Ucciso dai talebani il leader dell’Isis-K che pianificò l’attentato all’aeroporto di Kabul

I talebani hanno ucciso il leader dell’Isis-k, fazione dell’Isis attiva in Afghanistan, che ideò e pianificò l’attentato terroristico suicida all’aeroporto di Kabul del 26 agosto 2021. Talebani e Isis sono in guerra da tempo e spesso si scontrano, soprattutto da quando le forze armate americane hanno lasciato l’Afghanistan.

È ciò che riporta il New York Times, che attraverso diverse fonti ha dichiarato che l’Intelligence americana afferma senza dubbio che la mente dietro l’attacco all’aeroporto di Kabul è stata uccisa.

Uccisione del leader dell’Isis-k

Secondo l’Intelligence americana l’uccisione sarebbe avvenuta nei primi di aprile durante un’operazione dei talebani in Afghanistan. L’addetto stampa del Pentagono, il generale Patrick Ryder, ha voluto precisare che gli Stati Uniti non sono stati coinvolti, in alcun modo, in questa operazione.

Le autorità americane però, non hanno comunicato il nome del leader. Il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale, John Kirby lo ha definito “solo” come: “La mente dell’orribile attacco” dichiarando in un comunicato:

Era un leader chiave dello Stato islamico che non sarà più in grado di pianificare o compiere attentati

Si ricorda che fra le vittime dell’attentato c’erano 13 militari americani.

Non sono stati forniti neanche i dettagli dell’operazione.  Infatti, non si conoscono le dinamiche del fatto, in particolare: se è stato ucciso in un attacco mirato o se è morto in uno scontro armato tra i due gruppi.

L’Amministrazione Biden sta chiamando le famiglie delle 13 vittime americane, uccise nell’attentato suicida a Kabul, per comunicare loro ciò che è avvenuto.

Non ci hanno dato il suo nome, non mi hanno riferito i dettagli dell’operazione

Ha dichiarato Darin Hoover, padre del marine Taylor Hoover, vittima dell’attentato. Molto amareggiato ha inoltre dichiarato che la morte dell’assassino di suo figlio porta poco conforto e che lui e sua moglie hanno trascorso l’ultimo anno e mezzo piangendo, pregando e chiedendo giustizia sottolineando la responsabilità dell’amministrazione Biden nella gestione del ritiro.

Ma cosa era accaduto nell’agosto del 2021?

Attentato Terroristico suicida del 26 agosto 2021

 

Immagine tratta da un video rilasciato dal Dipartimento della Difesa che mostra i marines statunitensi all’aeroporto di Kabul prima dell’attentato. Fonte: New York Times

Nell’attacco suicida compiuto il 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul alle 17:50 ora locale, furono uccise più di 180 persone, fra cui : civili, militari statunitensi e membri dei talebani.

L’attentato avvenne dopo pochi giorni dalla riconquista del potere da parte dei Talebani in Afghanistan. Proprio per questo l’aeroporto era pieno di persone che cercavano di scappare dal paese dopo il ritiro delle forze armate americane. Stati Uniti e Regno Unito avevano cercato di avvertire i propri cittadini di stare lontano dall’aeroporto perché alto era il pericolo di attentati ma la disperazione, delusione e paura per quanto stava accadendo era troppa. L’attacco fu compiuto da un attentatore che si fece esplodere accanto a Abbey Gate, l’accesso dell’aeroporto del lato orientale. L’attentatore venne poi identificato: Abdul Rahman Al-Logari. L’atto venne subito rivendicato dall’Isis-K.

Qui il video con le immagini dei momenti successivi all’esplosione:

https://www.rainews.it/video/2023/04/casa-bianca-la-mente-dell-attacco-aeroporto-kabul-ucciso-dai-talebani-e0d11e75-ee57-4dd8-bf13-e179c6619c38.html

Critiche all’Amministrazione Biden

Molte sono le critiche mosse nei confronti dell’Amministrazione Biden a seguito del ritiro delle truppe americane. Nell’agosto del 2021, dopo tale decisione, il Presidente USA ha dichiarato:

 “La nostra missione in Afghanistan non è mai stata pensata per costruire una nazione“ rispondendo alle critiche sul ritiro delle forze armate americane dopo vent’anni in Afghanistan. Ha inoltre riconosciuto che l’Afghanistan è caduto “ più rapidamente del previsto” ma dichiara di non essersi pentito della sua scelta.

