Dagli studenti per gli studenti: il recettore HER-2 e il suo ruolo nei tumori

Il recettore HER-2 (Human Epidermal Growth Factor Receptor 2) è un recettore transmembrana che fa parte della famiglia dei recettori epidermici dei fattori di crescita, dunque svolge un ruolo importante nella regolazione della crescita e divisione cellulare. In alcuni tumori è stato osservato che il gene che codifica per HER-2 è presente in più di due copie (iperprodotto), ne risulta che il recettore stesso sarà iperespresso. Questi tumori sono HER-2 positivi.

  1. HER-2: cos’è
  2. Tecniche diagnostiche
  3. Target therapy 
  4. Conclusioni

HER-2: cos’è

HER-2 (Human Epidermal Growth Factor Receptor 2) è un recettore tirosin-chinasico appartenente alla famiglia dei recettori HER/ErbB (Human Epidermal Growth Factor Receptor). Questa famiglia recettoriale è formata da EGFR, HER-2, ErbB3 e ErbB4.  HER-2 è definito “orfano”, vale a dire che non ha ligandi naturali conosciuti, infatti funziona come partner preferenziale di dimerizzazione per gli altri tre recettori.

Un’amplificazione del gene di HER-2 è stata vista in circa il 15-20% dei tumori alla mammella, negli adenocarcinomi dell’ovaio, del polmone e dello stomaco, ragion per cui ad oggi HER-2 rappresenta un importante target per le terapie tumorali. Nelle cellule tumorali, l’elevata espressione di HER-2 favorisce la dimerizzazione tra due recettori uguali HER-2 (omodimeri), stimolando maggiormente la cellula a riprodursi e dividersi in maniera incontrollata. HER-2 viene considerato un marker prognostico negativo, ossia correlato a una prognosi infausta (con minor aspettativa di vita). L’identificazione dell’iperespressione di HER-2  avviene tramite FISH (ibridazione in situ fluorescente) o immunoistochimica.

Tecniche diagnostiche

Cercare di costruire un profilo immunofenotipico di una neoplasia è un processo fondamentale per usufruire delle terapie mirate. L’immunofenotipo è l’insieme dei marcatori espressi da un determinato tipo cellulare ed è la risultante del fenotipo delle cellule d’origine e di quello modificato della cellula neoplastica.

Basandoci su questo, per identificare un carcinoma mammario HER-2 positivo, si utilizzano soprattutto due metodiche:

  • ibridazione fluorescente in situ (FISH), una metodica ampiamente utilizzata in campo diagnostico per l’identificazione di anomalie genetiche associate a tumori o malattie genetiche. Si basa sull’ibridazione di una sonda di DNA fluorescente (marcata con un fluorocromo) con una sequenza di DNA specifica all’interno del campione biologico.
  • immunoistochimica, una metodica volta allo studio di antigeni cellulari e tissutali individuati in dei campioni sfruttando la specificità della reazione antigene-anticorpo. L’anticorpo è in grado di legarsi a una porzione specifica dell’antigene, l’epitopo. Per amplificare il segnale, si ricorre all’utilizzo di un anticorpo secondario (che riconosce e si lega al primario) marcato con un composto colorante o fluorescente.

Una tappa importante è quella del controllo positivo, ossia l’identificazione e quantificazione dell’espressione di HER-2 in linee cellulari che fisiologicamente lo esprimono a livelli elevati come la linea SK-BR-3. Questo controllo è fondamentale per valutare l’attendibilità e adeguatezza del test.

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons

Target therapy

La target therapy è una terapia a bersaglio che sfrutta una caratteristica del tumore per rallentarne o bloccarne la crescita. A tal fine spesso vengono utilizzati anticorpi monoclonali.

Nel caso dei tumori HER-2 positivi, i farmaci utilizzati bloccano HER-2 così che non possa più ricevere continui segnali di crescita e divisione fino a fermare o rallentare, in condizioni appropriate, la proliferazione tumorale. Utilizzando la target therapy si riduce al minimo il rischio di danneggiare anche le cellule sane, cosa che avviene con la chemioterapia.

