Perché la diffusione di Covid-19 è correlata all’inquinamento?

Il rispetto dell’ambiente è un principio che viene insegnato ai bambini dai primi anni di scuola per sensibilizzarli al più grande problema della nostra umanità: l’inquinamento. Da sempre l’uomo ha modificato la natura per adattarla ai suoi bisogni, ma, dal settecento con la prima rivoluzione industriale, questi processi si sono intensificati. Sono così emerse nuove patologie che prima erano poco note. Basti pensare alle neoplasie polmonari, alla maggiore suscettibilità alle infezioni respiratorie, ma anche ad allergie, pneumoconiosi, intossicazioni alimentari da metalli e tante altre.

Quali sono le fonti principali del danno ecologico?

Ciò che ci preoccupa maggiormente è l’inquinamento atmosferico, le cui cause principali sono il traffico veicolare e le emissioni industriali. Fra gli inquinanti più rappresentati nell’aria abbiamo il monossido di carbonio, i nitriti, il benzene, gli idrocarburi policiclici aromatici ed altri. Tutte sostanze riconosciute come cancerogeni certi o probabili dalla IARC (International Agency Research on Cancer). L’inquinante più temibile è però rappresentato dal particolato, formato da particelle aereo-disperse che trasportano componenti organiche e non e le veicolano nelle vie aeree. Distinguiamo essenzialmente, a seconda della dimensione, PM10 con diametro inferiore a 10 micron e PM2,5 con diametro inferiore a 2,5 micron, ma ne esistono anche di più piccole (PM1, PM0,1). Più sono piccole maggiore è la loro capacità di infiltrarsi nelle vie respiratorie e causare un danno.

Cosa sta succedendo in questo periodo?

Negli ultimi giorni hanno fatto scalpore le immagini da satellite prima della Cina ed ora del nostro paese. Queste dimostrano come, già nei primi tempi di “lockdown” per l’emergenza Coronavirus l’inquinamento sopra le nostre teste sia fortemente diminuito. Nell’immagine sopra si può osservare il confronto della situazione in Italia a metà gennaio (sinistra) con quella dei nostri giorni (dati rilevati dal satellite Sentinel-5P dell’Agenzia Spaziale Europea, ESA). Purtroppo ciò non è l’unico legame che l’inquinamento ha con l’attuale epidemia di COVID-19. Un’analisi congiunta delle Università di Bologna e Bari ha correlato i livelli elevati di PM10 ad un aumento della diffusione dell’infezione. Secondo quanto riportato, il particolato fungerebbe da carrier per il virus. Ecco perché nella pianura padana, dove le attività industriali e lo smog sono cospicui, il virus si sarebbe diffuso così velocemente. Un’espansione, almeno all’inizio parzialmente limitata al nord Italia, per la geografia del territorio che appare chiuso dalle Alpi ai confini.

Un vecchio studio cinese ci aveva avvisato

Andando indietro nel tempo, al novembre 2003, si può trovare uno studio ecologico cinese che aveva rapportato la qualità dell’aria all’epidemia di SARS. Le città che pagarono un maggior prezzo in termini di mortalità furono quelle in cui l’indice di inquinamento atmosferico (API) era più elevato. Anche per loro la spiegazione principale era legata al maggior trasporto del virus PM10-mediato. Ovviamente c’è anche una plausibilità biologica: l’esposizione ad una dose maggiore di inquinanti atmosferici compromette la funzionalità polmonare (come fa il fumo di sigaretta del resto) così da poter causare dei quadri clinici di polmonite più gravi. Inoltre l’inquinamento ostacola l’attività di un particolare tipo di cellule, ovvero i macrofagi alveolari, che rappresentano l’ultima barriera di protezione del nostro sistema respiratorio dai patogeni che penetrano fino a livello alveolare.

