“Il futuro è nostro”: il peso di una responsabilità

Io e la mia eco-ansia

Avevo solamente sette anni quando, sul mio diario segreto dell’epoca, cominciai a scrivere dell’estinzione del Panda Rosso, del riscaldamento globale e della fine del mondo.

Non avevo ancora sviluppato uno spirito critico che si potesse dire realmente tale, ma a una conclusione verosimile ero comunque riuscita a giungere.

Ve la cito testualmente:

È tutta colpa dell’uomo. L’uomo deve aggiustare le cose.

So che non fosse normale il fatto che una bambina di quell’età perdesse il sonno a rimuginare sull’inquinamento, ma, quando cresci in una realtà che va alla deriva, diventa quasi inevitabile.

Guardavo i notiziari e l’impotenza mi atterriva. Ascoltavo gli adulti parlare di questa e quell’altra crisi ecologica, ed ecco che mi veniva il mal di pancia.

Ciò che davvero, però, mi causava malessere era il senso di responsabilità che sentivo ricadermi sulle spalle. Ero ben consapevole, ora come allora, che sarebbe toccato a me porvi rimedio.

In realtà, a ben pensarci, non è che fosse una riflessione di cui posso arrogarmi il merito. Non scaturiva dalla mia sviluppata sensibilità o da una precoce e incredibile perspicacia.

Era un qualcosa che mi veniva ripetuto di continuo: il destino della Terra era nelle mie mani.

Avrei dovuto fare la raccolta differenziata, usare la bicicletta per andare a scuola, bere dalla borraccia, comprare prodotti che non fossero in confezioni di plastica… Se me ne fossi astenuta, l’apocalisse si sarebbe abbattuta su noi tutti.

Ero davvero convinta di avere una parvenza di controllo e di poter, così, effettivamente fare la differenza.

Sebbene riconosca che il rispetto di queste regole sia sacrosanto per garantire una cittadinanza che possa definirsi civile, ho, però, ora contezza che quella che mi è stata propinata – che ci è stata propinata – è una pia illusione.

Abbiamo ereditato un pianeta al collasso, prosciugato delle sue risorse e iper-sfruttato, e ci è stato, poi, presentato il conto. Mentre i grandi procedono nei loro affairs, inseguendo il qui e ora e distruggendo quel che poco rimane, ci viene detto che il futuro è di nostra competenza, che siamo noi a doverne cambiare le sorti.

Dobbiamo, al contempo, correggere gli errori di un passato in cui neanche esistevamo e lavorare affinché ci sia un futuro di cui non ci godremo nemmeno i frutti.

Hanno tralasciato di dirci, tuttavia, che i nostri sforzi… sono vani. E che continueranno a esserlo fino a quando le vostre vedute saranno colme di denaro e non di terre fertili, acque limpide e natura sterminata.

Noi siamo disposti a sacrificarci per ottenerlo. Lo facciamo ogni giorno, d’altronde.

E voi?

 

Allarme in Sicilia: la siccità continua a peggiorare

La Sicilia sta attraversando un gravissimo periodo di siccità, per il quale la Regione ha dichiarato lo stato d’emergenza. Le piogge della seconda metà del 2023 e degli ultimi mesi sono state molto scarse e non hanno permesso un sufficiente riempimento degli invasi in molte aree della regione.

Le reti di fornitura idrica hanno già annunciato nuovi razionamenti che riguarderanno più di un milione di abitanti dell’isola: è interessato quasi un centinaio di comuni delle province di Palermo, Trapani, Enna, Caltanissetta, Messina, Catania e Agrigento. La Sicilia rappresenta infatti una delle poche zone rosse secondo l’European Drought Observatory: altre aree analoghe si trovano in Marocco, Algeria e sulla costa orientale spagnola.

In estrema difficoltà sono soprattutto il settore agricolo e zootecnico. Il riempimento degli invasi dell’isola, secondo l’Autorità di Bacino del Distretto Idrogeografico di Sicilia, è inferiore del 30% rispetto all’anno scorso, il cui dato era già di per sé scoraggiante. Gli agricoltori hanno difficoltà ad irrigare le colture, mentre gli allevatori accusano la sofferenza degli animali a causa della mancanza di foraggio verde e scorte di fieno, danneggiate dalle anomale precipitazioni della scorsa primavera. I primi razionamenti sono iniziati nella provincia di Palermo, quando l’invaso Fanaco ha raggiunto un riempimento pari a un decimo del totale. Successivamente, sono stati coinvolte altre cinque province dell’isola.

(Flickr)

I dati delle piogge

Secondo il SIAS, il Servizio Informativo Agrometereologico Siciliano, la seconda metà del 2023 è stata la meno piovosa rispetto ai medesimi periodi dal 1921. In particolar modo il dato di ottobre è fra i più preoccupanti, poiché le precipitazioni cumulative sono state inferiori del 93% rispetto alla media 2002-2022.

Nonostante nel 2023 siano stati calcolati circa 600mm di precipitazioni cumulative, non dissimili dalla media degli scorsi anni, le forti asimmetrie pluviometriche non hanno garantito un buon riempimento di dighe e laghi artificiali. Circa un terzo della pioggia dello scorso anno è infatti caduta nel solo periodo maggio-giugno. Quando le precipitazioni si concentrano su un’unità di tempo così piccola, il terreno non riesce ad assorbire efficientemente l’acqua, né riescono a riempirsi gli invasi, i quali hanno bisogno di un’alimentazione costante e graduale. L’acqua finisce quindi per disperdersi, correndo veloce verso il mare o causando alluvioni. Le forti piogge, inoltre, danneggiano gravemente colture e riserve di fieno da destinare agli allevamenti.

Questi modelli anomali di precipitazioni, insieme al rialzo termico di questo inverno, sono sempre più frequenti a causa degli effetti dei cambiamenti climatici. A questi si sommano le gravi carenze strutturali della rete idrica siciliana, le cui perdite si aggirano intorno al 50%. Inoltre l’isola, come il resto del Sud Italia, è fra le meno fornite di impianti in grado di filtrare le acque reflue da riutilizzare nell’irrigazione.

(Flickr)

I pericoli dell’estate

Il continuo permanere del terreno in stato siccitoso espone a un maggior rischio di incendi, a causa della presenza di vegetazione secca infiammabile. A ciò contribuiscono inoltre le alte temperature estive degli ultimi anni. L’agenzia Copernicus ha rilasciato lo scorso Gennaio un’immagine satellitare molto esplicativa della situazione.

