Excalibur

S’espande in me
l’ombra dell’anima mia.
Col buio mi confonde,
non riesco a vederla
eppur la sento
nel petto mio, arso.

Cuore mio cosparso
di pietra, catrame.
S’insinua in lui
Amore come Excalibur,
ne la roccia vuol rimanere
e non oso estrarlo.

Lama che taglia e cuce
la ferita sanguinante,
Torace in fiamme.
Sarà acqua o resina
A sgorgare da la roccia?
Forse solo lacrime.

Lascerò che la spada mi trafigga.


Silvia Bruno

L’amore che vive nel silenzio: l’intimità poetica di Eugenio Montale

Esistono amori che sfidano l’effimero, che resistono imperturbabili all’incessante erosione del tempo. Sono amori silenziosi che si fanno gesto, sguardo, attesa. Sono fili sottili, eppure infrangibili, che legano due esistenze senza mai costringerle.
L’amore che legò Eugenio Montale e Drusilla Tanzi è l’emblema di un legame che esiste nella semplicità dei giorni, nei ritmi condivisi di un’esistenza che trova la sua pienezza nella delicata costanza dell’essere l’uno accanto all’altro.

Drusilla, minuta e vulnerabile, era la Mosca di Montale, epiteto che nella sua affettuosa ironia racchiudeva il senso più profondo del loro rapporto: un’intimità fondata su una complicità sottesa, su un amore che si affermava nell’assoluta certezza dell’altro. Eppure, sebbene Montale non fosse noto per una natura monogama, Drusilla resta.

Ed è proprio in questa dimensione appartata, quasi inaccessibile allo sguardo estraneo, che si inseriscono le parole che il poeta le dedicò: pagine intrise di un amore restituito nella sua essenza più pura, nella sua verità più nuda e sincera.

Attraverso la scrittura, Montale tenta di sottrarre all’ineffabile il suo carattere irripetibile, di conferire permanenza all’evanescenza di una realtà che si vorrebbe eterna. Egli scrive per riconoscerla ancora e ancora, per tessere con lei un dialogo ininterrotto, che neppure la morte può recidere.

L’amore che resta

Nei versi indirizzati a Drusilla, non c’è traccia di sentimentalismo, né tentativi di ridurre l’amore ad enunciato: il loro rapporto si consuma nell’impalpabilità di frasi appena accennate, in una fiducia che non necessita di sottolineature.

Montale scrive con il pudore di chi riconosce che il vero amore non si esaurisce nel dire, ma nel tacere ciò che è già chiaro.

Eppure, proprio attraverso questa delicatezza, le sue parole diventano il filo che si tende oltre il tempo e la separazione. Egli non tenta mai di trattenere Drusilla, ma esprime la volontà di farla persistere nello spazio fragile della scrittura, di lasciarla risuonare nei silenzi delle sue parole.

Il loro è un amore che scivola nell’intimità di un cammino condiviso. È un amore che non cerca di imporsi, ma si consuma nell’affinità invisibile di due corpi che si accompagnano, senza mai allontanarsi.

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, nè più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.”

Dalla raccolta “Satura”, 1962-70, Eugenio Montale

Eugenio Montale e Drusilla Tanzi
Eugenio Montale e Drusilla Tanzi
Fonte: wikipedia.org

Con la scomparsa di Drusilla, Montale si abbandona a un dolore che non si fa urlo, ma canto sommesso. La sua assenza si tramuta in presenza silenziosa che si insinua nell’incedere degli anni, nel quotidiano che si è fatto ombra. Il camminare insieme, e il discendere in particolare, si fanno allegoria della vita percorsa a passi incrociati, nell’assoluta fiducia che l’altro sia lì, pronto a sorreggere, a condividere il peso della strada. Ma quando Drusilla non c’è più, ogni gradino diviene vertigine, ogni passo un vuoto incolmabile.

L’amore di Montale si converte in memoria dolorosa, in respiro mancato, in un’impronta indelebile che continua a pulsare nell’anima di chi resta.

 

L’amore come custodia dell’essenza e bellezza del quotidiano

In ogni parola che il poeta scrive, non si cela il desiderio di possedere l’altro, bensì l’impulso di custodirne l’essenza più autentica, di preservarne l’esistenza al di là della transitorietà del corpo.