L’analisi ecologica cinese fu condotta in 5 regioni con almeno 100 casi di SARS: Guangdong, Shanxi, Hebei, Beijing e Tianjin. Queste furono distinte in base all’API tra i mesi di aprile e maggio 2003 in regioni a basso, moderato ed alto indice di inquinamento e si è valutata la mortalità per SARS nei tre gruppi nello stesso periodo. I risultati, sintetizzati nel grafico cartesiano sopra, furono i seguenti:

  • Su 1546 pazienti analizzati residenti in regioni a basso API, 63 sono morti per SARS con una percentuale di fatalità del 4,08%;
  • Tra 3590 pazienti provenienti dalle regioni ad indice moderato, ne sono decedute 269 (mortalità del 7,49%);
  • 17 morti su 191 pazienti nelle zone ad alto API, con l’8,90% di mortalità.

Da ciò possiamo dedurre una buona correlazione tra la qualità dell’aria ed il diffondersi di epidemie virali. Anche per questo la tutela dell’ambiente in cui viviamo deve essere quindi un argomento primario. Tutti i paesi sviluppati del mondo devono porre attenzione senza appoggiarsi alla politica dello slogan e favorendo l’avvento delle rinnovabili come unica fonte energetica. Gli obiettivi 20-20-20 prevedevano: riduzione del 20% delle emissioni di CO2, riduzione del 20% della richiesta di energia ed aumento del 20% delle fonti rinnovabili entro il 2020. Il 2020 è arrivato e dobbiamo fare un passo in più. Il pianeta si ribella e noi ora ne siamo vittime, ma bisogna ricordare che ne siamo stati anche i carnefici.

Antonio Mandolfo

Bibliografia

https://www.ilsole24ore.com/art/l-inquinamento-particolato-ha-agevolato-diffusione-coronavirus-ADCbb0D

https://www.focus.it/scienza/salute/coronavirus-covid-19-smog-inquinamento-lombardia

https://ehjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/1476-069X-2-15

 

 

 

 

 

 

 

Colapesce presenta ”crea la tua T-shirt”

Da sempre Colapesce, locale di ritrovo che fa del gusto e della cultura un binomio, è fucina di idee originali; l’iniziativa Crea la tua T-shirt ne è l’ennesima dimostrazione.

Un innovativo modo di intendere il riciclo attraverso il laboratorio creativo coordinato da Artica17 che trasformerà un’antipatica e noiosa (magari bucata) maglietta in disuso in un’estrosa opera d’arte personalizzata.

 

Colapesce coniuga meravigliosamente il rispetto dell’ambiente ed il piacere della condivisione di un pomeriggio spensierato, “colorato” da un piccolo ma importante sorriso alla natura.

 

Crea la tua T-shirt” tra un sorso di vino e l’altro significa armonia, creatività ed ingegno alla portata di tutti.

 

>Mercoledì 19 Febbraio dalle 17:30 presso i locali di Colapesce date colore alla vostra fantasia, aiutate il pianeta con un piccola ma importante pennellata.

 

 

 

Antonio Mulone

I batteri che salvano il pianeta

Nell’immaginario collettivo i batteri sono indissolubilmente legati alle infezioni e quindi al concetto di malattia. In pochi sanno che in realtà solo una minima parte dei microrganismi appartenenti a questo regno sono dannosi per l’uomo.

Ma cosa c’entrano i batteri con la salvaguardia dell’ambiente?

Da diversi anni sono ormai note le grandi potenzialità di questi microrganismi, che si sono rivelati un ausilio fondamentale in diverse branche della scienza: dalla medicina alla biologia, dalla ricerca fino alle applicazioni pratiche innumerevoli.

Recentemente due diversi studi hanno dimostrato come alcune specie di batteri siano in grado di aiutarci nella risoluzione di due problematiche che da anni affliggono l’ecosistema terrestre: l’inquinamento causato dalla plastica e il riscaldamento globale.

Il problema ambientale inerente alla plastica è ormai noto a tutti: gli oggetti in plastica impiegano un tempo più o meno lungo a degradarsi nell’ambiente, causando danni consistenti a tutti gli ecosistemi.

