Tregua a Gaza: possiamo parlare realmente di pace?

Caterina Martino
CATERINA MARTINO
Attualità
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In vigore la terza fase del “cessate il fuoco”

GAZA CITY. Dopo estenuanti e prolungate maratone negoziali, condotte sotto la cruciale mediazione di Egitto, Qatar e Stati Uniti, è entrata ufficialmente in vigore la terza fase del ”cessate il fuoco tra Israele e le fazioni armate palestinesi di Gaza. L’intesa, siglata dopo quasi due anni di conflitto ad alta intensità e devastazione infrastrutturale, mira a stabilizzare la regione e a fornire un sollievo immediato alla popolazione. Tuttavia, la soddisfazione diplomatica cozza con la complessa e rischiosa fase di implementazione, dove la stabilità è minacciata da condizioni umanitarie disperate e dall’assenza di soluzioni ai nodi politici fondamentali.

I dettagli del protocollo di tregua

​L’accordo attuale si concentra inizialmente su misure di emergenza, rinviando le decisioni politiche strutturali a future negoziazioni.

Il fulcro della Fase I dell’intesa è lo scambio reciproco di detenuti e ostaggi, una priorità assoluta per entrambe le parti.
Il protocollo stabilisce il rilascio di un numero definito di ostaggi israeliani inclusi civili e militari ancora in vita, sebbene il numero esatto resti un punto di frizione e il recupero dei corpi dei deceduti.

In cambio, Israele si è impegnata a liberare un contingente di prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri.

Questo processo non è esente da tensioni, con le parti che continuano a negoziare le liste definitive e i meccanismi di verifica.

​Parallelamente, l’accordo prevede l’avvio di un ritiro parziale e graduale delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) da alcune aree strategiche all’interno della Striscia di Gaza.

Questo disimpegno, che mira a ridurre la frizione diretta con i civili, prevede il riposizionamento dell’esercito lungo linee di sicurezza concordate.

Una task force congiunta di monitoraggio, che include ufficiali di Stati Uniti, Egitto, Qatar e potenzialmente altri attori regionali, è stata proposta per supervisionare l’osservanza del cessate il fuoco e del riposizionamento militare.

La clausola prevede anche l’impegno, seppur vago, per il disimpegno totale da specifiche zone entro un periodo definito.

Emergenza umanitaria: una catastrofe senza precedenti

​La componente umanitaria ha dominato gran parte dei colloqui, vista la catastrofe che affligge i circa 2,3 milioni di abitanti della Striscia, la cui dipendenza dagli aiuti esterni è totale. L’accordo ha sbloccato l’apertura di corridoi umanitari dedicati che consentono l’ingresso di un numero significativamente aumentato di camion al giorno carichi di aiuti di prima necessità, superando i livelli precedenti.

​La priorità assoluta è stata data al carburante, indispensabile per la riattivazione dei generatori negli ospedali – molti dei quali hanno cessato le operazioni a causa dei danni o della mancanza di energia – e per il funzionamento degli impianti di desalinizzazione dell’acqua potabile. Sono state inoltre incrementate le forniture di materiali medici e chirurgici, cruciali per un sistema sanitario devastato.

​A titolo di concessione economica, sono state apportate modifiche a lungo richieste alle restrizioni imposte: l’ampliamento della zona di pesca concessa ai pescherecci di Gaza è finalizzata a ripristinare almeno in parte l’economia locale, mentre è stato approvato un incremento dei permessi di lavoro temporanei per i residenti della Striscia in Israele, sebbene tale misura sia stata criticata per la sua natura limitata e revocabile.

L’incertezza civile

Nonostante l’entrata in vigore del cessate il fuoco, le condizioni sul terreno rimangono disperate.
Fonti delle Nazioni Unite e dei cluster umanitari stimano che la vasta maggioranza della popolazione sia sfollata, ammassata in insediamenti temporanei e in rifugi sovraffollati, esposta a gravi rischi igienico-sanitari e a malattie trasmissibili.

Il protocollo prevede l’immediato avvio della riabilitazione delle infrastrutture essenziali  comprese le reti idriche, elettriche e fognarie e l’invio massivo di mezzi pesanti per la rimozione delle macerie da quartieri interi, ridotti in polvere.

Tuttavia, le ONG come Médecins Sans Frontières e Oxfam sottolineano che, data la mole della distruzione, il volume degli aiuti necessario per una ricostruzione significativa e per il ritorno alla normalità richiederà un impegno finanziario e logistico massivo e duraturo, stimato in anni.

La popolazione vive in uno stato di estrema precarietà psicologica, con la consapevolezza che questa pausa potrebbe essere solo temporanea.

Dichiarazioni ufficiali e nodi politici irrisolti

Nonostante l’accordo sul cessate il fuoco, i punti di maggiore tensione che hanno innescato la crisi restano sul tavolo negoziale.

Il limite di questa intesa risiede, infatti, nella sua natura circoscritta, che rinvia le questioni politiche fondamentali a una successiva Fase II o le lascia completamente irrisolte.

​Il Primo Ministro israeliano ha ribadito in dichiarazioni ufficiali che l’obiettivo strategico a lungo termine rimane il disarmo completo di Hamas e la smilitarizzazione totale della Striscia. Condizioni che i gruppi armati palestinesi rifiutano categoricamente.

​Similmente, l’accordo non offre alcuna soluzione alla questione della governance post-bellica: non è stato definito chi dovrà amministrare Gaza dopo il ritiro parziale, né è stato affrontato il ruolo della Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in una possibile riunificazione amministrativa. Il tema fondamentale di un orizzonte politico stabile  che includa lo status dei rifugiati, la piena libertà di movimento e la definizione di confini permanenti per un potenziale Stato palestinese è stato sistematicamente evitato, lasciando intatti i motori del conflitto ciclico.

​La tregua in vigore è dunque vista dagli analisti come una sospensione negoziata della violenza, essenziale per ragioni umanitarie, ma non come un vero e proprio accordo di pace.

La sua durata dipenderà interamente dalla volontà delle parti di onorare le limitate concessioni reciproche, in un contesto dove la sfiducia storica e i nodi politici irrisolti mantengono alto il rischio di una nuova e inevitabile escalation.

Caterina Martino