Gli anticorpi monoclonali sono fatti in laboratorio e diretti contro un solo antigene. Funzionano come gli anticorpi prodotti naturalmente dal nostro corpo e costituiscono una delle classi principali di farmaci antitumorali.

Il trattamento principale per i carcinomi mammari HER-2 positivi si basa sull’utilizzo del trastuzumab, un anticorpo monoclonale utilizzato per il trattamento di carcinomi avanzati, recidivanti e diffusi. Questo farmaco è spesso accostato alla chemioterapia per aumentare l’efficacia del trattamento. In circa il 30-55% dei tumori HER-2 positivi, si sono viste metastasi al cervello, questione che ad oggi rappresenta una delle sfide terapeutiche più grandi, insieme al problema della resistenza ai farmaci.

https://pubs.rsc.org/en/Content/Image/GA/C8CC08769E

 

 

Conclusioni

I tumori HER-2 positivi con i recenti sviluppi farmaceutici possono essere trattati con una terapia mirata. La sfida è riuscire a trovare nuovi bersagli molecolari per il trattamento di qualsiasi tipo di tumore per poter attuare una terapia mirata che punti alla riduzione degli effetti collaterali dovuti alla chemioterapia. Negli ultimi due decenni sono stati fatti molti progressi in campo terapeutico, infatti ad oggi il tasso di sopravvivenza si è alzato. Ciò non rappresenta comunque una linea d’arrivo, infatti molti nuovi farmaci ad oggi sono in via sperimentale con l’obiettivo di sviluppare nuove terapie efficaci.

 

 

Francesca Aramnejad

 

Per approfondire:

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/27221828/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30667505/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/16866851/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32112814/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/34534820/

https://www.airc.it/news/trastuzumab-molecola-cura-tumore-seno-0919

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5665029/

https://www.nature.com/articles/s41523-021-00265-1

Un anticorpo monoclonale per la lotta al coronavirus

Recentemente la corsa al vaccino anti-SARS-CoV2 sembra aver ricevuto un’accelerata decisiva: in studi di fase tre, i due sieri delle case farmaceutiche americane Pfizer e Moderna sono risultati efficaci in più 90% dei casi. Ma, oltre al vaccino, ci sono altre vie che ci potranno aiutare ad uscire una volta per tutte da questa pandemia globale? La risposta è sì: il 28 ottobre è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio sull’utilizzo dell’anticorpo monoclonale LY-CoV555 (sempre di una casa farmaceutica americana, Ely Lilly). Questo riuscirebbe a ridurre l’ospedalizzazione dei malati Covid dal 70 al 90%.

Sede centrale di Eli Lilly ad Indianapolis (USA)

Prima di tutto: cos’è un anticorpo monoclonale?

Gli anticorpi o immunoglobuline sono glicoproteine prodotte normalmente dei nostri linfociti B, attivati a plasmacellule, in risposta all’incontro con antigeni patogeni. Gli anticorpi monoclonali hanno lo stesso obiettivo, ma li produciamo in laboratorio attraverso metodiche di ingegneria genetica.

Si tratta di una tecnologia nuova? No, tutt’altro. Dobbiamo la loro scoperta a Georges Koheler e Cesar Milner, che nel 1984 vinsero il Nobel per la medicina. La prima tecnica utilizzata per produrli è stata quella dell’ibridoma, che sfrutta cellule di origine murina e conta una serie di passaggi:

  1. Immunizzazione del topo attraverso l’iniezione dell’antigene verso cui vogliamo produrre gli anticorpi.
  2. Prelievo delle plasmacellule murine dalla milza.
  3. Fusione di queste cellule con cellule neoplastiche in coltura: si ottiene una cellula detta ibridoma, che produce una quantità elevata del nostro anticorpo.
  4. Quindi moltiplicazione dell’ibridoma in coltura.

Oggi esistono anticorpi monoclonali totalmente umani, così da superare completamente il rischio di immunogenicità.

Tipologie di anticorpi monoclonali in base alla composizione prevalentemente murina o umana

 

Alcuni esempi

Prima di parlare dello studio che ha dimostrato l’efficacia di LY-coV555 nei pazienti affetti da Covid-19, vediamo alcuni degli anticorpi monoclonali oggi utilizzati.

  • Omalizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro le IgE, ovvero le immunoglobuline coinvolte nelle reazioni allergiche. È indicato nel trattamento dell’asma allergico grave e dell’orticaria, quando le altre terapie non si sono dimostrate valide per il controllo della malattia.
  • Trastuzumab, anch’esso un anticorpo umanizzato, è rivolto contro il dominio extracellulare del recettore HER-2, utilizzato nei carcinomi mammari che lo iper-esprimono. Il settore oncologico è probabilmente quello in cui gli anticorpi monoclonali stanno portando le migliori innovazioni.
  • Infliximab è invece un anticorpo chimerico, il suo bersaglio è il fattore di necrosi tumorale e la FDA (Food and Drug Administration) lo ha approvato per alcune malattie autoimmuni, come il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, la spondilite anchilosante, la psoriasi e l’artrite psoriasica.

Altro esempio è il Tocilizumab: questo agisce da immunosoppressore bloccando l’azione di una delle citochine chiave della risposta infiammatoria, ovvero l’interleuchina 6 (IL-6). È il gold standard nell’artrite reumatoide e, nel mese di aprile ad inizio della pandemia, era stato utilizzato con discreti risultati anche per il trattamento di alcuni pazienti affetti da Covid-19.

Il trial sull’anticorpo monoclonale LY-CoV555

LY-CoV555 ha un meccanismo d’azione molto semplice da spiegare, si tratta di un potente anticorpo anti-spike. Lega ad alta affinità il dominio della spike di SARS-CoV-2 che gli permette di penetrare nelle nostre cellule e lo neutralizza.

https://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-8285333/Antibody-prevents-COVID-19-virus-infecting-human-cells.html

Il trial della Ely Lilly ha coinvolto 452 pazienti provenienti da 41 centri degli Stati Uniti, tutti testati positivi al nuovo coronavirus e presentanti sintomi lievi o moderati. La popolazione in studio è stata suddivisa in due bracci: uno riceveva un’infusione endovenosa di LY-CoV555, mentre l’altro un placebo. Nel primo braccio possono essere distinti anche tre sottogruppi in base alla dose di farmaco ricevuta, rispettivamente 700 mg, 2800 mg e 7000 mg.

L’outcome primario dello studio era quello di calcolare la variazione della clearance virale all’undicesimo giorno rispetto al giorno dell’infusione. Entrambi i gruppi hanno mostrato un miglioramento, con una diminuzione media di -3,81 nell’intera popolazione dal valore basale. Coloro che avevano ricevuto il farmaco hanno mostrato un maggior decremento del gruppo “placebo”. In questo il sottogruppo ottimale è risultato essere quello con il dosaggio intermedio di LY-CoV555, ovvero 2800 mg.

Quali effetti su ricovero e sintomi? E quali effetti indesiderati?

Per quanto riguarda l’ospedalizzazione, al 29esimo giorno soltanto l’1,6% dei pazienti trattati era ancora in ospedale e di questi la maggioranza aveva un’età superiore a 65 anni ed un BMI superiore a 35, considerati comunque fattori di rischio aggiuntivi. Nel gruppo placebo il tasso di ospedalizzazione alla stessa data era invece del 6,3%.

Ulteriore risultato positivo riguarda i sintomi. Questi sono stati valutati clinicamente mediante uno score: ognuno stimato da 0 (nessun sintomo) a 3 (sintomi severi). Il punteggio totale raggiungibile era di 24 ed i principali sintomi considerati erano: tosse, perdita del respiro, febbre, fatica, mal di gola, mal di testa e perdita dell’appetito. LY-CoV555, a qualsiasi dosaggio, ha dimostrato di ridurre la durata del periodo sintomatico, come evidente nel grafico seguente.

Nel trial non si sono verificati effetti avversi gravi nei pazienti del gruppo “farmaco”, mentre per quanto riguarda gli effetti avversi non considerati gravi questi si sono manifestati nel 22,3%. Il più frequente riportato era la nausea (3,9%), seguita da diarrea (3,2%) e vertigini (3,2%).