  “Sono profondamente rattristato da ciò che stiamo affrontando, ma non sono pentito della decisione. Io non posso e non chiederò ai nostri soldati di combattere una infinita guerra civile in un altro Paese”.

Ciò che è stato criticato non riguarda solo la decisione in quanto tale, affermando come siano stati sottovalutati tutti i rischi ad essa connessi ma anche la gestione e le modalità del ritiro.

Dopo pochi giorni da queste dichiarazioni si è verificato l’attentato all’aeroporto di Kabul.

A seguito del ritiro delle truppe americane tutto il mondo assiste ad una continua violazione, repressione, soppressione dei diritti umani. Le donne afgane, la popolazione afgana vive un incubo senza fine.

 

Marta Zanghì

Verso l’estradizione di Assange, arriva l’ok del Tribunale. ONU: estradizione violerebbe diritti umani

Mercoledì, la Corte dei Magistrati di Westminster (uno dei tribunali di Londra) ha autorizzato formalmente l’estradizione del giornalista e creatore di Wikileaks Julian Assange verso gli Stati Uniti, dove rischia di essere condannato a 175 anni di detenzione o alla pena di morte per i diciotto capi d’accusa legati alla sua attività di hacker, in particolare per la violazione dell’Espionage Act americano. Si tratta di una misura che non era stata attivata neanche quando Daniel Ellsberg svelò i Pentagon Papers riguardanti la guerra in Vietnam. In quel caso, infatti, la contestazione sulla riservatezza degli atti pubblici cadde a favore della libertà di diffusione di informazioni d’interesse pubblico.

Assange si trovava dal maggio 2019 presso il carcere di massima sicurezza Belmarsh per scontare una pena di 50 settimane relativa alla violazione dei termini della libertà su cauzione concessagli in seguito all’arresto, avvenuto nel 2010, per reati sessuali. Prima di allora, aveva trascorso sette anni presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra in qualità di rifugiato politico.

Chi è Julian Assange, la mente dietro Wikileaks

Assange nasce il 3 luglio 1971 a Townsville, in Australia. Durante l’adolescenza acquisisce esperienza nella programmazione e verso la fine degli anni ’80 entra a far parte del gruppo di hacker “Sovversivi Internazionali”. Già negli anni ’90 gli vengono rivolte diverse accuse di pirateria informatica, alcune di queste anche contro il Dipartimento di difesa americano.

Nel 2006 fonda Wikileaks, organizzazione che si occupa di divulgare documenti coperti dal segreto di Stato. Sarà proprio nel 2010 che il sito web riceverà fama internazionale, grazie alla diffusione di notizie fornite dall’ex militare statunitense Chelsea Manning. Quest’ultima riuscì a far trapelare – durante il proprio servizio militare – dei diari di guerra dall’Afghanistan e dall’Iraq, così come il video Collateral Murder, esponendo i crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti durante le relative campagne militari.

Tuttavia, sia Assange che Manning pagheranno un caro prezzo: il primo costretto ad una fuga decennale, la seconda condannata a 35 anni di detenzione (con grazia del presidente Barack Obama e scarcerazione dopo sette anni).

Il caso della Svezia e il primo arresto

Nel 2010 – si noti, poco dopo la divulgazione dei crimini di guerra statunitensi – la Svezia emette un mandato di arresto per Assange con l’accusa di aver praticato rapporti sessuali non protetti contro il consenso delle partner (atto che in Svezia è equiparato al reato di stupro). Ai tempi, Assange si difese affermando che si trattasse di un pretesto per essere portato in Svezia e successivamente estradato negli Stati Uniti. Infatti, in territorio americano avrebbe dovuto essere processato per spionaggio cospirazione.

