’opera semplicemente perché è di un autore di grande notorietà. Mi pare che nella bibliografia recente non ci siano delle novità documentali o attributive che giustifichino una nuova mostra su Antonello. Sarebbe auspicabile che il pubblico andasse a vedere le opere nel contesto in cui si trovano e che si abituasse ad andare con regolarità al museo. Non ritengo corretto privare i visitatori del Museo di Messina di quest’opera chiave, se non a fronte di una seria operazione culturale. Purtroppo oggi il pubblico è spinto, a volte con dei sotterfugi pubblicitari, ad andare a vedere le mostre, ma non sempre le mostre danno un vero contributo alla conoscenza dei problemi intono ai quali vengono costruite. Troppo spesso propongono una sequenza di ‘capolavori’ di autori dai nomi molto noti, ma non insegnano nulla. (L’Eco del sud)

Eulalia Cambria

Museo di Messina: l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani

Il sabato scorso, dopo mesi e mesi di attesa trepidante, ho finalmente potuto varcare la soglia della sede definitiva del Museo Regionale di Messina, che dalle 20:30 alle 22:30 apriva i suoi battenti gratuitamente al pubblico: la prima apertura completa della struttura museale, a distanza di oltre cento anni dalla sua nascita. Insieme a me una folla notevole (lascio ai contabili del giorno dopo la stima dei numeri, per me erano e resteranno sempre “chio’ssai d’i cani i Brasi”, come si dice a Messina) composta da gente di ogni età, ceto e condizione sociale accorsa da tutta Messina e anche da fuori, anche a seguito della notevole campagna pubblicitaria che questa volta ha coinvolto anche le reti televisive nazionali.

Nel mio personale sentire, il Museo Regionale di Messina, fin dalle prime volte in cui lo visitai da piccolo, è sempre stato un luogo speciale, quasi sacro. Uno scrigno della memoria, come ebbi modo di scrivere in un articolo in occasione della apertura parziale di Dicembre. Un grande tempio laico dedicato a Messina. Mi piace pensare che nessun altro museo al mondo possa vantare una storia simile, anche se forse non è così. La sua storia si intreccia indissolubilmente con quella del Terremoto del 1908: prima era poco più che una pinacoteca comunale sorta dal confluire di collezioni private.

Poi accadde il disastro, e secoli interi della storia e del patrimonio artistico di Messina furono cancellati dalla faccia della Terra. Il moderno Museo Regionale nasce da quelle macerie, dal lavoro paziente di tanti messinesi che si misero a frugare in quelle rovine, a tirarvi fuori tutto ciò che potesse avere un qualche valore storico e artistico, ed ad ammucchiarlo, accatastarlo nella antica sede del convento del SS. Salvatore dei Greci, dove si trovava la filanda Barbera-Mellinghoff, che per tanti anni ne è stata la sede provvisoria. Il loro sogno era che un giorno tutto potesse tornare a vivere, che la antica Messina dei secoli d’oro, la Messina che il terremoto aveva sfregiata, distrutta, annichilita, potesse in parte tornare a esistere. Melior de cinere surgo: come l’araba fenice, anche Messina con la sua storia e la sua cultura sarebbe un giorno risorta dalle sue ceneri.

Ci sono voluti oltre cento anni affinché questo sogno divenisse realtà. Oggi, finalmente, Messina ha il suo Museo Regionale. Un percorso espositivo unico, fra i più estesi del Meridione, in grado di raccontarci secoli di storia: dalla Zancle greca al Medioevo arabo-normanno, dal Quattrocento della Scuola fiamminga e di Antonello fino al Rinascimento, Montorsoli, Calamech, Polidoro Caldara, Alibrandi, allievi di Michelangelo e Raffaello. E poi il seicento, Caravaggio e i caravaggeschi, gli splendori del barocco, gli argenti e i marmi a mischio del Settecento, la lenta decadenza dell’Ottocento. Un viaggio nella storia di Messina dalle origini ai giorni nostri attraverso i suoi capolavori più belli e preziosi. 