L’amore si rivela nella sua forma più pura nell’impercettibile sfiorarsi di due mani, nell’abbraccio che non necessita di parole, nello sguardo che si fa complice silenzioso.

Ogni gesto, ogni attimo condiviso, diventa linguaggio muto che risuona nell’intimità di due cuori capaci di parlarsi nel silenzio.

Non esiste grandezza nell’amore che non affondi le proprie radici nell’umile concretezza del quotidiano, che non si incarni nella trama apparentemente frivola degli istanti trascorsi insieme.

La straordinarietà dell’amore si cela proprio nella inclinazione a conferire eternità a ciò che è destinato a sfuggire.

 

 

 

Fonti:
sarascrive.com

Niente pazzie d’amore

Un altro inverno sta arrivando
Un’altra estate è andata via
Sono finiti e amori e storie
Sono finite le poesie.

C’è chi ha sofferto per un volto
Chi esulta per un vecchio incontro
Qualcuno pensa ad una notte
Qualche altro balla tra la gente.

Mani si incrociano, graffiano e stringono
Corpi si sfiorano, toccano e uniscono
Volti si guardano, baciano e ridono
Cuori si scaldano tremano e pulsano.

Spesso mi chiedo che cosa si provi
Quando due anime vanno in simbiosi
E sulla pelle rimbalzano brividi
E nella mente si accendono folgori.

Questa bachata che non ho ballato
Un grande ponte che mai ho attraversato
Un canto frivolo pieno di vita
La gioventù che diventa infinita.

 

Giuseppe Libro Muscarà

 

 

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Interstellar: un Trattato sull’Amore che va oltre Spazio e Tempo

Interstellar, il capolavoro fantascientifico di Christopher Nolan è un’opera amata e odiata, tanto divisiva quanto agglomerante. Ormai divenuta iconica per la sua colonna sonora e per i suoi intrecci temporali, la pellicola di Nolan da sempre mette a dura prova lo spettatore. Viaggi nel tempo, tesserati e buchi neri creano una difficoltà oggettiva nel comprendere fino in fondo una scienza che trascende la realtà che oggi conosciamo. Ma Interstellar è qualcosa di più di un film di fantascienza, è una riflessione sulla complessità dell’essere umano ed un trattato su di una delle forze più complesse che muovono l’agire umano oltre lo spazio e il tempo: l’amore.

Un’umanità ormai esausta

Interstellar ci racconta un mondo ormai esausto. In un futuro non ben definito, polvere ed incertezza sono tutto ciò che rimane ad un’umanità stanca e rassegnata ad una vita che presto cesserà. Ma la speranza non è del tutto perduta, degli uomini di scienza stanno cercando in gran segreto una soluzione che possa dare un nuovo futuro al genere umano. Il protagonista Cooper, interpretato da Matthew McConaughey, si unisce a questa ricerca dovendo ben presto affrontare uno dei dilemmi che da sempre incontra l’essere umano. Restare ed agire egoisticamente nei confronti dell’intera umanità assecondando l’amore verso i suoi affetti, come gli chiede la figlia Murphy dopo aver letto il messaggio del suo fantasma, o andare nello spazio profondo per amore di chi ama con la promessa di ritornare.

In Interstellar il fallimento è della ragione

In un’opera come Interstellar dove la scienza è alla base del tutto, è proprio la ragione a fallire. L’uomo più brillante della terra, il professor Brand, non riesce a risolvere l’equazione gravitazionale necessaria per salvare l’intera umanità. Il dottor Mann, il migliore tra gli uomini di scienza mandati nello spazio a cercare una nuova casa, cede alla paura e all’angoscia. Anche Cooper alla fine fallisce ma decide di sacrificarsi per permettere alla dottoressa Brand di raggiungere il pianeta di Edmunds. E Il fallimento della ragione porta l’uomo alla menzogna, la più tipica delle reazioni umane. Ma mentre la ragione e gli uomini di scienza falliscono, l’amore resiste alle distorsioni dello spazio e al tempo e diventa la chiave del tutto.