A questo punto Assange si trova a Londra, dove si costituisce nel 2010 in seguito all’emanazione del mandato di cattura europeo. Verrà rilasciato pochi giorni dopo su cauzione, mentre la Svezia presenterà richiesta formale di estradizione. Accolta la richiesta dall’Alta Corte londinese e rigettato il ricorso dei legali, il giornalista chiede asilo politico presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, che lo accoglierà per i successivi sette anni concedendogli anche la cittadinanza (revocata nel 2021 in seguito al cambio di personale dell’ambasciata). Le accuse svedesi verranno archiviate nel 2017 per essere riprese al termine del suo asilo politico nel 2019, finendo, da ultimo, in prescrizione nel 2020.

Julian Assange parla dal balcone dell’ambasciata ecuadoregna (fonte: parool.nl – Immagine di AFP)

Il caso delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel 2016

Un caso che aggravò la posizione di Assange, e di Wikileaks in generale, fu quello del Russiagate, ossia la diffusione di email ricevute dall’allora candidata alla presidenza Hillary Clinton che dimostravano il coinvolgimento di Arabia Saudita Qatar nella formazione dello Stato Islamico (ai tempi ISIS) e che indussero a sospettare anche un coinvolgimento degli Stati Uniti. Lo scandalo portò, quantomeno indirettamente, all’elezione dell’opponente Donald Trump. Ad ogni modo, Assange negò qualsiasi connessione con la Russia nella divulgazione di tali notizie, ma fu inevitabile l’incrinarsi ulteriore dei rapporti con gli USA.

Violazione dei diritti umani secondo l’ONU e gli appelli umanitari

Nel luglio 2015, Assange si dichiara in pericolo di vita. Già pochi anni prima il Regno Unito aveva minacciato di voler violare il diritto all’immunità delle sedi diplomatiche per irrompere nell’ambasciata e catturarlo. Pochi mesi dopo, a dicembre 2015, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria dichiara che le vicende vissute dal giornalista dal 2010 sarebbero configurabili come detenzione arbitraria e illegale da parte di Gran Bretagna e Svezia, con conseguente richiesta di liberazione e risarcimento. I due Paesi si rifiutano.

Nell’aprile 2019, il Relatore Speciale ONU sulla tortura, Nils Melzer, si è detto allarmato per la possibile estradizione in quanto l’imputato rischierebbe di subire gravi violazioni dei suoi diritti umani, trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti, perdita della libertà di espressione e privazione del diritto a un equo processo. Il 9 maggio dello stesso anno, Melzer ha visitato Assange e ha riscontrato sintomi di “esposizione prolungata alla tortura psicologica”.

(fonte: sueddeutsche.de – Immagine di Henry Nicholls/Reuters)

Nel 2020 anche il Consiglio d’Europa si esprime a sostegno di Assange, affermando che una sua estradizione risulterebbe in importanti conseguenze non solo per la tutela dei diritti umani, ma anche per la tutela di chi diffonde informazioni riservate nell’interesse pubblico. In sostanza, l’allarme esposto dal Consiglio è quello di un grave colpo anche alla libertà di stampa e al futuro dei giornalisti.

Il secondo arresto e l’ok all’estradizione

Nel 2019 Assange perde l’asilo politico dell’Ecuador e verrà portato via di forza dagli agenti della polizia metropolitana di Londra ammessi nell’ambasciata. Scontate le 50 settimane, gli viene negata nuovamente la libertà, finendo ancora una volta in detenzione preventiva per via della richiesta di estradizione rinnovata dagli Stati Uniti.

Nel gennaio 2021 il tribunale di Londra deciderà sulla richiesta negando l’estradizione sulla base del timore che Assange possa suicidarsi una volta estradato. Tuttavia, nel dicembre dello stesso anno l’Alta Corte accoglierà il ricorso della controparte ammettendo ancora una volta la possibilità dell’estradizione.

Autorizzata formalmente l’estradizione pochi giorni fa, la decisione finale spetta al Segretario di Stato per gli affari interni del Regno Unito Priti Patel. In seguito alla decisione del tribunale, Amnesty International e diversi tra senatori e giornalisti italiani hanno fatto appello per negare l’estradizione ed a favore della liberazione di Assange.

 

Valeria Bonaccorso

Afghanistan: esplosioni nelle vicinanze di una scuola di Kabul. Diverse le vittime

Nella mattina di martedì 19 aprile, a Kabul, diverse persone sono rimaste vittime a causa di esplosioni nei pressi di due scuole superiori situate nella parte occidentale della città. Secondo i principali media locali e l’Ong Afghanistan Rights Watch, i morti sarebbero 25.