Insomma, l’Italia è stata fatta (e finalmente, aggiungerei). Adesso, però, si devono fare gli Italiani. L’apertura completa del Museo Regionale è senza dubbio un traguardo: ma deve essere il primo di una lunga serie. Un Museo così grande e importante come quello che ha appena aperto le sue porte rappresenta una risorsa invalutabile per quello che è e che sarà il turismo culturale nella Città dello Stretto e nei suoi dintorni. Non può né deve permettersi di restare confinato al margine della sua vita sociale; deve, al contrario, rivendicare orgogliosamente il ruolo e la posizione di fulcro, di guida e di punto focale per la rinascita culturale della città. 

Questa nuova apertura pone dunque alla direzione grandi responsabilità, apre nuovi orizzonti e offre nuove sfide. Una ad esempio potrebbe essere quella di porre il Museo, da sempre in una posizione periferica rispetto al centro storico, nel posto che si merita all’interno dei già ridotti circuiti turistici della città. La stagione estiva è alle porte, visitatori e croceristi cominciano timidamente ad affollare le vie del centro; se già adesso è difficile che si spingano oltre il “triangolo magico” incluso fra Piazza Duomo, l’Annunziata dei Catalani e Palazzo Zanca, e forse del Museo Regionale ignorano persino l’esistenza, chi li porterà fino al Torrente Annunziata per vederlo?

Insomma, il lavoro è appena cominciato e servirà un rinnovato impegno, e la formazione di nuove sinergie con il Comune e con gli enti pubblici, affinché il nuovo Museo possa sviluppare in pieno le sue potenzialità benefiche per l’intera città di Messina. A noi visitatori resta la speranza che la recente apertura completa si riveli non un comodo letto di allori su cui sdraiarsi a riposare, ma la prima tappa di un lungo percorso di rinascita: un percorso che abbia come obiettivo finale la riscoperta, agli occhi dei messinesi e del mondo intero, di Messina e della sua bellezza. 

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

San Francesco all’Immacolata: la chiesa che incantò Antonello

Antonello da Messina, "Cristo in pietà con tre angeli", 1475, Museo Correr, Venezia. Dettaglio. (da http://www.frammentiarte.it/2014/18-pieta-con-tre-angeli/, modificata)
Antonello da Messina, “Cristo in pietà con tre angeli”, 1475, Museo Correr, Venezia. Dettaglio.
(da http://www.frammentiarte.it/2014/18-pieta-con-tre-angeli/, modificata)

Il “Cristo in pietà con tre angeli”, oggi custodito al Museo Correr a Venezia, è secondo la critica una delle opere tarde di Antonello da Messina, verosimilmente dipinta durante il suo soggiorno veneziano, nel 1475. Della vita di Antonello sappiamo poco, ma una delle cose più assodate è  il suo lungo viaggio nel centro Italia e a Venezia: eppure ci piace pensare, con un po’ di bonario campanilismo (che non guasta mai, a patto di sapere quando fermarsi), che il Maestro messinese abbia voluto in qualche modo ricordare la sua terra patria, nella quale secondo alcune fonti tornerà e finirà i suoi giorni, nel 1479 . In effetti, fra le ali dell’angelo piangente a destra, in mezzo ai molti dettagli che Antonello, con la sua attenta e quasi maniacale sapienza miniaturistica rubata all’arte fiamminga, inseriva nei suoi dipinti, ce n’è uno che, forse anonimo per i più, fa sussultare chi conosce Messina: una massiccia struttura con tre absidi che, in maniera quasi inequivocabile, possono essere identificate come quelle di una delle più antiche e grandi chiese messinesi, San Francesco all’Immacolata.