L’estate scorsa la Sicilia è stata già protagonista di vastissimi roghi che anche quest’anno minacceranno la sicurezza ambientale della regione. Da Roma, tuttavia, non è arrivato il benestare per la definizione di quegli incendi come “calamità naturale”, che avrebbe dato al governo regionale maggiori poteri amministrativi nella gestione della crisi. La giunta Schifani ha comunque dichiarato lo stato d’emergenza per la siccità, potendo così nominare Leonardo Santoro, tuttora presidente dell’Autorità di Bacino, come incaricato nella gestione della crisi. Sono stati poi stanziati circa 150 milioni di euro per gli interventi più urgenti, ma è chiaro che la soluzione al problema richiederà una gestione nel lungo termine con impegno di tutti gli enti territoriali. Serviranno nuovi laghi artificiali, ammodernamento della rete idrica e riutilizzo delle acque reflue.

La crisi climatica non cede infatti il suo passo, e sembra essere ancora più aggressiva nel bacino del Mediterraneo. Ci costringe a ripensare il nostro territorio, che cambia in maniera molto veloce ed espone tutte le nostre fragilità.

(Flickr)

Francesco D’Anna

Nord Stream: gas in mare e danni all’ambiente

Il caso Nord Stream ha avuto un forte impatto a livello mediatico, principalmente a causa delle implicazioni politiche dell’evento. Vi è, però, un altro aspetto importante da analizzare, relativo alle conseguenze ambientali. L’accaduto si inserisce, infatti, in un quadro ben più grande che è quello della già critica situazione climatica attuale.

Elenco dei contenuti

Nord Stream: di cosa si tratta

I gasdotti Nord Stream sono condutture che partono dalla Russia attraversando il Mar Baltico per oltre 1200 chilometri per poi giungere in Germania. Possono trasportare fino a 110 miliardi di metri cubi di gas, sufficienti ad alimentare 26 milioni di case.
Tra il 25 e il 26 settembre di quest’anno i sismologi danesi e svedesi hanno registrato due forti esplosioni in mare nei pressi dell’isola di Bornholm. La prima alle 2:03 di notte con magnitudo 1.9, la seconda di 2.3 alle 19:04. Le cause della perdita sono ancora da discutere, nonostante circolino varie speculazioni sull’evento, che si interseca nel complesso panorama politico mondiale.
Nei giorni successivi sono circolate numerose immagini del gas che ribolliva sotto la superficie marina.
In totale sono state ben quattro le perdite rilevate, di cui due hanno interessato il Nord Stream 2 e il Nord Stream 1. Nessuno dei due gasdotti era operativo, ma entrambi contenevano gas pressurizzato. Nel Nord Stream 2, in particolare, scorrevano al momento delle perdite 177 milioni di metri cubi di gas naturale.
Gli strumenti di monitoraggio hanno identificato, già dai primi giorni, enormi nubi di metano in movimento verso la Svezia e la Norvegia.

Fonte: https://www.google.com

Il problema della manutenzione

Gli incidenti ai gasdotti Nord Stream hanno portato in primo piano il tema della difesa delle infrastrutture critiche.
Quelle sottomarine, infatti, possono essere particolarmente vulnerabili ai danneggiamenti, sia per cause naturali che per attacchi fisici.
Hans Tino Hansen, amministratore delegato di Risk Intelligence, sostiene che per proteggere le infrastrutture sottomarine è necessario creare sistemi capaci di rilevare automaticamente i guasti e i problemi delle apparecchiature. Inoltre, è fondamentale assicurarsi che ci siano strumenti, come i droni subacquei, in grado di raggiungere i siti per ispezionarli nel caso di danni.
Anche l’italiano Paolo Cristofanelli, ricercatore presso il Cnr-Isac concorda, sostenendo che “I processi di estrazione e distribuzione del metano rappresentano una delle sorgenti più rilevanti di emissione e le perdite di questo gas richiedono determinate attenzioni, perché hanno un effetto significativo sul peggioramento dell’effetto serra. Episodi come questo evidenziano l’importanza di poter contare su strumenti di monitoraggio validi”.

Fonte: https://www.google.com

Danno ambientale

Gli scienziati stanno ancora discutendo quali saranno i danni provocati all’ambiente dalle perdite Nord Stream. In particolare,emergono pareri contrastanti riguardo la gravità che l’evento avrà sull’atmosfera e sui cambiamenti climatici .
Joe von Fischer, esperto di biogeochimica dell‘Università del Colorado, spiega come “Quando il metano è rilasciato nella parte inferiore di un bacino molto profondo, viene quasi completamente ossidato dai batteri metanotrofici (che si nutrono, cioè, di metano) presenti nella colonna d’acqua”. Potrebbe, quindi, degradarsi in parte prima di arrivare in atmosfera, lasciando dietro di sé “solo” CO2, molto inquinante, ma meno potente come gas serra.
La quantità può, però, fare la differenza. Secondo Grant Allen, scienziato ambientale dell’Università di Manchester, le perdite potrebbero essere così ingenti e la colonna di gas in acqua così pura e violenta da rendere difficile ai batteri una qualunque azione mitigatrice.

Fonte: https://www.google.com

Le emissioni aumentano

Le stime del Nilu (Norwegian Institute for Air Research) presumono una perdita dai gasdotti Nord Stream variabile tra 40000 a 80000 tonnellate. Se fossero confermate si tratterebbe di circa l’1% di ciò che emette annualmente l’Europa in attività di produzione e uso di combustibili fossili.
Tale dato mette in luce che ogni giorno il nostro continente disperde nell’ambiente circa un terzo di quanto perso dai gasdotti in questo periodo. Si tratta di stime rilevanti che aprono una riflessione più ampia sul tema.
Ogni anno le emissioni aumentano, raggiungendo nuovi record. Nel 2021 vi è stato il picco massimo di 1910.8 ppb, mai avuto prima d’ora.
Secondo le stime della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), il metano oggi è due volte più abbondante in atmosfera rispetto a prima della Rivoluzione Industriale.
A destare preoccupazione, tuttavia, è il ritmo di crescita: tra il 2020 e il 2021, infatti, sono stati registrati aumenti annuali rispettivamente di 15,27 e 16,99 ppb, mai così alti dall’inizio delle misurazioni.
Ciò non riguarda “solo” il riscaldamento globale. Il metano è un potente inquinante atmosferico che incide sulle morti premature, sulle visite ospedaliere legate all’asma e sulle perdite nei raccolti.
A seguito di tali considerazioni viene quasi da chiedersi quale sia il costo della normalità. Le perdite ai gasdotti sono sì ingenti, ma a preoccupare è la situazione generale. Il problema è posto proprio davanti al nostro sguardo con dati che sembrano urlarci quanto la situazione sia drammatica.
Chi ascolta queste grida?