Lo studio non ha coinvolto gravi ammalati e solo uno degli arruolati, appartenete al gruppo “placebo”, è finito in terapia intensiva. Altro punto a svantaggio di questa terapia è il costo degli anticorpi monoclonali e, come detto dalla virologa Ilaria Capua in una recente intervista, “è illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”Nel frattempo rispettiamo le regole, utilizzando le mascherine e mantenendo il distanziamento sociale.

Antonio Mandolfo

 

 

Bibliografia

https://www.infomedics.it/servizi/biotecnologie/la-storia.html

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2029849

http://www.informazionisuifarmaci.it/omalizumab

Emicrania, malattia sociale: nuovi farmaci, nuove frontiere verso una medicina di precisione.

L’emicrania è un disordine neurobiologico primario di notevole impatto sociale ed economico. Fa parte delle cefalee primarie, insorge senza una causa organica chiaramente identificabile, nessuna lesione strutturale a livello cerebrale,  alla base una disfunzione di sistemi e circuiti neurotrasmettitoriali.

 

L’emicrania è un disturbo neurovascolare dovuto alla sensibilizzazione del nervo trigemino (V nervo cranico); il quale causa rilascio di sostanze proinfiammatorie che agiscono a livello vascolare. Queste provocano vasodilatazione nella circolazione intracranica, con i conseguenti sintomi associati.

Si tratta di una patologia molto frequente, infatti, chi ne soffre costituisce il 14% della popolazione mondiale, all’incirca un miliardo di persone. Ben 4 milioni di persone nella nostra nazione hanno almeno cinque episodi di emicrania al mese. Nell’ultimo anno è nato il primo registro Nazionale per l’emicrania, una banca dati per censire i pazienti affetti da questa patologia sottostimata e poco riconosciuta.

Il dolore è altamente invalidante, può perdurare per giorni accompagnandosi a nausea, vomito, fotofobia (fastidio per la luce) e per i rumori o suoni (fonofobia) e anche odori (osmofobia). Talvolta può presentarsi con “aura” preceduto da disturbi visivi o sensoriali, per cui il soggetto è costretto a stare al buio e in silenzio.

Colpisce soggetti tra i 25-55 anni, nel pieno della propria vita produttiva, influenzando l’attività lavorativa, sociale e personale. Può cronicizzare e accompagnare buona parte della vita il paziente. Le donne ne sono maggiormente affette, fattori predisponenti sono gli sbalzi ormonali.

Quando supera le 4 giornate di cefalea al mese bisogna rivolgersi al medico.

Nuovi anticorpi monoclonali e il loro meccanismo d’azione

In passato si affidava il compito ad antidolorifici per migliorare la qualità di vita del paziente o ad altri farmaci come i triptani agenti sulla serotonina. Oggi invece, non si agisce sul dolore ma sui meccanismi che sono alla base dello sviluppo dell’emicrania.

I nuovi  farmaci sono anticorpi monoclonali, hanno come bersaglio molecolare il neuropeptide correlato al gene della Calcitonina (Cgrp), o sul suo recettore. Tale neuropeptide è un vasodilatatore presente in maggiore quantità negli emicranici, responsabile della percezione del dolore. Fa percepire dolorosi stimoli che normalmente non lo sarebbero.

Gli anticorpi monoclonali sono indicati per le forme di emicrania più grave, quelle con una frequenza mensile superiore a quattro episodi.

Basta effettuare una semplice iniezione mensile sottocutanea, in modo da evitare la comparsa delle crisi ed il ricorso continuo ad antidolorifici.

I Risultati si sono dimostrati sicuri ed efficaci nella prevenzione e  nel trattamento acuto e cronico.

Al momento già disponibile una molecola chiamata Erenumab; altre due dovrebbero essere messe in commercio entro la fine del 2019, con possibilità di passare ad un’iniezione ogni tre mesi.

Vi è un apertura a nuove frontiere si parla sempre più di medicina di precisione.


Nuove speranze fornite anche dai farmaci “nuovi gepanti” (antagonisti del recettore Cgrp ) come Atogepant, che bloccano l’attacco acuto emicranico. Sono piccole molecole assunte per via orale, le quali aprono la possibilità di un trattamento immediato e al bisogno una maggiore adesione del paziente alla terapia a lungo termine, il paziente non deve recarsi in ospedale per la terapia.

I nuovi gepanti non causano vasocostrizione quindi potrebbero essere prescritti ai pazienti con problemi circolatori e vascolari, a differenza dei triptani che presentano controindicazioni in questa categoria di pazienti.

Inoltre sembrano non avere il potenziale di causare problemi al fegato, come alcune delle precedenti piccole molecole. Gli studi clinici su precedenti gepanti, come il telcagepant, erano stati interrotti a causa di problemi di tossicità epatica.

Il limite risiede nell’alto costo di queste nuove terapie.

La rimborsabilità è in fase di negoziazione con l’Aifa ed prevista per il secondo semestre 2019.

Consigli trattamento per paziente emicranico.

Professor Paolo Martelletti, Presidente SISC(Società Italiana per lo Studio delle Cefalee), Professore presso La Sapienza di Roma.

 

I suggerimenti dal Professor Paolo Martelletti, Presidente della Società Italiana per lo Studio delle Cefalee (SISC) sono:

Rispettare il ritmo sonno veglia e l‘assunzione regolare del cibo, mai saltare i pasti e mantenere adeguata idratazione.

Non assumere sostanza diretta o indiretta contenente alcolici perché può aggravare sia l’ emicrania che le cefalee a grappolo.

L’assunzione di caffeina e estro-progestinici può peggiorarla.

Evitare il continuo abuso di farmaci antidolorifici, molto spesso autoprescritti.

Essere consci che solo una adeguata prevenzione e un adeguato trattamento può arrestare la cronicizzazione e ridurre l’intensità e la frequenza, il numero degli attacchi.

Daniela Cannistrà

 

Immunoterapia: la nuova frontiera contro il cancro

Cosa si intende per tumore? Se cerchiamo in un qualsiasi dizionario troveremo la classica definizione: processo morboso di un organo caratterizzato da un aumento del suo volume. Ma questo non ci basta; infatti, una neoplasia è caratterizzata dall’aberrante ed eccessiva crescita delle cellule che compongono un tessuto e può avere una natura benigna o maligna. In quest’ultimo caso viene anche definita cancro, proprio per le sue proprietà infiltrative ed invasive dei tessuti limitrofi ma anche distanti, ed in questo caso parliamo di metastasi.

Le patologie neoplastiche sono tristemente note per la loro aggressività e soprattutto per le difficoltà che incontra la terapia nel combatterle. Chemioterapia e radioterapia, insieme all’approccio chirurgico sono le metodiche utilizzate nella maggior parte dei casi, ma non sono scevre di effetti collaterali.

Numerosi studi, però, stanno rivoluzionando la prognosi delle malattie neoplastiche. È stato dimostrato che i tumori hanno uno stretto rapporto con il sistema immunitario, il quale è in grado di condizionare la crescita e la malignità delle neoplasie.

Purtroppo, le cellule tumorali sono in grado di sopprimere la risposta immunitaria, causando lo “spegnimento” dei linfociti, fondamentali difensori del corpo umano.

I linfociti sono cellule del sistema immunitario in grado, attraverso vari meccanismi, di sconfiggere patogeni e garantire un corretto equilibrio tra tutte le cellule del nostro organismo. Essi hanno anche il compito di riconoscere ed eliminare cellule che hanno subito delle alterazioni, evitando la nascita di un tumore. Questo sistema di vigilanza, però, può essere eluso ed è uno dei tanti meccanismi che utilizzano le cellule neoplastiche per la loro sopravvivenza.


Abbiamo detto, quindi, che le cellule tumorali sono in grado di sp
egnere il sistema immunitario, evitando che quest’ultimo le attacchi. È possibile evitare ciò?

