Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino: top o flop?

“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” (2021) non sarà al pari di film e romanzo, ma non così mediocre come tutti affermano – Voto UVM: 3/5

Dopo quaranta anni ritorna in scena Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino nella veste di una serie tv disponibile su Amazon Prime Video e Sky Q.

Il film e il libro hanno sconvolto varie generazioni, sono opere entrate a far della storia non solo del cinema, ma anche della società, quindi di tutti noi. Difatti raccontano la vera storia della protagonista Christiane F e del suo periodo buio  nella Berlino degli anni 70, tra droga, discoteche e primi amori col sottofondo musicale della voce indimenticabile di David Bowie.

La serie tv è approdata nella piattaforma streaming il 7 Maggio 2021 ed è il secondo adattamento del romanzo, uscito a puntate nel 1979 sulla rivista tedesca Stern. Questa nuova versione della storia di Christiane F. ha fatto subito parlare di sé, ma non è stata accolta in modo positivo né dalla critica e né dal pubblico. Per quale motivo? Cosa non ha funzionato? Ma soprattutto è davvero così mediocre questa produzione?

La protagonista Christiane F (Jana McKinnon) – IFonte: today.it

Noi, ragazzi dello zoo di Berlino (2021): tre ragioni per guardarla

Si imparava in maniera del tutto automatica che tutto quello che è permesso è terribilmente insulso e che tutto quello che è vietato è molto divertente.

Grande attesa e grandi spersanze si prospettavano, ma la serie non ha avuto la critica sperata: difatti, dopo meno di 24 ore, gli haters più accaniti, come fossero Zorro in prima linea col loro smartphone, si sono riversati sui social e hanno detto la loro: c’è chi ha elogiato la serie, chi l’ha definita una produzione da quattro soldi, c’era anche chi si era svegliato con la luna storta ed era spinto a demolire accompagnato più da un gusto personale che da reale senso critico. O forse, ancor meglio, la maggior  parte degli utenti ha seguito la massa dei pareri negativi.

Ma ora fermiamoci un attimo e immaginiamo: se la serie avesse avuto recensioni positive, gli utenti social l’avrebbero comunque criticata? Io credo di no. Ma voglio dire la mia: Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (2021) a pieno neanche me, ma, analizzandola nei minimi dettagli, è un’opera che ha il suo perché . Per ben tre ragioni:

1) Si presenta allo spettatore in modo onirico, narra una realtà che non tutti noi possiamo capire se non la viviamo in prima persona o come testimoni diretti.  Come i suoi due “antenati” (film e romanzo), mostra alle nuove generazioni a cosa possa portare la droga e come pian piano possa distruggere non solo il proprio corpo ma anche l’anima.

2) Non c’è solo la storia di Christiane a 360 gradi, ma anche quella degli altri ragazzi. Nel film vediamo nello specifico solo il racconto della protagonista, mentre la serie mostra la storia dei ragazzi dello zoo, dimenticati dai propri genitori, abbondonati per ore e ore in una metropoli come Berlino.

3) C’è un ritorno al passato degli anni ’70, tra rock e mode del momento, niente cellulari e social, ma solo un mondo fatto di maggiore realismo e meno immagini.

I sei “ragazzi dello zoo di Berlino” – Fonte: today.it

Promossa o bocciata?

E’ vero, la serie non presenta quel crudismo dei suoi “predecessori”: non notiamo la sgradevolezza di quei ragazzi distrutti o il disgusto che si riversava nello zoo, ma ci troviamo di fronte a un racconto che si è più adattato alle generazioni attuali.

Forse proprio per questo la serie non rimarrà nella storia: perché è andata a perdere quel senso di empatia che manca alla nostra società attuale. Che lo si voglia o no, ricordiamoci però che mette in scena le vite di quelle persone abbondanate o cacciate di casa, persone che non sanno cosa fare, persone sole, che si rifugiano in un mondo psichedelico perché troppo spaventati da un mondo che non sentono loro, mentre davanti ai loro occhi passano famiglie felici che rientrano nella loro case calde.

Insomma Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino non sarà al passo con i propri “genitori”, ma è comunque una serie che merita di essere guardata e capita fino in fondo.

L’amore è come l’eroina: «che mi fa un solo buco?» e ricadi nella dipendenza totale, «che mi fa un solo sguardo?» ed eccoti qui a piangere di nuovo.

                                                                                    Alessia Orsa

 

 

 

“Lavoratori costretti a urinare nelle bottiglie”, Amazon nega ma poi ritratta

Uno scandalo inizialmente smentito, ma poi ammesso. Il colosso dell’e-commerce è stato costretto ad arretrare di fronte a un tweet che lo accusa di offrire ai suoi impiegati politiche poco dignitose sul posto di lavoro. Innumerevoli le testimonianze da parte di utenti ed ex lavoratori di Amazon che confermano quanto sostenuto anche dal democratico Mark Pocan.

La denuncia

La disputa sul social ha avuto inizio proprio da un tweet di quest’ultimo: “Pagare 15 euro l’ora i tuoi dipendenti non fa di te un posto di lavoro all’avanguardia, dal momento che li costringi a urinare nelle bottiglie.

La replica di Amazon non si è fatta attendere: “Se fosse così nessuno lavorerebbe per noi”, ribadendo poi che coloro che lavorano per l’azienda godano di assicurazione sanitaria e condizioni di lavoro ottimali. Ma è davvero così?