Risale al 2016 la scoperta da parte di Shosuke Yoshida del Kyoto Institute of Technology del batterio Ideonella sakaiensis 201-F6, pubblicata sulla rivista Nature. Questo microrganismo produce due enzimi in particolare: PETase e MHETase, in grado di digerire il PET (polietilene tereftalato).

Questa molecola fa parte della categoria dei materiali plastici ed è usato in particolare per la produzione di bottiglie; si stima che una bottiglia di dimensioni medie impieghi circa 450 anni a degradarsi grazie a fenomeni naturali spontanei. Provate a moltiplicare questo tempo per la quantità enorme di bottiglie di plastica che produciamo ogni giorno: soltanto una parte di esse sarà riciclata, senza contare tutte quelle che sono state inadeguatamente smaltite in passato.

Tuttavia, servirebbe una quantità notevolmente elevata di batteri per degradare anche una sola bottiglia in PET. Far proliferare una mole così grande di batteri sarebbe un approccio svantaggioso in quanto troppo dispendioso.

Come possono dunque aiutarci questi microrganismi?

A questa domanda hanno provato a dare una risposta i ricercatori dell’Università di Greifswald e del Centro Helmholtz di Berlino; il loro studio si inserisce in un quadro più ampio di lavori britannici e statunitensi volti a identificare la struttura tridimensionale degli enzimi PETase e MHETase (figura in basso).

Conoscere la struttura 3D di queste due proteine è fondamentale, in quanto permette di capire esattamente come esse svolgano la loro funzione e di riprodurle in laboratorio con tecniche di biologia molecolare in quantità virtualmente illimitate.

Come se non bastasse, la conoscenza dettagliata delle reazioni biochimiche, che permettono la degradazione del PET, renderà possibile modificare la struttura degli enzimi per renderli ancora più efficienti.

Le implicazioni per il futuro sono estremamente interessanti: una volta “migliorati” in laboratorio, PETase e MHETase potranno essere impiegati per smaltire grandi quantità di PET nei suoi costituenti elementari (glicole etilenico e acido tereftalico). Questi, a loro volta, potranno essere riutilizzati per la sintesi di nuove molecole di PET in un ciclo virtualmente chiuso, senza danni per l’ambiente e più efficiente degli attuali sistemi di riciclaggio.

Il secondo argomento che affronteremo richiede un breve ripasso dei meccanismi alla base del riscaldamento globale.

L’effetto serra è un fenomeno naturale essenziale per lo sviluppo della vita sulla terra: i cosiddetti gas serra non sono altro che sostanze presenti nell’atmosfera che intrappolano parte delle radiazioni solari mantenendole all’interno dell’atmosfera stessa. In poche parole, questi gas permettono alle radiazioni di entrare nell’atmosfera, ma non di uscirne. Questo non è altro che un meccanismo di regolazione della temperatura della superficie terrestre.

Infatti, le radiazioni solari trasportano energia (dunque calore) attraversando i vari strati atmosferici per essere poi riflessi sulla superficie terrestre, come una pallina lanciata contro il muro che torna indietro.

Se non fossero presenti i gas serra, i raggi solari e la loro energia tornerebbero nuovamente nello spazio dopo aver “colpito” la superficie terrestre: la temperatura del globo sarebbe così bassa da non permettere lo sviluppo della vita.

Tuttavia, se la concentrazione di gas serra aumenta eccessivamente si osserva il fenomeno inverso: la temperatura della superficie terrestre si innalza, con tutte le conseguenze dannose che ne derivano. Esempi di gas serra sono il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O) e il metano (CH4). Questi gas sono sia di origine naturale, sia antropica, termine che indica la loro produzione in una serie di processi dei quali è responsabile l’uomo.

Ma come fa un organismo piccolo come un batterio a ridurre l’effetto serra?

Semplicemente metabolizzando i gas sopracitati, ovvero sottraendoli dall’ambiente per trasformarli in sostanze innocue.