Interstellar Regia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures

“L’amore è l’unica cosa che riusciamo a percepire che trascenda dalle dimensioni di tempo e spazio” (Amelia Brand, Interstellar)

In Interstellar è l’amore la vera forza che muove l’agire umano. Ed è la stessa dottoressa Brand (Anne Hathaway), donna di scienza, a ricordare a Cooper l’importanza dell’amore. Una forza non quantificabile, che trascende lo spazio e il tempo, che ci lega a persone lontane anni luce e che supera indenne le distorsioni del buco nero Gargantua. Ed è lo stesso amore a dire ad Amelia di spingersi a ragione fino al pianeta di Edmunds, l’uomo che ama, ed ignorare dati scientifici (rilevatisi falsi) del dottor Mann. Ma ancora una volta la ragione porta la missione verso il fallimento ma sarà l’amore, quello di un padre verso la figlia e quello di una figlia verso il padre, a dare le risposte che la ragione umana non riesce ancora a dare.

“Resta!”

La più grande dimostrazione della forza dell’amore che Interstellar racconta è il legame tra Cooper a sua figlia Murphy. Quando Cooper sceglie di partire per il viaggio interstellare, dandosi dal futuro le indicazioni per raggiungere ciò che resta della Nasa, Murphy è solo una bambina. E come ogni bambina fatica a capire il senso delle scelte razionali del padre, l’amore puro e candido che la lega al padre non le permette di capire l’importanza della missione. Ad alimentare le sue paure c’è anche il messaggio del fantasma che sembra infestare la sua stanza che, grazie alla gravità le comunica un messaggio semplice quanto diretto: Resta!”. Ma il fantasma è proprio Cooper che, disperato per il fallimento della sua missione, chiede al se stesso del passato di restare con chi ama.

nterstellarRegia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Interstellar Regia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures

“Non andartene docile in quella buona notte, infuria contro il morire della luce”

Quando tutto sembra ormai perduto, quando Cooper sceglie di abbandonarsi a Gargantua per alleggerire il peso della navicella che porterà la dottoressa Brand sul pianeta di Edmunds, succede l’inaspettato. Cooper si ritrova dentro un tesserato frutto della ragione e della scienza, una struttura a quattro dimensioni (la quarta è il tempo), che rappresenta la libreria della camera da letto di Murphy in tutti i momenti della sua vita. Chi ha creato questa struttura, gli stessi esseri del futuro che hanno posizionato il wormhole, sanno che Murphy è e sarà colei che salverà l’umanità. Ma per salvare l’umanità la Murphy adulta del presente necessita i dati del buco nero per risolvere l’equazione gravitazionale. Dati che solo Cooper può trasmettere alla figlia e che solo grazie all’amore può comprenderne il significato.

È l’amore la chiave di Interstellar 

Dove la ragione e la scienza non possono dare una risposta, l’amore emerge in tutta la sua forza. L’amore verso il padre e la promessa di tornare fatta da Cooper alla figlia, permette a Murphy di capire che il fantasma è sempre stato suo padre. I movimenti dell’orologio diventano dati e numeri, tutto improvvisamente ha senso. Ma il tesserato, la struttura frutto della ragione e della scienza degli esseri del futuro sarebbe stata inutile senza ciò che lega Cooper e Murphy. E infatti, quando Cooper riesce a tornare dalla figlia dopo ben 90 anni (terrestri) dalla partenza, Murphy confessa che sapeva che sarebbe tornato perché il suo papà glielo aveva promesso.

 

InterstellarRegia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Interstellar Regia: Christopher Nolan Distribuzione: Warner Bros. Pictures

Interstellar, un trattato sull’amore 

Ciò che fa Nolan con Interstellar è qualcosa di molto coraggioso. Utilizzando il viaggio spazio-temporale e la fantascienza ci ricorda dell’importanza dell’amore e che probabilmente, quando ci sentiamo perduti, quando la ragione sembra abbandonarci dovremmo dare fiducia all’amore. Non importa se sia l’amore di due amanti, se sia l’amore tra un padre e una figlia, ciò che conta davvero è che questa forza primordiale dentro di noi ha un significato profondo. Ed è per questo che Interstellar è la più umana delle opere, ed è per questo che questa pellicola è un bellissimo trattato sull’amore.