Fabbrica Amazon negli Stati Uniti. Fonte: AGI.

La realtà dei fatti è molto più triste di quanto non si immagini. A metterla in luce, non solo dichiarazioni ma anche documenti interni che erano stati esposti ai dirigenti dell’azienda, messi al corrente di questa “pratica” da lungo tempo. Difficile immaginarsi un dietrofront più clamoroso da parte di Amazon, che è stato costretto alle scuse nei confronti di Pocan, aggiungendo, però, che la polemica si era concentrata “erroneamente sui centri di distribuzione, dove invece i dipendenti possono allontanarsi dalle loro postazioni di lavoro in qualsiasi momento”.

Dunque, se da un lato Amazon tiene a fare le dovute precisazioni, dall’altro ammette la poca preoccupazione riguardo i suoi driver, privati di servizi igienici soprattutto durante la pandemia, quando tutto era chiuso. Vorremmo risolvere il problema. Non sappiamo come, ma cercheremo delle soluzioni” ha infine promesso.

La situazione degli Stati Uniti: il caso Alabama

“Sigh” – è il commento di Pocan alla vicenda, che ribadisce – “Non si tratta di me ma dei vostri impiegati, che non trattate con sufficiente rispetto e dignità. Iniziate a riconoscere le condizioni di lavoro inappropriate che avete creato per tutti i vostri dipendenti”.

Parole in linea con le recenti contestazioni avvenute in una piccola cittadina dell’Alabama, Bessemer, dove 6mila dipendenti Amazon stanno lottando per la creazione di una sezione sindacale per la tutela di diritti sul lavoro. Un granello di sabbia che potrebbe tuttavia inceppare un intero meccanismo, forte di un impero che conta 800 fabbriche negli Stati Uniti. La minaccia è stata avvertita dallo stesso Jeff Bezos che, per scongiurarla, ha invitato i suoi manager a monitorare attentamente la situazione.

 

Strike the Giant! è l’organizzazione trasnazionale che ha unito i lavoratori Amazon in Europa e America. Fonte: Into the Black Box

La voce meccanica all’ingresso della toilette che ricorda ai lavoratori che la loro paga ammonta a 15 euro l’ora – circa il doppio della paga media in Alabama – sarà sufficiente? Il sito creato appositamente dal colosso, DoItWithoutDues.com, per diffondere le ragioni anti-protesta, è il segno più evidente di un conflitto che ha dimensioni più ampia di quelle locali. Il Wall Street Journal scrive: “Amazon ha trattato e combattuto con le organizzazioni sindacali in Europa per anni e continua a farlo. Ma si è sempre opposta per principio all’avvio di un rapporto organico con le Union negli Stati Uniti”.

Joe Biden con i lavoratori Amazon: “Fate sentire la vostra voce”

L’immagine di un business che conta 1,3 milioni di lavoratori in tutto il mondo -960mila solo negli Stati Uniti- preoccupato del benessere di ciascuno di loro sembra cadere innanzi alla voce che si leva da chi, in questo meccanismo, non è stato altro finora che soggetto di un algoritmo. Dalla loro parte anche il presidente Joe Biden, il quale ha espresso solidarietà ai lavoratori Amazon. 

Alessia Vaccarella

Serie TV e flashback, come il passato scandisce il nostro presente

A circa un anno dal lockdown, i social cominciano a mostrarci i ricordi con “ accadeva un anno fa…” allegando foto in pigiama, immagini di pane fatto in casa e videochiamate. Sicuramente la pandemia ci ha reso più nostalgici e vedere le cose che si potevano fare è ormai  parte della routine quotidiana. 

Siamo tutti più avidi di ricordi: riusciamo a trovare sollievo nel passato e questo ci strappa un sorriso; ma ci sono serie tv che hanno fatto di eventi del passato – sotto forma di flashback – i loro punti di forza, usandoli come pretesto per raccontare o dare senso alle vicende o come vera e propria struttura narrativa. Da nuove uscite a grandi classici (come l’intramontabile How I Met Your Mother), il throwback non è solo la tendenza del momento.

Lost, 2005-2010

Quando si parla di flashblack, non possiamo non citare la serie cult per eccellenza. Lost probabilmente è stata la prima serie ad essere diventata un fenomeno di massa: le – fin troppo – complesse vicende che seguono lo schianto dell’aereo di linea 815 della compagnia Oceanic Airlines su un’isola sperduta, si snodano di fatto attraverso le storie precedenti dei naufraghi, con un continuo utilizzo dei flahsback. Il fascino dell’utilizzo di questa tecnica in Lost  è dovuto in gran parte al riflesso che le vicende passate sembrano inesorabilmente avere sulla vita presente dei superstiti toccando la sfera del paranormale.

Cast della serie; in primo piano due dei protagonisti principali: Jack Shepard (Matthew Fox) e Kate Austen (Evangeline Lily) 

Ma se l’isola di normale sembra avere ben poco, fino ad essere considerata un’entità “viva e consapevole”, la trama non può che rispecchiare questo leitmotiv: procedendo attraverso eventi sempre più strani e inspiegabili, lo spettatore si rende presto conto di come tutto sembra non avere – come si suol dire – né capo né coda. A “cominciare” dal finale, molto discusso e oscuro alla maggior parte del pubblico, continuando con una serie di sempre meno credibili colpi di scena, Lost sembra rispecchiare proprio il concetto di flashback: del resto, cos’è la memoria se non uno spazio immaginario, quasi teatrale, onirico, sempre più confuso e distante, dove vanno in scena inevitabilmente sempre gli stessi personaggi?