Alessia Sturniolo

Bibliografia

Il viaggio continua: alla ricerca dei luoghi più pericolosi del mondo

Il viaggio alla ricerca dei luoghi più pericolosi al mondo non è affatto breve. Tra il terrore e la meraviglia, il nostro pianeta non smette di offrirci scenari sublimi, che non possono non suscitare curiosità e voglia di scoperta.

Sublime è il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura sia nell’aspetto pacifico, sia ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi”
-Immanuel Kant

Il Guatemala Sinkhole

Il 30 maggio 2010, nella città di Guatemala, un’area profonda circa 90 metri è collassata. Si è pensato che il motivo della formazione della dolina fosse stata la combinazione tra la tempesta tropicale Agatha, l’eruzione del vulcano Pacaya (l’ultima è recente e risale al 2021) e il malfunzionamento delle tubature fognarie. Al di sotto della città del Guatemala vennero trovati depositi di pomice vulcanica, quindi il luogo è esposto a facile erosione del terreno.

C’è chi però ha sostenuto maggiormente la tesi dell’errore umano. Il geologo del Dartmouth College Sam Bonis, ha ritenuto che la causa della catastrofe fosse da ricondurre esclusivamente all’erronea fissazione dei tubi fognari. Aggiunse inoltre, che proprio per tale motivo il termine “dolina” sarebbe improprio, indicando un fenomeno solo naturale. Secondo lo studioso invece, la causa dell’evento fu artificiale.

Ad ogni modo, è certo che nella città del Guatemala la formazione di doline fosse molto probabile: anche nel 2007 si era assistiti a un simile accaduto. Oggi la voragine è considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. A incutere timore è la contezza di quanto fragile sia il terreno sotto cui potremmo trovarci.

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Fonte: www.themarysue.com

L’isola dei coccodrilli

L’isola di Ramree, detta anche Yangbye Island, si trova in Birmania ed è considerata uno dei luoghi meno adatti alla sopravvivenza. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu terreno di vari scontri militari tra forze inglesi e forze giapponesi. L’Inghilterra aveva cercato di stabilirvi una base aerea ma i giapponesi rivendicarono subito l’occupazione dell’isola. Gli inglesi sovrastarono i giapponesi, i quali si misero in fuga cercando rifugio nella giungla di mangrovie. Ma la giungla sembra essere stata un nemico peggiore delle truppe inglesi. Tra le mangrovie giunsero circa 500 soldati giapponesi ma si racconta che solo 20 di loro sopravvissero all’attacco dei coccodrilli che abitano la giungla.

Questo avvenimento non sembra essere attestato da molte fonti, dunque non si sa se ritenerlo solo una leggenda. L’isola resta comunque un luogo molto pericoloso, dato che è realmente occupata da un gran numero di coccodrilli. Rientra infatti nel Guinness dei Primati per i pericoli riservati a uomini e animali.

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Fonte: www.pinterest.it

La Death Valley

La Death Valley (Valle della Morte) è una depressione che fa parte del Grande Bacino e si estende fra Sierra Nevada a ovest e Stato del Nevada a est. È attualmente considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo per le stringenti condizioni di sopravvivenza per animali e vegetali a causa delle condizioni climatiche-ambientali. Quest’area fa parte della zona climatica del deserto del Mojave, quindi vi è molto caldo. Da maggio a settembre la temperatura può raggiungere picchi di 54°, il che significa che in estate non vi è la possibilità di muoversi durante il giorno. In generale, è comune tra i turisti visitare la Valle in primavera, quando il deserto fiorisce a seguito delle brevi ma intense piogge.

Vi sono numerosi punti panoramici da cui poter ammirare la Valle, tra cui il  Zabriskie Point e il Dante’s View (così chiamato proprio perché da qui si osserva l’ “inferno”, ovvero la Death Valley). Ai punti panoramici si aggiungono aree in cui osservare fenomeni particolari. Un esempio è la Racetrack Valley Road in cui per via dei venti invernali le pietre si muovono lungo un lago asciutto, lasciando delle scie.

Sebbene le temperature pericolose in alcuni periodi dell’anno, la Death Valley è un luogo che stupisce, in cui è necessario addentrarsi con i giusti accorgimenti.

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Fonte: wall.alphacoders.com

Il villaggio di Ojmjakon

Per parlare ancora di pericoli e di temperature particolari il luogo perfetto è Ojmjakon, un villaggio di 800 abitanti situato nella Siberia orientale. Il nome è molto eloquente: esso deriverebbe da “ejumu”  che nella lingua sacha significa “lago ghiacciato”.

In questa località, così come in altre zone della Siberia, vi sono temperature bassissime: il 6 febbraio 1913 si registrarono -67,7 gradi. Per questo motivo Ojmjakon è stato candidato per l’appellativo di “polo Nord del freddo”, ossia il posto in cui è stata registrata la temperatura più bassa. Ad oggi si contende il titolo con altre due località siberiane: Verchojansk e Tomtor.

Dunque, in questo caso le temperature troppo basse sembrano rendere Ojmjokon non molto ospitale e ai turisti viene sconsigliato di visitarla. Sembra che le uniche persone ad essersi abituate alle sue temperature siano i pochi abitanti del posto.

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Fonte: trebinjelive.info

Gli otto inferni giapponesi

Quando si arriva a Beppu, in Giappone, si osservano subito fumi e vapori sulfurei. La città poggia su sorgenti termali dalle quali fuoriescono 70.000 metri cubi di acqua caldissima ogni giorno (tra i 37 e quasi i cento gradi). La città giapponese è pertanto considerata la seconda fonte più grande di acque termali dopo lo Yellowstone National Park. Tra le circa 2800 sorgenti termali vi sono otto laghetti che si distinguono, concentrati nelle zone di Kannawa e Shibaseki. Vengono chiamati jigoku”, cioè “inferni” di Beppu, per la tradizione giapponese che vuole che l’Inferno si suddivida in otto strati. Tra questi quello più famoso è il Chinoike Jigoku, o Blood Pond Hell. Le sue acque raggiungono temperature elevatissime e inoltre la grande quantità di ossido di ferro conferisce al lago un colore rosso, tanto da sembrare sangue. Alla pericolosità delle temperatura, si aggiunge un aspetto macabro che fa del luogo, per quanto spaventoso, un posto unico.