 

Francesco Pio Magazzù

6 Miglia

A Te che tendo la mano e con me il porto

Io con una barca t’inseguo e il cuore ti porgo

Con le onde ti chiamo e ti dono un tramonto

Mi ci specchio e sorrido,
ti dedico Alba, principio del mondo

Poi abbraccia il mare, gli scogli, e con la tua luce mi avvolgo

Più forte ti stringo,
spuma marina, ricordi ricolgo

Tra Noi riecheggia un canto nel tempo, l’eco dei mostri

Nei timori nascosti,
tuoni di dei agli orizzonti,
eroi astuti dai mille racconti

Noi fili di finti intrecci infiniti,
frammenti di istanti,
di correnti e rimpianti

Arazzi dai nomi parlanti,
colori danzanti.
Radici urticanti
riuniscono animi infranti

E dall’altro ramo ti guardo
e nell’abisso mi specchio
mentre la sera nelle tue luci mi perdo

‘Vivi!’ mi dicesti,
con gli occhi del Sole
Luna piena
dei nostri sogni,
del nostro amore

“Presso me!” mi rispondesti
e navigammo a largo
perché come la Creazione approdasti
sulle mie spiagge dentro gli occhi d’argo

Fatamorgana, specchio de l’anima mia
in te ritrovai sprone e poesia
Fuoco greco intangibile,
dicesti “amare è pura magia”

Ma ora siamo divisi da un romantico mare,
e tu mi rubasti l’anima senza chieder permesso, tu
accompagnata dalle stelle la notte con la voglia d’amare
con te, ogni dubbio appeso scompare

Flebile tocco continuai a sperare,
dovrà la terra nuovamente tremare
per un bacio rubato
a l’empio fato.

 

-Luna & Sole

Non togliermi il tuo amore

Non togliermi il tuo amore,

le tue parole, il tuo sorriso.

Toglimi il vino e il vizio del fumo,

toglimi le scarpe, la maglia, il cuore

ma restami accanto nel dolore.

Portati via le cicatrici,

i tagli e l’aria delle mie narici,

ma non togliermi il tuo sapore,

perché è la fonte del mio vivere.

Prenditi le mie poesie

ma non togliermi il tuo amore,

perché come Amore amava Psiche,

così io amo te. 

Levami tutto e tutto prenditi,

ma non togliermi il tuo amore.

 

Gaetano Aspa

 

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

L’incubo

Ogni respiro era come una lama che tagliava le mie narici in quella notte ruggente. Mi giravo e rigiravo tra le lenzuola e, di tanto in tanto, mi pareva di essere sul punto di cadere da un dirupo. L’esasperazione non mi consentiva neanche il pianto: ogni qualvolta gli occhi iniziavano a irrigarsi, una corsa senza fine agitava il mio cuore, prosciugando tutto. Non trovavo pace. Non nel pianto, non nel sonno. Ero riuscita a dormire per un’ora soltanto, poi l’incubo feroce mi aveva strappato via il sonno. Ero sola, al buio e poi, sola, in mezzo alla gente. Poi c’era lui. Affascinante, alto, elegante. Era lontano prima, poi mi venne incontro, ma a quattro zampe e, appena fu abbastanza vicino, mi aggredì. Non riuscivo a comprendere perché fossero tornati i miei brutti incubi. Odiavo e amavo.

Ma amavo davvero? Odiavo davvero?

Pensavo a quegli occhi verdissimi che, circondati da mille rughette, ridevano. D’un tratto, il calore riempiva le mie tempre e sentivo di volergli un tale bene da volerlo proteggere a tutti i costi. Così bene da condividergli con generosità ogni mia gioia, da dedicargli versi e quadri. Poi l’immagine diveniva sfogata, gli occhi si deformavano e mutavano in due fessure inespressive e riuscivo a vederlo in un sorriso marpione, con le sopracciglia inarcate, fieramente cattivo ed egoista. Aveva un’aria sadica e il temperamento di chi scalpita e afferra tutto ciò che vuole, senza provare alcuna empatia o rimorso.

Confermai sommessamente, invece, la mia decisione, perché ero corda tesa sul punto di spezzarmi. Tutto il dolore che avrei provato a seguire, mi avrebbe consentito di fermare gli incubi e di essere nuovamente libera.