Mr. Robot, 2015-2019

Altra serie che meriterebbe un intero articolo , apparentemente potrebbe sembrare la più off topic. In realtà, nel capolavoro nato da un’idea di Sam Ismail,  il significato più profondo della vita complicata del protagonista, l’hacker Elliot Alderson (un eccezionale Rami Malek), risiede interamente nei suoi ricordi di infanzia. Mai come prima, una serie tv “moderna”, rivoluzionaria e per certi versi anche inquietante, ha nascosto così bene il suo animo più intimo, facendo di fatto ruotare gran parte delle emozionanti vicende intorno a un tema: i rapporti tra Elliot e i suoi familiari (e i pochissimi amici), ma soprattutto con il padre. 

Celebre scena (prestata in passato a molti meme) nella quale Elliot ( Rami Malek) esulta a Times Square. 

Per questo la serie non è soltanto un must per tutti gli appassionati di spionaggio e informatica, rivoluzionari e amanti dei thriller in senso lato: il racconto di come un gruppo di hacker ha provato a cambiare il mondo è una storia fatta di antieroi, ciascuno con la propria fragilità e il proprio vissuto.

Un passato che lascia ferite ben più profonde di una crisi monetaria globale, ma che, allo stesso tempo, rappresenta una fonte inesauribile di energia (anche se non sempre positiva).

Dark, 2017-2020

Passato, presente e futuro in un cerchio. D’altronde è vero: tutto si ricollega e ritorna al proprio posto, ma cosa succede se l’ inizio è la fine stessa?

Beh, in Dark è possibile vederlo: questa serie – che richiede più attenzione di quanto crediate – si fa strada nel tempo e nello spazio, dimostrando l’importanza dei rapporti umani, delle scelte e il peso delle loro conseguenze. Ogni episodio, a se stante, è come una goccia nel mare o come la goccia che fa traboccare il vaso, quindi è essenziale per capire il quadro generale ma anche per poterlo risolvere.

Presente, futuro, passato. Fonte: lascimmiapensa.com

È sicuramente innovativa, ben fatta, ma molto difficile da capire. Bisogna mettersi lì, a creare alberi genealogici e mappe per poter uscire dal labirinto delle vicende, cercando di comprendere come quello che succede è conseguenza e causa stessa di ciò che è accaduto.

Il flashback, qui, diventa reale. Andare indietro nel tempo e poi tornare di nuovo al presente, per poi arrivare verso il futuro… Che sia questo schema narrativo un monito per noi? Magari questo è il modo giusto di affrontare la vita? A voi la risposta.

Lupin, 2021 – in corso

La storia del ladro gentiluomo prende il volto di Assane (interpretato da Omar Sy): un moderno Lupin immerso nella Parigi del 2020, raccontato da Netflix con estrema leggerezza ma – allo stesso tempo – con una narrativa accattivante.

La storia del protagonista la si conoscerà a poco a poco. Saranno proprio i flashback a permetterci di conoscere il piccolo Assane e vedere come costruisce la sua identità di gentiluomo.

Primo bottino del gentiluomo. Fonte: Netflix

La trama sarà diversa da quella di «Lupin, Lupin, l’incorreggibile» perché dietro si nasconderanno problematiche differenti, attuali ma da sempre presenti: il potere del più forte, il sacrificio dei genitori e la discriminazione. Tuttavia, nonostante le critiche, la serie ha ottenuto un grandissimo successo.

Con lo stampo della – più fruttuosa – Casa De Papel, il protagonista raffigura un genio della truffa e tutto quello che ottiene sarà frutto di uno studio attento della situazione, delle conseguenze delle sue azioni; inoltre non perderà mai di vista l’obiettivo: vendicare il padre.

Ancora una volta, ci costringono ad ammirare il “cattivo” e a metterci dalla sua parte, per cui viene da chiedersi chi sbaglia: il carismatico e creativo ladro o coloro che lo inseguono?

L’estate in cui imparammo a volare (Firefly Lane), 2021 – in corso

La nuovissima serie tv proposta dalla grande N è un capolavoro che, purtroppo, non profuma di successo. 

La storia, riadattata dall’omonimo romanzo, è quella di due amiche che la vita ha reso sorelle e il cui legame indissolubile verrà confermato dagli innumerevoli salti temporali: dagli anni ottanta ai duemila, le vedremo da preadolescenti ad adulte crescere insieme e – nonostante provenienti da ambienti diversi – diventare le donne che sognavano.

 Tully e Kate ’80s. Fonte: rollingstone

Ad interpretare le due ragazze saranno due mostri sacri del piccolo schermo quali Katherine Heigl e Sarah Chalke meglio conosciute come Izzie (di Shondiana memoria) e Elliot di Scrubs; la loro bravura trapelerà in ogni episodio dando consistenza alle storie. La vicenda rende vera quella scritta «amiche per sempre» che non mancava sui diari delle nostre compagne di banco: nel loro caso la promessa viene riconfermata ogni anno che passa.

Il throwback, qui ben strutturato, ci dà la consapevolezza di quanto le protagoniste siano state importanti l’una per l’altra e di come le scelte prese a quindici anni abbiamo un riverbero anche a trentacinque.