Il ruolo delle Ong

L’Afghanistan, in particolar modo dopo essere tornato sotto il controllo dei talebani, è un territorio delicato. Purtroppo, non è la prima volta che si assiste a situazioni orribili come questa. Impossibile non cogliere i tratti in comune con la strage dello scorso 8 Maggio, dove persero la vita 68 persone.

In zone come queste in cui, per motivi di vario genere, il governo è distante dalla popolazione, risulta quanto mai necessaria e fondamentale la presenza di Organizzazioni non governative – come la già citata Afghanistan Rights Watch – che cercano per quanto loro possibile di offrire rifugio, aiuto e trattamento sanitario a chi ne ha bisogno. Attraverso un tweet l’Ong Emergency ha comunicato di aver ricevuto nell’ospedale a Kabul 10 feriti, tutti tra i 16 e i 19 anni, un altro ragazzo era già morto una volta arrivato lì.

Il direttore di Save the Children Afghanistan, Chris Nyamandi, colmo di amarezza per l’accaduto, ha rilasciato una lunga dichiarazione:

«Siamo indignati e condanniamo fermamente l’attacco a una scuola superiore che si è verificato oggi a Kabul. Siamo profondamente addolorati dall’aver appreso che dei ragazzi sono stati feriti e potrebbero perdere la vita nelle esplosioni. Tutti i bambini hanno il diritto di accedere a un’istruzione sicura. Nessuna scuola dovrebbe essere deliberatamente presa di mira e nessun minore dovrebbe temere per la sua incolumità mentre è a scuole o mentre vi si reca. I bambini in Afghanistan hanno sopportato anni di violenza. Le esplosioni di oggi seguono gli attacchi del fine settimana in cui cinque di loro hanno perso la vita. L’uccisione o la mutilazione di minori, così come gli attacchi alle scuole, sono semplicemente inaccettabili, sempre, e sono proibiti dal diritto internazionale»

La possibile presenza dell’Isis dietro l’attentato

Nessuna rivendicazione immediata, ma le circostanze fanno pensare ad un attacco di matrice religiosa. La zona occidentale di Kabul, dov’è situata la Abdurahim Shahid High School – luogo delle esplosioni – è popolata dalla comunità Hazara: una minoranza etnica sciita che è spesso presa di mira da organizzazioni terroristiche di matrice islamica sunnita come, appunto, l’Isis. L’attacco sembrerebbe non far piacere neanche ai talebani che quando si sono insediati al governo avevano promesso pace e stabilità in Afghanistan. Emblematiche le parole del capo del corpo di polizia talebano di Kabul Khalid Zadran che si è mostrato dispiaciuto per i «fratelli sciiti» coinvolti nell’attentato.

Immagine di un ferito a seguito dell’esplosione. Fonte: tg24.sky.it

La situazione dell’Afghanistan sotto il controllo dei talebani

Era il 31 Agosto 2021, quando il ritiro delle ultime truppe statunitensi dal territorio afghano sanciva la completa resa dell’Occidente, che di fatto ha lasciato lo stato sotto il totale controllo dei talebani. Il gruppo di matrice sunnita ha, sin da subito, preso posizione su alcune questioni per loro nevralgiche: annullamento quasi totale dei diritti femminili, applicazione della sharia in una versione totalmente radicalizzata. Tali provvedimenti nei mesi successivi hanno fatto sprofondare l’Afghanistan  in una situazione, sia sociale che economica, a dir poco disastrosa. La rigidità con la quale i ribelli jihadisti controllano il territorio non ha fatto altro che causare un’impennata rilevante nel numero di crimini: rapimenti, furti per fame, rapine a mano armata fino ad arrivare a veri e propri attentati di organizzazioni terroristiche come l’Isis. L’ultimo attacco a Kabul quindi risulta essere l’ennesima testimonianza della terribile scia di sangue che caratterizza l’oppressione talebana in Afghanistan.