Mi misi su con una certa angoscia e, tremante e impaziente, digitai il suo numero. Al terzo squillo rispose, la voce era incupita dal sonno, ma rimaneva quella che donava parole di miele al mattino.

“Pronto?”

Non potevo più trattenermi e scoppiai in un pianto sommesso. “Scusami.” Iniziai. “Volevo sentirti. Avevo solo bisogno di sentirti. Non riesco a dormire stanotte. Faccio gli incubi.” Le lacrime mi inondavano il viso e mi feci piccola contro il muro. Volevo sparire tra le pareti, attendendo le prime luci del mattino.

“Che hai sognato?” Mugugnò a malapena e riuscivo a immaginarlo messo su un fianco con gli occhi chiusi e tanta voglia di dormire ancora. “Ma stai piangendo?”

“Sì, io ho paura.” Gli confidai, sedendomi sul letto sfatto. “Ho paura che non mi vuoi bene.”

“Certo che ti voglio bene!” L’impasto del sonno era quasi del tutto sparito e sentii dei rumori. Immaginavo si fosse alzato in modo da rendersi abbastanza sveglio per la conversazione. Ci fu silenzio per qualche secondo e poi rise confuso. “Sei impazzita?”

“Non so… io ho molta paura,” iniziai, “che tu mi faccia del male.”

Rimase in silenzio. Lo percepivo, anche se solo attraverso un telefono, cupo e irrequieto.

“Sento come se tu fossi un selvaggio. Ho sognato che eri un animale. Come se tu fossi un animale senza padrone, come se non avessi regole e limiti. Mi spaventa molto.” Ammisi, con una forte dose di apparente tranquillità sul finire. “Le persone che mi vogliono bene sembra mi vogliano tutte difendere da te. Anche se non fai nulla, anche se non fai nulla…”

“Io sono ciò che sono.” Sbuffò. “Che importa poi quello che pensano gli altri?”

Era vero. Che importava? Il problema era che, infondo, mi sentivo in pericolo e il fatto che lo pensassero gli altri era solo la conferma esterna a quella parte di me che voleva scappare via. Seguì, quindi, un lungo silenzio dove la tensione era alle stelle. Io non riuscivo a parlare, perché avevo troppo da dire; la mia controparte, forse, perché non aveva o non poteva dire nient’altro.

“Finirà presto. Io lo so. Tu che pensi?”

“So solo che non ti voglio perdere. I miei comportamenti a volte prescindono da ciò che provo.” Era molto triste. Guardai l’ora. Erano le tre e trentasette di mattina. “Sappi che ho paura anch’io. Ho una paura matta, spesso irragionevole, di farti male.”

“E allora perché lo fai?” Ripresi a piangere a dirotto mentre lui sussurrava parole delicate per rasserenarmi, ma non riuscivo proprio a fermarmi.

“Perché sono egoista e devo ancora crescere probabilmente.” Rispose poi e seguì un continuo rumore di passi. Era chiaro camminasse avanti e indietro per la stanza e mi alzai d’istinto. “Io credo però che non sia giusto che finisca. Sento che non deve andare così.” Aggiunse profeticamente. Aveva capito le mie intenzioni.

Non negai. “E come dovrebbe andare?”

Sospirò. Sospirai. Aumentai il passo, come un leone in gabbia, percorrevo la stanza senza una logica precisa. L’ansia mi mangiava, il pianto silenzioso mi corrodeva, pur fingendomi serena in attesa di una risposta degna della domanda.

“Noi due siamo come i tronchi di alberi sulla neve: apparentemente stanno sulla neve e sembrerebbe a tutti possibile spostarli con un piccolo colpo…” ragionò con grande pragmatismo e mi lasciai cullare dalla voce limpida e paterna, “ma no, è impossibile perché le loro radici sono ben ancorate al terreno.”

Questo pensiero mi impedì di continuare a piangere. Aveva la capacità innata di innestare serenità nel mio cuore, quando voleva, grazie alla sua sensibilità dosata. Non potevo però dimenticare il talento senza uguali nel distruggere tutta la mia pace. Pensai: “Se non ci fossero le irrequietezze che lui stesso crea, non avrei bisogno di essere rasserenata”

“Noi ci vogliamo bene.” Risposi. Ero tranquilla, ma stava per finire e, lasciandolo, sapevo che avrei amato di nuovo. “Ti voglio non bene, benissimo.”