L’importanza del passato quindi è inevitabile: il piccolo schermo non fa altro che accattivarci impacchettando le nostre necessità sotto forma di comodi episodi da divorare a nostro piacimento.

Che ci piaccia o no, tutto ciò che accade assume senso alla luce di ciò che lo ha preceduto.

Emanuele Chiara e Barbara Granata 

Black Friday sì, Black Friday no: come le aziende stanno rispondendo e le polemiche in corso

Oggi è venerdi, l’ultimo del mese di novembre, ed ormai tutta Italia sa cosa significhi: è arrivato il Black Friday.

Se in precedenza questa iniziativa coinvolgeva pochissime imprese nel territorio italiano, da circa tre anni a questa parte si è allargato il raggio di influenza, diventando uno dei momenti dell’anno più attesi dai consumatori. Ma come ogni usanza che si rispetti, non mancano i contrari a queste pratiche, problematica per ragioni etiche ed economiche, preferendone una nuova versione che tenga conto dell’ambiente e dei più bisognosi.

Origini del Black Friday

Chiariamo fin da subito che questa “tradizione” ha origini in America. Prevede che questo venerdì di sconti pazzi arrivi il giorno seguente al Ringraziamento ( festa osservata negli USA e in Canada in segno di gratitudine verso Dio per quanto ricevuto durante l’anno trascorso), celebrato il quarto giovedì di novembre. Ma a cosa si riferisce il nero? L’origine del termine nero rimane incerta. Secondo alcuni farebbe riferimento ai registri contabili dei negozianti compilati a penna, usando l’inchiostro rosso per i conti negativi, quello nero per i conti in positivo. Riscontrando nel venerdì dopo il Ringraziamento conti che finivano sempre in nero ( in attivo). Per altri, il colore nero sarebbe derivato dal traffico stradale in occasione delle grandi offerte, verificatosi per la prima volta a Philadelphia nel 1961  il giorno dopo del Ringraziamento.

Il caso della Patagonia

fonte: envi.info-Black friday sostenibile: il caso Patagonia -
fonte: envi.info-Black friday sostenibile: il caso Patagonia –

Le prime campagne contro il Black Friday si vedono nel 2011, nel New York Times , quando fu pubblicata una pubblicità che conteneva la foto di una giacca di pile con una scritta: «Don’t buy this jacket», cioè “Non comprate questa giacca”. La pubblicità era di Patagonia, il marchio di abbigliamento sportivo, e sotto la foto elencava alcuni degli effetti negativi che la produzione di abbigliamento ha sull’ambiente, apparentemente contro gli interessi della stessa Patagonia. La Patagonia ha fatto da esempio per moltissime catene commerciali, che nel corso degli anni hanno dato una nuova vita al Black Friday, trasformandolo come un momento per sensibilizzare su temi importanti come quello ecologico e promuovere iniziative di beneficenza.

Una nuova veste del Black Friday

Molte aziende hanno preso le distanze dal Black Friday rinunciando agli sconti e intraprendendo campagne comunicative e di marketing del tutto innovative. Vediamo alcuni esempi.

Miir, un marchio americano di borracce ha deciso di donare l’intero ricavato del Venerdì nero a progetti di sfondo sociale, così come Davines, marchio di prodotti per la cura del corpo, donerà i guadagni delle vendite online a un’associazione per la protezione delle api.

Freitag, marchio svizzero produttore di borse e zaini con materiali di scarto, ha avviato una iniziativa molto particolare per il 27 novembre, con la creazione della piattaforma SWAP, che prevede di mettere in contatto persone stufe del loro zaino dando la possibilità di scambiarlo con altri. Spiega Freitag: «il concetto di “community” è preferibile a quello di “consumo” e la frenesia dello scambio è più sostenibile della mania dello shopping»

Anche Ikea si è lasciata andare a nuove proposte. Se fino all’anno scorso per il Black Friday era solita partecipare con promozioni, quest’anno invece invita i clienti a portare nei negozi della catena, i propri mobili ikea usati in cambio di un buono regalo da spendere entro due anni.5 Reasons to not Participate in Black Friday This Year and Beyond - Fashion Revolution : Fashion Revolution

Anche l’iniziativa di Fashion Revolution, ha promosso una campagna che inviti a non fare acquisti in questi giorni, suggerendo azioni di responsabilità sociale e ambientale da parte delle aziende.

Il caso Amazon

fonte: La stampa -Dalla Francia all'Inghilterra mobilitazioni contro Amazon -
fonte: La stampa -Dalla Francia all’Inghilterra mobilitazioni contro Amazon –

Amazon negli ultimi giorni è stato al centro di contestazioni. In un periodo particolare come quello che stiamo vivendo oggi a causa del Covid-19, la Francia ha deciso di rinviare di una settimana il Black Friday, per attendere l’apertura dei negozi, evitando che solamente i colossi online possano trarne vantaggio dai ricavi di  questi sconti pazzi, più di quanto già non lo facciano. In Francia si sono moltiplicate le iniziative per contrastare il colosso del commercio online,  a causa del timore per le conseguenze fiscali, occupazionali ed ambientali osservabili. L’appello di queste petizioni online si rivolge a tutti i cittadini invitandoli a comprare nei negozi locali, aiutando piccole e medie imprese. La lista delle persone che hanno aderito all’iniziativa è molto lunga con esponenti del mondo politico come Matthieu Orphelin ( ex membro del partito di Macron), ma anche della cultura. La replica da parte di Amazon non è tardata ad arrivare sostenendo di aver aiutato il mondo dell’occupazione, creando oltre 9 mila posti di lavoro in Francia. Al contrario nel documento si afferma che per ogni posto di lavoro creato da Amazon ne scompaiono almeno 2,6. A questo si aggiunge la questione fiscale riguardante tutti i paesi dove opera il colosso, il quale riesce riesce a spostare gran parte dei profitti nei paesi con tasse molto basse. Mentre i costi vengono diretti nei paesi dove si possono ottenere maggiori agevolazioni fiscali.