Monumento antichissimo
, era il 1254 quando fu stabilita la sua costruzione, per intervento di un gruppo di monaci francescani che già nel 1212, quando san Francesco era ancora in vita, si erano stabiliti nella città dello Stretto, nella preesistente chiesetta di san Leone. Proprio presso questa comunità, secondo una pia tradizione, soggiornò sant’Antonio da Padova quando, nel 1221, di ritorno dall’Africa fece naufragio sulle coste sicule.  Ad appena 28 anni dalla morte del Poverello d’Assisi, in clima di piena espansione del suo culto, i conventi francescani di tutta la penisola fanno quasi a gara nella costruzione di imponenti chiese dedicate al santo e la comunità di Messina certo non può essere da meno: la prima pietra di questo poderoso edificio, seconda chiesa in Messina per dimensioni dopo il Duomo, arriva da Napoli, nel 1255, dopo esser stata benedetta nientemeno che da Papa Alessandro IV in persona.

dsc_0318

Nel XIV secolo, la chiesa cresce e si sviluppa secondo le linee rigorose ed austere di quello stile che i libri di storia dell’Arte codificheranno col nome di “Gotico francescano“, sotto l’occhio vigile del re Federico III d’Aragona, nipote per parte di madre di quel Federico II “meraviglia del mondo”: sotto questo monarca la chiesa diventa il luogo di sepoltura della famiglia reale e vi trovano requie le spoglie del nipote e successore, Federico IV d’Aragona, della nuora, Elisabetta di Carinzia, e dei due figli cadetti, Guglielmo e Giovanni, duchi di Randazzo.

dsc_0321.

Un altro periodo di splendore di questa chiesa fu nel corso del Cinquecento, quando, nominata cappella reale dall’Imperatore Carlo V, si arricchì di opere pregevoli dei grandi maestri del Rinascimento siciliano, Gagini, Rinaldo Bonanno, Mazzola, Guinaccia. In questo periodo viene anche concluso il chiostro del convento. Ulteriori modifiche alla chiesa, stavolta in stile barocco, vengono effettuate a cavallo fra Sei e Settecento. L’inarrestabile declino, invece, inizia a seguito dell’esproprio del convento in periodo post-unitario, a seguito delle leggi eversive; nel 1884 un incendio devasta gli interni distruggendo molte delle opere che vi erano custodite; nel 1908, il Terremoto del 28 dicembre le assesta il colpo di grazia, radendola quasi interamente al suolo; solo parte delle absidi, proprio quelle absidi dipinte da Antonello, resiste alla sua furia distruttiva.

dsc_0330

 

Così inizia la ricostruzione, una ricostruzione faticosa e paziente perché condotta secondo criteri di fedeltà storica, riutilizzando, ove possibile, i conci e la pavimentazione d’epoca secondo il principio dell’anastilosi. Oggi le tombe reali sono perdute, forse per sempre, e le opere superstiti all’incendio del 1886 sono custodite al Museo Regionale, fatta eccezione per una statua in marmo di sant’Antonio, che si trova oggi nel giardino sotto le absidi, e una statua in legno e argento del XVIII sec., raffigurante l’Immacolata, che è tutt’oggi oggetto di venerazione popolare. Ma è grazie a questa ricostruzione, conclusa nel 1928, che possiamo oggi ammirare la mole austera del Tempio con un aspetto e una struttura  il più possibile fedele a quella trecentesca, e, salendo dal mare lungo il viadotto Boccetta, possiamo fermarci anche noi ad ammirare quelle possenti absidi che incantarono Antonello da Messina… 

Gianpaolo Basile

Foto: Erika Santoddì

Antonello: il genio che rese grande il nome di Messina

 

Riapriamo dopo un lungo periodo di silenzio la rubrica dedicata ai Personaggi storici che hanno legato il loro

antonello_da_messina_-_portrait_of_a_manAn_-_national_gallery_london
Antonello da Messina: Ritratto d’uomo, (probabilmente autoritratto). 1475 ca. National Gallery of London.

nome alla città di Messina, alla sua storia e alla sua cultura. L’elenco sarebbe lunghissimo, ma senza dubbio uno di questi merita di spiccare su tutti gli altri. La sua fama, infatti, continua a far risuonare in tutto il mondo, da Dresda, a Londra, a Madrid fino agli Stati Uniti, il nome della nostra Città. Stiamo parlando, infatti, di uno dei più grandi pittori del primo rinascimento italiano: Antonio di Giovanni d’Antonio, noto ai più come Antonello da Messina.