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Fonte: siviaggia.it

Conclusioni

Ancora una volta si è potuto osservare come la Terra sia sempre pronta a sorprenderci, suscitando timore ma anche moltissimo stupore. Capire anche i pericoli che vi si celano è necessario per comprendere l’estremo rispetto che merita il pianeta e ciò non può mai smettere di essere ribadito. L’amore per la Terra deve nascere dalla consapevolezza del male e del bene che contiene, imparando ad accettare entrambi e cercando la via più giusta per convivere con essi.

 

Giada Gangemi

Per approfondire:

I 15 posti più pericolosi del mondo (nextme.it)

Gli inferni di Beppu – Orizzonti blog 

Il giro del mondo: alla ricerca dei luoghi più pericolosi

 

“Sradichiamo il sistema!”: lottare per l’ambiente è lottare per il nostro futuro

Nella giornata di ieri più di mille persone erano radunate a piazza Duomo fra studenti e studentesse, organizzazioni sociali, partiti, forze sindacali e svariate associazioni ambientaliste per dare un messaggio globale: dobbiamo cambiare rotta, e subito, prima di evitare un disastro planetario senza precedenti.

Il messaggio che è stato lanciato ieri, 24 settembre 2021, al sesto Global Strike for Future, iniziativa che va avanti dal 15 marzo 2019 (giorno della prima manifestazione internazionale che in Italia ha contato un milione di persone in tutte le piazze del paese) grazie al movimento globale Fridays For Future, non solo è chiaro ma rappresenta una nuova prospettiva nel leggere la questione climatica. La lotta per l’ambiente non è solo ecologica, ma coinvolge le istituzioni, la società civile, le disuguaglianze economiche e sociali, la generazione Z, il sistema di istruzione e i consumi. In gioco non c’è solo preservare l’ambiente, ma dare un futuro in cui tutte e tutti possano vivere in maniera dignitosa.

La manifestazione è stata segnata non solo da cartelloni e cori, ma anche da vari interventi delle associazioni partecipanti come Legambiente Messina, CGIL Messina, UDU Messina – Unione degli Universitari, Link Messina – Studenti Indipendenti, Puli-AMO Messina, Liberazione Queer+ Messina, Potere al Popolo Messina e l’Unione Inquilini. Significanti sono state anche le parole degli attivisti e delle attiviste del comitato territoriale di Fridays For Future Messina, che dopo anni sono riusciti a ricreare il movimento qua a Messina e a costruire una manifestazione che torni a far parlare di questo tema.
Dalle multinazionali che praticano “greenwashing” (ovvero usano la questione ambientale come facciata) ai percorsi educativi all’interno scuole e università, dalla questione ambientale nel mondo del lavoro e l’intersezione fra lotta transfemminista e ambiente, gli interventi delle varie organizzazioni hanno dato una prospettiva a trecentosessanta gradi della situazione cui ci troviamo.


Un altro momento intenso della manifestazione è stata la performance “Funerale della Terra”, in cui la Terra, rappresentata da una tomba fatta di cartone nero, viene portata in giro nella piazza a rappresentare la sua morte e rinascita nelle nuove generazioni che lottano per essa. Alla fine della performance, la portavoce di Fidays For Future Messina, Martina Celesti, ha letto una lettera scritta da “l’ultima persona rimasta sulla Terra” in cui si parla di ciò che il pianeta è stato per gli umani e come è stato distrutto da esso.

I moniti della comunità scientifica sono chiari, e abbiamo poco tempo per cambiare il sistema. Per questo abbiamo bisogno di queste manifestazioni, di questi giovani attivisti e attiviste, per dare un segnale chiaro a chi detiene il potere e cercare di fare noi, dal basso, la vera differenza.

La Sardegna brucia: fiamme che hanno corso per 50 chilometri

Un’immagine da una delle zone devastate dell’incendio che sta bruciando gran parte della Sardegna (fonte: ansa.it)

«Uno dei più gravi disastri naturali mai accaduto in Sardegna». Così commenta il governatore della Regione, Christina Solinas, il mega incendio che sta devastando la Sardegna, nello specifico, le zone dell’Oristanese. Nessuna vittima, ma tantissimi gli sfollati, 1500 circa, che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni e molti gli animali che, purtroppo, sono stati presi dalle fiamme.

Solo nelle ultimissime ore molti hanno potuto far ritorno nelle proprie case, ma i danni ambientali sono impressionanti.

Il presidente Solinas, comprendendo sin dalle prime ore la portata dell’emergenza, ha lanciato un primo appello al governo nazionale, perché si cerchi di inviare subito fondi del Pnrr per attuare al più presto un progetto di riforestazione delle zone colpite. In effetti, sono tanti, troppi gli ettari di terra bruciata in maniera devastante, ben 20mila. Gli incendi hanno distrutto boschi, oliveti, campi coltivati, aziende e case, e i Vigili del fuoco sono a lavoro da ormai da più di 60 ore.

 

Gli interventi, il lavoro di migliaia di soccorritori

Sul posto, sono a lavoro da sabato 7.500 persone per prestare soccorso e spegnere le fiamme, e 20 mezzi aerei, 7 canadair e 13 elicotteri. Nelle ore più critiche sono stati dirottati in Sardegna 5 canadair dalla Liguria e dal Lazio, in supporto ai tre stanziali a Olbia e ai 14 elicotteri di Regione, Vigili del fuoco ed esercito, le cui unità è stato difficile dislocare, per le tante zone in fiamme. Intervenuta anche la Croce Rossa con tanti suoi volontari che hanno prestato soccorso alle persone sfollate.

I Vigili del fuoco a lavoro da oltre 60 ore (fonte: ansa.it)

Secondo gli ultimi dati di stamattina, i soccorsi messi in campo dal Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, conta dieci squadre a terra, supportate da 5 canadair, che dalle ore 6:15 di stamane, 26 luglio, sono concentrati a Scano di Montiferro e a Tresnuraghes. Per una maggiore rapidità di risoluzione dell’emergenza, il Dipartimento della Protezione Civile ha attivato un modulo internazionale di cooperazione: due canadair dalla Francia e altri due provenienti dalla Grecia sono già atterrati ad Alghero alle ore 4:30 di stamattina, pronti ad operare sul territorio sardo.

Al momento stanno già operando, in tutto, 57 unità operative a terra, di cui 28 provenienti dai Comandi di Nuoro, Sassari e Cagliari e 29 del locale Comando di Oristano. A Tresnuraghes tre squadre hanno operato per tutta la notte nel contrasto al fronte del fuoco, e la loro attività ha permesso di salvaguardare due attività ricettive. A Scano di Montiferro il lavoro notturno delle squadre ha permesso di mettere sotto controllo il fronte del fuoco, che nella giornata di ieri aveva causato l’evacuazione di oltre 400 persone.