Anche l’Antitrust Ue si è espresso nei confronti di Amazon. Secondo Bruxelles quest’ultimo avrebbe abusato della sua posizione dominante sia in Germania che in Francia. Avrebbe utilizzato i tantissimi dati sugli utenti di cui dispone per avvantaggiarsi sui rivenditori più piccoli. Come annunciato  in conferenza stampa la commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager. 

Eleonora Genovese

Borat 2 e la parodia all’ennesima potenza

Borat 2 non è un film per tutti. Dietro l’apparenza da film demenziale si nasconde una storia che ci impone di scegliere quando ridere e quando invece fermarsi a riflettere. – Voto UVM: 4/5

Chi potrebbe essere così pazzo da girare un film in segreto durante una delle più grandi pandemie di tutti i tempi? Sacha Baron Cohen, ovviamente! Borat – Seguito di film cinema (per gli amici Borat 2) è approdato il 23 ottobre su Amazon Prime Video, giusto in tempo per le elezioni americane, e non ha fatto rimpiangere nulla della prima avventura del giornalista kazako.

Borat viene riconosciuto appena arrivato in America – Fonte: justnerd.it

La trama

Il film inizia con un rapido riepilogo delle pene che Borat Sagdiyev ha dovuto patire negli ultimi 14 anni dopo il disonore portato al suo paese a causa della sua prima pellicola. Per dargli un’altra possibilità, il presidente del Kazakistan affida al giornalista una missione: portare in dono al vicepresidente americano Michael Pence la più grande star del Kazakistan, Johnny la scimmia, al fine di ingraziarsi il presidente (Mc)Donald Trump.

Una volta in America, a Borat viene recapitata la gabbia che avrebbe dovuto contenere la scimmia. Con sua sorpresa però troverà la figlia Tutar insieme a un defunto Johnny. Ciononostante, il giornalista non si perde d’animo e decide che sarà proprio la figlia il regalo per il vicepresidente; ma prima dovrà renderla appetibile per un uomo americano.

Borat e la figlia Tutar – Fonte: leganerd.com

Un film unico…

Cosa rende la pellicola così unica nel suo genere? Sicuramente il fatto che, ad eccezione per i pochissimi attori protagonisti, tutto viene girato all’insaputa delle persone che – inevitabilmente – finiscono a far parte della storia. Il risultato di questo espediente è riuscire a mostrare la quotidianità degli americani nella sua sfaccettatura più intima, quella che magari non vediamo ai TG o che viene derisa sui social. Basti pensare al commerciante che − con naturalezza – consiglia a Borat il quantitativo di propano necessario per uccidere degli zingari o la pasticciera che non fa una piega alla sua richiesta di scrivere una frase antisemita sulla torta.

Cohen è bravissimo nel mostrare questa realtà a tratti anche brutale, rappresentandola in sequenze a loro volta brutali. Questa tattica non è mai fine a sé stessa, ma è mirata a far riflettere lo spettatore riguardo la direzione che la nostra società sta prendendo e quello che possiamo fare per migliorarla.

La parodia diventa dunque un’arma da usare non solo per suscitare ilarità, ma anche per sensibilizzare gli spettatori verso una giusta causa comune.

 

Borat travestito da Trump – Fonte: esquire.com

…e pericoloso

Il coraggio di Sacha Baron Cohen non si ferma certo all’aver girato un film durante una pandemia. Durante le riprese, infatti, l’attore si è trovato a dover affrontare diverse situazioni spiacevoli o da cui qualsiasi persona sana di mente si sarebbe tenuta alla larga. Per citarne qualcuna: è stato allontanato con la forza da un comizio del vicepresidente Pence ed è stato assalito dai partecipanti a una manifestazione di estrema destra (da cui è riuscito a scappare quasi per miracolo). Per non parlare poi della valanga di querele che già si porta dietro dal primo film e che non si sono risparmiate neanche in questo secondo capitolo.

Insomma, ogni volta che Borat va in missione farà sicuramente parlare di sé e arrabbiare qualcuno.

Borat alla manifestazione di estrema destra – Fonte: wumagazine.com

Perché guardare Borat 2?

Borat 2 non è un film per tutti. Dietro l’apparenza da film demenziale e volgare, si nasconde una storia che ci impone di scegliere quando ridere e quando invece fermarsi a riflettere su cosa è giusto e cosa è sbagliato.

In un mondo in preda ai drammi, ringraziamo Cohen per la boccata d’aria fresca che ha portato nel cinema e nella satira.

Davide Attardo 

Hunters: la vendetta ai nazisti è servita

Amazon Studios con Hunters si dimostra, ancora una volta, principale competitor di Netlix nel settore dei contenuti originali.

