Brusca, il boss agli ordini dei Graviano

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Alfonso Sabella ha iniziato a dare la caccia ai latitanti mafiosi nel periodo successivo alle stragi del ‘92, quelle che hanno condotto all’uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino, i quali hanno sconfitto la Cosa Nostra di Riina, ma non sono riusciti a risolvere alcuni dei delitti politici che, ancora oggi, avvolgono nel mistero il nostro paese. Sabella ha condotto all’arresto di alcuni dei più noti latitanti ed eredi di quell’organizzazione criminale: Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Vito Vitale, sono solo alcuni dei criminali che il magistrato ha arrestato. Ma come comincia la carriera di un magistrato antimafia? E quali relazioni corrono tra i capi di Cosa Nostra?

Partiamo dal principio. Conosciamo proprio il magistrato Sabella e l’inizio della sua carriera. 

 

L’INTERVISTA

Come ha iniziato il suo percorso in magistratura?

«Mi sono laureato giovanissimo, con 110 e lode all’Università Cattolica di Milano. Avevo l’ambizione di diventare il più giovane cassazionista d’Italia. Per farlo, secondo la legge dell’epoca, avrei dovuto aspettare 13 anni, poi superare l’esame di Procuratore legale, dopo altri 2 anni iscrivermi all’albo degli avvocati, e dopo altri 10 anni, iscrivermi all’albo di Cassazione. Facendo il percorso in Magistratura, avrei potuto abbreviare a 5 anni questo percorso, in quanto dopo 5 anni in Magistratura, mi sarei potuto dimettere e iscrivermi direttamente all’albo dei cassazionisti. Purtroppo, mi sono trovato in un periodo storico in cui a Termini Imerese passava la storia d’Italia e ho fatto una scelta etica. Tanti colleghi si sono tirati indietro. Allora, Antonino Caponnetto, padre del pool antimafia, giunto a Palermo disse che tutto era finito. Ricordo ancora il volto di Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente del Consiglio, che, il 27 Maggio ’93, giunse in Piazza della Signoria. Il volto era quello dello Stato sconfitto. In quel momento capì che c’era un bene superiore e, anche per via della mia formazione cattolica, scelsi di rimanere. Inoltre, rispetto ad altri colleghi, avevo una marcia in più: Il fatto di essere siciliano di paese mi consentiva di avere un filo molto diretto con i mafiosi, spingendoli a collaborare».

Come è entrato in Antimafia?

«Avevo iniziato a fare alcune inchieste sulla mala sanità, che mi condussero a un personaggio, l’allora Presidente del comitato di gestione dell’Asl di Termini Imerese, molto vicino ad ambienti catanesi. Salvatore Catanese, si chiamava. Era stato oggetto d’indagini da parte di Falcone. Lui era intestatario di un sacco di giri d’assegni, tutti riconducibili a mafiosi. Falcone lo aveva archiviato. Io l’ho ritrovato qualche anno dopo, quando, secondo me, si era incassato una mazzetta da 30 milioni di lire per agevolare un imprenditore del Nord, che aveva fatto delle forniture all’ospedale di Termini. Provo a metterlo in carcere, ma il mio Procuratore della Repubblica rifiuta di procedere con la misura cautelare, accampando ogni volta una scusa. Ad un certo punto, vengo a conoscenza del fatto che il mio capo si incontrava con questo personaggio, probabilmente rivelandogli informazioni. Mi presentai al CSM, assieme ad un collega, e lo denunciai. Da lì in poi, Gian Carlo Caselli, che si era insediato alla procura di Palermo, mi venne incontro, apprezzando il mio coraggio. Mi chiese di lavorare con lui. Io accettai e da lì in poi la mia vita cambiò radicalmente».

Si ricorda il suo primo arresto?

«Il primo arresto riguardò un latitante di una zona in cui ero competente. Si trattava di Domenico Farinella, figlio di Peppino Farinella. I Farinella erano dominus assoluti del territorio delle Madonie. Il padre era stato capo del mandamento di San Mauro Castelverde, territorio usato per la tutela di latitanti, che si rifugiavano in quelle zone. Domenico Farinella era un personaggio diverso. Già Peppino Farinella non chiedeva il pizzo ai commercianti, perché non ne aveva bisogno. Lo chiedeva solo agli imprenditori che venivano da fuori. Il figlio era molto più scapestrato, gli piacevano le donne, le macchine, si mostrava sempre arrogante. Bagarella lo aveva rimproverato qualche volta. Fu una bella indagine, anche complessa, perché mi scontrai per la prima volta con dei sistemi investigativi che non mi appartenevano».

Tra i suoi contributi professionali, si ricorda l’arresto del noto latitante Giovanni Brusca. Lei, in alcune occasioni, sembra definirlo più un esecutore di ordini, in rapporto agli atri capi mafia.