Poco sulla sua vita è noto con certezza: la maggior parte delle notizie storiche su di lui sono frutto di un paziente lavoro archivistico su documenti che lo riguardavano, una ricostruzione ardua, povera di certezze e spesso punteggiata da ipotesi e congetture sul suo conto. A cominciare dalla data di nascita, ignota ma collocabile a Messina intorno al 1430; nulla sappiamo della sua formazione artistica, se non che una lettera scritta circa un secolo dopo la sua nascita, nel 1524, da un colto umanista appassionato d’arte, lo indica come allievo a Napoli del maestro Colantonio, pittore della corte aragonese.

 

Giorgio Vasari, noto artista e storico dell’arte cinquecentesco, autore nel 1568 di una mastodontica opera biografica sui maggiori artisti del Rinascimento, attribuisce al giovane Antonello un viaggio nelle Fiandre nel corso del quale conobbe e assimilò l’opera degli artisti fiamminghi a lui contemporanei; secondo la storiografia contemporanea un tale viaggio non avvenne mai (non ne avrebbe avuto il tempo) ed è più probabile che proprio a Napoli Antonello abbia avuto il primo contatto con l’arte fiamminga, che godeva in quel momento di grande popolarità alla corte angioina (e difatti lo stesso Colantonio era a sua volta stato allievo di un maestro fiammingo, Barthelemy d’Eyck). Quel che è certo è che l’arte fiamminga lascia una traccia indelebile nella formazione del giovane Antonello, la cui intera opera potrebbe essere inquadrata come il punto d’incontro fra la grande tradizione fiamminga quattrocentesca e il primissimo Rinascimento italiano. Dai fiamminghi Antonello impara la tecnica della pittura ad olio, l’attenzione maniacale e quasi miniaturistica per i dettagli, l’uso della luce, e l’impostazione a tre quarti dei ritratti, che consente una migliore resa psicologica dei personaggi.

antonello_da_messina_026
Antonello da Messina: Crocifissione di Sibiu. 1460 ca. Muzeul de arta, Bucarest.

È al 1460 che sono datate le sue prime opere, come la Crocifissione di Sibiu (sul cui sfondo appare quella che verosimilmente è una rappresentazione del porto falcato della città di Messina) o la cosiddetta Madonna Salting: in questo periodo Antonello si trova verosimilmente a Messina e ha una sua personale bottega. Negli anni successivi al 1470 invece, il pittore risale tutta l’Italia fino a raggiungere Venezia, nel 1474 circa; questo viaggio nella fucina del nascente Rinascimento gli fa apprendere la prospettiva geometrica di Piero della Francesca e l’attenzione alla resa dello spazio dei maestri veneti come Giovanni Bellini, che costituiranno ulteriori elementi di maturazione del suo stile.

 

È in questi anni che Antonello realizza i suoi capolavori: la tavoletta del San Girolamo nello studio, datata al 1475, racchiude in pochissimo spazio un intero mondo ed è unanimemente considerata uno dei più importanti manifesti della cultura dell’Umanesimo; l’Annunziata del 1476, oggi al Palazzo Abatellis, che fonde il rigore geometrico della struttura piramidale disegnata dal mantello azzurro con la vivace caratterizzazione dello sguardo intenso della Madonna; il San Sebastiano di Dresda, forse del 1478, mostra nella disposizione geometrica dello spazio il tributo a Piero della Francesca mentre il delicato lirismo della Pietà (1478) oggi al Prado di Madrid anticipa con la morbidezza delle forme la pittura rinascimentale.