La serie sui cacciatori di nazisti, prodotta da Jordan Peele (sceneggiatore premio Oscar di Get Out) e nata dalla penna dell’esordiente David Weil, ci riporta nell’America degli anni Settanta minacciata da un’ondata di razzismo antisemita.

Fonte: Ciakclub.it

Jonah Heidelbaum (intepretato dal giovanissimo Logan Lerman) è un diciannovenne ebreo che vive con la zia Ruth (Jeannie Berlin) sopravvissuta agli orrori dell’Olocausto e ad una serie di tragedie familiari che l’hanno portata ad essere la sola tutrice del nipote.

Il turning point della serie è indubbiamente l’omicidio della zia che accende il desiderio di vendetta (motore dell’intera storia) di Jonah che sceglie consapevolmente di farsi giustizia da solo.

Il ragazzo scopre che l’omicida è un ex nazista, uno degli incubi della zia nel campo di concentramento.

Jonah viene così a conoscenza di un gruppo clandestino che dà la caccia ai nazisti emigrati negli Stati Uniti dopo le atrocità della guerra.

I Cacciatori sono capitanati dal carismatico Meyer Offerman (Al Pacino), che ha condiviso con Ruth la segnante esperienza dei campi di concentramento.

Fonte: Movietime.it

Sulla scia emotiva della vendetta, Jonah è sempre più attratto da Meyer, sempre più affascinato dal passato controverso e difficile che viene narrato mediante frequenti flashback, espediente narrativo che funge da collante empatico tra i due protagonisti.

Parallelamente allo snodo delle vicende drammatiche dei due ebrei, la trama nazista si sviluppa nell’ombra della malvagità più subdola: dare vita al Quarto Reich e riportare pericolosamente in auge l’ideologia ariana.

L’indagine federale condotta dall’agente donna afro-americana Millie Morris (incarnata da una convincente Jerrika Hilton) si intreccia inaspettatamente con la dimensione narrativa principale.

Emergono le scomode verità del caso Paperclipp, celate per troppo tempo dal Governo Americano che aveva dato protezione e nuova identità a tantissimi nazisti inseriti in importanti programmi governativo-scientifici della Nasa.

La show targato Amazon prova a dare delle risposte a temi complicati, così come è complesso il rapporto che Jonah instaura col sentimento di vendetta.

La spinta nichilista di Meyer, che mira ad annientare i nazisti per vendicarsi ed espiare al tempo stesso le proprie colpe, è bilanciata dal temperamento di Ruth più riflessivo per quanto concerne le delicate questioni dell’anima e della propria coscienza, che non vanno di certo gestite trasformandosi nel mostro che si combatte.

Sarà questo precario equilibrio a guidare le azioni di Jonah e a forgiarne la tempra combattiva.

Vivere “bene” è la miglior vendetta. Ma volte è altrettanto vero che la vendetta è la miglior vendetta.

Fonte: Skycinema.it

Hunters mostra, fin dalla primissima scena, un clima pop surreale attraverso una fotografia accesa, che colora l’ordinarietà di un inizio che è tutto fuorché normale: il senatore Biff Simpson stermina tutti i presenti, moglie e figli compresi, e ricorda all’ebrea (con un sadismo crudele che solo i nazisti più convinti possono avere) che il Quarto Reich è più vivo che mai e che i suoi componenti sono disposti a tutto per difenderne la causa.

La costruzione di un fantomatico Quarto Reich, la purezza della razza e la loro infiltrazione nelle istituzioni diventano occasione narrativa per esplicitare stereotipi, che più che a minacce somigliano a riferimenti fumettistici.

L’eccezione che conferma la regola è impersonata da Travis (Greg Austin), un americano (imprevedibilmente folle e malvagio, che conferisce alla serie alcuni riferimenti pulp) fedele all’ideologia nazista che rappresenta l’unica concreta minaccia per Jonah e per gli altri Cacciatori.

Fonte: Hallseries.it

David Weil esordisce con Hunters nelle vesti di showrunner e di unico sceneggiatore.

La serie nasce dall’urgenza comunicativa di Weil di raccontare una storia che onorasse la memoria della nonna Sara, sopravvissuta ai campi di concentramento di Auschwitz e Bergen-Belsen.

Infatti, gli elementi più validi dello show risultano essere il rapporto tra Jonah e la nonna Ruth, i flashback sull’Olocausto e la rappresentazione forte della cultura ebraica che pervade l’intera stagione.

Rimane il fatto che la maggior parte dei personaggi pare indossare senza efficacia maschere prese in prestito che non instillano la scintilla necessaria a creare alchimia tra spettatore e trama.

La seconda stagione, che dovrebbe arrivare sulla piattaforma di Jeff Bezos, dovrà essere  più convincente della prima, sicuramente buona, ma colpevole di non aver saputo soddisfare le aspettative.

Antonio Mulone

L’involuzione chiamata “Black Friday”

Lo scorso fine settimana anche il “Belpaese”, come il resto del mondo, è stato travolto dall’ondata sensazionalistica del “Black Friday”, per i meno anglofoni “Venerdì nero”.

Dopo la consacrazione di questa promozione commerciale a  fenomeno sociale nel 2017, l’interesse dei consumatori per il 2018 è perfino aumentato.

I dati generati dalle analisi dell’E-commerce parlerebbero chiaro: le ricerche online riguardanti le super offerte del Black Friday sarebbero aumentate del 29%, peraltro con un correlato incremento degli acquisiti pari al 20%.