«Confermo. Nel Giugno ’95 avevo arrestato Leoluca Bagarella, il vero capo militare di Cosa Nostra, colui che ne determinava la strategia. Brusca non ha mai determinato la strategia di Cosa Nostra. Quando arrestai Bagarella, pensai che Brusca era più importante. Ancora non avevo colto l’importanza dell’arresto di Bagarella. Brusca era, sicuramente, un capo di grande spessore, ma Brusca rimase estraneo alla fase decisionale delle stragi del Continente e anche alla decisione riguardante la strage di Via D’Amelio. Alla riunione dei capi mafia dell’1 Aprile ’93, per decidere come e dove andare a mettere le bombe nel Continente, Brusca non fu invitato. Ci andarono Bagarella, Graviano, Messina Denaro, venne invitato anche Provenzano, che non ci andò. Brusca non ha avuto nemmeno un ruolo esecutivo nelle stragi del ’93. Lui divenne il capo dello schieramento corleonese di Cosa Nostra dopo l’arresto di Bagarella e dopo che Messina Denaro si ritirò. Quest’ultimo era l’erede naturale di Bagarella, ma decise di non fare il capo di Cosa Nostra, ritirandosi nel suo mandamento. In quel momento, Giovanni Brusca divenne il capo di Cosa Nostra. Ciò avviene perché Giuseppe Graviano, che era l’erede naturale per guidare Cosa Nostra, viene arrestato nel Gennaio ’94. A distanza di un anno, arrestiamo anche Brusca. Egli indica come suo successore un suo fedelissimo, Vito Vitale, che viene arrestato il 14 Aprile 1998. Questa data segna la fine dei corleonesi e il passaggio dell’organizzazione criminale a Provenzano, che, pur essendo corleonese, si era allontanato dalla linea stragista».

Che rapporto avevano i fratelli Graviano e Giovanni Brusca?

«Brusca, in seguito divenuto collaboratore di giustizia, si è rivelato fondamentale nell’interruzione di importanti progetti omicidiari, come quelli dell’avvocato Morbino o quelli riguardanti gli uomini di Balduccio di Maggio. Con i Graviano non aveva un buon rapporto, anche se sul piano formale questo non lo vedeva nessuno. Il sequestro del piccolo Di Matteo è avvenuto per ordine dei Graviano, Messina Denaro e Bagarella, anche se Brusca ha avuto comunque un ruolo chiave. Però non fu lui a eseguire il sequestro. Cosa Nostra poi gli rimproverò il fatto di non aver assassinato Balduccio Di Maggio quando era stato autorizzato, determinando così la caduta di Riina. Giuseppe Graviano mandò i suoi uomini a sequestrarlo e glielo portarono a domicilio a Brusca. Il rapporto di forza era quello, anche se Brusca non lo gradiva particolarmente. Ma non poteva scontrarsi con i Graviano, perché essi disponevano del gruppo di fuoco più numeroso e pericoloso di tutta Palermo, anche se avevano meno armi».

Alcune inchieste hanno rivelato i presunti contatti tra i fratelli Graviano e Silvio Berlusconi, il quale, nel Gennaio ’94, presumibilmente, li tradì.

«È solo un’ipotesi. Quello che mi sento di dire è che, se fosse vero ciò che dice Spatuzza (pentito) in merito all’incontro del bar Done, qualcuno mi dovrebbe spiegare perché la strage dell’Olimpico non è più stata realizzata. Infatti, Spatuzza ricevette l’ordine di tornare a Palermo. La mia impressione è sempre stata quella che, nel momento in cui Graviano ha avuto, presumibilmente, un contatto con ambienti legati a Silvio Berlusconi, qualcuno gli ha fatto capire che ammazzare 100 carabinieri non avrebbe certo fatto vincere le elezioni a Berlusconi, ma le avrebbe fatte vincere al Partito popolare. L’ipotesi è che proprio quell’incontro abbia fermato la strategia stragista, ma non con Berlusconi come ideologo, a differenza di come qualcuno potrebbe ipotizzare. Ognuno, poi, tragga le conclusioni che vuole».

Riguardo l’indagine mafia-appalti, Lei cosa ne pensa?

«Posso soltanto dire che, questo rapporto mafia-appalti, che viene montato come se fosse la base della strage di Via D’Amelio, a me non ha mai convinto in nessuna maniera. Io sono stato l’unico che è andato al processo “Trattativa” a rappresentare le ragioni per cui non si fidava di quel ROS dei carabinieri di quegli anni. Non avevo nessuna fiducia e sono stato l’unico ad avere il coraggio, in un’udienza pubblica, spiegando anche le ragioni per cui non mi fidavo del ROS di quegli anni, che faceva attività info-investigativa. Io non sono mai stato d’accordo, perché le informazioni che loro acquisiscono non finiscono a me e voglio sapere a chi finiscono».

 

Roberto Fortugno