 

Il percorso delle fiamme lungo cinquanta chilometri

Tutto è partito, tra venerdì sera e sabato mattina, in una zona boscosa del massiccio del Montiferru. Ad alimentare le fiamme così tanto sono colpevoli vento e alte temperature, che hanno spinto queste fino ai centri abitati di Santu Lussurgiu e di Cuglieri, e, successivamente, a quello Sennariolo.

(fonte: ansa.it)

A dividere quest’ultimi due comuni pochi chilometri di distanza, quindi, inizialmente, gli abitanti di Cuglieri si erano rifugiati a Sennariolo per allontanarsi dai roghi, ma poche ore dopo avevano dovuto spostarsi di nuovo. L’incendio aveva infine raggiunto anche Porto Alabe, località turistica di mare dove circa 200 persone hanno dovuto lasciare le proprie case. Le fiamme hanno distrutto anche l’olivastro millenario “Sa Tanca Manna”, simbolo della città di Cuglieri.

Devastato il Montiferru, le fiamme si sono spostate dall’Oristanese all’Ogliastra, allungandosi per quasi 50 chilometri, soprattutto nella zona del Marghine e Planargia è arrivata la pioggia che potrebbe essere un decisivo aiuto ai soccorsi.

Purtroppo, nell’agosto del 1994, la zona del Montiferru era stata già colpita da un gravissimo incendio, risultato poi doloso, che aveva in gran parte distrutto i boschi di Seneghe, Bonarcado, Cuglieri, Santu Lussurgiu e Scano Montiferro.

Tra sabato e domenica, sono scoppiati altri incendi, ma di minore intensità, in altre zone della Sardegna, sia a Nord che a Sud, alimentati sempre dal forte vento degli ultimi giorni. In particolare a Ittiri, in provincia di Sassari, il fuoco ha distrutto oltre 150 ettari di campagna, ma non ha riguardato il centro abitato.

 

Le indagini sull’origine della catastrofe e gli ultimi aggiornamenti

(fonte: ansa.it)

Nelle prossime ore, si dovrebbe ufficialmente stabilire quale sia stata l’origine della catastrofe, soprattutto capire se di natura dolosa. Difficilissimo per chi si sta occupando dei sopralluoghi per l’ispezione avere una risposta in tempi più brevi.

Attualmente, l’ipotesi ritenuta più probabile dalla Regione è quella del ritrovare la causa di tutto in un incidente a Bonarcado: il 23 luglio un’automobile ha preso fuoco a causa di un incidente stradale e, poi il forte vento prima, Scirocco e successivamente Libeccio, avrebbe spinto le fiamme fino al vicino bosco. Questo primo rogo è stato spento, ma poco dopo, nella stessa zona, le fiamme sarebbero divampate di nuovo, sempre a causa delle correnti.

Oggi, 26 luglio, la Protezione Civile regionale della Sardegna ha pubblicato un nuovo bollettino di previsione, sul pericolo incendio. Le stime di pericolosità riguardano tutta la zona dell’Oristanese, il Montiferru, la Planargia. Parte del Nuorese, dove sono ancora attive le fiamme, è classificata come alta ed è scattato il “preallarme”. Codice arancione, ma con attenzione rinforzata, dalla Gallura al Campidano di Cagliari sino al Sulcis.

Intanto, si fanno i conti anche con il timore che l’origine dell’incendio possa essere davvero dolosa. Spesso, in estate, soprattutto le regioni del Sud sono vessate da incendi  in questo caso, sarebbe davvero dura metabolizzare l’idea che qualche sardo possa esser stato così incosciente da appiccare un incendio, poi sfuggito di mano, o che diverse persone possano aver sin dall’inizio pensato di appiccare più roghi contemporaneamente.

 

Rita Bonaccurso

L’impronta di un’epoca dentro i ghiacciai: Groenlandia e Global Warming

Desidereremmo che alcune circostanze restassero confinate. Invece si muovono facendosi strada. Quando sentiamo parlare di riscaldamento globale forse ancora fatichiamo a comprendere cosa significhi e forse ci sembra fin troppo incredibile come stia così tanto condizionando la vita sulla Terra.

La Terra: un corpo in continuo mutamento

Studi scientifici hanno rilevato diverse variazioni della temperatura nella storia della Terra. Il pianeta ha attraversato ere glaciali, ossia periodi molto freddi, alternate a ere interglaciali, periodi più caldi. E in questo alternarsi si sono rilevate varie cause, dal cambiamento di ellitticità dell’orbita terrestre all’inclinazione dell’asse di rotazione e ai suoi moti di precessione. Cause naturali a cui si sono aggiunte le perturbazioni legate alle eruzioni vulcaniche, e dunque alla dispersione di anidride carbonica e di polveri varie.

Attorno al 950 d. C il cosiddetto Optimum Climatique Médiéval (Periodo Caldo Medievale) investì la regione del Nord Atlantico, durando circa cinquecento anni. Tra il 1020 e il 1190 soltanto una volta l’Islanda si ritrovò circondata dai ghiacciai. È in quest’arco temporale che venne fondata la prima colonia groenlandese.

Dalla metà del XIV secolo alla metà del XIX secolo l’intero pianeta ha invece conosciuto la Piccola Era Glaciale (PEG), caratterizzata da un abbassamento critico della temperatura globale. I ghiacci polari raggiunsero il Nord della Scozia e a Londra il Tamigi rimase congelato per 14 settimane consecutive. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del XVII secolo numerose furono le nevicate in Italia e Torino si ricoprì di neve per 144 volte.

Oggi, dall’inizio del XX secolo, parliamo di riscaldamento globale.

Riscaldamento globale: cause e conseguenze del global warming
Fonte: ilnavigatorecurioso.it

Gli esperimenti e le scoperte di Miller

Lo scienziato Gifford Miller e il suo gruppo hanno ricondotto la PEG a una forte attività vulcanica tropicale tra il 1275 e il 1300 e replicatasi nel 1500. A questa seguì un intenso freddo nell’area settentrionale del globo, accompagnato dall’espansione del ghiaccio e dall’indebolimento delle correnti atlantiche.