Lo studio pubblicato da Boran Kartal e colleghi del Max-Planck Institut su Nature si focalizza sul batterio Kuenenia stuttgartiensis. Questo microrganismo è in grado di fare reagire il monossido di azoto (NO) con l’ammoniaca producendo azoto (N2), normale costituente dell’atmosfera.

Il NO ha un potenziale dannoso: viene convertito a protossido di azoto (N2O), annoverato tra i gas serra.

Le principali fonti di NO di origine umana sono vari processi di combustione, come quelli dovuti al funzionamento di motori dei mezzi di trasporto (sia diesel che benzina e GPL) e alla produzione di calore ed elettricità.

Un’idea interessante potrebbe essere l’impiego di questi batteri negli impianti di trattamento delle acque reflue, che permetterebbe di sottrarre gran parte del NO prodotto da processi industriali.

Se degli organismi così piccoli possono fare così tanto per il pianeta, possiamo noi umani essere da meno?

A giudicare dagli ultimi dati sul riscaldamento globale e sulla plastica negli oceani, sembrerebbe di sì.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

Structure of the plastic-degrading Ideonella sakaiensis MHETase bound to a substrate, Uwe T. Bornscheuer et al.

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09326-3)

Nitric oxide-dependent anaerobic ammonium oxidation, Boran Kartal et al. 

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09268-w)

LOVME FEST: TRA DIVERTIMENTO E RINASCITA

Valorizzazione e libertà: sono le parole d’ordine della terza edizione del LovMe Fest, una rassegna multiculturale o, meglio, un appuntamento fisso che il 2 Giugno coinvolge e sconvolge – positivamente – l’intera città.

Il cambiamento di location, a primo impatto parso come una scelta azzardata, si è rivelato un successo: fin dall’apertura dei cancelli, un’ondata di gente, di ogni età, ha popolato lo spazio verde della città.

L’entusiasmo illuminava gli occhi dei bambini, contenti di potersi sporcare le mani con la terra; colorava quelli dei più grandi che, intervistandoli, ci hanno rivelato di non entrare da anni in questa splendida villa.

Ecco perché si parla di valorizzazione: Messina vanta un polmone verde di diversi ettari, facilmente raggiungibile dai cittadini; ideale per far giocare i più piccoli, per studiare, per correre, per fare una passeggiata; significa un punto di ritrovo per i più anziani, per chi vuole portare a spasso il cane, eppure la potenzialità di Villa Dante rimane inespressa. E’ solo grazie a manifestazioni del genere, alla mano d’opera dei volontari che, con sudore e fatica, hanno bonificato uno spazio ormai degradato e dimenticato, che la città può riportare in vita zone come questa.

La festa della Repubblica, quest’anno, a Messina, rimarrà come il segno della volontà di cambiamento dei messinesi, di chi ha evidenziato che ogni cittadino può contribuire a migliorare la città. E’ così che il vero obiettivo del LovME Fest si realizza: a giorni di distanza dal festival, Villa Dante è ancora pulita, è in ascesa per diventare un punto di riferimento.

Pensiero, questo, condiviso anche dal rapper Piotta, l’ospite della serata che, a fine esibizione, ha sottolineato l’importanza di organizzare tali eventi che esprimono la vera identità di una città. E’ proprio dall’arte del cantare che si estrapola la seconda parola chiave della manifestazione: libertà.

In villa, infatti, si sono susseguite 15 ore di intrattenimento di ogni tipo: esibizioni canore; mostre di fotografia, di fumetti, di scultura, di pittura; body-painting; yoga; esposizioni artigianali e seminari su legalità, sulla disabilità e sui diritti civili; per concludere, i tre palchi adibiti per ogni esigenza musicale.

Si tratta, quindi, di arte, nonché di libertà di espressione: ogni cittadino era libero di comunicare a proprio modo e di raccontarsi liberamente attraverso le varie facce dell’arte.

Il LovMe Fest è un festival, ma è anche altro: è sete di cultura, è simbolo di raccolta per i messinesi; è fame di rinascita culturale e sociale.

Jessica Cardullo