antonello_da_messina_-_st_jerome_in_his_study_-_national_gallery_london
Antonello da Messina: San Girolamo nello studio. 1475 ca. National Gallery of London

Di ritorno a Messina nel 1476, è verosimilmente qui che Antonello muore, nel 1479, dopo aver chiesto nel suo testamento di vestire il saio da frate minore francescano; a Messina viene probabilmente seppellito, al monastero di Santa Maria del Gesù a Ritiro, anche se del suo sepolcro si sono perse le tracce. Di questo suo grande figlio Messina non serba dunque nulla se non il ricordo e due dipinti, la Madonna con bambino ed Ecce homo e il Trittico di San Gregorio, custoditi al Museo Regionale.

Gianpaolo Basile

Immagini: https://it.wikipedia.org/wiki/Ritratto_d’uomo_(Antonello_da_Messina_Londra)

https://it.wikipedia.org/wiki/Antonello_da_Messina

https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Saint_Jerome_in_his_study_by_Antonello_da_Messina?uselang=it

Il Museo Interdisciplinare Regionale di Messina: un viaggio nello scrigno della memoria.

 

img_0001Generalmente siamo abituati a pensare ai musei storici come a dei luoghi un po’ noiosi ed asettici dove vengono esposti dipinti, sculture e altre opere d’arte, come testimoni silenti dell’arte e della cultura di un determinato periodo e contesto storico dal quale, per i più svariati motivi, inevitabilmente si trovano ad essere strappate.

Si potrebbe pensare a un museo storico un po’ come ad uno zoo: specie se espone pezzi antichi, ci troviamo dentro opere d’arte che, seppure si trovino lì talvolta per motivi di forza maggiore, in un certo senso sono state portate via dal loro habitat naturale, dal contesto in cui si trovavano. Gli artisti e artigiani del passato lavoravano per delle committenze, pubbliche o private, e le loro opere erano pensate per essere collocate in luoghi di culto, piazze, edifici pubblici, residenze private: in poche parole, per essere fruite in modo diverso da quello che il museo, in quanto tale, ci propone.

Ma a Messina è diverso. É diverso perché, per via delle vicissitudini storiche che hanno caratterizzato la città, questo “habitat naturale” delle opere d’arte semplicemente non esiste più, perchè guerre, bombardamenti e terremoti lo hanno spazzato via: la stragrande maggioranza dei luoghi in cui si trovavano le sue opere d’arte è stata distrutta, rasa al suolo, cancellata.

Il Museo quindi, tornando alla nostra metafora, cessa di essere uno zoo per diventare una riserva naturale: l’unico posto nel quale la memoria della cultura e dell’arte della Città può continuare a vivere e tramandarsi.

È con queste premesse chiare in mente che possiamo accingerci a varcare le soglie del Museo Interdisciplinare Regionale di Messina, che proprio in questi giorni, a partire da venerdì 9 dicembre 2016, è assurto agli onori della cronaca per via della (purtroppo ancora parziale) apertura della nuova struttura espositiva.

Museo dalla antichissima tradizione, il suo primo nucleo nasce addirittura nel 1806 dalla convergenza di alcune collezioni d’arte private e di proprietà del Senato della città, promossa dalla Reale Accademia Peloritana. La sua struttura attuale, però, si sviluppa a seguito del Terremoto del 1908, quando la spianata del SS. Salvatore dei Greci (che prende il nome dall’antico monastero che vi si trovava), diventa uno dei punti in cui vengono depositate, in magazzini affittati alla bisogna, le diverse opere d’arte e i frammenti architettonici strappati alle macerie. È proprio lì, nella ex Filanda Barbera-Mellinghoff, che vennero organizzate le prime esposizioni come sede provvisoria. Anche se il primo progetto per una sede definitiva risale al 1912, e i lavori destinati alla realizzazione della struttura odierna (che ancora attende di essere inaugurata, essendo ancora sotto forma di “cantiere aperto”) sono iniziati ormai oltre 30 anni fa, fino a quest’anno la sede delle esposizioni è rimasta sempre quella provvisoria, cioè appunto la Filanda: solo a partire da venerdì scorso, dopo lo spostamento delle opere, è stata destinata a esposizioni temporanee.