Quest’ultimo problema è molto attuale. Uno studio pubblicato su Nature Geoscience a Marzo 2021 dimostra come una di queste correnti, la corrente del Golfo,  si stia affievolendo. Questa fa parte dell’enorme ingranaggio che prende il nome di AMOC (Atlantic meridional overturning circulation) e che sposta l’acqua calda dai Tropici verso Nord. Durante il processo essa evapora, si raffredda e guadagna una maggiore quantità di sale. Tuttavia, l’acqua dolce dei ghiacciai che si sciolgono ha indebolito del 15% la corrente.

In definitiva, ciò viene ricollegato al crescere della temperatura terrestre: i ghiacci si sciolgono, l’AMOC viene disturbato, il gelo si abbatte su alcune zone.

A lungo andare, questo porterà a un congelamento dell’Europa, perché la corrente non mitigherebbe più il clima, e a un aumento del livello dell’acqua lungo la East Coast americana.

Una fondamentale corrente oceanica dell'Atlantico si sta indebolendo - Focus.it
Fonte: focus.it

È sempre Miller con i colleghi a visitare l’Artico ogni estate da circa quarant’anni. Presso le isole Baffin in Groenlandia, gli scienziati hanno raccolto dai bordi di calotte in scioglimento alcuni campioni vegetali. La datazione al radiocarbonio ha permesso di determinare che le piante emerse sono state sepolte per un minimo di 40.000 anni fino a un massimo di 120.000 anni. L’entità del riscaldamento è tale da aver cambiato completamente la loro condizione. Nelle parole del ricercatore dell’INSTAAR (Institute of Arctic and Alpine Research) Simon Pendleton:

“everything is melting everywhere”.

La Groenlandia, simbolo dei cambiamenti climatici: dall'antica terra verde all'attuale scioglimento dei ghiacciai
Fonte: meteoweb.eu

Ma cosa succede in Groenlandia?

È la situazione groenlandese ad aver attirato molta attenzione. L’isola è sempre più vicina a uno scioglimento definitivo dei ghiacciai. È su questo punto che l’Istituto Potsdam per il clima e l’Università Artica della Norvegia si concentrano. Gli studiosi ritengono che, anche qualora il riscaldamento globale dovesse conoscere una fase stagnante, i ghiacciai della Groenlandia continuerebbero a disgregarsi. In mezzo ai timori, gli studiosi non smettono di fare ricerca. Concentrarsi sulla Groenlandia significa focalizzarsi sull’indicatore principale del riscaldamento a livello globale.

Maps of maximum annual surface melt on the Greenland Ice Sheet derived from the MOD29 MODIS monthly ice surface temperature (IST) product of Greenland (2000-2016). 
Rappresentazione grafica dello scioglimento dei ghiacciai nel territorio groenlandese dal 2000 al 2016. Fonte: A Multilayer Surface Temperature, Surface Albedo, and Water Vapor Product of Greenland from MODIS

I blocchi di ghiaccio della Groenlandia si sciolgono ogni dodici mesi rilasciando tonnellate di acqua negli oceani. Ogni blocco corrisponde circa a un chilometro quadrato. Da ciò l’innalzamento del livello del mare, da ciò l’emergere di coste mai viste, da ciò la modifica dei modelli climatici globali.

Greenland Ice Sheet Today | Surface Melt Data presented by NSIDC
Percentuale di scioglimento dei ghiacciai nell’anno corrente. Si può ben notare un aumento del fenomeno rispetto al periodo 1981-2010. Fonte: http://nsidc.org/greenland-today/

Dall’inizio del 2018 gli esperti effettuano analisi in zone lontane dall’area groenlandese. In particolare hanno realizzato opere di carotaggio della crosta terrestre nel mare di Ross, in Antartide. Si tratta di operazioni simili a quelle di Miller nell’Artico. Mediante queste si è in grado di studiare le fluttuazioni di temperatura, e quindi quei problemi prima citati.

Tutto ciò ci rende ancor più consapevoli delle reali condizioni della Terra. In questi giorni a Banak, nel nord della Norvegia, si sono raggiunti i 34,4 °C, e temperature abbastanza elevate si sono registrate anche a Kevo, in Finlandia, e in Lapponia. L’Islanda sta attraversando una fase di eccessivo caldo anomalo. Il Canada è colpito da vasti incendi e molti sono stati i decessi ricondotti all’ondata di calore. È un’allerta fin troppo importante, e verso cui convergono deforestazioni, allevamenti intensivi, incremento di gas serra nell’atmosfera.

Ondata di caldo in Canada: I fulmini provocano incendi da record nella Columbia Britannica - Avanti live
Fonte: avantilive.it

Non solo scioglimento dei ghiacciai

Al momento in Groenlandia vi è anche un altro rischio per l’ambiente e per l’uomo. Jon Hawkings della Florida State University e i suoi colleghi hanno analizzato campioni di acqua dei fiumi della zona sud-occidentale, scoprendo come essa contenga una concentrazione di mercurio dieci volte superiore a quella di un normale fiume. I ghiacciai scorrono dalla terraferma verso il mare, intrappolando le particelle di mercurio contenute nelle rocce sottostanti, che vengono infine rilasciate in acqua. La quantità di mercurio raggiunge le 42 mila tonnellate all’anno.

Scioglimento Ghiacciai Groenlandia: alto inquinamento di Mercurio
Fonte: 3box.it

Allo scioglimento dei ghiacciai si accompagna quindi un fattore inquinante non meno rilevante. Ancora una volta è a rischio la natura con i suoi abitanti.

L’immagine che si presenta fa paura. È però proprio questa immagine a far riflettere su una situazione che non è distante da noi. Ciò che accade in Groenlandia, ciò che accade al polo, ciò che sembra a noi estraneo, bussa anche alle nostre porte. La natura non è invincibile, così come noi che l’abitiamo. Proprio per questo ricordiamo di batterci per lei. Ricordiamo di essere noi a non poter fare a meno di lei.

Giada Gangemi 

Gli USA rientrano nell’Accordo di Parigi. Cos’è e perchè pochi Paesi lo stanno rispettando

(fonte: teleambiente.it)

Da venerdì gli Stati Uniti fanno nuovamente parte dell’Accordo di Parigi, un trattato internazionale nato nel 2015 a salvaguardia dell’ambiente e con l’intento di contrastare i cambiamenti climatici.

“Un appello per la sopravvivenza giunge dal nostro stesso pianeta, un appello che non potrebbe essere più disperato e più chiaro di adesso.”

Ha affermato l’attuale presidente durante il proprio discorso d’insediamento.