Proprio quest’anno il premio Nobel per la medicina è stato assegnato a due ricercatori impegnati nello studio dell’immunoterapia anticancro: James P. Allison e Tasuku Honjo. Entrambi hanno cercato di chiarire quali fossero i freni del sistema immunitario attivati dal cancro. Ci sono riusciti, individuando numerose proteine espresse sia dalle cellule tumorali che dai linfociti T che, se attivate, possono rendere anergiche le cellule immunitarie. Dette proteine vengono definitecheckpoint immunitari”, ovvero tappe fondamentali della regolazione della tolleranza immunologica. In poche parole servono per distinguere una cellula propria (self) da una estranea (non self).

Alcune delle proteine “freno” implicate nella inibizione della risposta immunitaria.

Andando avanti si sono chiesti se fosse possibile inattivare queste proteine, facilitando l’azione dei linfociti. Cio è possibile grazie all’uso degli anticorpi monoclonali.

Ma cosa sono gli anticorpi? Sono proteine adibite a varie funzioni di difesa, capaci di legare degli antigeni, cioè determinate porzioni di un agente estraneo presente nell’ospite.

Rappresentazione schematica della struttura di un anticorpo.

Se gli anticorpi vengono prodotti naturalmente dal nostro organismo, invece, gli anticorpi monoclonali vengono sintetizzati in laboratorio grazie all’ingegneria genetica, in particolare sfruttando la tecnica dell’ibridoma.

Utilizzando degli anticorpi monoclonali diretti contro le proteine “freno” la loro azione viene annullata, causando l’eliminazione da parte dei linfociti T delle cellule neoplastiche.

Ed è questo lo scopo dell’immunoterapia: potenziare il sistema immunitario dell’ospite affinché possa combattere il tumore in maniera mirata e precisa.

I risultati sono notevoli; nella maggior parte degli studi clinici i pazienti vedono un miglioramento della loro patologia, con effetti positivi maggiori soprattutto in soggetti affetti da tumori immunogenici, ovvero quelli che più facilmente evocano una risposta immunitaria. Tra questi possiamo citare il melanoma, una neoplasia molto aggressiva che origina dalla cute.

Ma l’immunoterapia offre altre opzioni; gli anticorpi monoclonali possono essere utilizzati per veicolare farmaci, tossine o isotopi radioattivi capaci sconfiggere le cellule neoplastiche. In questo modo, la molecola trasportata dall’anticorpo riesce ad uccidere in maniera specifica le cellule tumorali alle quali si lega.

Un’altra applicazione dell’immunoterapia anticancro è quella della immunizzazione attiva. Essa consiste nel somministrare al paziente degli antigeni tumorali, in modo da sensibilizzare il sistema immunitario verso determinate caratteristiche del tumore. Ciò porterebbe alla regressione del cancro, in quanto i linfociti T, riconoscendo le cellule tumorali sarebbero in grado di ucciderle.

Se tali intuizioni fossero corrette si assisterebbe alla nascita di veri e proprio vaccini anticancro.

Uno studio ha dimostrato che solo il 20% dei pazienti affetti da melanoma maligno presenta una regressione del tumore. I motivi ancora non si conoscono ma numerosi ricercatori si muovono in questa direzione.

Per quanto riguarda i nuovi farmaci antitumorali ne esistono vari, ed ognuno è specifico nella sua funzione. Si tratta di anticorpi monoclonali diretti verso precisi bersagli proteici (tra i quali i già citati “freni del sistema immunitario“). Trastuzumab, ad esempio, viene utilizzato nel cancro della mammella; Nivolumab, anticorpo monoclonale che inibisce il checkpoint immunitario PD1, viene usato nel trattamento del melanoma maligno.

Meccanismo d’azione di Trastuzumab

Se da un lato, però, l’immunoterapia presenta una notevole quantità di aspetti positivi (bassa tossicità dei farmaci, maggiore efficacia…) dall’altro i costi elevati sono un vero e proprio peso che grava sulla sanità pubblica. 

Di certo viviamo in un epoca in cui la ricerca e la medicina stanno facendo passi da gigante; ma riusciremo mai a parlare del cancro come una malattia rara? Se consideriamo i recenti studi e quelli in corso abbiamo ottime possibilità.

Carlo Giuffrida