 

Oggi il Museo definitivo, che una volta completato (presto, ci auguriamo) sarà, coi suoi oltre 4000 metri quadri di spazio espositivo, il secondo più grande del Meridione dopo Capodimonte, accoglie una collezione eterogenea ed impressionante, per quantità e qualità, di materiale storico e artistico. Aprono le danze gli ambienti esterni, sede, insieme al cortile interno dell’ex Filanda, di significative ricostruzioni di elementi architettonici provenienti da chiese e monumenti della Messina pre-terremoto: una sorta di monumentale Cimitero degli Elefanti per la città che fu. Fornitissima anche la sezione archeologica, che raccoglie reperti greci e romani, molti dei quali provengono da scavi cittadini; il suo pezzo forte è indubbiamente il Rostro di Acqualadroni, il “becco” di bronzo di una nave da guerra romana.

Clou dell’esposizione sono sicuramente le ampie sale dedicate a quelli che furono i veri secoli d’oro dell’arte e della cultura messinese, vale a dire Cinquecento e Seicento. Si inizia con l’eleganza e la semplicità del primo rinascimento di Gagini e Andrea Della Robbia, per arrivare poi al grande Polidoro Caldara da Caravaggio, allievo di Raffaello che trascorse i suoi ultimi anni a Messina e vi lasciò opere importantissime come la sua magnifica Adorazione dei Pastori. Si raggiungono poi gli spazi dedicati al Manierismo, stile che a Messina trovò una delle sue più piene ed interessanti manifestazioni; a farla da padrone sono ovviamente le opere scultoree del Montorsoli e di Andrea Calamech con il genero Rinaldo Bonanno e la sua bottega, oltre a una notevole collezione di tele e tavole dello stesso periodo, tutte poste sotto lo sguardo benevolo del montorsoliano Nettuno e di Scilla, rimossi dalla famosa fontana a seguito dei danni subiti nel 1848 e finalmente sottratti alle ombre e all’oblio dei magazzini.

 

Il viaggio prosegue attraverso il tempo, dal Manierismo si passa al primo barocco e una serie di dipinti da autori di scuola caravaggesca (assolutamente notevoli quelli di Alonso Rodriguez e di Mario Minniti, che del maestro bergamasco fu amico, probabilmente modello e, secondo certe tendenze di gossip storico, amante) fanno da necessario preludio alla sala che espone i due capolavori messinesi dell’ultimo Caravaggio, l’Adorazione dei Pastori e la Resurrezione di Lazzaro.

Mancano ancora all’appello i due dipinti di Antonello da Messina , cioè il Polittico di San Gregorio e la Madonna con bambino; si auspica che trovino collocazione al più presto, insieme ai dipinti di scuola antonelliana e a tutte le altre opere di epoca medievale, come i meravigliosi dipinti di maestri fiamminghi quattrocenteschi e cinquecenteschi, che fino a qualche mese fa erano alla Filanda. Così come si aspetta ancora una degna collocazione per tantissimi pezzi minori, inclusi i pezzi di oreficeria, di arte sacra e la sontuosa Carrozza Senatoria, che ancora attendono di essere offerti agli sguardi stupiti del pubblico. C’è, insomma, ancora tanta strada da fare: ma siamo sicuri che il risultato sarà all’altezza delle aspettative, e che il Museo Regionale potrà finalmente diventare, come nelle intenzioni dei suoi ideatori, lo scrigno della memoria della cultura messinese.

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco