Il tempo della bellezza: dal kalòs kai agathòs alla contemporaneità

Gaetano Aspa
GAETANO ASPA
Arte
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Cosa rende qualcosa bello? È una questione di forma? Di verità? Di emozione?

Dalla Grecia antica ai giorni nostri, l’umanità ha inseguito — e spesso inseguito invano — la bellezza. La filosofia l’ha pensata come luce del bene, l’arte l’ha trasformata in carne e simbolo, la storia l’ha usata, violata, reinventata. Ma la bellezza non è mai stata solo un’estetica, è desiderio, sogno, assenza.

Questo articolo è un viaggio nel tempo attraverso i mutamenti del concetto di bello, da Platone a Fitzgerald, per provare a capire come ciò che ci incanta e ci commuove dica qualcosa di più profondo: di ciò che cerchiamo, di ciò che ci manca, e di ciò che, forse, ci tiene ancora vivi.

Perché ogni epoca ha il suo specchio, ma la bellezza, quando accade, resta un lampo che ci attraversa.

Il bello e il buono: l’ideale originario

Nel mondo greco antico, bellezza e bontà non erano concetti separati, L’espressione kalòs kai agathòs (bello e buono) definiva l’ideale dell’uomo completo, armonioso nel corpo e nell’anima. Per Platone, il bello non era semplicemente ciò che piace ai sensi, ma ciò che risveglia l’anima verso l’Idea, verso il Bene.

La bellezza visibile nei corpi, nei volti, nei paesaggi era solo un riflesso di un ordine superiore, invisibile ma eterno.

Il bello è ciò che, visto, dà gioia

Nel Simposio, Platone disegna una vera e propria ascesa: dall’amore per la bellezza fisica si passa a quella delle anime, poi a quella delle leggi, delle arti, e infine all’Idea stessa del Bello, immutabile. È un cammino di elevazione, in cui il desiderio estetico si trasforma in ricerca metafisica.

Il Medioevo: la luce di Dio e l’ordine dell’universo

Nel Medioevo cristiano, la bellezza viene assorbita nel sacro. Sant’Agostino afferma che “bello è ciò che è ordinato”, perché tutto ciò che partecipa all’ordine divino riflette Dio.

La bellezza è un magnete: ci attrae, suscita in noi desideri, orienta le azioni più virtuose e le più brutali, le più temerarie e le più struggenti, le più sincere e le più ingannevoli. Che si tratti di armoniosa apparenza umana o di luminosa apparizione divina, la bellezza è sempre rivelazione che avvince, e per questo possiede un potere ambiguo: appagarci il cuore o farlo smarrire.

Le cattedrali gotiche, con le loro proporzioni matematiche, le vetrate e i simboli, incarnano questa tensione tra terra e cielo. La bellezza diventa manifestazione del divino, uno strumento di elevazione spirituale, non un fine in sé.

Il Barocco e il Romanticismo: la crisi della forma

Nel Seicento barocco, la bellezza si contorce. È l’epoca del paradosso, della meraviglia, dell’eccesso.

Caravaggio mostra la bellezza nel dolore, nell’ombra, nella carne ferita. È il tempo in cui l’arte si fa emozione, retorica, teatro. E non è un caso che la letteratura barocca sia piena di ossimori, metafore audaci, contrasti visivi.

Con il Romanticismo, poi, la bellezza si fa interiore, malinconica, sublime. Non è più l’armonia che consola, ma la vertigine che inquieta. Leopardi parla del “segreto senso del bello”, un sentimento ineffabile, nostalgico, forse irraggiungibile. E il sublime, teorizzato da Burke e Kant, affascina perché ci sovrasta, perché è “terribile e bello insieme”.

bellezza
Primavera di Botticelli. https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10155080

Gli anni Venti e Fitzgerald: la bellezza come illusione fragile

Ed eccoci al cuore della nostra riflessione, gli anni Venti del Novecento, gli anni ruggenti, l’epoca del jazz, dell’ebbrezza e del disincanto. È qui che F. Scott Fitzgerald scolpisce una nuova forma di bellezza: una bellezza che brilla e crolla nello stesso gesto.

Ella era incomprensibile, perché in lei l’anima e lo spirito erano una cosa sola: la bellezza del corpo era l’essenza dell’anima. Era l’unità cercata dai filosofi per secoli e secoli. In questa sala d’aspetto di venti e di stelle, ella stava seduta da cento anni, tranquilla nella contemplazione di se stessa.

In Belli e Dannati non è più la bellezza platonica che eleva, né quella romantica che consuma: è da copertina, ostentata e fragile, come un fiore chiuso sotto vetro. Fitzgerald ci mostra quanto può essere tossico un ideale estetico privo di fondamento morale o spirituale, quanto può diventare un veleno sottile che affascina mentre logora.

In questo senso, Belli e Dannati è un requiem per l’assoluto, mostrandoci un bello che non salva, ma che, proprio per questo, ci commuove.

Oggi: tra estetica digitale e ricerca di senso

Nel presente iper-mediatico, il concetto di bellezza è ancora più fluido.

L’ideale classico è stato frantumato, oggi si parla di bellezza inclusiva, di corpi non conformi, di estetiche minori. I social impongono modelli rapidi e filtrati, mentre l’arte contemporanea gioca con l’ambiguità tra brutto e bello, tra vero e costruito.

«La bellezza salverà il mondo», scrive Dostoevskij, lasciandoci un’affermazione tanto enigmatica quanto potente. Ma quale bellezza? Quella delle proporzioni greche o quella delle rovine? Quella delle cattedrali che si ergono al cielo o quella dei volti stanchi di Anthony e Gloria, che si consumano nell’oro dell’apparenza?

Forse la bellezza che salva non è quella perfetta, intatta, irreale. Forse è quella che ci ferisce e ci fa pensare, quella che resiste nel disordine, che si fa crepa, nostalgia, stupore. La bellezza che salva è quella che ci scuote dall’indifferenza, che ci costringe a guardare meglio, a sentire di più.

Non è la bellezza dei manuali o delle mode, ma  quella che abita la poesia, la musica. È il volto della donna che amiamo, un’opera d’arte che non sappiamo spiegare.

In un mondo frantumato, affaticato, accelerato, tornare a interrogarsi sulla bellezza non è un lusso. È credere che, nonostante tutto, esista ancora qualcosa che valga la pena contemplare, custodire, proteggere.

E se la bellezza salverà il mondo, forse non lo farà con clamore.
Lo farà in silenzio, ogni volta che ci ricorderà chi siamo o chi potremmo ancora essere.

Gaetano Aspa