La notizia, anche se ufficializzata solo alcuni giorni fa, è stata annunciata da tempo in quanto rappresenta uno degli obiettivi primari del presidente neo-eletto Joe Biden. Anche tale provvedimento, tra gli altri, appartiene ad una linea di discontinuità rispetto all’amministrazione Trump, che dall’Accordo di Parigi aveva deciso di ritirarsi nel 2017.

Accordo di Parigi, ecco cosa prevede

Firmato da 195 paesi in tutto il mondo e sottoscritto da 190 (compresa l’UE), l’Accordo di Parigi nasce nel 2015 per limitare le emissioni di gas serra e l’aumento della temperatura terrestre entro i +1.5 gradi. A ciò si aggiunga anche l’obiettivo, per ciascun membro, di versare un contributo in denaro all’anno per aiutare i paesi più poveri a sviluppare fonti di energia meno inquinanti.

Limitare l’aumento di temperatura rappresenta un primo passo verso la neutralità climatica, ossia verso un impatto climatico di ciascun paese pari a zero. Particolare attenzione è riservata alle emissioni di carbonio: al momento, USA e Cina sono i due stati che detengono i record di emissioni e per tale ragione sarebbe fondamentale la loro attiva partecipazione all’Accordo.

L’obiettivo più vicino è quello di arrivare a produrre, nel 2030, 56 miliardi di tonnellate di anidride carbonica anziché gli attuali 69 miliardi. Una meta che, si nota bene, può essere raggiunta solo tramite il rispetto degli accordi internazionali.

(fonte: limesonline.com)

L’abbandono degli USA e le sue conseguenze

Eppure, nel 2017, il presidente Donald Trump ha deciso di abbandonare l’Accordo. Non essendo vincolante, ciò non crea particolari problemi, però si tratta di un risultato raggiungibile circa in 4 anni. Ecco perché l’uscita dal trattato è stata ufficializzata solo a novembre 2020, al termine dell’amministrazione precedente.

Le reazioni alla notizia sono state negative, poichè furono proprio gli USA, durante l’amministrazione Obama, a rendere possibile la realizzazione dell’Accordo. Dalla decisione dell’ex presidente Trump, invece, è derivata la possibilità di gestire le proprie emissioni indipendentemente dal trattato.

L’effetto più importante era quello di dare più spazio alle emissioni statunitensi, con un conseguente ribasso del prezzo del proprio carbonio ed un rialzo di quello degli altri paesi. Il simbolico rientro nel trattato si accompagna adesso alla pretesa degli altri membri di un’azione seria e mirata da parte degli USA, che miri a riparare ai tanti anni d’inerzia.

Quali paesi rispettano davvero l’Accordo?

Sebbene il caso degli Stati Uniti abbia fatto, ai tempi, scalpore, bisogna ricordare tuttavia che molti dei paesi aderenti al trattato non lo stanno rispettando. Recente è la constatazione che la Cina, paese col primato di emissioni, non rispetta il trattato invocando la clausola – per molti inappropriata al suo caso – del paese in via di sviluppo. Quest’ultima contempla delle imposizioni più lievi rispetto agli altri paesi. Nel 2019, la Cina ha infatti emesso circa il 29,3% di tonnellate di CO2 al mondo.

Un caso altrettanto recente è quello della Francia, multata per il simbolico valore di 1 euro dopo aver perso un processo intentato dalle ONG ambientaliste contro lo stesso Stato francese. Secondo l’accusa, il progetto di legge sul clima non permetterebbe di raggiungere l’obiettivo di una riduzione di almeno il 40% delle emissioni nel 2030 in rapporto al 1990.

(fonte: valuechina.net)

Il movimento ambientalista Fridays For Future ha denunciato che, di tutti i paesi appartenenti al G20 (Italia compresa), nessuno stia effettivamente rispettando l’Accordo di Parigi. Un rapporto delle Nazioni Unite del 2018 ha evidenziato i problemi della linea seguita dal G20, la quale non permetterà di rispettare le promesse del trattato previste entro il 2030. Dai tempi di Parigi, le emissioni dei paesi del G20 non avevano fatto altro che rimanere in stallo per poi aumentare nel 2017.

Bene, invece, Marocco e Gambia che mirano rispettivamente a convertire il 52% della produzione di energia entro il 2030 ed a ridurre le emissioni del 55% entro il 2025.

Valeria Bonaccorso

Il buco dell’Ozono 2020 si è chiuso, è stato il più lungo dal 1980

Dopo 40 anni gli scienziati della World Meteorological organization hanno dichiarato la chiusura del buco dell’ozono. L’organizzazione intergovernativa, di carattere tecnico e che si occupa di meteorologia, comprendente i 191 Stati membri, non ha mancato di definirlo il più duraturo di sempre.

Le variazioni di dimensione

Dopo la crescita inaspettata a partire dallo scorso agosto 2020, e che ha avuto il suo momento di maggiore estensione il 20 settembre 2020 (24.8 km quadrati) interessando la maggior parte del continente antartico, il buco alla fine di dicembre si è richiuso. Per gli scienziati il buco nell’ozono 2020 si guadagna il primato per dimensioni e durata dall’inizio dei monitoraggi, a partire dal 1985.

Bisogna precisare che la chiusura del buco si presenta a intervalli regolari. Solitamente quest’ultimo tende a chiudersi alla fine della stagione primaverile, che nell’emisfero Sud dura in media da agosto ad ottobre. Mentre nel 2020 la durata è andata oltre raggiungendo appunto il record nella permanenza fino a dicembre.

Le cause che portano alla nascita questo evento riguardano sia eventi atmosferici naturali che altri fenomeni dovuti all’uomo, come l’inquinamento. A tal proposito Oksana Tarasova, capo della divisione di ricerca sull’ambiente atmosferico dell’Omm precisa:

«Proprio le ultime due annate dimostrano l’eccezionale variabilità del fenomeno aiutandoci a capire le cause che lo determinano».

Fonte: corriere della sera- chiusura buco nell'ozono
Chiusura buco nell’ozono – fonte: Corriere della Sera

 

Tutela dello strato di ozono

Fonte: inNaturale-Il buco nell'ozono chiuso entro il 2060
Il buco nell’ozono chiuso entro il 2050 – fonte: inNaturale

La distruzione dell’ozono è direttamente collegata alla temperatura della stratosfera che è lo strato atmosferico tra i 10 e i 50 chilometri di altezza. In questo strato le nubi stratosferiche, di vitale importanza nella distribuzione dell’ozono, non riescono a formarsi a temperature che superano i -78 gradi. Per tutelare lo strato di ozono dai nemici naturali, quali l’azoto e il cloro, nel 1987 è stato siglato il Protocollo di Montreal. Il Protoccolo è volto alla riduzione dell’utilizzo di quei gas che, secondo la scienza, sono responsabili della distruzione dell’ozono. L’immissione di cloro nella stratosfera avviene tramite i cosiddetti clorofluorocarburi (CFC composti da cloro, fluoro e carbonio), considerati i responsabili dell’assottigliamento della fascia di ozono. Fascia che contribuisce a proteggere il nostro pianeta dai raggi solare UV. I CFC vengono scomposti solamente dalla radiazione solare. I ricercatori hanno osservato come in seguito alla stipulazione del protocollo di Montreal il buco sia sceso ai minimi storici.