La prima immagine dei talebani al palazzo presidenziale subito dopo aver preso controllo dell’Afghanistan. Fonte: fanpage.it

Francesco Pullella

Draghi presiede il G20 straordinario per l’Afghanistan. Ecco le priorità di cui hanno discusso i vertici mondiali

Si è svolto ieri mattina, 12 ottobre, in videoconferenza da Palazzo Chigi, il G20 straordinario dedicato alla situazione emergenziale in Afghanistan. Il tavolo è stato coordinato dalla presidenza italiana e gestito dal Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi. A partecipare alla videoconferenza sono stati i rappresentanti degli altri Paesi, una quindicina tra capi di governo e di Stato, i rappresentanti di ONU, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale. All’incontro anche la Presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen e Charles Michel, Presidente del Consiglio Europeo. Tra i grandi assenti, il Presidente russo Vladimir Putin, il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov e il Presidente cinese, Xi Jinping (rappresentato dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi). Alla grande assemblea si è unito anche il Qatar che, nei mesi scorsi, è stato essenziale per i negoziati tra americani e talebani. L’incontro è stato fortemente voluto dal Presidente Draghi, che ha cercato di trasformare il G20, non limitandosi a trattare solo temi legati all’economia, ma sottolineando l’importanza di discutere temi geopolitici che hanno ricaduta a livello mondiale.

I leader in videoconferenza (fonte Reuters.com)

Le priorità del G20 virtuale

Il 15 agosto del 2021 i talebani entrano nella capitale afghana, Kabul, dopo l’annuncio del ritiro delle truppe americane da parte del presidente degli USA, Joe Biden. In pochissimi mesi la condizione del Paese è degenerata, costringendo i rappresentanti dei 20 Paesi più importanti a riunirsi per cercare di risolvere i problemi principali che ne sono conseguiti. I temi trattati durante la videoconferenza vanno dall’emergenza umanitaria alla tutela e al riconoscimento delle libertà fondamentali, soprattutto in merito alla preoccupante situazione in cui si trovano le donne nel Paese afghano, dal problema del terrorismo al libero e sicuro movimento all’interno e fuori dai confini del Paese. Per risolvere questi problemi, si prevede un piano di azioni concrete da parte dei partecipanti all’incontro, sia da parte dei Governi, sia da parte delle organizzazioni internazionali, tra le quali la Banca Mondiale e le Nazioni Unite.

Gli interventi di Von der Leyen, Erdogan, Wang Yi, Modi e Biden

Tra gli interventi più importanti c’è sicuramente quello della presidente Ursula Von der Leyen, che ha garantito il sostegno alla popolazione afghana e ai Paesi vicini con un pacchetto di circa un miliardo di dollari:

“Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare un grave collasso umanitario e socio-economico in Afghanistan. Dobbiamo farlo in fretta. Siamo stati chiari sulle nostre condizioni per qualsiasi impegno con le autorità afgane, compreso il rispetto dei diritti umani”.

La presidente Ursula Von der Leyen (fonte repubblica.it)

Si è espresso anche il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ha sottolineato l’impossibilità della Turchia e dei Paesi europei di sopportare un nuovo flusso migratorio dall’Afghanistan. Il Paese turco non è disposto ad accogliere nessun migrante afghano. Erdogan ha anche sottolineato l’importanza della formazione di un governo afghano inclusivo, così da poter garantire la sicurezza e la stabilità che mancano nel Paese.

Il Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha affermato l’importanza di rispettare la sovranità, l’indipendenza e l’integrità dell’Afghanistan. Si è inoltre dichiarato contrario all’imposizione della propria ideologia agli altri e agli interventi militari nel Paese, affermando che questi porteranno a disordini e povertà continui.

Il ministro indiano, Narendra Modi, si è pronunciato sull’importanza della lotta al terrorismo, sottolineando la necessità di evitare che l’Afghanistan diventi luogo di radicalizzazione e estremismo.

L’incontro d’emergenza è stato concluso dal discorso del presidente americano, Joe Biden, che ha sottolineato la necessità di mantenere alto l’interesse sulla lotta al terrorismo, e di garantire un passaggio sicuro per i cittadini stranieri e i partner afghani che cercano di lasciare l’Afghanistan.

La conferenza stampa del premier Draghi

Il premier Mario Draghi si è definito soddisfatto dei risultati ottenuti, giudicando il summit fruttuoso. Nei primi minuti della conferenza stampa, il premier ha riassunto quelli che sono stati i temi principali dell’incontro, sottolineando il riconoscimento unitario da parte di tutti partecipanti della grave crisi umanitaria in corso in Afghanistan. Tutti i partecipanti hanno riconosciuto l’importanza di tutelare i diritti degli afghani, in particolar modo quelli delle donne. In merito all’assenza di Putin e Xi Jinping, il premier ha affermato che non si è trattato di una mossa politica e che il coinvolgimento con i due presidenti è avvenuto prima della riunione. Il presidente ha affermato l’importanza del coinvolgimento dei talebani, senza tuttavia ritenere possibile il riconoscimento del loro governo che, nonostante le promesse, non è inclusivo. Sono state anche elencate le richieste da fare al governo talebano, per garantire gli aiuti internazionali. Tra queste la possibilità dell’ONU, e dei Paesi che offrono assistenza, di entrare e uscire liberamente dal Paese. Il presidente si è poi espresso sull’importanza della partecipazione di Cina, Russia e India al prossimo incontro che si terrà a Roma dal 30 al 31 ottobre, nel quale si discuterà di un tema molto importante: il cambiamento climatico.

 

Beatrice Galati

Strage a Kabul, più di 68 morti tra giovani studentesse liceali e residenti

Fonte: Il Post

Sabato pomeriggio tre esplosioni ravvicinate in un quartiere occidentale di Kabul, capitale dell’Afghanistan, hanno causato la morte di almeno 60 persone e centinaia di feriti, seppure il bilancio ufficiale delle vittime non sia stato ancora confermato. Si tratterebbe soprattutto di giovani studentesse corse fuori in preda al panico dal liceo Sayed Ul Shuhada che frequentavano. 

Nemmeno la natura delle esplosioni è stata ancora chiarita, anche se l’attacco – il più sanguinoso dell’ultimo anno – sembrerebbe in qualche modo collegato al ritiro delle ultime truppe americane nel Paese, ordinato diversi mesi fa dall’ex presidente statunitense Donald Trump. L’azione non è stata per il momento rivendicata.

Le dinamiche dell’attentato

A detta di Al Jazeera (rete televisiva satellitare con sede in Qatar) l’attacco è avvenuto alle 17:30 ora locale, proprio nel momento in cui le studentesse lasciavano le loro aule della scuola superiore, situata nel distretto di Dasht-e-Barchi. La scuola prevede tre diverse fasce orarie per maschi e femmine e la seconda delle quali, quella in cui è avvenuto l’attacco, era riservata alle ragazze.

L’obiettivo e l’orario non sono stati frutto di una scelta casuale, bensì meditata e finalizzata a massimizzare il numero di vittime. Le giovani ragazze si apprestavano infatti ad uscire da scuola, mentre i residenti erano in strada a fare acquisti per la festa musulmana di Eid al-Fitr, che segnerà la fine del mese di digiuno del Ramadan la settimana prossima. Considerato l’accaduto, il presidente afghano Ashraf Ghani ha parlato di «crimine contro l’umanità e i principi islamici» e ha ordinato alle forze di sicurezza di “rispondere” con forza.

La stima più recente citata dall’agenzia di stampa britannica Reuters attesta che siano morte almeno 68 persone, e che altre 165 siano rimaste ferite a causa delle esplosioni. Tuttavia, bisogna specificare che le cifre sono state fornite informalmente dai funzionari afghani ai giornali internazionali, senza ancora alcuna ufficialità. Il portavoce del ministero degli Interni afghano Tariq Arian ha inoltre avvertito che il tragico numero delle vittime potrebbe aumentare ulteriormente.

Su Twitter, la denuncia dell’attivista afghana Wazhma Frogh: «I nostri bambini non meritano tutto questo. Nessun bambino lo merita, questo è terrorismo internazionale».

https://twitter.com/FroghWazhma/status/1391059454129577987

L’accusa del presidente afghano ai Talebani

Secondo la versione più accreditata dai media locali, a causare le esplosioni sarebbe stata un’autobomba a cui sono seguiti due ordigni rudimentali. Un portavoce dei Talebani (gruppo islamista ramificato in Afghanistan) di nome Zabihullah Mujahid ha negato il coinvolgimento nella strage del gruppo, sostenendo che un simile massacro di civili può essere solamente opera del Daesh:

«i circoli sinistri che, per conto dello Stato Islamico, operano sotto le ali e la copertura dei servizi di intelligence dell’amministrazione di Kabul»,

hanno accusato i Talebani in un comunicato, prendendo le distanze dalla strage.

Autobomba esplosa a Kabul. Fonte: Avvenire

Ma il presidente afghano non si lascia convincere da tali argomentazioni e continua ad accusare – senza fornire però alcuna prova – i Talebani dell’escalation di violenza che sta attraversando il Paese in questo momento:

«hanno dimostrato ancora una volta che non solo non sono disposti a porre fine alla crisi attuale con mezzi pacifici, ma complicano la situazione per sabotare le opportunità di pace», ha detto.

Diversi analisti ritengono plausibile l’accusa, dal momento che la zona in cui sono avvenute le esplosioni è abitata per la maggior parte dagli Hazara, musulmani di minoranza sciita con i quali i Talebani non sono mai stati in buoni rapporti e che, pertanto, sono stati più volte presi di mira dallo stesso gruppo politico-terrorista. L’ultima volta lo scorso ottobre, quando in un’altra scuola ci furono ben 24 morti e 57 feriti. E ancora un anno fa, sempre nello stesso quartiere, fu attaccato un ospedale di maternità: allora morirono 16 persone, tra cui due neonati, neo mamme e ostetriche.

La ripresa degli attacchi dopo gli accordi

Si continua a combattere in Afghanistan, dove da mesi avvengono quotidianamente violenze e azioni collegate agli scontri tra forze governative e il gruppo estremamente radicale dei Talebani.

Gli attacchi sono ripresi dopo che, all’inizio del 2020, gli Stati Uniti avevano finalmente trovato un accordo – dopo faticosi negoziati – con il gruppo di fondamentalisti islamici, che prevedeva che gli americani lasciassero il Paese entro il 2021. Quanto ai Talebani, invece, essi si sarebbero dovuti impegnare a prendere le distanze da Al Qaeda, uno dei più noti gruppi terroristici al mondo e loro alleati, e a condurre trattative di pace col governo centrale afghano.

Gruppo di Talebani in Afghanistan. Fonte: Notizie Geopolitiche

Se inizialmente i Talebani avevano rispettato l’accordo avviando le trattative con il governo, negli ultimi mesi hanno ripreso gli attacchi nei confronti di quest’ultimo. Probabilmente complice il progressivo ritiro delle truppe dell’esercito statunitense stabilito dall’ex presidente americano Donald Trump.

A sostegno di tale ipotesi le parole del New York Times:

«Oggi, in molti – compresi i talebani, secondo i funzionari governativi afghani – ritengono che il frettoloso ritiro americano sia il segnale che gli Stati Uniti se ne andranno a prescindere dalle violenze compiute dagli estremisti».

Un Paese in allerta massima

 I livelli di violenza sono già aumentati considerevolmente – specialmente nell’ultima settimana – per via della scadenza della data concordata lo scorso febbraio a Doha dai Talebani con gli Usa perché le truppe straniere lasciassero l’Afghanistan: dal primo maggio Kabul e tutto l’Afghanistan sono infatti in massima allerta.

La data del ritiro è stata consapevolmente posticipata dall’amministrazione Biden all’11 settembre prossimo, quando saranno trascorsi ben due decenni dagli attacchi jihadisti alle Torri Gemelle, innescati poco dopo l’invasione americana dell’Afghanistan che portò al rovescio del regime talebano.

Fonte: AGI

Solamente nelle ultime 48 ore sono morti almeno 250 Talebani e altri 106 sono rimasti feriti durante i combattimenti con le truppe afghane in nove delle 34 province del Paese. In Afghanistan non si registrava un numero tanto alto di estremisti morti in così poche ore da due anni, a dimostrazione di come – nonostante i vari tentativi di far avanzare i colloqui di pace ormai da tempo in stallo – è in corso una diffusa intensificazione del conflitto nel Paese.

Gaia Cautela