 

In tal senso il Nord-Italia sarebbe più coinvolto rispetto ad un Sud-Italia non ancora avvezzo alle pratiche del “Venerdì Nero”.

Le ultime ricerche sul trend in crescita dell’iniziativa promozionale di matrice americana hanno rivelato anche le fasce più sensibili agli sconti mirabolanti: al primo posto i consumatori tra i 35 ed i 44 anni, al secondo posto i giovani tra i 25 ed i 34 anni, al terzo posto gli adulti tra i 45 ed i 54.

 

La tecnologia in vetta tra le categorie d’acquisto: smartphone, televisori, tablet, pc, smartwatch e console gli articoli più richiesti sul mercato, con una spesa media per consumatore di 124 euro.

Esistere per consumare, comprare per acciuffare una felicità apparente e fuggevole, acquistare per soddisfare il desiderio inappagabile di possesso.

Store, centri commerciali, negozi e boutique dunque invasi non più da persone ma da automi privi di identità in una società frenetica e caotica, condannata dalla sua stessa velocità.

Nella spirale del consumismo ormai usa e getta tutto perde di valore, fascino ed interesse in pochissimo tempo.

Giudicati in base alla capacità di consumare, diventiamo soggetti passivi che sconoscono qualsiasi diversità culturale, riuscendo ad importare dall’estero solo il peggio.

Parallelo al consumismo e molto pericoloso,  è il processo di mercificazione dei valori umani e culturali che dovrebbero essere assolutamente esclusi dalle logiche di compravendita commerciale.

Siamo tristemente attori protagonisti di una farsa che potrebbe intitolarsi: involuzione antropologica.

Antonio Mulone

The Man In the High Castle (l’uomo nell’alto castello)

The man in the high castle è una particolarissima serie Amazon che si articola sullo sfondo di un Novecento distopico che vede le potenze dell’Asse vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. Detto cosi, può indubbiamente sembrare molto noioso, le serie a carattere storico di solito non sono proprio ‘leggere’.

Tutto si svolge negli anni ’70, gli Stati Uniti non esistono più, caduti per far posto da un lato all’Impero Giapponese e dall’altro al Reich tedesco. A separare le due potenze (territorialmente parlando) esiste una zona, la zona Grigia, all’interno della quale non vige alcuna giurisdizione e/o regola sociale.

Su questo scenario si muovono due principali gruppi di personaggi: chi è d’accordo con il Reich Tedesco e chi non lo è. ‘Essere d’accordo’ con il Reich, non significa soltanto prendere parte ai progetti espansionistici del Fuhrer, ma anche sposare lo stile di vita che ne delinea l’ideologia. Abbiamo Rufus Selwell, nei panni dell’Obergruppenführer, sicuramente il mio personaggio preferito, molto dinamico, poco scontato e dalla interpretazione impeccabile. Guardando tra le file giapponesi troviamo un altro bel personaggio, il ministro del commercio, molto simile a quello interpretato da Selwell e sicuramente degno di nota. Poi ci sarà un gruppetto di coraggiosi oppositori che tentano in tutti i modi di fermare i soprusi di questi due nuovi totalitarismi. A capo di questi gruppetti abbiamo Alexa Davalos, Juliana Crane, una giovane ragazza di San Francisco che insieme al compagno Frank Frink (Rupert Evans), si trova invischiata in problemi molto più grandi di lei. Un giorno la sorella di Juliana, Trudy torna a casa con una pellicola cinematografica (ai tempi non avevano youtube). All’ interno di questa pellicola ci sono immagini cosi preziose che alla fine quasi tutto si baserà sul recupero delle bobine.

A possedere un gran numero di film è proprio l’uomo nell alto castello, altra incognita perenne, che sembra muovere i fili della serie sin dall’inizio attraverso queste pellicole. Il primo contrasto di Juliana non è col Reich, ma con la Yakuza, la polizia dell’Impero Giapponese che in pratica calca le orme delle famose SS. Ed è proprio questo contrasto che da inizio alla serie di eventi (prevalentemente drammatici) tra i quali si articola la serie. Se la ‘zona grigia’ fosse un personaggio, sarebbe sicuramente Joe Blake (Luke Kleintank). Io la serie l’ho vista tutta, ma non ho ancora capito da che parte sta. Comincia come spia nazista ma poi perde la sua identità tra il susseguirsi delle vicende. La prima stagione in realtà è un pò povera di eventi, serve a introdurre la seconda, molto più movimentata. L’ideatore di ‘The man in the high castle’ è Frank Spotniz, che però non s’è inventato tutto di sana pianta. Infatti la serie è basata su un romanzo del 1962, ‘La Svastica sul Sole’ di Philip K. Dick. La trama è davvero molto intricata e non avendolo letto, non so quanto fedelmente segua il romanzo. C’è da dire a questo proposito, che è una di quelle serie da guardare quando si ha la mente un più sgombra. In alcuni passaggi è necessario fermarsi per capire bene cosa stia succedendo: ci sono molti riferimenti da una stagione all’altra, quindi l’altro consiglio (per quanto possibile) è guardarla tutta d’un fiato.

https://www.youtube.com/watch?v=BALksOPEOJQ

Giulia Garofalo

Intelligenza artificiale ed androidi, cosa è fondamentale considerare.

E’ successo venti anni fa, più o meno in questo periodo: la prima “vittoria” del computer sull’uomo. Nel cuore di Manhattan il super computer Deep Blue progettato da IBM batteva in sole 19 mosse il più grande giocatore di scacchi, Garry Kasparov, chiudendo in modo sorprendente l’ultima di sei partite in un torneo combattutissimo, giocato proprio per dare alla macchina la possibilità di rivincita dopo la sconfitta subita appena un anno prima. Per non ripetere gli stessi errori al tavolo di gioco, i programmatori dell’azienda avevano potenziato il “cervellone” di Deep Blue rendendolo capace di analizzare 200 milioni di mosse al secondo.

Da allora, la cosiddetta intelligenza artificiale ha fatto passi da gigante, non solo nei giochi da tavolo: aziende come Google, Facebook, Amazon, Uber ed anche diverse case automobilistiche stanno investendo molte risorse e denaro per produrre software intelligenti ed abili nello svolgere compiti particolari. Non so se ricordate quanto fosse sgrammaticato il traduttore di Google fino a qualche anno fa, adesso non è perfetto, però, quantomeno, riesce a fornire una traduzione più o meno corretta.

Ma cos’è questa intelligenza artificiale e da dove è spuntata fuori?

Non è facile dare una definizione univoca di Intelligenza artificiale, perché nemmeno i cosiddetti addetti ai lavori riescono ad accordarsi a riguardo. In modo abbastanza prudente partirei col dire che per intelligenza, comunemente parlando, intendiamo l’insieme di capacità psichiche e mentali che permettono ad una persona di pensare, di comprendere azioni e fatti riuscendo a spiegarli tramite l’elaborazione di modelli astratti a partire dalla realtà. Questi processi, inevitabilmente, portano alla capacità di ottenere un qualche risultato, più o meno efficiente a seconda dei casi.

Ora, la prospettiva di riuscire, un giorno, a creare una macchina che potesse imitare il comportamento umano è emersa in diversi periodi storici, incrociando la mitologia, l’alchimia, l’invenzione degli automi e la fantascienza. E’ stato, però, il britannico Alan Turing nella metà del secolo scorso ad elencare i requisiti per definire “intelligente” una macchina. Nel suo “Macchine calcolatrici ed intelligenza” elaborò il test che oggi porta il suo nome, attraverso il quale un’intelligenza artificiale si rivelerebbe tale solo se riuscisse a convincere chi la sta utilizzando di avere a che fare con un persona e non con una macchina. Risulta evidente che da un test del genere l’osservatore può trarre una valutazione solo parziale; infatti un computer (come Deep Blue che ha battuto Kasparov) può essere considerato intelligente, ma al tempo stesso non avere le capacità di imitare in tutto e per tutto un essere umano ed il suo modo personalissimo di pensare.

Questa è un po’ la sfida (probabilmente “hybris”) della neo-robotica, di alcuni ingegneri cibernetici che nel mondo, lavorano per la realizzazione di robot che assomiglino sempre più a noi umani. Non solo li stanno dotando dei nostri sensi – comandi vocali, touch screen, naso e palato elettronici- ma pensano anche a realizzare degli inserti biologici. Sinapsi umane innestate nei loro hardware, tessuti epidermici creati in laboratorio con le staminali ( pratica già diffusa) con cui rivestire i nuovi robot che potranno essere chiamati a buon diritto (e certo!) androidi, cioè robot umanoidi. Una volta arrivati a questo punto, credo che il salto antropologico più inquietante sarà convincersi che gli androidi possano essere veramente delle persone.

Ma Boezio insegna che persona è “sostanza individuale di natura razionale”. Riescono a svolgere calcoli complicatissimi, a stoccare il campione mondiale di scacchi, ad eseguire azioni con possibilità di errore quasi infinitesimale. Non saranno forse meglio di noi?

In realtà i robot elaborano, non pensano. Ed elaborano perché è stato l’uomo prima a programmarli. Siri, software di assistenza e riconoscimento vocale di Apple, risponde alle tue domande su traffico, meteo, indicazioni stradali e altro ancora. Ma Siri pesca nel suo database l’informazione più corretta. Non può, per esempio, non risponderti e se non lo fa significa che qualche circuito è saltato, non certo per sua propria sponte! E’ una macchina e non può che obbedire alle leggi fisiche del determinismo meccanico che possono, però, essere manipolate dall’uomo. Quindi, per quanto si possa progredire e migliorare nella realizzazione di robot che mimino le capacità umane, essi non saranno altro che una copia di atti in cui brilla la scintilla dell’intelligenza umana. Inoltre, in quanto macchine, non potranno mai avere un’anima razionale perché l’anima è immateriale e, dunque, non può essere fabbricata artificialmente in laboratorio ed infusa in un robot.

Come al solito, si tratta di non assolutizzare mai le conquiste della ricerca e dei progressi tecnologici, perché altrimenti, quella che potrebbe essere un’opportunità per rendere più abitabile questa terra, potrebbe rivelarsi un disastroso tentativo di auto-affermazione da parte dell’uomo, l’ennesimo mito di Prometeo che, puntualmente, si ripete nella storia.

“Est modus in rebus; sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum”

Orazio (68-5 a.C.), Satire I, 1, vv. 106-107 –

[Esiste una misura in tutte le cose; ci sono, cioè, dei confini ben precisi oltre i quali, mai, dovrebbe spingersi il giusto.]

Ivana Bringheli