Il vortice polare

Alla chiusura del buco nell’ozono ha contribuito un vortice polare che ha causato una diminuzione progressiva delle temperature alle altitudini in cui si trova lo strato di ozono. Bisogna precisare come, rispetto gli altri anni, nel 2020 il vortice polare freddo è rimasto più stabile della norma mantenendo le temperature nello strato di ozono sopra l’Antartide più basse. Il vortice ha così impedito l’arrivo di aria più calda e il conseguente ritardo nella chiusura del buco. Sono 100 le sostanze individuate dal Protocollo di Montreal, che negli anni hanno avuto un effetto benefico sulla ripresa dello strato di ozono che protegge la Terra. Anche se la situazione è in via di miglioramento i tempi restano lunghi: la WMO prevede un ritorno ai valori considerati positivi (quelli precedenti al 1980) solo per il 2050.

Eleonora Genovese

 

 

 

 

 

Turchia in fiamme: la lettera degli studenti che denuncia gli attacchi terroristici

(fonte: hurriyetdailynews.com)

 

Più di 400 ettari di verde sono stati devastati negli incendi scoppiati tra il 9 e il 10 ottobre nella provincia di Hatay (Turchia): nel silenzio delle autorità, la gente è convinta che si tratti di attacchi terroristici.

Già nel mese di settembre la medesima regione era stata colpita da un incendio che aveva raso al suolo 150 ettari di terreno nelle zone di confine con la Siria, tra le città di Antiochia e Samandağ.

La lettera dei residenti di Hatay

Giorno 10 ottobre, i cittadini stremati hanno deciso di lanciare un appello tramite una lettera con cui Eren Buğra Biler, portavoce della popolazione di Hatay, ci ha informato delle condizioni in cui riversa la sua regione.

Innanzitutto, questo incendio non è un disastro naturale o una qualche disgrazia divina. Tutto sta avvenendo di proposito.

Così recita l’articolo, subito dopo una premessa che vuole scongiurare alcun tipo di propaganda politica di parte.

“Il primo incendio è scoppiato ad İssume e tutti credevano che fosse dovuto ad un guasto del trasformatore elettrico, poi si è espanso fino ad una foresta ove ha distrutto più di 300 ettari di terreno. Proprio quando il fuoco è stato posto sotto controllo e tutti credevano di poter tirare un sospiro di sollievo, un nuovo incendio è scoppiato a 100 metri di distanza causando la distruzione di altri 100 ettari.”

Secondo Biler, sarebbe attribuibile al vento (che quel giorno viaggiava a 75 km/h) la causa dell’espansione delle fiamme, che in poco tempo hanno raggiunto i centri abitati di Nardüzü, Karahüseyinli e Karaağaç.

(I centri abitati interessati dagli incendi, provincia di Hatay – fonte: citypopulation.de)

 

“Sembra tutto abbastanza naturale per un incendio, non è vero? Successivamente un nuovo incendio è divampato a 3 km dal primo, a Çankaya, ma fortunatamente è stato subito domato. Ancora un altro è scoppiato a 2 km dai primi due e, mentre il primo si diffondeva ancora, ne sono divampati l’uno dopo l’altro.

E così, quando otto zone diverse hanno preso fuoco, la gente ha capito che non si trattava affatto di un disastro naturale. Mentre il governo e il consiglio cittadino non davano alcun tipo d’informazione, non c’erano più dubbi che si trattasse di un attacco terroristico.”

I dati e le dichiarazioni delle autorità

Più di trecento persone, cinquanta camion dei pompieri e due elicotteri sono stati impiegati per domare le fiamme e trecento civili sono stati evacuati dai centri residenziali coinvolti nel disastro.

Il sindaco del distretto, İbrahim Gül, ha in seguito dichiarato all’Anadolu Agency (un’agenzia di stampa di proprietà del governo turco) che si sospetta si tratti di incendio doloso. Quattro sono i sospetti fermati.

Il Daily Sabah, quotidiano pro-governo turco, ha dichiarato che ‘Figli del Fuoco’, un gruppo legato al Partito dei Lavoratori del Kurdistan, avrebbe di recente rivendicato gli attacchi.

Il messaggio di speranza

Mentre le autorità locali sono impegnate a ricercare i responsabili del danno, l’autore della lettera invita il maggior numero di persone possibili ad unirsi e non perdere la speranza:

“Migliaia di alberi, centinaia di animali sono andati perduti. Non è il momento di sprecare energie ad odiare questi terroristi, è il momento di supportare moralmente i residenti di Hatay. Dobbiamo unirci, dobbiamo riguadagnare la nostra forza, non possiamo rinunciare, gli uni hanno bisogno delle parole degli altri. Dobbiamo essere un’anima e un corpo per superare questo disastro!”

Il Ministro dell’Agricoltura, Bekir Pakdemirli, ha affermato che nessuno degli ettari bruciati verrà destinato ad utilità diverse dalla precedente. Cinque milioni di alberelli verranno piantati nelle zone interessate dagli incendi ed un evento di piantagione di massa, il ‘Breathe Into Future’, è stato programmato per l’11 novembre 2020.

 

(fonte: twitter.com)

 

Come aiutare?

L’autore della lettera ha lasciato l’indirizzo di due pagine Instagram da cui è possibile trovare nuovi aggiornamenti sulla situazione di Hatay: Iskenderuntube ed Hataytube.

In vista dell’evento dell’11 novembre, è stata lanciata la piattaforma ufficiale del Geleceğe Nefes (Breathe Into Future) a cui è possibile aderire affinché un alberello venga piantato nella zona della mappa che più si desidera. Al momento, la partecipazione nella regione di Hatay è del 90%, con più di 1.400.000 alberelli piantati.

Si tratta di un’iniziativa accessibile a tutti che mira a piantare circa 83 milioni di alberi in tutta la Turchia.

 

Valeria Bonaccorso