“Anch’io, tantissimo. Mi raccomando, dormi con la luce accesa, magari…”

“Scusami ancora… dormi bene…”

“Buonanotte.”

Poi uscii dalla stanza per rimanere sotto il cielo. Il vento autunnale soffiò via il grigiore, così respirai. Vidi la Luna pallida, piena, gioire. Sentii la Luna cullarmi, materna, eterna. Sotto un cielo infinito, felice e innamorata come mai, piansi.

              Isabel Pancaldo

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia e Isabel Pancaldo

In questa terra arida

In questa terra arida
che era la mia vita,
hai scavato a fondo con le dita
una buca dritta e profonda,
che hai riempito con tanti
piccoli semi di te.

In questa terra arida
che era il deserto del mio cuore,
da quei piccoli semi di te
è nata, nel sole di maggio,
una distesa d’amore,
fatta di frutti e di fiori,
verde di speranza e
profumata di petricore.

In questa terra arida
era sbocciata la primavera,
ma ora è tornato l’autunno
che mi spoglia di ogni cosa,
lasciandomi inerme al gelo,
e nella solitudine del dolore,
vorrei solo essere ancora
quella nuda terra che t’accoglie.

 

Gaetano Aspa

 

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Ciò che noi siamo

Maggio, che a tutti porti consiglio
A me hai portato consapevolezza
Di star vivendo qualcosa di inaspettato
Con in pancia un respiro spezzato
Pensando di non essere all’altezza
Convincendomi con un tuo piccolo bisbiglio
Che noi siamo ciò che si scrive
Ciò che si cela dietro ogni canzone
L’intenzione di ogni artista che crea
Che vuole dipingere una marea
Ma alla fine dipinge un’emozione
Che prova solo chi l’amore vive.

Francesco Pullella

Parigi degli intelletti

Due amanti. Lui e lei. Vuoti, corpi miseri intrecciati, incastro perfetto.

Era Parigi, in una delle stanze sui tetti. Un piccolo appartamento polveroso, disordinato, rifletteva la casualità di quell’incontro. Due singoli a cui piaceva vincere o sapere di avere ragione. E fu una lotta senza il desiderio di distruggere l’altro.

Non era la città degli amanti, del romanticismo, dell’amore puro. Era la Parigi degli intelletti, la festa mobile cantata da Hemingway. E loro amavano di un amore narciso, a tratti egoista. Amavano sapere di essere ammirati, ascoltati.

O forse non amavano affatto, ma trovavano un senso strano di appagamento nel riempire le loro menti di strani giochi, parole combinate che loro stessi afferravano a fatica.

Lei era smarrita, distratta, tratta lontano dal mondo e da se stessa, non più messa a fuoco. Si cercava nel posto sbagliato, usando gli altri come specchio per ritrovare il riflesso che più le faceva comodo. Giocava a fare finta di sapere la direzione, ma guardava la bussola sbagliata. In lui aveva trovato il riflesso di quello che sperava di essere, ma sapeva di non essere mai stata davvero.

Tra loro non c’era mai silenzio quando erano anime. Poi diventavano corpi, muti, che si rincorrevano nel ricordo dei discorsi infiniti.

Erano in una Parigi che è stata, che non è più, sulle tracce di amori proibiti e di relazioni profondamente effimere, radicate nell’alchimia tra le menti. Non vi era amore neanche tra i più grandi… era forse una profonda ammirazione o la brama di possedere l’altro e rubare ciò che di buono c’era.

Due individui, separati, girovaghi tra la polvere dei ricordi, tendando di rincorrere o provare ad afferrare qualcosa che fugge senza sosta. Il passato, le memorie, i ricordi: denti di leone che si sgretolano appena ci si avvicina con troppa foga.

Erano solo corpi che percepivano loro stessi e che si erano trovati per caso o per fortuna in una delle stanze sui tetti. Nessuna domanda, nessun significato. Solo la Parigi degli artisti e due corpi che si cercano nei vuoti dell’opposto.

Giulia Cavallaro

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia